J. Schlosser, La scuola viennese di storia dell`arte, in
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J. Schlosser, La scuola viennese di storia dell`arte, in
J. Schlosser, La scuola viennese di storia dell’arte, in Mitteilungen des oesterreischischen Instituts fùr Geschichtsforschung, Ergánzungsband XIII, Heft 2. Innsbruck, 1934. LA SCUOLA VIENNESE DI STORIA DELL’ARTE SGUARDO AD UN SECOLO DI LAVORO DI ERUDITI TEDESCHI IN AUSTRIA Gli specialisti intendono subito che cosa significhi l'espressione « scuola viennese », cioè quella cattedra di storia dell'arte, fin dall'origine strettamente unita all'« Ecole des chartes » austriaca, all'Institut für Geschichtsforschung (Istituto storico austriaco) organizzato da Th. v. Sickel, cattedra che ha ora la sua sede nel Kunsthistorisches Institut (Istituto di storia dell'arte) dell'Università di Vienna. Ora, sopratutto perché altri ambienti scientifici non sono del tutto informati sulla storia di questa scuola, che da lungo tempo occupa una posizione tanto eminente ed ha prodotto uomini così importanti, sembra conveniente riandare brevemente la sua origine ed il suo sviluppo. Si è infatti oggi quasi dimenticato che i suoi principi risalgono al romanticismo tedesco e che la sua storia, ormai quasi centenaria, rappresenta un capitolo assai importante della storia delle scienze e dello spirito tedesco in Austria. J. D. BÖHM E LA SUA CERCHIA Di fatto la sua « preistoria » comincia con la figura di un uomo antecedente la rivoluzione di marzo, degno di nota sotto molti punti di vista, vale a dire con quella del cesellatore dì medaglie Joseph Daniel Böhm, nato nell'antico territorio di Zips, una delle prime zone d'immigrazione tedesca, scolaro di quel noto scultore classicheggiante Franz Zatiner familiare a tutti i viennesi, particolarmente grazie a quel monumento equestre dell'imperatore Giuseppe II, che trovasi nella bella piazza ancora intatta dell'ex Hofbibliothek. Il giovane cesellatore ebbe la fortuna di essere particolarmente protetto da mecenati dell'aristocrazia viennese dell'epoca di Beethoven e Schubert, sopratutto poi dal conte Moritz Fries, il quale non solo fu banchiere facoltoso, ma ebbe pure parte importante nella storia delle raccolte della vecchia Vienna ed offrì al giovane artista i mezzi per recarsi in Italia nel 1821. A Roma il Böhm, convertitosi al cattolicesimo come alcuni altri artisti tedeschi, fu accolto nella cerchia dei Nazareni tedeschi e sopratutto in quella dell'Overbeck, legato a lui da salda amicizia e, come lui, convertito. Dal 1825 al 1829 il Böhm dimorò una seconda volta in Roma come cesellatore stipendiato ed alloggiato nella torre di quel Palazzo Venezia, che, fino alla guerra mondiale, ospitò tanti artisti austriaci. Merita di venir qui ricordata la sua intima amicizia col Thorwaldsen e quella coi giovane Ed. Steinle. Ritornato a Vienna, giunse presto ad un posto assai in vista, divenendo nel 1834 direttore della celebre accademia degli incisori della I. R. Zecca centrale, carica che coprì fino alla sua morte. Nella storia delle medaglie austriache gli compete un posto onorevole; le sue opere eccellono sotto l'aspetto tecnico ed artistico, grazie alla sua perizia segnalata ed onesta; fu ottimo maestro: un artista indimenticabile come Anton Scharff († 1903) uscì dalla sua scuola. Già a Roma il Böhm aveva cominciato, coi suoi modesti mezzi, a collezionare. A Vienna divenne, a poco a poco, uno dei più importanti raccoglitori privati; quando alla sua morte, nel 1865, la sua collezione fu messa all'asta dall'antiquario viennese Alessandro Posonyi, il catalogo contava 2261 numeri. Abbracciava un campo assai vasto, comprendendo una grande collezione grafica, disegni, dipinti, oggetti ornamentali classici ed orientali (particolarmente cammei). L'elemento «vecchio tedesco» vi era particolarmente accentuato, conforme ai tempi in cui visse quest'uomo, il quale, uscendo dal classicismo, trovò i suoi amici tra gli artisti del nazarenismo romano; la parte più preziosa era costituita dal piccolo, ma scelto, gruppo di sculture ed intagli in legno dei XV e XVI secolo, particolarmente affine all'attività del Böhm, il quale aveva cominciato la sua carriera come intagliatore in legno. Tra questi vi erano alcuni pezzi, che, ancor oggi, costituiscono il vanto di pubblici musei: la statuina d'Adamo del Riemenschneider e le figurette derivate dal Dürer dell'ex Hofmuseum di Vienna, l'Adamo di Konrad Meit dell'Österreìchísches Museum e, soprattutto, i pezzi prediletti dal Böhm, dai quali non seppe mai separarsi finché visse, malgrado le più allettanti offerte: due piccoli busti presunti ritratti di Carlo l'Ardito e della moglie, che oggi sono tenuti in conto di tesori nel Victoria and Albert Museum di Londra. Questa sezione raggiunse i più alti prezzi, anche se paragonati a quelle valutazioni che oggi ingenuamente ci allettano; fra i più alti vanno notati appunto quelli di questi busti che salirono fino a 12400 Gulden, caso veramente, per quei tempi, eccezionale. Ciò che a noi sembra di grande importanza è il fatto che tutta la raccolta sia stata fin dall'origine costituita avendo di mira l'ammaestramento e più propriamente la storia dell'arte. Il Böhm, per sua natura maestro, aveva cercato di approfondire la sua ristretta cultura letteraria mediante uno studio assiduo, specialmente degli scritti estetici del Goethe, come ci riferisce il suo allievo R. v. Eitelberger, e di utilizzare la sua raccolta come materiale didattico per quei corsi semplici ed alla buona, che soleva tenere nella sua casa ospitale, nel sobborgo viennese «auf der Wieden». Scoperto, quand'era sui cinquant'anni, dal conte Leo Thun al tempo della sua importante riforma dell'insegnamento austriaco, prese ad occuparsi, con particolare cura, della storia dell'arte nelle varie scuole; conforme alla sua educazione e provenienza gli stette a cuore, innanzi tutto, la pura classicità ellenica l'aveva studiata con passione a Roma sugli Egineti che Thorwaldsen restaurava, come pure sulle copie eseguite per il papa degli Elgin Marbles del Partenone - poi l'arte del medioevo e, particolarmente, il gotico fiorito e la prima rinascenza in Germania. Quella modesta casa del sobborgo, con le sue raccolte istruttive, divenne quindi il centro degli studiosi di storia dell'arte della Vienna antecedente la rivoluzione di marzo e qui si posero effettivamente le basi della «scuola viennese», poiché ivi convennero quegli uomini, i quali, attraverso la contemplazione viva degli oggetti stessi, e sotto la guida esperta del padrone di casa, si costituirono suoi fondatori; perciò ci occupiamo qui particolarmente di questo «salon» della vecchia Vienna. Un archeologo ungherese, Emmerich Henszlmann (nato nel 1813 a Kaschau), che fu ospite dal 1834 al 1840 di questo circolo come scolaro del Böhm, cercò, dopo la morte del maestro, (nel numero di gennaio delle Österreichische Revue del 1866) di esporne il metodo didattico (sebbene lo riducesse troppo a sistema fisso) servendosi dei ricordi di molti anni. Caratteristici sono l'accentuazione del metodo induttivo, il partire dall'individualità della singola opera d'arte e dalla sua autopsia; soltanto da qui si doveva risalire alle leggi universali dello sviluppo storico e della psicologia stessa dell'artista. Il Böhm si trovò subito in deciso antagonismo colle astratte teorie dogmatiche dell'arte allora ancora in voga nelle Accademie: il suo orientamento di fronte al medioevo ma pure di fronte alla classicità ellenica, con la quale si era familiarizzato tanto presto, si era esplicato in questo senso. Egli, artista creatore, aveva posto con ciò il centro di gravità nella tecnica : nella deduzione dello « stile » dal nudo materiale. Questa tesi, che si trova per la prima volta nel suo contemporaneo Rumohr, benché si possa dubitare che egli lo abbia conosciuto, e che poi prevalse molto più tardi nel positivismo con la celebre opera di G. Semper, fino a quando A. Riegl la ribatté vittoriosamente, trovò anche nel Böhm un energico rappresentante. Finalmente è assai importante, che egli abbia concorso, in unione con l'Eitelberger e con Domenico Artaria, ad organizzare, nel 1846, la prima esposizione storica di opere d'arte antica a Vienna. Ci sia concesso in questo punto di gettare un rapido sguardo sullo sviluppo della storia dell'arte moderna della prima metà del XIX secolo. E ciò non facciamo senza ragione, poiché è importante sapere com'era diviso il campo della storia dell'arte, allorquando la cerchia degli studiosi intorno al Böhm decise di spiegare quell'attività che doveva portare la patria austriaca, sopratutto Vienna, ad una posizione assai in vista nel mondo tedesco degli studi. Fino allora, nel nostro paese, tutto era stato silenzio: nessuno aveva prodotto qualcosa che avesse avuto risonanza universale, se si eccettuino i solerti antiquari locali, ai quali appartiene anche Alois Primisser il primo che abbia reso nota al mondo l'«Ambraser Sammlung», trasportata a Vienna al tempo dei francesi, mediante la sua riorganizzazione del 1819. Era il figlio di quel valoroso capitano del castello di Ambras il quale ebbe il merito di scoprire la famosa irreperibile saliera del Cellini ritenuta fino allora perduta, la di cui fama poco dopo fu nuovamente diffusa dalla traduzione del Goethe. Quella letteratura, molto varia, la di cui parte principale riguarda il principio del secolo, trovasi diligentemente riunita ed utilizzata nella prima topografia d'arte austriaca, che venne pubblicata dal buon Franz Tschischka: «Arte ed antichità negl'imperiali stati austriaci», comprendente pure le province italiane. Questo libro, anche esteriormente senza pretese, è il primo del suo genere; grazie ad esso l'Austria ha dunque la precedenza; due decenni più tardi usciranno i « Monumenti artistici medioevali dell'Imperiale stato austriaco» di Heiaer-Eitelberger, già con vere e proprie intenzioni di storia d'arte e riccamente illustrati; ma solo nel 1907 M. Dvorák intraprenderà con energia, seguendo il modello germanico, l' inventario del patrimonio artistico austriaco. Ben più importante invece fu l'incremento che diede l'Austria ad un ramo speciale: vale a dire allo studio dell'incisione su rame e del disegno, al che Vienna era in certo modo predestinata dalle sue grandiose raccolte, e nel quale assunse una posizione eminente. Di ciò dovremo parlare ancora in seguito, poiché a questo campo spetta un posto particolare nella scuola propriamente detta di Vienna, dopo l'epoca Thausing-Wickhoff. In ogni modo però è bene accennar subito al fatto che qui si nota una certa affinità col tipo dell'intenditore e dell'amatore francese. L'antica patria di tutte le speculazioni teoretiche e storiche sull'arte, l'Italia, era dall'epoca napoleonica, - e ciò dipende certo in parte dalla situazione politica della penisola - decaduta dalla sua egemonia, già scossa, del resto, nel XVIII secolo; essa aveva, a dire il vero, prodotto ancora un paio d'opere fondamentali, che stanno come grandi colonne a segnare il passaggio dai vecchi ai nuovi tempi e che ancor oggi non hanno perduto al tutto il loro significato: la Storia della pittura italiana del 1789, dell'abate Lanzi, sovente ristampata, indi l'esemplare «Catalogo», ancor oggi prezioso, della sua poderosa Biblioteca d'arte (oggi nella Vaticana), pubblicato nel 1815 dal conte Cicognara (morto nel 1834) e la sua monumentale Storia della scultura fino al Canova, del 1823, di spiriti classicheggianti. Anche la prima Esposizione generale delle arti figurative in Europa a partire dalla tarda classicità cristiana in poi «col mezzo dei monumenti» del francese d'Agincourt (m. 1814 a Roma), altrettanto ricco di illustrazioni ed incisioni degli in-folio del Cicognara, nacque in terra italiana, ma venne poi stampata postuma a Parigi nel 1823. Esse furono opere fondamentali anche per i tempi del Böhm, del romanticismo tedesco; e tali rimasero ancora fino alle ultime generazioni del XIX secolo. Ma con questo romanticismo entra un nuovo spirito storico e critico nella storia dell'arte; è la Germania che esordisce nelle «scienze dello spirito» istorico-filologiche occupando una posizione ancor oggi non scossa, sostenuta pure dal predominio del periodo della sua grande filosofia idealistica, che s'estese a tutta l'Europa, da Kant a Fichte, a Schelling, a Hegel giù giù fino ad Herbart. Solo il principio del secolo XX portò in Italia ad una rivoluzione in questo campo con la filosofia idealistica del Croce, per opera sopratutto dalla sua « Estetica come linguistica generale» del 1903 - sorta sul suolo napoletano fedele fino all'hegelianismo -; come d'altra parte la nostra Vienna, fino nell'ultimo trentennio del secolo scorso, rimase l'estrema roccaforte dell'herbartismo; ciò che non è privo d'importanza per la storia della scuola viennese di storia dell'arte, poiché di questa influenza - anche non pensando affatto al libriccino, tanto diffuso, dello storico della musica Hanslick - troviamo ancor tracce fino nel pensiero di A. Riegl. Nutrito dello spirito della filosofia romantica, primo fondatore della nuova storia dell'arte tedesca, preconizzando però al tempo stesso la seconda metà del secolo empiristico-positivista (io alludo qui all'introduzione alla sua opera principale, che pubblicai nuovamente nel 1920) fu C. F. v. Rumohr. I suoi rapporti con l'Italia - pur sempre il paese al quale principalmente si volse il romanticismo tedesco, malgrado ed accanto all'entusiasmo patriottico, che data da Wackenroder-Tieck e dall'azione dei fratelli Boisserée a Colonia - sono caratteristici per lui ed i suoi tempi. Egli uscì dunque dalla scuola di quel curioso artista italo-tedesco che fu Domenico Fiorillo (m. nel 1821), il quale, nato ad Amburgo nel 1748, era passato, come pittore, in Italia attraverso gli ultimi « ateliers » barocchi e svolse in seguito la sua attività come primo maestro di storia dell'arte, pur mantenendo rapporti accademici pratici mediante l'insegnamento dei disegno all'Università di Göttingen (quale collega del gran Lichtenberg). La sua diligentissima storia dell'arte del disegno, uscita nel 1798, costituita per la maggior parte su fonti letterarie quasi rinunciando, come già il Goethe lo notò biasimando, al momento intuitivo, non è ancor oggi priva di valore; essa appartiene, del resto, alla corrente poligrafica italiana del secolo XVIII. L'opera principale del Rumohr, già mentovata, si aggira su studi italiani ed è per lo più fondata su fonti di seconda mano, sopratutto su documenti che già in gran parte avevano destato l'interesse della vecchia storiografia d'arte italiana; qui però furono rimaneggiati con nuovo schietto spirito critico, unito ad un profondo punto di vista gnoseologico, proveniente dall'essenza stessa della filosofia romantica contemporanea; da entrambi il buon Fiorillo era rimasto le mille miglia lontano. Il Rumohr era un gentiluomo della Germania settentrionale, nato nelle terre continentali del Baltico, pure patria del gran genio del XVIII secolo, del Winckelmann: come questo e come parecchi altri dei preraffaelliti romani-tedeschi dei nord - ai quali dobbiamo aggiungere pure il nostro Böhm - egli era passato al cattolicesimo. Originaria della Germania del nord fu pure la grandissima generazione degli storici dell'arte del XVIII secolo; così pure Berlino fu di fatto il centro del romanticismo tedesco - non da ultimo grazie al suo giudaismo cattolicizzante. Questa Berlino romantica degli Hohenzollern, dove sorse la prima pinacoteca, già per sua natura nata sui fondamenti della storia dell'arte, ce la descrisse pittorescamente l'Immermann, anch'egli oriundo della Germania settentrionale, di Magdeburgo, nel suo romanzo Die Epigonen, ingiustamente dimenticato. Tutta questa generazione era rimasta, malgrado lo svevo Schelling e sopratutto lo Hegel, sotto l'influenza della filosofia critica stanziatesi nuovamente nel nord, e più propriamente a Berlino, che le aveva dato sostegno e forza. Non solo il Rumohr dell'Holstein, ma pure tutti quelli che continuarono la sua opera furono oriundi dei paesi nordici. Così l'amburghese Waagen (1794-1868) direttore della Galleria di Berlino dal 1823; il miglior conoscitore di tempi passati, il quale già dal 1866 aveva per primo gettato uno sguardo critico sui tesori artistici viennesi; egli è per noi degno di nota, perché coprì in Germania la prima cattedra di pura storia dell'arte, sebbene a malincuore. Poi Franz Kugler della Pomerania (1808-1858), personalità eminente anche come consultore artistico al ministero berlinese; dalla sua casa ospitale derivarono, com'è noto, il giovane svizzero Jakob Burchkardt ed il westfalo Lübke, per lungo tempo popolare per il suo manuale assai arido: questi aggiornarono le sue opere nelle nuove edizioni: «La Storia della pittura» apparsa nel 1837, ed il tentativo intrapreso per la prima volta di abbracciare d'un sol sguardo la storia dell'arte in senso storicofilosofico, dai tempi più remoti ai suoi: un manuale di storia dell'arte. Questa impresa la proseguì poi Carl Schnaase di Danzica (1798-1875), estendendola assai sotto tutti i punti di vista, nella sua (incompleta) storia dell'arte figurativa, « standard-work » di storiografia tedesca dell'arte, ancor oggi insuperata e rimasta fino ai tempi moderni senza equivalente, anche fuori della Germania. Fu quindi il « nordico » della vecchia Austria, Anton Springer (1825-1891), originario di Praga, il di cui manuale di storia dell'arte: Handbuch der Kunstgeschichte, uscito per la prima volta nel 1853, si ristampa ancor oggi, quegli che si rivolse ad un più vasto pubblico. Anch'egli proveniva dall'hegelianismo, si addottorò dal Vischer nel 1847 con una tesi sulla concezione della storia in Hegel, ma diresse da principio la sua attività alla storia moderna, specialmente austriaca. Prima del Concordato dovette esulare in Germania dove prese nel 1852 la libera docenza a Bonn. Più tardi chiamato ad occupare la cattedra di storia dell'arte moderna a Leipzig, fece di questa una delle più illustri della Germania. Furono particolarmente i suoi lavori sull'iconografia medioevale quelli che lo riavvicinarono all'antica patria e proprio alla cerchia Böhm-Eitelberger-Heider, come vedremo in seguito. Nell'altro paese, che deve venir ancor preso in considerazione accanto alla Germania, in Francia, la storiografia dell'arte aveva battuto tutt'altra strada. Già dal XVII secolo si era inaugurato lo studio del passato nazionale « gaulois », con forte intonazione antiquaria; - era il mondo dei grandi Thesauri, dei Corpus filologico-istorici, dei Monfaucon, dei Ducange, dei Maurini, dei Bollandisti giù giù fino alla Patrologia del Migne - ed è degno di nota che Theodor v. Sickel per fondare la scuola viennese di storia dell'arte, divenuta poi tanto importante, si sia riallacciato a queste opere di paleografia e di diplomatica, alla celebre Ecole des chartes di Parigi, pur infondendovi uno spirito storico-filologico schiettamente tedesco. Vedemmo, che la prima grande storia universale dell'arte non fu già «sistema dottrinario» nel senso del grande Winckelmann, ma partì dallo studio delle singole opere d'arte ed ebbe per autore un francese dell'ancien régime, Seroux d'Agincourt, per quanto essa fosse nata nell'antica patria d'origine d'ogni storia dell'arte, in Italia, e quivi avesse prosperato. Così, a partire dall'Impero, grazie al potente suo impulso - anche se la fondazione del museo centrale napoleonico di Parigi, che ebbe breve vita, si orientò in un'altra direzione, sulla linea del d'Agincourt e dei Clarac - crebbe il lavoro degno di nota dell'«Archéologie» in senso francese, che non è tanto diretta, come noi tedeschi la concepiamo, all'investigazione dell'antichità classica, quanto piuttosto a quel già mentovato passato nazionale del proprio popolo, a partire dall'epoca gallo-romana, come preambolo di quel « medioevo », nel quale lo spirito francese, (sempre imperialista, e tuttavia in senso ben diverso dell'ideologia dell'Impero di nazione tedesca, da ultimo col gran Corso riallacciantesi alla visione pratica dell'Imperium romano) ha eretto il suo «gotico» a modello internazionale. Vogliamo qui ricordare alcuni dei principali personaggi ed opere che diresse questo movimento: patriarca di questa Archéologie francese fu A. de Caumont (1801-1872), uomo che ebbe quel genuino talento francese d'organizzazione e che ricorda a volte il nostro Eitelberger; a lui risale il felicissimo termine della nuova storia dello stile, quello di «stile romanico», che noi tedeschi poi adottammo, nato dalla chiara comprensione, così congeniale alla Francia gallo-latino-germanica, del sorgere delle lingue romaniche. E' del resto sintomatico il fatto che noi chiamiamo ancor oggi col termine francese « Renaissance », seguendo in questo lo svizzero Burckhardt, quel fenomeno storico che ai tempi del Goethe si designava con l'espressione «Wìedergeburt». Il Cours d'antiquité del Caumont uscì nel 1836, il suo Bulletin monumenta1 nel 1843. Già dal 1817 esiste la «Société nationale des antiquaires de France», quella eccellente accademia di studi, modello delle innumerevoli società locali che hanno fornito alla Francia fino ad oggi tanto prezioso lavoro. Nel 1844 uscirono le Annales archéologíques del Didron, i volumi delle quali, ornati d'illustrazioni magnifiche, in parte anche veramente artistiche, rappresentano fonti finora non superate. In tutte queste opere si tratta principalmente di « archéologie du moyen-áge », specialmente nel campo dell'iconografia medioevale, della quale i francesi posero le basi e nella quale, anche oggi, eccellono. La descrizione di Cahier e Martin delle vetrate tipologiche di Bourges (1841) conserva ancor oggi, malgrado molti sviamenti, il suo valore. Da qui partono, come da tutta la Francia in generale, ciò che per noi è assai importante, parecchie vie di collegamento con la scuola viennese, come si mostrerà meglio in seguito. Il carattere dell'Archéologie francese, magnificamente rappresentato dai lavori dei Brutails, è rimasto fino ad oggi intatto; essa forma il complemento di quella concezione storica, orientata ben diversamente e poggiante sullo spirito storico-filosofico del romanticismo, dei grandi storici dell'arte nordica, tedeschi della prima metà del XIX secolo. Nei francesi è invece molte volte ancor viva la concezione pragmatistica della storia del XVIII secolo, quello spirito «filosofico», quale si era manifestato nell'epoca del loro illuminismo e che nella scuola del grande artista-archeologo Viollet-le Duc non è ancor oggi completamente spento. A. v. CAMESINA Ritorniamo alla cerchia di J. D. Böhm. Quattro sono gli uomini che vanno da noi qui presi in considerazione. Il più vecchio fra questi fu Alberto v. Camesina (1806-1881) disceso da una famiglia dei Grigioni di stuccatori che già nel XVIII secolo si era fatta viennese, un « viennese autentico» quindi, ma sempre ancor memore dell'antica patria, come pure lo fu, della sua comasca, una famiglia di antiquari ancor oggi vivente, quella degli Artaria. Domenico Artaria (morto nel 1842) ed il figlio e successore suo Augusto furono pure in intimi rapporti col Bóhm. Il Camesina svolse la sua attività principalmente come disegnatore archeologo nelle Mitteilungen der k. k. Zentralkomission, di cui parleremo, come pure in quelle del Wiener Altertumsverein; ma diede anche qualche contributo archeologico. Risalgono a lui le pubblicazioni dell'altare di Verdun a Klosterneuburg, in collaborazione con Josef Calasanz v. Arneth (per lunghi anni direttore del « Münz- und Antikenkabinett ») e inoltre dell'importante manoscritto della Bibbia Pauperum di St. Florian (in collaborazione con G. A. v. Heider, mentovato in seguito). E. v. SACKEN Il più giovane dei circolo era però Eduard barone v. Sacken (1825-1883), discendente da nobile famiglia curlandese, ma già al tutto viennese, eccellente tipo di archeologo nel significato francese della parola, vale a dire volto tanto verso la preistoria indigena, quanto verso l'archeologia classica e la storia dell'arte medioevale. La sua vita di studioso dedicò alle collezioni imperiali, che arricchì di opere di grande valore (per nominarne una sola, col materiale dei celebri scavi di Hallstatt). Risalgono a lui pure le descrizioni particolareggiate, sia del patrimonio artistico della Ambraser Sammlung, che aveva ordinata da giovane, fra il 1849 ed il 1852, sia di quello del Münz-und Antikenkabinett, che diresse dal 1871 fino alla sua morte. Il suo « Catechismus » degli stili architettonici pubblicato a Vienna nel 1861, fu per molto tempo diffusissimo. G. A. v. HEIDER E' per noi di speciale interesse la figura di Gustavo Adolfo barone v. Heider, nato a Vienna nel 1819, dove, collocato a riposo già dal 1880 dal suo ufficio di capo-sezione, morì vecchissimo, già quasi dimenticato, nel 1897, nello stesso anno e quasi condividendo il destino del suo contemporaneo, il berlinese Franz Merten che tanto ben meritò dalla storia del gotico. Lo Heider non era un « professionista » ma un dotto giurista, così come lo furono Kugler e Schnaase; egli esordi come segretario della Wiener Kunstakademie, entrando però già nel 1850 al ministero dell'istruzione, in un momento nel quale, grazie all'azione intelligente del conte Leo Thun, esso attraversava un periodo di grande prosperità. Lo Heider incarnava egregiamente il tipo dell'alto impiegato con interessi per l'arte e la storia, una tradizione che perdurò nel ministero dell'istruzione austriaca e che ancor oggi non è completamente spenta. Egli era un vero uomo di scienza; particolarmente i suoi lavori sull'iconografia del medioevo si svolsero parallelamente alle ricerche dei francesi e sopratutto del Didron (circostanza che, riguardo al già detto, non è senza importanza), e, conservando ancor oggi il loro valore, prepararono il terreno a studi ulteriori. I lavori dello Heider uscirono per lo più fra il 1856 ed il 1861 nelle Mitteilungen (Jahrbuch) der k. k. Zeutralkommission zur Erforschung u. Erhaltung d. Kunst und historischen Denkmale, redatte da lui stesso. Egli era l'anima vera e propria di questo importante periodico, organo e centro di tutti gli studi tedeschi intorno all'arte fra il '50 ed il '60. Lo Schnaase, il Lübke, lo Springer e molti altri vi prestarono la loro collaborazione, e questo va rilevato, perché oggi si dimentica troppo facilmente la posizione d'avanguardia assunta dalla Vecchia Austria durante quegli anni in questo campo di azione. Ché qui si tratta della più vecchia ed eccellente pubblicazione di tale specie su suolo tedesco, di fronte alla quale, né l'Anzeiger für Kunde der deutschen Vorzeit (del Germanisches Museum di Norimberga) di qualche anno più vecchio, né il Kunstblatt già redatto da F. Kugler, da Schorn e da Förster e più tardi da Egger dei 1858, ma poi decaduto, possono venir presi in considerazione. Soltanto in Inghilterra ed in Francia c'era qualche cosa di simile, là con l'antichissima Archeologia fondata fin dal 1770, qui con le Annales archéologiques (1844) di Didron già menzionate. Lo Heider era un'indole di scienziato di grado assai più elevato che non lo fosse l'Eitelberger, il quale col suo slancio organizzatore diretto alla pratica, estese la sua azione su un campo assai più vasto. Per lungo tempo questi due uomini lavorarono insieme, l'uno accanto all'altro; senza dubbio quest'ultimo, per quanto di qualche anno maggiore dei primo, ebbe da lui non pochi aiuti nel campo scientifico. R. v. EITELBERGER Rudolf Eitelberger v. Edelberg (1819-1885), nativo di Olmütz, fu il vero capostipite della « scuola viennese », avendone molte volte anticipato alcuni tratti decisivi, per quanto, come dicemmo, non uguagliasse lo Heider in scienza e dottrina. E' caratteristico per la posizione sua e del suo tempo, ch'egli, avendo esordito come giurista, si sia poi presto volto alla filosofia e filologia classica; già da giovane tenne dei corsi sulla filosofia dello Hegel, in quel momento al colmo della sua fama, ed entrò poi come assistente di filologia classica nel seminario del prof. Ficker, dove diresse autonomo le esercitazioni. Questa inclinazione pedagogica lo fece entrare pure nella cerchia del Böhm, dove venne introdotto dallo Heider; questo fu l'avvenimento decisivo per tutta la sua vita: storia, teoria e tecnica dell'arte figurativa gli si fecero incontro nella loro foggia classico-romantica in quel rapporto pratico con le collezioni e sopratutto con artisti ed affini di ogni specie, che doveva poi essere tanto importante per il futuro creatore dell'«Österreichisches Museum». Quanto andremo dicendo prendiamo soprattutto dal necrologio che il prussiano Jakob v. Falke, successore dell'Eitelberger nella direzione dei Museo, gli dedicò nel 1885 nella Wiener Zeitung. Dopo grandi viaggi in Italia, Francia ed Inghilterra - il suo caratteristico tratto occidentale salta già all'occhio - venne nominato nel 1852 dal conte Leo Thun professore straordinario di storia dell'arte all'università di Vienna, insegnamento che poi, come professore ordinario, mantenne ed esercitò fino alla sua morte, malgrado, sopratutto dopo il 1864, molti gravi compiti di tutt'altra specie gli incombessero. Questa era la seconda cattedra fondata su basi di pura storia dell'arte in un'università tedesca - ché Berlino, con la cattedra del Waagen nel 1844, come vedemmo, aveva avuto la precedenza solo di qualche anno, ma questi, come sappiamo dall'ottima esposizione di W. Waetzoldt, non aveva professato l'insegnamento, pel quale non si sentiva portato, né con amore, né con speciale interesse; ben altrimenti invece andò con l'Eitelberger. La storia dell'arte nelle università rimase per altro ancor lungamente amalgamata (e non a suo svantaggio) con la storia e più particolarmente con la storia della cultura, come testimoniano ancora lo sviluppo del Burkhardt e quello di C. Justi; anche lo Springer e da ultimo anche il Riegl ed il Dvorák esordirono come storici. Tutta la carriera dell'Eitelberger venne influenzata prima di tutto dalla sua derivazione dalla filologia classica che dispone dei finissimi istrumenti affilati dai secoli: l'ermeneutica e la critica; e poi dalle collezioni della casa Böhm, costituite ab ovo con intenti pedagogici e messe in valore attraverso esposizioni e discussioni. Infatti l'Eitelberger stesso, nel caldo necrologio che più tardi gli dedicò considera J. D. Böhm suo primo, anzi unico maestro. All'opera sua maggiore, che mette in luce la sua forza pratico-creativa, qui si può appena accennare: è la fondazione dell'«Österreichisches Museum für Kunst u. Industrie», avvenuta nel 1864. Incoraggiato dall'Arciduca Ranieri, figura rimasta per anni centro degli interessi spirituali della vecchia Austria, l'Eitelberger, di ritorno dall'esposizione mondiale di Londra, riportò in patria un fecondo pensiero nato colà, e creò a Vienna il primo museo di arte decorativa sul continente, del quale fu direttore fino alla fine dei suoi giorni, coadiuvato dal suo fedele collaboratore Jakob v. Falke, venuto a Vienna fin dal 1858. Modesto ai suoi inizi, dapprima limitato a depositi di proprietà di privati, particolarmente di conventi e famiglie aristocratiche, conservò poi, per anni, un posto di prim'ordine. L'idea di creare una raccolta di modelli, intesa al progresso dell'arte viva e, prima di tutto, dell'arte decorativa, ritenuta fino allora tanto inferiore, risale evidentemente alla cerchia del Böhm. L'antecedente esposizione « archeologica » del 1846, alla quale collaborò già l'Eitelberger, e di cui già dicemmo precorre quella memorabile esposizione di oggetti d'arte prestati da privati e di copie galvano-plastiche nel vecchio « Ballhaus » dalla quale dovevano poi sorgere le magnifiche raccolte dell'« Österreichisches Museum ». E' notevole il fatto che l'Eitelberger, pur ponendo il suo principale interesse, d'allora in poi, in questa sua nuova creazione, seppe collegare l'attività accentrata al servizio di questa con la sua professione accademica e con la sua azione estesa pure ad altri campi letterari e giornalistici e renderla per questa feconda; tutto ciò in lui sta sotto il segno di un'altissima tecnica di organizzazione. Già mentovammo come egli avesse fondato con lo Heider, il quale, benché fosse un po' più giovane, fu sua seconda guida e maestro, la Zentralkommission, che precorse l'odierno «Bundesdenkmalamt» con tutti i suoi organi letterari; in collaborazione con lo Heider pubblicò pure l'opera Mittelalterliche Kunstkmäler des österreichischen Kaiserstaates, in due volumi, ricca di tavole illustrate, primo lavoro monumentale in lingua tedesca nel campo della topografia dell'arte. Non va neppure dimenticata la sua attività giornalistica; egli, come collaboratore della Wiener Zeitung, ne compilò tutte le recensioni artistiche - è pure da osservare, come anche qui si manifesti il suo orientamento verso l'Europa occidentale - i suoi articoli sull'esposizione universale di Parigi del 1855 apparsi su quest'organo ufficiale, guidarono fin da principio l'attenzione del pubblico austriaco sull'arte d'avanguardia francese. Tutto questo acquista significato ed influenza nell'ambito dell'attività accademica, ciò che per noi più conta, di quest'uomo veramente eccezionale, che divenne il vero e proprio heros ktistes della « scuola viennese ». Fin dalla fondazione del suo museo si mette in rapporto col vivaio di studenti di storia dell'università di Vienna, scova con mano sicura un giovane discepolo nell'Istituto storico allora già esistente, il quale sarà poi per lunghi anni collaboratore nella sua istituzione, Franz Schestag. Questo viene mandato in un viaggio d'ispezione nelle province della Corona, allora ancora indivise, onde raccogliere dei materiali per l'esposizione preparatoria. L'Eitelberger stesso per il primo trasforma effettivamente i pensieri, oltre ogni dire fecondi, ch'egli aveva preso dal Böhm: costruire cioè l'insegnamento accademico sulla diretta descrizione tecnico-storica delle singole opere d'arte, evitando così il pericolo di chiacchiere teorizzanti; fino alla sua morte l'Eitelberger tenne un corso permanente, ne sentii io stesso l'ultima eco, di «Esercizi di spiegazione ed attribuzione d'opere d'arte» e lo tenne precisamente nei locali e davanti agli oggetti dei museo, uso che M. Thausing prima, il mio maestro F. Wickhoff poi, hanno mantenuto e quindi esteso ad altre collezioni (la Pinacoteca allora al « Belvedere », l'« Albertina », l'« Hofbibliothek ») e al quale io sono stato fedelissimo fino ad oggi, nei quarant'anni della mia attività accademica. E' il legame fecondo tra università e museo, il quale sorse, prima che in ogni altro luogo, a Vienna; la grande creazione di Eitelberger divenne un vivaio di maestri universitari: e, prima di tutte, quella sezione dei tessuti, che per lungo tempo aveva preso un posto preminente e dalla quale uscirono uomini come F. Wickhoff, A. Riegl ed in fine M. Dreger, il futuro ordinario di Innsbruck, il capolavoro del quale sullo sviluppo dell'arte dei tessere si riconnette precisamente a quella. Dell'«Albertina», alla quale si dedicò M. Thausing, parleremo in seguito. Ma anche le prime raccolte d'arte della vecchia monarchia, riunite nel magnifico palazzo del Burgring fra l'80 e il '90 accolsero, d'allora in poi, nel loro programma questo legame con l'Università, con reciproco vantaggio, si può ben dirlo; legame che esercitò la sua influenza su cerchie molto più vaste, grazie all'organo centrale, il veramente monumentale Jahrbuch der kunsthistorischen Sammlungen der A. H. Kaiserhauses, fondato da Quirino v. Leitner e curato poi per anni dall'ottimo e rimpianto bibliotecario H. Zimmermann. Archeologi come l'indimenticabile collega ed amico Robert v. Schneider, quindi A. Schrader e, recentemente, F. Eichler, ora direttore della collezione archeologica, numismatici e storici dell'economia come J. Kubitschek e A. v. Loehr, in fine veri e propri storici dell'arte, oltre a me, il mio amico di studi H. Dollmayr, spentosi prematuramente, il mio ottimo amico e successore H. j. Hermann e, finalmente, L. v. Baldass della Galleria, hanno mantenuto fino ad oggi questa doppia posizione, di cui il primo esempio ci diede lo stesso Eitelberger. I fini perseguiti da lui nella scuola viennese si manifestano chiaramente in un altro aspetto di questa degnissima persona; anche qui si potrebbe risalire ai lontani influssi della cerchia del Böhm. Dal 1871 in poi l'Eitelberger pubblicò, appoggiato dal Ministero dell'istruzione austriaco, le Quellenschriften für Kunstgeschichte und Kunsttechnik des Mittelalters und der Renaissance; egli, antico filologo, fondò, mediante queste, sia pure in principio non scevre di parziali imperfezioni, conforme allo stato d'allora degli studi, quella corrente storico-filologica e di critica dei testi, che diede poi alla scuola viennese, col Wickhoff ed i suoi scolari, una ben meritata fama. Queste Quellenschriften durarono ancora fino quasi alla guerra mondiale; potei ancora pubblicarvi i Vasaristudien, opera postuma del mio giovane amico e collaboratore W. Kallab, purtroppo morto tanto prematuramente. Vi collaborarono ottimi professori universitari, oltre allo stesso Eitelberger, M. Thausing, H. Janitschek, A. Woltmann, H. Semper. Grazie alla sua altissima posizione poté l'Eitelberger esercitare grande influenza sullo sviluppo dello studio universitario di storia dell'arte in Austria; egli venne chiamato a parte della Camera dei Signori dall'imperatore Francesco Giuseppe ed ebbe come consultore artistico voce in capitolo al ministero, accanto al suo amico Heider. Per mezzo suo pervennero Hans Semper, figlio del grande Gottfried, alla cattedra di Innsbruck, e Alfred Woltmann a quella di Praga, per la storia dell'arte. Innanzi tutto va però ricordata la nomina di Moritz Thausing, il quale istituì quel legame che dura tuttora con l'Istituto storico. Il progetto di Theodor v. Sickel per riorganizzare la già esistente scuola di storia, fondata originariamente da Albert Jäger (1854), aveva assunto nel suo programma espressamente la nuova storia dell'arte materia obbligatoria ed aveva accolto nel suo corpo insegnante della scuola stessa uno storico dell'arte; unione che d'allora in poi doveva per entrambi le parti mostrarsi utile e d'importanza vitale. Il Thausing fu il primo maestro di questa disciplina all'Istituto, e con lui passiamo dalla preistoria e dalla storia antica della scuola viennese, al suo « medioevo ». M. THAUSING Moritz Thausing, nato boemo-tedesco (1835-1884), originariamente germanista, si era dedicato sotto l'Eitelberger alla storia dell'arte. Egli proveniva dall'Istituto storico, del quale era stato l'allievo fin dal 1859, quindi già sotto la guida del Sickel, che allora lo dirigeva già da due anni e che gli aveva dato l'impronta della sua impareggiabile personalità di maestro. Si può fin d'ora capire di quanto vantaggio siano stati i fondamenti rigidamente storico-filologici della storia dell'arte; a questo proposito è d'uopo accennare a quel fatto ch'io misi, in luce nel necrologio del mio indimenticabile protettore ed amico Wilhelm v. Bode e che illumina tutta la posizione della storia dell'arte a Vienna e dell'Istituto del Sickel in quell'epoca. Il Bode, il grande intenditore che avrà poi in mano tutte le raccolte berlinesi, appartenne, raccomandato a Vienna nientemeno che dallo Springer stesso, dal 1869 al 1870, come membro straordinario, all'Istituto; si fece discepolo dell'Eitelberger e del suo collega, il celebre archeologo Alessandro Conze, che ebbe una parte importante nella storia della scuola di Vienna, come più tardi vedremo. Il Thausing rimase legato tutta la vita all'Istituto: vi insegnò nominato professore nel 1873 (1879 ordinario), e fu pure nei suoi ultimi anni, nel 1883, già rattristato da sofferenze psichiche, direttore interinale dell'Istituto austriaco di studi storici a Roma, nuovamente fondato dal Sickel. Il suo discorso inaugurale del 1873 intorno alla posizione della storia dell'arte come scienza (Die Stellung der Kunstgeschichte als Wissenschaft) - la mise poi come introduzione alla sua ultima opera Wiener Kunstbriefe del 1883 - è ancor oggi degno di nota ed esprime chiaramente la nuova posizione assunta dalla scuola viennese nel mondo culturale. Infatti anche il Thausing ha, come l'Eitelberger, punti di contatto col giornalismo, sebbene in una forma differente da questi: brillante, spiritoso, arguto, sia come scrittore, sia nella vita comune, seppe esplicare con molto gusto, pure negli articoli prettamente scientifici, un'azione feconda; i Wiener Kunstbriefe, pubblicati nel suo ultimo anno di vita, sono precisamente la raccolta di queste cronache ed articoletti. Anche il Thausing copriva due cariche, come il suo maestro e più tardi collega Eitelberger: fin dal 1864 era stato chiamato alla celebre raccolta di disegni del duca di Sachsen-Teschen, che porta ancora presentemente il nome di «Albertina» e ne divenne direttore nel 1876, dopo il grande successo della sua bellissima monografia sul Dürer (1875), oggi non ancora superata. In queste raccolte indimenticabili ed impareggiabili per chiunque abbia ancora vissuto il loro antico meraviglioso ambiente, si svolse un avvenimento che fu di grande importanza per l'ulteriore sviluppo della scuola viennese, allora in formazione; qui il Thausing fece la conoscenza di quell'intenditore ed originale che si nascose per lungo tempo sotto la strana maschera d'un moscovita, Ivan Lermolieff, e del suo presunto traduttore Johannes Schwarze, e che fu uno degli uomini più geniali e personali: assolutamente indipendente, rivoluzionò il metodo di studio della storia dell'arte tedesca di quei tempi. Egli altri non era che Giovanni Morelli, senatore del Regno d'Italia. I suoi primi articoli uscirono fra il 1875 ed il 1876 nel Zeitschrift fur bildenden Kunst, che fu all'avanguardia e cessò le sue pubblicazioni solo recentemente (familiarmente chiamato Lutzowsche Zeitschrift perché redatto dall'hannoveriano v . Lútzow, professore dal 1864 all'Accademia d'arte di Vienna); ma a Vienna - il che è pure sintomatico - il Thausing cercò, in uno dei suoi più brillanti articoli nel 1880, di volgarizzare, per il pubblico della Neue Freie Presse, i fini di quest'uomo tanto importante e di delinearne la posizione spirituale; a questo « suo amico e fratello in Raffaello » è precisamente dedicata quell'ultima raccolta dei Wiener Kunstbriefe Attraverso le silenziose sale di studio, inondate di luce, della vecchia «Albertina», il Thausing guidò al Morelli il suo giovane scolaro Franz Wickhoff, che doveva poi divenire l'apostolo suo più entusiasta; e in questo stesso luogo il Wickhoff presentò al senatore il suo scolaro H. Dollmayr, ch'egli sopra a tutti contribuì ad avviare in questa direzione, e me pure, cosicché ci arricchimmo di ricordi, che possono contare fra i più belli della nostra vita. F. WICKHOFF Siamo qui giunti all'uomo che è da considerarsi come il vero fondatore della scuola viennese, vale a dire a Franz Wickhoff (nato nel 1853 a Steyr, morto nel 1909 a Venezia dove riposa). Ché in lui si collegano i due elementi costruttivi, già prima affiorati isolatamente, in una sintesi costituita dalla stessa grande personalità dell'uomo, tanto nel suo sviluppo, quanto nella sua produzione letteraria ed accademica dove il primo si concluse. Quell'età che prima s'era potuta intravedere solo nei gradi preparatori, è l'età della rinascenza della scuola viennese - designazione «mitologica » che venne scelta pensando alla più intima e propria essenza del Wickhoff, - cominciata dal momento in cui egli, come successore dell'Eitelberger e del Thausing (morti l'un dopo l'altro a breve distanza), assunse la cattedra di storia dell'arte organicamente unita all'Istituto austriaco e sotto di lui, arricchita pure di un istituto indipendente. Cinque persone determinarono il suo sviluppo: l'Eitelberger, il Thausing il Sickel, il Conze come suoi maestri accademici, Giovanni Morelli come fiancheggiatore. Quando il Wickhoff entrò, verso la metà del '70, all'Università, trovò, come maestri della disciplina da lui scelta, l'Eitelberger ed il Thausing. Il primo gli offrì da principio ben poco come professore, ma lo attirò poi, verso il 1879, subito dopo la conclusione dei suoi studi all'Istituto, al suo museo, e precisamente in quella raccolta di tessuti, che tanto influì sulla sua formazione (come più tardi, in grado ancor più alto, su quella del Riegl). Qui egli poté rivivere la tecnica e la storia dell'arte decorativa e formarsi, per ciò che riguarda il museo, in una scuola fuori dall'ordinario. Il Wickhoff venerò ed ammirò sinceramente l'Eitelberger, sebbene le debolezze e stranezze di quest'uomo, ch'egli amava paragonare all'Haman del Grillparzer, offrissero alla sua vena inesauribile sino alla fine dei suoi giorni materia ad aneddoti amenissimi. Prima di tutto, già libero docente fin dal 1882 all'Università, l'Eitelberger gli trasmise, come sappiamo, quell'eredità, proveniente ancora dalla cerchia del Böhm, che conveniva in particolar modo al suo spirito inclinato sempre all'intuizione ed all'esattezza scientifica, - non si era invano prima dedicato alle scienze naturali -: ossia il metodo dì partire dalla singola originale opera d'arte, studiata direttamente. Allorquando io ero ancora giovane studente, egli teneva nei locali dell'Österreichisches Museum, delle lezioni, servendosi di oggetti accuratamente scelti, sulla storia e la tecnica dell'« arti tecniche », come si soleva dire allora; ottima scuola per futuri impiegati dei musei, la cui formazione aveva in vista il programma degli esami di stato redatto dal Sickel (vigente ancor oggi). Ma vi si aggiunse ancora dell'altro: la raccolta di documenti per la storia dell'arte figurativa era allora da tempo già in corso. Anche questa idea di riordinare sistematicamente, accanto alle fonti primarie originali anche le secondarie - l'Italia ci precedeva anche in questo con una tradizione di secoli - le trasmise alla « scuola viennese » il Wickhoff, scolaro dei Sickel. Egli stesso aveva attribuito, nelle esercitazioni di seminario, molta importanza alla lettura ed interpretazione di brani scelti presi da fonti letterarie dei primi secoli cristiani. Avviò i suoi primi scolari alla raccolta di documenti di quei tempi e dei periodi merovingi, carolingi ed ottonici, nei quali la tradizione monumentale è quasi perduta; di queste raccolte solo la seconda, intrapresa da me, venne portata a termine; la prima, del mio compagno di studi Karl Hecke, precocemente defunto, rimase frammento e la terza di J. Mantuani, manoscritto. Anche la mia pubblicazione, come quelle che seguirono più tardi, trovò posto nella nuova serie delle Quellenschriften dell'Eitelberger. Non bisogna dimenticare a questo proposito, che l'opera dell'Overbeck, sulle antiche fonti letterarie per la storia delle arti figurative presso i Greci, ci stava, fin dal 1868, a modello. Le fonti per la storia dell'arte bizantina di Fr. Wilh. Unger (non senza pecche dal punto di vista filologico) uscirono nella raccolta dell'Eitelberger dieci anni dopo, nel 1878, quando il Wickhoff era ancora studente. Come poi da qui abbia preso le mosse una parte considerevole della mia produzione letteraria ed accademica, verrà accennato in seguito. Non solo il medioevo (Teofilo, Eraclio, Cennini) faveva parte del Corpus dell'Eitelberger: ma vi era pure già compresa la corrente tendente al rinascimento italiano e tedesco, conformemente al punto di vista d'allora, fra il '60 ed il '70, dei tempi del grande pioniere Gottfried Semper, poi di Teofilo Hansen e del Ferstel e, soprattutto, conformemente al lavoro dell'« Österreichisches Museum » (Dolce e Condivi, dell'Eitelberger; Biondo dell'Ilg; La biografia di Donatello del Vasari, di H. Semper; L'Alberti, del Janitschek). Il Thausing curò l'edizione delle lettere e del diario del Dürer come preparazione alla sua poderosa monografia. Cominciarono a fiorire anche quelle raccolte di regesti presi da documenti originali, che furono più tardi proseguite su vasta scala nel Jahrbuch des A. H. Kaiserhauses dal 1885 in poi. La critica dei testi già inaugurata dal Wickhoff - va qui particolarmente preso in considerazione il finissimo suo articolo del 1889 sull'epoca di Guido da Siena - si estese poi man mano agli autori delle fonti del XV e XVI secolo; non bisogna dimenticare, a questo proposito, il diligente lavoro del mio vecchio amico C. v. Fabriczy di Stuttgart e, sopratutto, quello di K. Frey di Berlino. Anche i miei studi sul Ghiberti appartengono a questa serie. Il lavoro degli studiosi, che godevano delle nostre borse di studio per storia dell'arte all'Istituto austriaco del Sickel a Roma, fu assai fecondo, specialmente per ciò che concerne il Vasari. Purtroppo W. Kallab (venuto da Graz alla scuola del Wickhoff e morto nel 1906 prima di lui) non riuscì a condurre a termine, né tale lavoro - si tratta dei già mentovati frammenti, « Vasaristudien », da me pubblicati -, né la pubblicazione dei trattati inediti, assai importanti, di Giulio Mancini, i quali solo ora spero, finalmente, dopo quasi trent'anni, poter dare io alla luce. Con ciò comincia già il lavoro intorno alle fonti di quel barocco romano messo in primo piano dal Riegl - il Grosse Schauburg di Hombraken figura già del resto nelle Quellenschriften dell'Eitelberger, - ereditato e continuato poi da M. Dvorák. Ma il grande Corpus delle fonti della storia dell'arte barocca a Roma, del suo assistente Ludwig Pollak, sorta sotto l'egida sua e di L. Pastor, rimase incompiuto, allo stato di torso, poiché questo uomo insigne, arruolatosi volontario, cadde sul fronte galiziano nel 1914, come cadde pure il suo successore Georg Sobotka (che avrebbe voluto pure terminare il «Mancini» del Kallab) sul fronte italiano proprio alla fine della guerra. Pure il Dvorák non vide la fine di tale pubblicazione, che poté poi venir ripresa solo nel 1928, grazie ad un allievo suo, Dagobert Frey. Validamente coadiuvato dal mio vecchio amico J. Ph. Dengel, ora direttore e rinnovatore dei nostro Istituto romano, spero, per mezzo di un mio allievo, di poter accelerare il proseguimento dell'opera lasciataci dal Pollak. Da tutto ciò vediamo come la tradizione dell'Eitelberger, certamente superandolo di gran lunga, sia stata proseguita dalla scuola viennese del Wickhoff. Ciò malgrado però l'insegnamento dei Thausing ebbe per lui maggior significato, e non solo perché questi era insegnante della sua materia e all'Istituto donde egli stesso era uscito, come dicemmo. Il rapporto fra il più vecchio ed il più giovane di questi due studiosi non sembra certo esser stato molto intimo, sebbene il Wickhoff abbia sempre parlato del Thausing con grande rispetto. Io non lo conobbi personalmente, era già morto quando verso la fine del 1884 cominciai a frequentare l'università. Ma anche partendo dalla conoscenza molto intima che io ebbi del Wickhoff, potrei concludere che le nature di questi due uomini, sebbene entrambi fossero parlatori vivi e spiritosi, erano opposte l'una all'altra, proprio, in certo senso, come l'umorismo austriaco meridionale dell'uno a quello pungente dell'altro, tedesco della regione dei Sudeti. Il Thausing, quando avvicinò il Wickhoff, era già direttore dell' «Albertina », e questo luogo di finissimo lavoro di erudizione ebbe grande importanza per tutta la vita del Wickhoff. Egli acquistò qui e nella Hofbibliothek quella ricca conoscenza dell'arte grafica (come nell'« Österreichisches Museum » quella dell'arte «tecnica») che doveva diventare una delle colonne di tutto il suo metodo d'insegnamento. Al Thausing studioso del Dürer si rifà già chiaramente la tesi di laurea del Wickhoff Dürers Studium nach der Antike, pubblicata nel 1880 nelle Mitteilungen des Instituts; contemporaneamente si rileva qui la caratteristica tendenza verso un secondo campo, che lo aveva attratto fin dalla gioventù e doveva poi divenire la grande esperienza della sua vita: verso l'archeologia classica. Ancora nei suoi ultimi anni ripercorse questa strada della sua giovinezza nei Dürerstudien. Nato immediatamente dall'ambiente dell'«Albertina» è quell'opuscolo su Marcantonio e gli artisti romani, tanto importante, che getta viva luce sulla, parte sostenuta dalla grafica italiana la quale si presenta ab ovo come riproduttiva; ciò si ricollega ai suoi studi su Raffaello, nei quali lo aveva del resto preceduto anche A. Springer. Il Wickhoff stesso presentò nel 1903 il progetto di un Corpus di disegni di Raffaello, opera anche questa cresciuta in intima unione con l'Albertina, i disegni italiani della quale egli rielaborò dal 1891 al 1892 in un catalogo programmatico ragionato. Indirizzò precisamente su questa via uno dei suoi più vecchi allievi, Hermann Dollmayr (1865-1900), il di cui primo lavoro sulla scuola di Raffaello uscì nello stesso Jahrbuch. Qui pubblicò il Wickhoff, oltre al suo secondo lavoro, un articolo sulla classicità nella formazione di Michelangelo (1882) e pure l'opera postuma su Giulio Romano e l'antichità classica (1901) del giovane estinto. Inoltre qui c'è come un lontano ricordo dei Thausing, il quale, come già mentovammo, nella dedica italo-tedesca dei suoi Kunstbriefe a Giovanni Morelli, lo chiama « suo fratello in Raffaele ». GIO. MORELLI Già dicemmo come il giovane Wickhoff nel momento decisivo del suo sviluppo conobbe quest'uomo singolare per mezzo del Thausing: egli divenne il terzo maestro, maestro « libero », del Wickhoff (nato a Verona nel 1816, morto a Milano nel 1891). Il Morelli ebbe grandissima importanza per la storia della nostra disciplina ed innanzi tutto per la «scuola viennese », pel fatto che segnò il passaggio dal romanticismo tedesco al positivismo della seconda metà dei secolo, assumendo così una parte storica, che oggi, essendo subentrata una corrente opposta, è spesso disconosciuta e svalutata. Ché il Morelli di famiglia ugonotta originaria della Francia meridionale, migrata attraverso la Svizzera in Lombardia, ebbe educazione e formazione tedesche, avvicinò da giovane, a Monaco, l'italo-tedesco Bonaventura Genelli, Cornelius e Kaulbach, fu amico di Rückert, Clemens e Bettina Brentano e Görres; a Berlino poté essere della cerchia dello Schelling. L'importanza di questo uomo fu grande nella storia del tempo; - ma esistono oggi fra i giovani storici, di quelli che leggono volentieri la bella biografia del Morelli che il suo amico e scolaro Frizzoni di Bergamo (ancora in rapporti col Rumohr) pubblicò, nel terzo volume delle Gesammelten Kunstkritischen Schriften (Lpz., 1893)? Tutti i suoi articoli, apparsi sotto la strana maschera russo-tedesca di « Ivan Lermolieff-Schwarze », sono scritti in tedesco ed in un tedesco che converrebbe alla maggior parte degli odierni scrittori d'arte. Egli, che nel 1848 fu deputato della Lombardia al Parlamento di Francoforte, rappresenta quell'unione di tedesco e di italiano, che il vecchio italo-tedesco Fiorillo aveva appena abbozzata. La vecchia patria della critica e della storia dell'arte acquista, nella patria del Rumohr, mediante il contatto con la scienza dei romanticismo tedesco nordico, nuove forze, che si svilupperanno in seguito nel secolo XX. L'Austria, contro la quale scese ancora in campo il lombardo Morelli nel 1866 per l'Italia una, riprese poi di nuovo il suo ufficio di mediatrice fra il nord ed il sud, come tosto mostreremo. Il Morelli proviene dalle scienze naturali e si laureò in medicina a Berlino nel 1839. E' questa una circostanza che non mancò di significato per il Wickhoff, poiché, già lo sappiamo, anch'egli, originariamente, si era volto alle scienze ed aveva assistito alle lezioni del noto botanico Josef Böhm (che divenne più tardi suo cognato); lo aveva sopratutto attratto la teoria dell'evoluzione, allora assai discussa, e questa aveva, senza dubbio, influito sul suo modo genetico di osservazione. Il Morelli poi, sotto influenze tedesche, divenne conoscitore e raccoglitore come alcuni altri suoi colleghi, partendo da un punto di vista pratico-empirico; egli legò alla sua morte, alla città di Bergamo, sua vera e propria patria, la sua bella galleria d'arte. A Parigi si legò d'amicizia con O. Mündler, quella mente originale e conoscitore profondissimo degli anni intorno al '60, collaboratore, rimasto quasi anonimo, delle ultime edizioni del Cicerone del Burckhardt. Ma questo modo, al tutto personale, di perizia d'arte, in sé non trasmissibile perché poggiante su muta intuizione, non poteva accontentare lo spirito acuto e criticamente formato di un Morelli; in lui lo scienziato e l'empirico richiedevano criteri oggettivi. Egli giunse così al suo celebre « metodo », che espose dapprima in un dialogo Über Prinzip und Methode pieno di intelligenza e di spirito. Non era passato molto tempo da quando il geniale Fechner, sebbene egli per parte sua si fosse dedicato alle scienze, aveva indetta quella inchiesta, che si potrebbe chiamar comica, nella disputa intorno all'« Holbein di Dresda», la quale, precisamente perché fondata su apprezzamenti riposanti sulla sensibilità di profani o semiprofani, doveva, necessariamente, condurre ad un falso risultato. Quivi volle intervenire il Morelli per cercare un fondamento sicuro sul quale basarsi nella determinazione della personalità dell'artista, fondamento che andava cercato nella esatta osservazione della scrittura artistica, della « maniera » nel senso proprio del vecchio vocabolo artistico, nelle sue minime e perciò più sicure caratteristiche, nell'osservazione degli svolazzi «calligrafici» che fissano precisamente questa scrittura come « maniera » individuale in un senso più lato; così le famose forme delle orecchie, delle mani e delle unghie, tanto derise all'inizio, e non solo dal volgo, costituirono da principio un metodo comparativo, già molto in uso fra i periti calligrafici nel loro sistema detto « Bertillonage». Come questo procedimento proprio a Vienna cadde su buon terreno, e doveva cadere, lo dimostreremo ben tosto. Il Morelli, partendo da questo punto di vista il cui pensiero fondamentale era giusto e duraturo e che neppure gli errori potevano annientare, illustrò criticamente prima di tutte le grandi Gallerie tedesche di Monaco, Dresda e Berlino, in seguito pure le Gallerie Borghese e Doria Pamphili a Roma; questi studi corrispondono precisamente all'epoca nella quale il Wickhoff frequentava la scuola del Thausing. Il Morelli aveva ben visto che qui, dove si tratta della scottante questione dell'autentico e del falso, dell'originale o del semi-originale, della copia, dell'imitazione o della libera falsificazione, non è l'opera d'arte stessa dei maestro, così come ci si presenta molte volte nelle gallerie o nelle chiese, deformata, mutilata o falsificata, quella che può fornire base sicura per la conoscenza, anche se più o meno garantita da copie o altre imitazioni e sopratutto da iscrizioni e scritti dell'epoca (qui si tratta di lavoro filologico sui testi); ma che piuttosto bisogna partire dalle immediate testimonianze, da esaminarsi pure criticamente, della grafia dell'artista, dai disegni che in Italia avevano già destato interesse fin dal tempo del Vasari e del Baldinucci, sebbene con scarsa sistematicità e critica. Negli studi critici del Rumohr i disegni non vengono ancora presi in considerazione; questo fu fatto solo dopo di lui. Il Morelli aveva saggiamente limitato il campo delle sue ricerche alla sfera che più gli si confaceva, a quella della pittura del '400 e dell'«età d'oro», dove precisamente fluiva più ricca e più limpida la corrente degli immediati documenti degli artisti; questo scrittore fine e tanto colto era ben consapevole, che l'applicazione di questi metodi ad epoche anteriori o posteriori, oppure alla plastica, che va considerata partendo da tutt'altri presupposti, sarebbe stata possibile solo ponendosi da un particolare preciso punto di vista, non ancora formulato. Il Morelli non considerò mai il suo «metodo», come a volte grossolanamente si è creduto, un ponte dell'asino per gli inetti; egli era per questo uno spirito troppo fine ed elevato, ben al di sopra della media dei cultori dell'arte del suo tempo, e, soprattutto, era fornito di una perizia basata su una profonda conoscenza dello spirito del popolo italiano: egli vedeva sorgere le forme del linguaggio artistico dal popolo e dal paesaggio delle regioni della sua multiforme patria, al modo di un « attento studioso di dialetti », così disse una volta il Wickhoff. Egli però era l'uomo, che doveva e voleva pagare lo scotto al positivismo dei suo tempo: nella tendenza ad oggettivare il giudizio soggettivo dell'intenditore, a renderlo trasmissibile ed insegnabile, naturalmente a chi ne avesse l'attitudine e la preparazione. Il Morelli col suo carattere vivo e sarcastico esercitando l'azione di una «frusta letteraria» o di un «vespaio stuzzicato» - per adoperare due celebri titoli di opere letterarie italiane suscitò molti avversari, sopratutto nella Germania settentrionale, dove gli si fece incontro Bode, coraggioso campione, pur non combattente con armi uguali. Che Vienna, con la sua Albertina e la sua « scuola viennese » dell'Università, sia stata il primo (e quasi unico) luogo dove egli trovò incondizionato consenso e séguito, ha le sue buone ragioni. Moritz Thausing, come sappiamo, abbracciò qui per primo la sua causa ed indirizzò al Morelli il suo scolaro Wickhoff, uscito pure dall'Istituto, al quale anzi lasciò questo legato spirituale; egli, Moritz Thausing, che aveva già tanto ben riconosciuta l'impronta positivistica naturalistica nel metodo del Morelli, e che lo aveva proclamato pubblicamente per il primo, nella dedica sunnominata dei « Kunstbriefe ». Infatti il Wickhoff anche in quel già citato catalogo ragionato dei disegni italiani dell'Albertina, inconcepibile senza il precedente del Morelli, pensò con pietà filiale al suo maestro Thausing che il giorno antecedente la sua morte improvvisa (12 agosto 1880), quasi presentendola, gli aveva scritto che avrebbe lasciato nelle sue giovani mani il catalogo dell'Albertina, sognato come conclusione dei suoi studi. Nell'intelligente introduzione, che val veramente la pena di leggere, a quel catalogo, prima opera del genere, che si basa sul metodo del Morelli, il Wickhoff espone, come precisamente a Vienna fosse preparato il terreno per studi di tale sorte, terreno, la cui presenza ci viene documentata del resto ancor oggi non foss'altro dall'esistenza dell'unico periodico veramente internazionale, Graphische Künste, fondato fin dal 1879, dedicato all'arte antica e nuova nel campo della grafica nel senso più lato. A Vienna vi erano già da un pezzo soprattutto due grandi raccolte di altissimo valore: la raccolta di stampe dei Principe Eugenio di Savoia, pervenuta poi alla Hofbibliothek con la sua meravigliosa libreria, e la raccolta dei disegni e fogli grafici dei genero dell'imperatrice Maria Theresa, il duca Alberto di Sachsen-Teschen, vale a dire la celebre Albertina del Thausing. A questa venne incorporata parte delle collezioni di un originale della vecchia Vienna, del belga Principe di Ligne (descritta da J. A. Bartsch-Wien, 1794), come pure la collezione del Conte Fries, quel protettore di J. D. Bóhm, del quale già parlammo. La prima era stata un tempo ordinata dal noto intenditore raccoglitore e scrittore d'arte J. P. Mariette (morto nel 1775), sulle ricerche del quale si fonda quel manuale ancora oggi in uso ed insuperato, il Peintre-graveur, dell'incisore viennese Adam Bartsch (uscito a Vienna, 1803-1821). Contemporaneamente vennero rinforzi dalla Svizzera. Joh. Rudolf Fuessli (1737-18o6), discendente dalla grande famiglia di pittori e letterati zurighesi, si era stabilito da ultimo a Vienna in qualità di archivista della « Kunstakademie », dove già suo padre, Jo. Kaspar, l'amico del Winckelmann e dei Mengs, aveva studiato. A J. Rudolf era stata affidata a Vienna la formazione del Gabinetto di stampe e della biblioteca dell'« Akademie der bildenden Künste »; egli pubblicò quivi dal 1798 al 1806 i primi quattro volumi di un indice critico delle stampe dei principali maestri di tutte le scuole. Si riferiscono immediatamente all'Austria i suoi Annalen der bildenden Künste fúr die österreichischen Staaten dei quali però non uscirono che due annate. Ma Vienna aveva ereditato dal Mariette la convinzione scientificamente ben fondata, che lo studio delle stampe, le quali tanto contribuiscono a mediare la conoscenza di opere di pittori di tempi anteriori, dovesse basarsi sullo studio accurato dei disegni preparatori, che trasmettono più direttamente la grafia dell'artista. Questa opinione gli sopravvisse a Vienna dove si possiede, ancor oggi, una delle più ricche e preziose raccolte di questa specie, che può stare accanto a quella medicea degli Uffizi a Firenze, ordinata ed amata a suo tempo dal Baldinucci, ed a quelle di Parigi e di Londra. Era naturale che G. Morelli trovasse nell'Albertina e presso il suo direttore d'allora, il Thausing, quell'atmosfera di studio, che lo attrasse ed animò; la sua azione, esercitata attraverso la Lützowsche Zeitschrift, e la sua celebrità ebbero inizio veramente nella nostra città. Infatti il Wickhoff fu quegli che accettando il legato del Thausing, come dicemmo, divenne l'apostolo scientifico del Morelli, usando per il primo il suo metodo nell'insegnamento accademico ed indirizzandovi in particolar modo il suo allievo H. Dollmayr, altro della nostra «scuola» morto troppo giovane, come lo dimostra, oltre alle prime sue opere già nominate, pure il suo lavoro di riordinamento della nostra pinacoteca (1892). Il Dollmayr che aveva pure preso parte ai corsi dell'Istituto, ciò che merita d'essere particolarmente notato, aveva, libero docente fin dal 1897, interpretato nelle esercitazioni di seminario brani scelti nell'opera del Morelli, allora già defunto. Il Wickhoff stesso salutò con grande calore il sorgere dell'insigne critico d'origine americana, stabilitosi in Italia, di Bernardo Berenson, il quale, partendo anch'egli dal Morelli e come questo non «professionista», ne formulò più rigidamente e ne approfondì concettualmente il metodo e trattò dei disegni degli artisti fiorentini, raccogliendoli nel monumentale Corpus del 1903. Ma il Berenson sentì il desiderio, manifestato in molti scritti posteriori, di salire dalla inevitabile «filologia dei testi», necessaria come base, dalla critica «inferiore», alla «superiore», vera critica d'arte, dall'« individualità » dell'artista alla sua « personalità » - ciò che non è la stessa cosa -, dalla forma di linguaggio « esteriore » a quella « interiore ». Su questa via non lo poteva e non lo voleva seguire il Wickhoff, data la sua provenienza e la sua disposizione spirituale positivistica; egli ebbe paura dell'apparente ricaduta nel modo di conoscere preoggettivistico, nella soggettività; e questo suo timore, ispiratogli dalla sua posizione già molto aspramente combattuta, era, spesse volte, ben giustificato sopratutto di fronte agli epigoni. Anche il suo allievo Dvorák manifestò, molto più profondamente però, simili preoccupazioni di fronte ad una delle migliori monografie, fra le pochissime di «storia dell'arte» in senso proprio che possediamo, di fronte alla biografia di Giotto di J. Rintelen, della quale tuttavia non disconobbe il valore; quest'uomo intelligente, cresciuto alla scuola strettamente storica del Sickel, sebbene non sia stato suo allievo diretto, pronunciò una parola assai significativa a proposito dell'«applicazione del metodo Morelli» alla «struttura intima dell'opera d'arte ». Non ci dovrà essere imputato a mancanza di pietà verso il Wickhoff se qui indichiamo il limite delle sue doti (condizionato innanzi tutto già dalla stia situazione storica); egli era essenzialmente una mente afilosofica, anzi antifilosofica, aveva nel sangue una reazione contro le chiacchiere estetiche divenute al tutto inconsistenti, contro tutta l'estetica puramente formalistica, «estetica da ciabattino», come soleva volentieri chiamarla con un'espressione ironica sgorgante dal suo più intimo, in fondo però contro tutta l'«estetica» in generale. Egli vide ancora il grande avvenimento del principio del secolo XX, l'Estetica come scienza della linguistica generale del Croce, uscita nel 1903, che preparò la via alla mia ormai pluridecennale amicizia spirituale col grande italiano meridionale, con quest'uomo insigne, il quale, partendo dalla grande concezione filosofica del romanticismo tedesco (conforme del resto alla tradizione della sua terra, Napoli), aprì una strada completamente nuova alla conoscenza speculativa e storica dell'arte, facendo di essa il primo membro della sua Filosofia dello spirito. Il Wickhoff stesso fece posto nelle sue Kunstgeschichtliche Anzeigen del 1906 ad una recensione della traduzione tedesca dell'Estetica; essa proviene da un suo scolaro assai dotato, indirizzatosi poi più tardi ad altre mete, Robert Eisler; mi è parso sempre ch'essa fosse oltremodo cavillosa e sconoscesse la vera e propria quintessenza di quest'opera poderosa, dallo stesso Croce poi in seguito sempre rimodellata e perfezionata. Ricordo bene come ripetutamente parlai col Wickhoff di tale argomento. Egli riconosceva senz'altro il valore della parte storica, ma riuscì altrettanto poco a comprendere che questa fosse il complemento della parte teorica, quanto la nuova concezione che non s'allontana dall'opera d'arte in sé e la concepisce come un tutto, concezione che un intero mondo separa da ciò che egli aveva inteso come «estetica». Dobbiamo però tornare di nuovo al Morelli. Ciò che del suo metodo aveva tanto attratto il Wickhoff non era già il punto di vista « naturalistico», a lui tanto affine e già affermato dal Thausing, bensì, soprattutto, il suo nesso con l'esatta concezione filologico-storica, ch'egli aveva accolta in sé passando attraverso la scuola del Sickel. E con questo giungiamo ad un momento decisivo, in tutto il senso della parola, per il Wickhoff e la scuola viennese derivante da lui: alla sua provenienza cioè da quel grande studioso che il Wickhoff (accanto al grande archeologo Conze che dovremo ancora ricordare) considerò tutta la vita come suo maestro: da Teodoro v. Sickel. Non va senza una punta d'umorismo, del resto ben in armonia col carattere ironico del Wickhoff, il fatto che siano stati proprio due tedeschi del nord coloro i quali abbiano agito sullo sviluppo spirituale di questo austriaco puro, le di cui simpatie (malgrado la sua ammirazione per Bismarck), come la sua persona, varcavano mal volentieri e diffidenti la linea del Meno; ma il destino volle che la disciplina da lui scelta, come fu già ripetuto più sopra, dovesse venir instaurata essenzialmente nella Germania settentrionale. TH. v. SICKEL Il Sickel (nato nel 1826 ad Aken nella Prussia sassone, morì, proprio un anno prima del suo discepolo, a Merano nel 19o8) aveva accolto in sé come allievo della celebre École des Chartes di Parigi, la tradizione, fiorente fin dal XVII secolo, della diplomatica francese. Dalla metà del '50 in poi, svolse la sua attività a Vienna nella fondazione di A. Jäger: l'Institut für Geschichtsforschung, del quale fu direttore dal 1869 fino a quando assunse la direzione dell'Istituto austriaco a Roma, da lui stesso fondato nel 1901. Già ripetutamente accennammo alla sua riforma dell'insegnamento viennese, nel cui programma, con vasta veduta, introdusse la storia dell'arte, che ebbe a suo primo maestro all'Istituto precisamente il Thausing. Anche all'Istituto romano si erano istituite borse di studio per cultori di storia dell'arte, i quali andavano ad aumentare quella vecchia colonia di artisti tedeschi, che fin dai tempi di J. D. Böhm stavano di casa a Palazzo Venezia. La generazione passata della scuola viennese poté fruire, fino allo scoppio della guerra, di queste borse di studio romane; del lavoro nel campo delle fonti e degli archivi, che quivi andò compiendosi per la storia dell'arte, discorreremo più innanzi. Il Sickel, con la sua riforma dell'encomiabile programma dell'« archivistica » francese, liberò le cosidette «scienze ausiliarie» della storia, la paleografia, la cronologia, la diplomatica, dalla loro posizione servile, rendendole autonome, elevandole alla sfera di ciò che oggi, sebbene in fondo tautologicamente, vien chiamata «storia dello spirito». Chi, come l'autore di queste righe, ebbe la fortuna, fra gli ultimi suoi scolari diretti, di ascoltare le sue lezioni, ricorderà la grande impressione prodotta dall'esposizione dei Sickel, che vivificava e penetrava di luce spirituale una materia apparentemente così arida. La sua diplomatica del tempo imperiale era per sé un'opera d'arte architettonica, ma anche la scienza dei documenti papali, meno intimamente organica, che vi si riconnetteva, apriva le più sorprendenti prospettive nel campo della « storia della cultura ». Per lo storico dell'arte c'era qui infinitamente da imparare; il Sickel era ben consapevole del perché avesse accolto la storia dell'arte nel suo programma, non quale mera appendice, bensì come materia indipendente, obbligatoria per lo storico. Essa doveva restituire con interessi, quanto aveva imparato dal severo metodo storico-filologico. Particolarmente la paleografia latina, come dottrina dello sviluppo della scrittura nel medioevo, era vicina, in quanto rivolta allo studio delle forme grafiche, alla storia dell'arte e si manifestò poi utilissima scuola preparatoria all'osservazione formale; quanto figura e scrittura siano strettamente unite e come nel medioevo, al quale il Sickel si era dedicato quasi esclusivamente, il loro sviluppo si sia svolto per lunghi tratti quasi parallelo, non occorre venga nuovamente ribadito. Ma qui affiora anche il momento stilistico (individuale). Infatti la riforma dell'antica diplomatica, per opera del Sickel, tendeva a fornire un solido fondamento alla trattazione storica, grazie alla discussione strettamente sistematica ed esauriente di quei problemi fondamentali, che già avevano occupati i precursori dell'Ècole des chartes, quei dotti benedettini delle scuole di St. Denis e di St. Maur; problemi cioè intorno all'«autenticità» e «originalità» dei documenti, - due concetti che non sempre coincidono, come alle volte può sembrare -sui quali solo può basarsi tutto il lavoro dello storico sintetico, per giungere ad una precisione, che può rassomigliare al metodo delle scienze naturalistiche (a priori ben altrimenti condizionate). Qui la paleografia fornisce solide basi: l'osservazione delle caratteristiche calligrafiche dei singoli scrivani, al di là dal generale linguaggio delle forme del loro tempo, dal quale essi stessi dipendono; poi, nella diplomatica in senso proprio, che qui si inizia, la struttura delle cancellerie, dei loro usi ed organizzazioni, che riceve luce particolare dalla formula e dal documento propriamente medioevali dei «Similia», tanto importanti anche per la storia dell'arte. Solo apparentemente può sembrare questo, lavoro da poco o da «sterratore »: si tratta della spina dorsale di qualsiasi vera ricerca storica che arrischia, senza questa dura preparazione, piena di sacrificio, di cadere facilmente nel dilettantismo; il pensiero ricorre alla figura, quasi sempre dagli attori grossolanamente fraintesa, del «famulus » Wagner che mirabilmente il Goethe pose accanto al Faust in tutta la sua poesia di pedante solo in apparenza. Naturalmente egli da nulla fu tanto lontano quanto dal voler denigrare il vero grande studioso, anche se questi, nella sua strana limitatezza spirituale della vita quotidiana, possa apparire, a volte, effettivamente sotto i tratti di Wagner. Il Wickhoff accolse, come membro dell'Istituto, l'insegnamento impartitogli dal Sickel negli anni dal 1877 al 1879 in tale guisa, da riconoscere in lui, come già dicemmo, il suo maestro; egli divenne poi il successore del Thausing al «laboratorio di storia dell'arte» dell'Istituto, come si chiamava ancora allora tale cattedra. Come poi egli da questo sia giunto al Morelli, facendosene banditore nell'ambiente accademico, vien chiaro dal fatto che egli, come in un certo senso pure il suo predecessore, era stato ben predisposto dal metodo diplomatico del Sickel; anche qui si trattava della distinzione di autentico e non autentico, di originale, copia e falsificazione, distinzione fondata sull'osservazione esatta, quasi sperimentale, dei piccoli, minimi tratti caratteristici esteriori. Ma al di là di ciò, si trattava della comprensione dell'essenza di ogni vera storia e dei suoi fondamenti in generale. La parola indirizzata dal venerando maestro, in occasione del suo giubileo, al suo scolaro d'allora, egli confidava cioè che questi «non sarebbe mai venuto a patti col dilettantismo », era rimasta profondamente impressa nell'animo del Wickhoff; il quale nel suo discorso sul Sickel, in occasione del suo 80° compleanno, definì questa parola « il nucleo del carattere esemplare del Sickel ». Essa rimase fino ad oggi il motto della « scuola viennese »; ed il Wickhoff sapeva assai bene perché tanto insistesse coi suoi scolari sull'importanza del formarsi all'Istituto storico. Partendo da questa disposizione spirituale, fondò nel 1904, aiutato da una schiera di ottimi collaboratori, la maggior parte studenti, le Kunsthistorische Anzeigen, continuate, dopo la sua morte, dal Dvorák fino al 1914, come periodico complementare alle Mitteilungen der ósterreichischen Instituts - altro fatto assai sintomatico. Nell'introduzione al primo fascicolo espresse in modo chiaro e conciso quali fossero gli scopi di tale pubblicazione: « sceverare nelle cronache letterarie il grano dalla pula », l'« autentico » dal non-autentico, secondo il metodo Sickel-Morelli. «Ché questo non lo si è fino ad ora fatto, si può vedere dovunque come la storia dell'arte, malgrado le sue molte produzioni scientifiche, non venga pienamente riconosciuta dalla classe erudita e dai colleghi delle sfere ad essa affini, della storia e della linguistica. Bisogna convenire che questo accade non senza ragione, poiché in poche discipline come nella storia dell'arte è ancor possibile l'acquistar impunemente credito con le più dilungate verbosità e con le più patenti sciocchezze, e che vengano pubblicate e sopportate opere le quali dovrebbero essere considerate offesa ad ogni principio del metodo scientifico ». Queste sono parole che hanno valore ancor oggi, dopo trent'anni, anzi forse più ora che allora. Chi ha conosciuto il temperamento del Wickhoff sa come, in questa nuova « frusta letteraria », egli non abbia proceduto precisamente con freddezza accademica e calma olimpica; non è difficile immaginarsi che cosa avrebbe avuto ancora da dire quest'uomo prezioso dei fenomeni apparsi nel dopoguerra e all'epoca dell'inflazione! Questa profonda sensibilità per l'autentico ed il vero anche nelle scienze, la ripugnanza dinanzi alla faciloneria, all'approssimativo, al falso, condussero il Wickhoff all'archeologia classica, che ebbe ed ha così solidi appoggi nella filologia classica e nei suoi metodi raffinati dai secoli, tanto da escludere, quasi completamente, eccessi simili a quelli della disciplina a lei sorella minore e, perciò, meno formata, che pare, a volte, appena appena uscita dall'infanzia: i « guastamestieri » qui non hanno niente da dire. Il Wickhoff ebbe la fortuna di poter avvicinare uno dei più insigni archeologi, dalla vasta visione che andava al di là del campo ristretto della propria disciplina ed abbracciava tutta intera l'evoluzione artistica, vero rappresentante della storia dell'arte della classicità, non più intesa prevalentemente come antiquaria, guida e fondatore, col geniale Heinrich Brunn dell'«Archeologia» moderna, rivolta alla critica dello stile. In Alessandro Conze (nato ad Hannover nel 1831 e morto a Berlino nel 1914), che occupò la cattedra di Vienna dal 1869 al 1877, trovò il Wickhoff il suo secondo vero maestro, come ripeteva spesso e volentieri, sia nelle lezioni, sia privatamente quando io era ancora suo scolaro. Gli successe quindi Otto Benndorf (morto nel 1907), pure ottimo maestro, pieno di vita, al quale penso sempre con profonda riconoscenza: fu ancora il Wickhoff ad introdurmi nella sua casa, larga di ospitalità e di incitamenti spirituali. E con ciò si stabilì quella trinità dell'insegnamento della teoria dell'arte in unione con l'archeologia classica e le «scienze ausiliarie» storiche, che determinò il programma di studi della generazione passata degli scolari del Wickhoff, quasi tutti allievi dell'Istituto austriaco, e che cercai di ristabilire quando dovetti accettare la successione alla cattedra del Wickhoff. Mi si permetta qui di nuovo una breve parentesi. Essa riguarda ancora una volta Vienna, la quale, in materia di archeologia classica, ebbe un'importanza speciale, risalente ai tempi del grande Asburgo, Leopoldo I. Qui rese servigi notevoli, come prefetto della Hofbibliothek (1663) un uomo come l'amburghese Pietro Lambecius (morto nel 1680), ed ebbe un posto di prim'ordine nella storia delle collezioni imperiali lo svedese, di schiatta mecklemburghese, Karl Gustav Heracus (nato nel 1671), sotto gli imperatori Giuseppe I e Carlo VI. Egli si dedicò sopratutto alla numismatica, a quella «scienza ausiliaria» dell'archeologia, tanto assiduamente curata dal XVIII secolo in poi e tanto utile per la storia antica della cultura e dell'arte. Il nome dell'Heraeus è inoltre legato al primo tentativo di una storia dell'architettura illustrata, fatto in Austria nel 1723, con l'Entwurf einer historischen Architektur del Fischer von Erlach. Ma, l'Heraeus, l'amico del grande Leibniz, che aveva con questo collaborato al progetto di fondazione di un'Accademia imperiale delle scienze, si occupò pure parecchio del progetto già esistente di una riunione di tutto il patrimonio artistico asburghese nella capitale, il che si effettuò solo più tardi sotto il regno dell'imperatore Francesco Giuseppe I. Ma ciò che fin d'allora fu possibile ottenere, fu dì riunire tutto il fondo di oggetti d'arte classica ed innanzi tutto di monete. Durante il regno del lorenese Francesco I, egli stesso appassionato numismatico, furono chiamati a Vienna numerosi emeriti eruditi di provenienza francese, stabilendosi così, fin d'allora, quei rapporti con l'archeologia francese di cui già trattammo sovente. Non bisogna neppure dimenticare che la seconda rielaborazione della Geschichte der Kunst del Winckelmann (assassinato e sepolto in terra austriaca a Trieste nel 1768) uscì a Vienna nel 1771 riccamente illustrata, a spese dell'Accademia d'arte, ma pubblicata con una certa qual negligenza dall'editore Justus Riedel, non certo secondo l'intenzione del grande tedesco-romano, che, fin dalla gioventù, aveva, com'è noto, battuta la via di una severa critica dei testi e della diplomatica dell'epoca imperiale. In questo tempo sorse quei famosissimo «K.K. Münz- und Antikenkabinett» viennese, nel qual fummo già introdotti dal più giovane membro della cerchia del Böhm, da Eduard von Sacken, e nei venerandi locali dei quale l'autore di queste righe cominciò (come numismatico) la sua carriera nei musei. Qui svolse la sua attività l'abate Joseph Hilarius von Eckhel (1737-1798), nativo di Vienna e membro di quella dottissima Compagnia di Gesù che occupa un posto tanto importante nella storia spirituale dei XVIII secolo, vero iniziatore della numismatica scientifica con la sua opera classica fondamentale, la Doctrina nummorum veterum (1792-98 in 8 volumi in-quarto). I Prolegomena a questa, divenuti poi celebri, contengono l'esposizione del suo sistema come «ars critica nummaria», dove in ogni riga si rivela il fine libero spirito di quell'uomo che fu, inoltre, dal 1775 in poi, professore di «antichità e scienze ausiliari storiche» all' Università, anticipando dunque già quell'unione fra Università e museo, diventata poi tanto feconda. Il sistema critico di questi Prolegomena parte necessariamente dalla sottile distinzione «autentico e non-autentico», originale-copia-falsificazione; è quel problema che il Wickhoff, derivandolo dal Sickel e dal Morelli, portò in primo piano e che mostra, di bel nuovo, come le sue vecchie e profonde radici siano fitte nella terra viennese. Allorquando nel 1892 pronunciai la mia prolusione come libero docente, sul significato delle fonti nella storia dell'arte moderna, essendo ancora impiegato alla collezione dedicata al nome di Echel, presi chiaramente come punto di partenza la scala dei valori della numismatica antica. Ritornando però al Wickhoff, bisogna insistere sul fatto, ch'egli rimase tutta la sua vita legato all'archeologia classica. Come studente prese viva parte alle esercitazioni del seminario archeologico-epigrafico fondato dal Conze in unione col noto storico Hirschfeld e fu poi, fino alla fine, frequentatore assiduo di quel circolo filologico che sotto il nome di «Eranos Vindobonensis» si riunisce ancora nelle sue vecchie stanze, prendendo egli stesso parte alle discussioni, tenendovi conferenze. Era un ambiente di studiosi ai quali egli si sentiva intimamente legato, e nel quale si sentiva a suo agio meglio che in qualsiasi altro; quivi trovò pure amici che conservò tutta la vita: O. Benndorf, anche se più tardi gli si allontanò, Th. e H. v. Gomperz, Em. Loewy che svolse poi la sua attività a Roma, E. Szanto, morto precocemente e a lui legato d'amicizia, e, primo fra tutti, Robert v. Schneider a lui particolarmente caro, scomparso solo pochi mesi dopo di lui, direttore della « Kaiserliche Antikensammlung» e dell'«Archáologisches Institut », suo collega all'Università ed all'Accademia, mente fine ed universale, oggi difficilmente apprezzabile attraverso i suoi pochi scritti per chi non l'abbia avvicinato, ed al quale io pure professo riconoscenza per gli aiuti ed incoraggiamenti da lui ricevuti, allorquando, io, giovane matricolino, entrai nel museo. Già fu detto come i primi lavori del Wickhoff riguardino il rinascimento italiano e tedesco ed il loro rapporto con la classicità. Di fatto sono questi i due campi che al suo spirito, affine a quello di J. Burckhardt, rimasero sempre i più vicini. Ed invero pure il suo capolavoro resta nel campo dell'arte antica; vogliamo parlare di quell'opera, della Wiener Genesis, pubblicata in collaborazione col filologo W. v. Hartel in un bel volume staccato degli Annali del Museo ex Imperiale, dove, sotto un titolo modesto, come si sa da un pezzo, si nasconde niente di meno che la prima storia dell'arte romana, di quel campo tanto trascurato, che ha un posto essenziale non solo in senso cronologico, ma come espressione dello spirito artistico d'occidente, fra l'archeologia e la storia «moderna ». Dopo il Wickhoff fu lasciata ancora molte volte in disparte; nella prima edizione del 1910 della bellissima Einleitung in die Alterumswissenschaft del Geerke e Noerden, Franz Winter trattò dell'arte greca, ma la romana manca completamente. La Genesis al suo apparire fu, a volte, non capita, anzi aspramente criticata, ed è meritata giustizia postuma se il nome del Wickhoff nell'ultima e contemporanea generazione di archeologi, che si dedica con ardore alla rielaborazione del materiale romano dal punto di vista della storia dell'arte, brilla ora di nuova luce. Quest'opera, che prima d'ogni altra mantiene viva l'azione del Wickhoff nella storia della disciplina, ha, inoltre un particolare valore, perché, non sorta solo da «fredda» erudizione, è stata vissuta nella vita artistica del suo tempo. Il Wickhoff aveva accolto in sé l'«impressionismo», come correlativo del positivismo della seconda metà del secolo, e lo ritrovò nella classicità romana come «ricorso». Ciò era possibile soltanto ad uno spirito dotato di sensibilità artistica ed artisticamente educato come il suo: fra tutti i suoi scolari gli era, anche per questo, più caro Herm. Dollmayr, eccellente disegnatore ed acquarellista. Il Wickhoff si diede anche, più tardi, alla pittura, naturalmente non pel pubblico, riuscendo però a produrre cose di molto buone, non solo tecnicamente, ma pure, sopratutto, artisticamente, come lo dimostra ciò che ci lasciò e che io disposi con pietà filiale nel nostro Istituto; questo è l'altro aspetto di quella sensibilità artistica, che gli permise di riscaldarsi al sole della sua vita, il Goethe, la cui « Pandora » egli portò a termine senza, del resto, pretesa alcuna; noi, suoi intimi amici, potemmo pubblicare in modo degno quest'operetta, nell'anno (1932) del giubileo dei Goethe, nella stessa città dove la « Pandora » vide per la prima volta la luce. La figura del Wickhoff sarebbe incompleta se gli mancasse uno dei tratti suoi più caratteristici, il suo modo cioè di trattare il materiale nell'arte, ciò che vien designato con il nome di « iconografia », nome preso dall'archeologia classica dove però significa tutt'altra cosa. Anche qui i fili si possono riannodare alla « preistoria » della nostra scuola viennese, all'azione in questo campo tanto meritevole di G. A. Heider. Ma il Wickhoff non era più indirizzato verso la sola antiquaria, bensì piuttosto verso la storia universale. Corrispondeva al suo essere intimo il fatto di aver scritto un articolo denso di pensiero Über die historische Einheitlichkeit der gesammten Kunstentwicklung per la pubblicazione del 1898 in onore dell'ultimo vecchio «storico universale» della nostra Alma Mater, di M. Büdinger, superato dai tempi e troppo ingiustamente maltrattato. Nelle esercitazioni dì seminario del Wickhoff lo studio iconografico, come mezzo didattico ausiliario, fu sempre in primo piano: noi, suoi allievi, dovevamo venir avviati come inizio più naturale di studio, ad impratichirci del materiale e allo studio comparativo di esso, parallelamente all'interpretazione dei testi. Ma a lui non si sarebbe potuto presentare un tema di laurea di tale specie, buono per seminario, pur essendo quella l'epoca in cui pane quotidiano della storia dell'arte erano le più piatte tesi di laurea, prive di qualsiasi genialità, su temi particolari, arbitrariamente isolati dal mondo delle immagini chiesastiche o profane, e redatte il più delle volte nel peggiore dei gerghi da seminario. Egli pretendeva una visione indipendente, non accolta dall'esterno, nel limite del possibile, la soluzione di un vero problema di storia dell'arte: principio fondamentale questo, al quale, seguendo il suo esempio, io mi attenni fedelmente fino ad oggi. E qui giungiamo ad un tratto assai caratteristico dell'indole del Wickhoff, a cui già accennammo brevemente. Egli, che tendeva, grazie al suo occhio artistico ed al metodo Sickel-Morelli, all'analisi della forma individuale, provava un'avversione quasi fanatica per la contemplazione artistica puramente formale e per le sue astrazioni; rifiutò diffidente la «grammatica storica» delle forme (si è ormai da lungo tempo capito che questo modo di concepire il problema della storia del linguaggio non era che un falso problema). Anche il Riegl passò senza vederlo dinnanzi a questo scoglio; e che questo metodo potesse sperare successo soltanto se trattato da una mente geniale come quella di H. Wölfflin. B. Croce lo sottomise più tardi ad una critica giustissima, ma assai aspra - lo si capì subito, non appena esso cadde nelle mani di imitatori o, peggio ancora, venne applicato alla storia della poesia. Non bisogna dimenticare che la gioventù del Wickhoff coincise col periodo, fra il '60 ed il '70, della lotta più accanita fra estetica del contenuto ed estetica della forma, combattuta fra l'hegeliano F. Th. v. Vischer, il di cui System der Ästhetik venne compiuto nel 1857, e l'herbartiano Rob. v. Zimmermann (morto nel 1898), la di cui Allgemeine Ästhetik als Formwissenschatf uscì nel 1865 a Vienna (dove egli occupava fin dal 1861 la cattedra di filosofia). Il Wickhoff non ebbe, come in generale con la speculazione filosofica, che un rapporto al tutto esteriore con quest'ultimo, che fu suo esaminatore (come anche dei più vecchi fra noi) ed, infine, collega all'Università; egli però, aperto qual era alla vita ed a tutto quanto lo circondava, doveva venir penetrato, in certa guisa, da questo fluido. Nel 1854 apparve un libriccino sul bello musicale: Vom Musikalisch Schönen. Ein Beitrag zur Revision der Ästhetik der Tonkunst, divenuto ben presto popolarissimo, continuamente ristampato e tradotto in tutte le lingue possibili, di Eduard Hanslick, quasi coetaneo del suo compatriota di Praga, Zimmermann, di formazione originale, che può, in certo modo e solo esteriormente, venir messo in rapporto con la dottrina dello Herbart; del resto, tutt'altro che privo d'intelligenza, esercitò, precisamente in questo campo, un'opera purificatrice con la sua reazione contro le chiacchiere pseudo-estetiche. Pure lo Hanslick, che morì appena nel 1904, fu professore di storia della musica (dal 1861), quindi fino al 1895 collega del Wickhoff; dubito però, che questi abbia letto quello scritterello, tanto più che il critico musicale della Neue Freie Presse, tanto letto ed influente, era il più insofferente dei «critici» di Riccardo Wagner, e ciò doveva ferire la sensibilità del Wickhoff in quella sua venerazione per la casa Wahnfried e, soprattutto, per Donna Cosima, che durò tutta la vita. Ciò che lo aveva tanto attratto, lui «amusicale» - una rarità nella nostra Vienna che sì potrebbe dire «ultramusicale» -, fin dalla prima gioventù, non era sicuramente stata in prima linea la lingua musicale dei grandi drammi, ma piuttosto il loro contenuto poetico e sopratutto nazionale. Era quindi pienamente giustificata la pretesa, che sgorgava dall'intimo del Wickhoff, di esigere, da parte dei suoi allievi, che l'elemento materiale dell'opera figurativa non dovesse venir trascurato unilateralmente a favore del formale: si doveva sapere ciò che qui, e specialmente nei tempi andati, il cui spirito è per noi a volte difficilmente accessibile, veniva «rappresentato». Proprio in quella direzione aveva già reso molti servigi la precedente «generazione di archeologi», già dall'Heider fino ad A. Springer, insorgendo contro certe interpretazioni mistico-romantiche campate per aria, con scrupolosa coscienza filologica. Si arrischia altrimenti di giungere fino al punto di quegli intenditori» europei, i quali credono di poter comprendere l'arte dell'Estremo Oriente da un punto di vista puramente formale, senza avere la benché minima nozione del rappresentato: ciò che gli intenditori d'arte giapponesi hanno più di una volta assai sarcasticamente criticato. Non è un ricollocarsi dal punto di vista della vecchia «pittura anedottica» e della storica «Theater-Meiningerei» dei beati tempi delle corporazioni artistiche, ciò che determinò il Wickhoff a prendere così decisamente posizione, con la sua satira pungente, contro quella particolare vaporosa nebulosità prediletta ai tedeschi e non ai francesi e, soprattutto, non agli inglesi; specialmente poi contro il Böcklin, che non gli piaceva, per quanto, anche qui, nella sua violenza, abbia alle volte oltrepassato il segno. Ma ciò che egli, richiamandosi a vecchi anedotti di pittori, chiamò «estetica da ciabattino» - di cui già parlammo - il rimanere attaccati alla «crepida», poteva e doveva portarlo, per difendere questa sua posizione, a eccessi d'ira sovente grotteschi. Ciò che il Wickhoff esigeva - ed in questo si avvicina al Burckhardt, col quale non ebbe dei resto molti punti di contatto - era precisamente, che si prendesse in considerazione quell'atmosfera storico-culturale o, come si suole oggi dire più volentieri per tema di rovinarsi la reputazione, «storico-spirituale », dalla quale nasce l'opera d'arte e nella quale essa vive e respira. Quindi il Wickhoff, che viveva circondato da una magnifica biblioteca nella sua solitudine dì scapolo, fu sempre lettore e conoscitore appassionato della letteratura, alle cui fonti amava risalire; - ricordo bene come egli abbia intrapreso persino lo studio dell'ebraico per scrivere la sua Genesis -; possedeva una cultura universale, che tanto lo univa alla storia dell'arte antica, quanto, a volte, lo allontanava dai colleghi di Università e di «mestiere» a lui contemporanei: per lui il respirare l'atmosfera letteraria e spirituale, nella quale vissero i mecenati degli artisti e gli artisti stessi, era cosa naturale. Così nacquero quei numerosi articoli ed opuscoli, particolarmente sul rinascimento italiano da lui prediletto, che formano una gran parte, e fra le più preziose, della sua opera non vastissima ed uscirono nel Jahrbuch der Preussischen Kunstsammlungen (1890-1906). Fra i più belli ed i più fini troviamo il saggio sulla figura dell'Amore nella fantasia del medioevo italiano, come pure quello sulla biblioteca di Giulio II e l'altro sul Giorgione. I suoi Seminarstudien úber einige Zeichnungen Rembrandts mit biblischen Vorwürfen, che pubblicò nel 1906 mostrano poi la posizione ed il metodo d'insegnamento del Wickhoff in un campo speciale a lui prima d'allora quasi estraneo; lo vediamo sotto l'aspetto di quell'ottimo conoscitore della Bibbia ch'egli era, qualità non facile ad incontrarsi in un cattolico. Noi, primi scolari del Wickhoff, cercammo di seguirlo su questa via: innanzi a tutti H. Dollmayr, con la sua trattazione non solo esteriormente di molto fondo su Hieronymus Bosch e i quattro elementi nell'arte olandese del XV e XVI secolo; poi Hans Tietze, già da un pezzo ottimo maestro alla nostra Università, con le sue ricerche sulla tipologia dei manoscritti miniati medioevali, che ripartono dal punto dove si fermò lo Heider, sulla Galleria Farnese di Annibale Carracci (1906) ed, infine, sui progetti e bozzetti dei grandi affreschi barocchi (1911), per nominarne solamente alcuni. Citerò ancora i miei studi sull'arte «di corte» nel tardo medioevo. Nella produzione del Wickhoff il vero e proprio medioevo, particolarmente dei paesi nordici, non ha gran parte, ma a lui risale il merito di aver fondato lo studio dell'arte delle miniature tanto importante, che ai suoi tempi - si pensi alle meritevoli ricerche del Janitschek - era ancora insufficiente e pieno di lacune. Quello che lo animò fu il pensiero di un Corpus, quale da tempo aveva dato buoni frutti nel campo dell'antichità e specialmente dell'archeologia classica; basti qui accennare solamente il gran nome del Mommsen ed anche quello del Conze. Così nacque l'opera vasta e coscienziosa: Beschreibendes Verzeichnis der illuminíerden Handschriften in Österreich, sui manoscritti miniati austriaci, il di cui primo volume uscì nel 1905, continuata poi dal Dvorák e, finalmente, fino ad oggi, da me, in collaborazione con l'ottimo amico H. J. Hermann. Quello che fin qui abbiamo osservato sul Wickhoff ci fornisce gli elementi del suo carattere; come poi questi si combinino nel complesso unitario della sua personalità, la più ricca della scuola viennese, che culmina in lui, risulta in parte dal già detto, almeno nei limiti in cui l'« individuum ineffabile » può venire da noi afferrato. Spero si vorrà perdonare al suo scolaro « secondogenito » ancora vivente, che gli fu profondamente legato per un quarto dì secolo, se egli tanto indugiò presso chi gli fu maestro anche oltre gli anni d'insegnamento; il Wickhoff fece stampare il mio libro sui chiostri medioevali (Wien, 1889). Anche oggi mi duole di non averglielo, per puro riserbo, dedicato, come egli doveva aspettarsi, tanto più che nacque e si sviluppò nelle sue esercitazioni sulle fonti e si richiama ad un suo articolo (sui Monasteria bei Agnellus). Dal suo insegnamento d'allora, allorquando gli allievi ancor poco numerosi potevano avere tutt'altri rapporti e molto più intimi col maestro di quel che avvenne più tardi, assimilai quantum satis il meglio, nel limite delle mie possibilità, - come l'esempio citato lo dimostra - e non potrò mai dimenticarlo. Era, sopratutto nei primi anni del suo insegnamento, piuttosto difficile seguire la sua parola, alle volte penosamente stentata, ed afferrare il nucleo sostanziale ch'essa nascondeva, poiché, per quanto il Wickhoff fosse eccellente scrittore, pure il dono oratorio gli era negato. Malgrado ciò, i suoi corsi ci avvincevano e ci davano assai più di quelli di molti veri oratori. Nel suo bel necrologio di Hermann Dollmayr illustrò egli stesso, con evidenza e profondità, il suo metodo d'insegnamento. A. RIEGL Accanto al Wickhoff appare, «per scomparire come una cometa», la figura significativa di uno studioso, nell'essenza, nell'origine e nello sviluppo, al tutto dissimile da lui, ma che, appunto per ciò, sebbene la sua attività accademica non sia durata più di un decennio ed egli non abbia mai avuto la direzione del «laboratorio» d'allora, ha dato alla «scuola viennese» impulsi al tutto nuovi agendo su di essa, in una certa direzione, più fortemente di quello che non fecero il suo vero fondatore o rinnovatore. E' questi Alois Riegl, nato a Linz nel 1858, a poca distanza dal paese natio del Wickhoff, cinque anni dopo questo, e morto, qualche anno prima di lui, precocemente, nel 1905. Il suo sviluppo fu ai suoi inizi, e più tardi, molte volte ostacolato; non seguì una linea retta; si svolse però sempre liberamente dal suo essere. Dopo alcuni anni, durante i quali, spinto dalle ristrette condizioni finanziarie, si era dedicato alla giurisprudenza, decise di volgersi allo studio della filosofia e della storia, rappresentata allora dall'ultimo herbartiano, già mentovato, Robert Zimmermann (morto nel 1898), e dall'ultimo storico di «storia universale», Max Büdinger (nato a Kassel 1828, dal 1871 passato a Vienna, morto nel 1902). Non può destar quindi meraviglia, se il Riegl perdette presto il gusto di tale insegnamento e si volse ad altri ideali. Tuttavia è sintomatica l'inclinazione del giovanissimo studente ai suoi inizi ed acquisterà importanza per tutto l'ulteriore suo sviluppo. Ché, di fatto, il fluido del «realismo» herbartiano, che influenzò ancora per un pezzo la psicologia austriaca di scuola (ed invero, d'altra parte, è anche l'ultimo grande sistema della filosofia classica in Germania), circolò pure nel Riegl, e si darà, nell'ulteriore sua formazione, più di un punto nel quale si farà sentire l'influsso dei formalismo estetico dello Herbart come da ultimo lo rappresentò, abbondantemente diluito, lo Zimmermann. Ancora più sintomatico è il suo volgersi alla polistoria del Büdinger, che, secondo i vecchi metodi, si estendeva dalla storia greco-romana, attraverso il medioevo, giù giù fino alla storia contemporanea. Era un tendere verso la conoscenza dei grandi nessi storici, universalmente concepiti, dall'interno, non dall'esterno, superamento del polistoricismo dell'epoca precedente. Questo, come la sua spiccata autonomia di fronte alla gnoseologia, è, da un lato, tanto caratteristico per il Riegl, quanto, dall'altro, lo separa dall'empiria positivista ed antifilosofica del Wickhoff, più tardi suo collega. E non fu semplice convenienza o pietosa cortesia che indussero quest'uomo sempre retto e sincero a contribuire più tardi, nel 1898, alla pubblicazione in onore del suo maestro d'un tempo, da lui certamente poco apprezzato malgrado non mancasse a volte d'originalità, con un articolo sulla storia dell'arte e la storia universale (come del resto fece pure il Wickhoff). Il Riegl si sottomise poi alla severa scuola storico-filologica del Sickel, seguendo bensì il consiglio di un compagno di studi, ma certo condottovi anche dalla intima persuasione della sua grave e profonda personalità, che aveva continuamente bisogno di impulsi dal di fuori. Fu dal 1881 al 1883 membro dell'Istituto austriaco (ebbe pure una borsa di studio per Roma), tre corsi dopo il Wickhoff, e quivi trovò, anche se da principio furono le circostanze esteriori a risolvere ciò che era già predisposto in lui, la via verso la storia dell'arte, il cui maestro allora all'Istituto era ancora il Thausing (oltre all'Eitelberger); egli fu, col Wickhoff, il più eccellente tra gli allievi di questo degno maestro. Dopo le dimissioni del Wickhoff dall'Österreichisches Museum, gli successe nel celebre reparto dei tessuti (1886), che diresse per circa un decennio (fino al 1897) e dove il suo lavoro scientifico ricevette grande impulso. Infatti quivi il suo spirito sistematico, formato dall'insegnamento del Sickel - di ciò testimoniano già le sue opere sulle illustrazioni medioevali dei calendari (Mitt. des Instituts IX/X) - fiorì liberamente al contatto, per lui fecondissimo, di quell'arte, per dirla col Goethe, «antichissima e stupenda» e delle fonti, qui particolarmente abbondanti, d'ogni produzione artistica originale. La creazione del primo fondatore della nostra «scuola» confermava nuovamente, proprio in questa sezione, la sua antica fama di vivaio per severe e disciplinate ricerche filologico-storiche. Certamente però il Riegl rimase sempre, fin dai primi inizi, l'autodidatta che instancabilmente rimodella se stesso. Sopratutto negli ultimi anni, si fece sempre più solitario, a causa di una crescente sordità, e visse sempre più dì una vita interiore. Quanto liberamente e seriamente egli avesse assunto il nuovo compito lo dimostrano i suoi numerosi articoli sull'arte del tessuto nelle Mitteilungen des Österreichischen Museum, allora diretto dal successore dell'Eitelberger, dal mecklemburghese Jakob v. Falke (1825-1897), che proveniva, come sappiamo, ancora dalla cerchia del Böhm. Nella collezione dei tessuti si dedicò il Riegl a fondo allo studio dei tappeti orientali, ciò che lo occupò in ispecial modo fra gli anni 1890 e 1893 e costituì la preparazione al libro sulle questioni dello stile scritto con vero spirito di storia universale, su cui dovevasi fondare la sua fama e che rimase, in verità, il suo capolavoro; qui ci si presenta già tutto il Riegl, anche nella sua difficile lotta per l'espressione e nella sua faticosa terminologia da lui stesso creata. Da storico universale è la maestria con la quale ci dà in nuce la storia genetica dell'ornato dagli inizi dell'antico Egitto fino all'Islam; decisivo è il modo come egli chiarisce, di fronte alle precedenti concezioni, spesso assolutamente dilettantesche, la posizione della classicità ellenica in Oriente prima e dopo l'Islamismo; tutto questo è tessuto sull'invisibile trama del severo insegnamento paleografico-diplomatico del Sickel. Da qui parte la via che conduce all'esposizione del Riegl della «tarda classicità». Il significato di questo libro mostra quale fu il posto di combattimento preso dal Riegl, sebbene egli stesso si dicesse «positivista», contro la concezione materialistica dell'arte, quale venne esposta nell'opera, che voleva essere di «estetica pratica», veramente notevole ed assai feconda, Der Stil in den technischen und tektonischen Künsten (1861-63) dell'amburghese Gottfried Semper. L'affermazione (già del resto apparsa nel Rumohr e in J. D. Böhm!) che lo «stile» (oggettivo) sia condizionato dal materiale, dalla tecnica e dallo scopo pratico, con tutto ciò che ne deriva di conseguenze pratico-estetiche, trovò un vittorioso avversario nel Riegl, il quale, a quel tanto caratteristico materialismo della seconda metà del secolo XIX, oppose un principio idealistico, preconizzante il secolo XX, derivando dall'ethos nazionale lo «spirito artistico» (Kunstgeist); ciò che poi andò solidificandosi nella sua celebre idea dei «volere l'arte» (Kunstwollen), oggimai già decaduta a formula giornalistica. Il modo con cui questa concezione psicologico-genetica prende il posto della precedente estetico-dogmatica, è tipico per l'ulteriore sviluppo dei Riegl. Ma non bisogna neppure dimenticare, che già molto tempo prima del Semper e del Riegl, l'hegeliano Schnaase aveva energicamente posto in rilievo, contro il concetto di stile del Rumohr, il momento del principio spirituale. Il Riegl, libero docente fin dal 1889 all'Università, straordinario nel 1895, dovette, nominato ordinario ad personam, nel 1897, abbandonare, con grande dolore, il suo vecchio campo di studio nell'Oesterreichisches Museum la sua situazione colà era divenuta insopportabile. Egli sentì amaramente, così come io pure la sentii molti anni dopo di lui, la mancanza del contatto quotidiano con gli oggetti vivi e l'abbandono, in un certo senso, della vecchia e sana tradizione della «scuola viennese ». Sgorgarono dalla consapevolezza della sua intima essenza tendente all'astratto, alla speculazione psicologica, a volte quasi già alla metafisica, le parole, ch'egli disse con tristezza al suo discepolo M. Dvorák: non aver egli più nessuna professione vera e propria. Gli furono concessi solo otto anni di vita accademica, ma divennero i più ricchi e fecondi di tutta la sua vita di studioso e l'azione delle sue lezioni sugli uditori, che deve esser stata certamente enorme, deve averlo generosamente compensato. Io non ne feci esperienza personale, poiché nel 1889 avevo già lasciato l'università, ma lo so dall'entusiastico ricordo di quelli che furono ancora suoi allievi e lo posso misurare dai miei rapporti personali con quest'uomo prezioso. Nella storia della scuola viennese occupa il Riegl un posto di prim'ordine accanto e col Wickhoff, specialmente perché rappresenta un complemento del Wickhoff stesso, di struttura al tutto differente dalla sua, malgrado entrambi siano usciti dalla scuola del Sickel ed abbiano tenuto fermo, come alla più solida base delle loro convinzioni scientifiche, alla sua visione storico-filologica. Il Riegl era, per sua natura, uno storico, ciò non va dimenticato, ed i suoi primi lavori seguono decisamente questa direzione; ma la sua passione per la storia universale, che lo condusse - se anche questa possa essergli da prima parsa una falsa strada - al Búdinger, si manifestò subito come un giusto istinto, che, e molto più che nel Wickhoff, in lui andò sempre maggiormente rafforzandosi in forma originale e assolutamente spontanea, improntandone la personalità. Il Wickhoff, che aveva progettato, a conclusione della sua vita scientifica e coerente a tutta la sua posizione spirituale, una storia del naturalismo (che non vide mai la luce), era sempre rimasto l'« umanista », e questo è ciò che lo riavvicina a Jakob Burckhardt, col quale non ha, del resto, altri punti di contatto. L'antichità « classica », anche nelle sue tarde forme romane e persino del « primo cristianesimo » ed il « rinascimento » in senso italiano erano i campi, che gli furono sempre più cari; eccezion fatta di alcuni scorci, si può dire che si occupò soltanto occasionalmente del cosidetto medioevo e del « barocco », di quei periodi cioè ai quali, con più o meno ragione, si usa attaccare l'etichetta di « spirituali ». Invece proprio questi sono quelli nei quali si fece sentire l'azione del Riegl precursore e pioniere, ed anche ciò sgorga dal più intimo della sua personalità. Ché la sua seconda opera importante, la storia dell'industria artistica romana (Geschichte der römischen Kunstindustrie) pubblicata dall'Oesterreichisches archáologisches Institut, il di cui primo volume usci nel 1901, nasconde in verità, come la Genesis del Wickhoff, sotto il suo titolo più che insignificante, la prima geniale esposizione di quella « tarda classicità », preludio in oriente ed in occidente di quell'arte « medioevale », incomprensibile senza di essa; il secondo volume, dedicato all'epoca cosidetta delle invasioni barbariche, che doveva penetrare quindi ancor più addentro nel medioevo, non arrivò a pubblicarlo egli stesso. Il Riegl riprese il filo là dove la trattazione dell'arte romana del Wickhoff l'aveva lasciato cadere. A quello ed a questo, l'archeologia moderna paga oggi appena il suo debito di riconoscenza, quando, fecondata dal pensiero di questi due grandi storici dell'arte, riconosce, giustifica, continua, nel più profondo senso della parola hegeliana, « invera » (aufhebt) il loro lavoro, occupandosi intensamente di quelle epoche messe, un tempo, con disprezzo e noia da parte. All'epoca in cui visse il Riegl ed ancora molto dopo, la disciplina, più vecchia e meglio fondata filologicamente, si scagliò contro questi nuovissimi studi, ancora più aspramente, se è possibile, che contro la Genesis del Wickhoff. Come con le «questioni di stile » venne superata la corrente tecnico. materialista del positivismo della precedente metà del secolo, così qui quella istorico-dogmatica, come lo rilevò già M. Dvorák nel suo necrologio del Riegl; e questi ha qui dei punti di contatto, e ciò deve venir sottolineato, con la posizione spirituale dello Schnaase, tanto più anziano di lui, proveniente dallo Hegel e dal Savigny, specialmente in ciò che concerne il suo modo di vedere riguardo al primo punto (di cui già dicemmo). E' la reazione della concezione genetica dello sviluppo artistico contro quella dogmatica; si tratta innanzitutto del dilemma della « decadenza », che si credeva di riconoscere non solo nel periodo romano, ma, sopratutto, in quello della tarda classicità, del medioevo - malgrado ogni interesse archeologico- antiquario - ed infine in quello cui il classicismo, come l'aveva fatto pel « gotico », aveva dato il nome odioso di « barocco ». A questo il luogo dove si inserisce il pensiero del Riegl, di forte tendenza psicologica, con quella sua idea del « volere l'arte », che pone l'accento sul principio spirituale, il quale sembrava proprio necessario in questi periodi inclinati allo « spirituale » con la loro aspra contesa fra « natura » e « spirito »; su quel principio, che portava alla concezione di uno « spirito nazionale » (Volksgeist) fortemente mitologico, anzi ad una psiche di « razza » assai preoccupante, che verrà dal Riegl ipostatizzata nell'opposizione di « optisch » e « haptisch ». La derivazione di questi due ultimi concetti dalla psicologia moderna è chiara, come in generale la sensibile trasformazione dello storico nello psicologico; merita pure di venir rilevato come sintomatico, il fatto che i primi volumi sulla psicologia dei popoli (Vólkerspsychologie) del Wundt vennero pubblicati vivente il Riegl, precisamente alla fine del secolo, per quanto io non sappia se egli ne abbia presa visione. A questo proposito si manifesta ben fondato l'insistere del Riegl sulle Weltanschaungen. dei periodi storici, la sua caratteristica posizione in ispecial modo di fronte all' « iconografia », la quale ha basi al tutto differenti che nel pensiero del Wickhoff, sempre determinato dal sensibile-oggettivo. Il Riegl, da quel vero storico che sempre fu, si era trovato, trattando della « tarda classicità » e del primo medioevo, di fronte al problema della decadenza, che non poteva trangugiare; da maestro e d'imperituro significato fu il modo col quale egli analizzò e descrisse i tratti «stilistici» fondamentali dell'originale «volere l'arte » di questi periodi, ammesso anche che le ricerche archeologiche ad essi inerenti abbiano ampliato ed, in molti particolari, corretto ciò che egli espose nella sua Römische Kunstindustrie, proprio come avvenne per il Wickhoff nella sua Genesis. Entrambi queste opere sono possesso duraturo della storia scientifica dell'arte e lo rimarranno, non dovesse restarne neppure una pietra sull'altra; in questo senso possono venir paragonate alla storia dell'arte nell'antichità del Winckelmann. Era con ciò logicamente necessario, che il Riegl dovesse sboccare in un altro problema di «decadenza», quello già designato come tale dal nome tradizionale di barocco. Non già che la letteratura precedente al Riegl non avesse trattato della storia di questo periodo artistico; essa se ne era generosamente occupata, sopratutto da quando l'eclettismo architettonico dell'ultimo decennio del XIX secolo aveva cominciato, dopo di aver fatto piazza pulita dei movimento della «rinascenza», a risalire, soprattutto a Vienna, a questo «stile», sentito come patrio. Non bisogna neppure dimenticare, che Jakob Burckhardt, nel suo immortale Cicerone ci diede una descrizione del primitivo, genuino, barocco, dell'italiano, che forma pagine fra le più belle e profonde di quell'opera, e che proprio ora hanno acquistato nuovo valore. Ma la sua concezione andava consapevolmente contro corrente e questo doveva avere la sua influenza, data l'insigne personalità di quell'uomo, che aveva imposto al suo tempo il nome di «renaissance»; così se ne trovano le tracce non solo, ciò che è quasi ovvio, nel Wölfflin, suo geniale scolaro e successore, ma anche nella prima esposizione riassuntiva dell'architettura barocca di Cornelius Gurlitt, che continua la storia dell'architettura di Kugler e Burckhardt. Entrambi queste esposizioni (quella del Wölfflin almeno nella sua forma ancora incompleta) erano già note al Riegl; le magnifiche Erinnerungen aus Rubens del Burckhardt sono uscite solo postume nel 1897, allorquando il Riegl aveva già cominciato, con le sue prime lezioni sull'arte barocca (1894-1895), a muoversi nell'ambito di queste speculazioni; come il grande svizzero avesse assunto tutt'altra posizione di fronte a questi fenomeni artistici del barocco nordico, come qui egli non avesse ricercato il linguaggio artistico di una generazione, ma un problema di storia dell'arte, nel suo più profondo significato, è ben noto. Non è cosa del tutto senza importanza il ricordare come intorno agli studi del Riegl sull'arte barocca aliti un soffio di vento patrio austriaco. Ché qui, e soprattutto a Vienna capitale, il barocco italiano (in senso lato e non applicato solamente all'arte figurativa) esercitò, di fatto, dalla controriforma in poi, un vero dominio, che si riallaccia, quasi immediatamente, alla fioritura di questa nel medioevo «romanico-gotico». Diligenti antiquari locali, come Kábdebo, avevano già preso a studiare il passato «barocco» nel Donner, scolaro del Giuliani; primo fra tutti nomineremo qui Albert Ilg (nato nel 1847, morto nel 1896, come direttore dell'ex «Ambraser Sammlung»), spiritoso senza dubbio, ma indisciplinato. Allievo dell'Eitelberger, che lo chiamò pure nel 1871 al suo museo, ebbe stretti rapporti con lui, specialmente grazie alle Quellenschriften, continuate poi più tardi da lui. Già nel 1880 pubblicò, sotto lo pseudonimo di «Bernini il Giovane», un piccolo amenissimo scritto polemico sull'avvenire dello stile barocco: qui, come altrove, prende con sacro ardore le parti del barocco, già entrato nell'uso pratico, che egli proclamò, nella sua essenza bizzarra, mai del tutto libera da intenzioni pratiche, «austriaco puro sangue» (« Stockösterreicher »), «stile nazionale» austriaco, - tema che non garba più alle nostre orecchie nelle odierne contingenze, e che viene considerato, ancor oggi, dallo spirito paradossale di Hermann Bahr (compaesano del Wickhoff e del Riegl!) lo Schibboleth dell'austriaco. La raccolta dei materiale per la biografia (non è più di questo) del Fischer von Erlach dell'Ilg usci poco prima della sua morte nel 1895. Lo studio dell'arte dei barocco austriaco è rimasto, fino ad oggi, per la nostra scuola viennese, cosa di grande importanza. Gli scolari dei Wickhoff, del Riegl, del Dvorák ed in fine i miei hanno contribuito alla conoscenza della sua storia in tutti i campi con preziosi lavori, cominciando da Hans ed Erika Tietze, che vanno particolarmente ricordati. Ciò era soltanto possibile in connessione con ricerche sul barocco italiano e sopratutto sul romano, sulla vera e propria patria d'origine di questo stile, rimasta assolutamente chiusa all'Ilg. Già mentovammo, a proposito dei lavori di W. Kallab e di O. Pollak, che nacquero a Roma, come precisamente allo studio sulle fonti letterarie e sui documenti di questo tempo e di questo ambiente abbiano dato opera i pensionari dell'Istituto austriaco a Roma; proprio ora è stata pubblicata l'esemplare edizione di un'opera capitale per il barocco romano, l'edizione delle Vite del Passeri, a cura di un « affigliato » del nostro Istituto, di Jakob Hess di Monaco. Anche qui dobbiamo rivolgere un pensiero riconoscente al Riegl, al quale è d'attribuire senza dubbio quasi la paternità spirituale di questi studi. Per tre volte, (1894-1895, 1898-1899, 1901-1902), tenne grandi corsi ed esercitazioni sul barocco romano, che fecero, sui suoi ascoltatori, un'impressione incancellabile. Fu colpa del tragico ritardo, che si verifica in ogni momento della penosa vita del Riegl, se questi hanno potuto essere pubblicati, necessariamente imperfetti ed incompleti, solo dopo la sua morte, dai suoi fedeli amici Artur Burda, bibliotecario da anni al Kunsthistorisches Museum, e da O. Pollak; e poi la Vita di G. L. Bernini del Baldinucci. Il Riegl stesso pubblicò nel nostro Jahrbuch quel lungo articolo sul ritratto-gruppo olandese (ristampato a Vienna nel 1931), che non è secondo a nessun altro, nell'importanza ch'esso ha per la conoscenza della sua indole scientifica; con ciò il suo vastissimo spirito si era volto pure al «barocco» nordico per quanto il termine « barocco », in fondo, qui non sia al suo posto. Il nesso esistente fra questi studi sembra evidente. Partendo dal «barocco» della tarda classicità - questa designazione compare più di una volta nell'archeologia moderna, per esempio nel von Salis - la via del Riegl condusse, nel senso di un ricorso genetico, a quello nuovo, solo propriamente designato come tale. Ma anche lui, il solitario, si trovò qui di fronte ad una questione del giorno. Per quanto egli, rifiutandola, si fosse mantenuto quasi indifferente di fronte all'arte sua contemporanea - il Dvorák lo osserva espressamente, pure questo suo comportamento si mutò quando essa cominciò a diventare importante ed influente per gli interessi teoretici dello storico universale ed infine per quelli pratici del conservatore di monumenti. Ricordo un curiosissimo dialogo, che ebbi con lui negli ultimi anni della sua vita a proposito della prima esecuzione della «sinfonia domestica» (Vienna, 1904) di Richard Strauss, che cominciava ad acquistare notorietà, della quale io, per caso, gli riferii qualche cosa. Mi rimase sempre fortemente impresso nella memoria, come egli prendesse interesse a questa sfera tanto lontana dalla sua, dato il nuovo sintomo sorto in essa, il «suono di natura» (Naturlaut), avendo ciò qualche riferimento alle sue teorie storiche. E così divenne di fatto, sempre partendo dalla sua posizione speculativo-storica, in quanto vero storico, qualcosa come il profeta «retrospettivo» di quell'«espressionismo», i primi bagliori del quale riuscì a vedere, pur fermandosi sulla soglia. Ma anche qui egli si distingue nettamente dal suo compagno Wickhoff, il quale, derivando ancora dalle ultime manifestazioni del positivismo, dall'impressionismo, visse in questo la sua esperienza artistica, che proiettò nella Genesis. Il Riegl procedette sul cammino opposto: il Dvorák coglie perfettamente nel segno quando dice che la sua contemplazione artistica è guidata molto meno da una data inclinazione, che da «conclusioni intellettuali». E così vien chiara pure la frase conservataci da questo suo discepolo, la quale ce lo rivela nel suo più intimo: il miglior storico d'arte essere, in fondo, per lui, quello che non ha nessun «gusto» personale. Al contrario del Wickhoff, era il Riegl inoltre, come già accennammo, uno spirito speculativo; bisogna nuovamente ricordare come i suoi interessi giovanili fossero stati rivolti alla filosofia. Sia pure che questa, nell'herbartismo dei primi suoi anni universitari, non gli si fosse fatta incontro sotto l'aspetto più seducente, tuttavia par di sentire il pensiero del Riegl penetrato dal sottile fluido di quel rigido formalismo proprio a quest'ultimo grande sistema della filosofia classica tedesca. Egli, il solitario, si costruì poi da sé soprattutto una psicologia, necessaria al suo pensiero storico, con una terminologia assolutamente originale: il concetto dell'«attenzione», («Aufmerksamkeit») tanto usato da lui nel «ritratto-gruppo», appartiene, sotto un certo aspetto, a questa; come d'altra parte la coppia di concetti, divenuta per lui essenziale, ottico-tattile (sostituito più tardi con «haptisch») la deduce dal campo della fisiologia dei sensi, imprimendole però qui un'impronta tutta personale. Come in questo punto assai spinoso, così deve venire considerata da punti di vista particolarissimi l'opera di uno spirito fuori dell'ordinario quale fu il Riegl, il quale si mostrò, anche sotto il suo aspetto negativo, in larga misura fecondo di frutti e d'incoraggiamenti. Questo è accaduto molte volte, sebbene ci fosse sempre il pericolo, che la profonda personalità del Riegl, non mai giunta sotto nessun aspetto a compimento, perché una morte crudele ne troncò a metà lo sviluppo, scomparisse dietro un «sistema», divenisse «mitologica»; pericolo che non riuscì ad evitare del tutto neppure uno dei miei scolari più intelligenti, Hans Sedlmayr, nella sua esposizione della «quintessenza della dottrina del Riegl» malgrado la sua consapevole ed evidente prudenza. Di fatto erompe dalla costruzione della storia del Riegl qualche cosa di simile ad un neovitalismo; l'«evoluzione artistica» si presenta, sorgente dallo «spirito nazionale», come personificazione od allegoria di un concetto, come un organismo ipostatizzato, dominato da intima necessità di legge. La storia dell'arte appare - a quel modo che nel pensiero, certo diversamente impostato, del Wölfflin, molto più vicino all'oggetto artistico, si presenta come «storia dei vedere» - come storia del problema; oggi crediamo di poter riconoscere tale possibilità nella sfera logica dei pensiero (come avviene nella magnifica esposizione della storia della filosofia del Windelband), ma non, e solo sotto particolarissime condizioni, nell'estetica; perché altrimenti scompare proprio quello che qui maggiormente importa, l'individuale, il personale, e l'oggetto singolo perde, come tale, il suo valore, come è il caso per il chimico od il fisico, che lo considera solo un esponente della « legge », che il suo pensiero persegue. E non è puro caso che il Riegl, in antitesi al Wickhoff, ma pur anche a suo complemento, si sia volto con amore particolare a quei periodi della storia dell'arte, in cui in ispecial modo accampa i suoi diritti l'«anonimo» artistico - che non è affatto identico con l'anonimo biografico. E' degno di nota come nello scritto, assai caratteristico per il Riegl, sul «ritrattogruppo» olandese, l'originale «volontà dell'artista», (künstlerischer Wille) troppo fortemente pronunciata ceda il posto al «volere l'arte» (Kunstwollen) in sé; si tratta dovunque del «documento di stile » secondo una concezione astratta e concettuale, la quale, sotto un certo aspetto, deve sacrificare l'impressione sensibile-intuitiva, vale a dire l'estetico a favore del logico; l'oggettivazione dei giudizio di valore, che nel campo estetico non è per nulla, come molte volte lo si ammise ed ammette, un giudizio soggettivoedonistico, si ripresenta qui, nefasto rovescio della medaglia. Ciò che produsse il geniale pensiero del Riegl appartiene a tutt'altra sfera da quella della pura e genuina storia dell'arte, nella quale solo è dato il modo di contemplazione estetica; storia divenuta ora nuovamente possibile, poiché ha superata la necessaria e giustificata reazione del positivismo contro il vecchio esteticismo: e qui debbono venir ricordati i grandi nomi di B. Croce e K. Vossler. Ciò di cui quivi si tratta, è la storia del linguaggio anche dell'arte figurativa, storia che si colloca, altrettanto legittima, certo con consapevolezza della sua essenza astratta, accanto a quella dell'arte presa in senso vero e proprio; ciò che venne concesso già da un pezzo nel campo della poesia (e della musica, che non va separata da questa). Come però al concetto di «decadenza» (a proposito del quale il Riegl aveva sottoposte ad una revisione tanto feconda le precedenti concezioni dogmatiche) spetti un compito tutto diverso nel campo della storia dello stile, pura, determinata esteticamente, in senso proprio, originario, riferentesi all'individualità che crea originalmente e si spiega, che non nel campo della storia oggettiva dello stile (vale a dire nella storia del linguaggio), è una verità, che oggi ha preso a farsi strada. Apparve già ad Ernst Heidrich, a quell'intelligentissimo allievo del Wölfflin, che morì sul fronte occidentale nel 1914, segnando una delle più gravi perdite per la nostra disciplina, ed al quale dobbiamo uno dei più acuti studi sul metodo del Riegl. Solo recentemente è uscito (1929) il libro del Croce sull'età barocca, che, sebbene deliberatamente ed espressamente si limiti alla poesia italiana ed alla vita sociale ed etica, escludendo l'arte figurativa, pure è per noi di grande importanza, poiché tratta l'idea di «decadenza» da un punto di vista di storia dell'arte autonomo. I rapporti fra il Riegl ed il Wickhoff possono venir paragonati, secondo una tipologia formale a quelli fra lo Schnaase ed il Burckhardt (e se si vuole risalire ancora più indietro a quelli fra i loro predecessori Hotho e Kugler), come l'Heidrich ha benissimo mostrato. La stessa affinità spirituale viene messa in rilievo da uno dei più geniali archeologi viventi, da Guido Kaschnitz v. Weinberg (ora a Konigsberg), che in qualità di austriaco, conosce ben da vicino la « scuola viennese ». Nella recensione della nuova edizione del Spatrömische Kunstindustrie del Riegl rileva, malgrado un'acuta e profonda critica, come questo torso sia qualche cosa di veramente geniale, di unico dal pensiero storico dello Hegel in poi (malgrado gli inevitabili difetti particolari) e come la lotta spirituale, che si combatté quasi tragicamente intorno ad esso, possa venire capita soltanto ponendosi nella situazione storica del Riegl, collocato fra il pensiero impressionistico-positivista del XIX secolo e l'espressionistico-idealista del XX. Il carattere particolarissimo del Riegl si rivela ancora una volta alla fine della sua vita precocemente spezzata. Pochi anni prima della sua morte si assunse un grave compito, accettando il posto di conservatore generale della nostra venerabile Zentralkommission, che, dopo la morte del Freiherr v. Helfert, doveva venir riorganizzata da capo a fondo. Mi ricordo ancora come insistessi presso il Riegl, perché si addossasse questo incarico di grande responsabilità, malgrado egli fosse già malato e consapevole del suo stato. Credo pure che gli argomenti da me adoperati abbiano fatto su di lui una certa impressione, ché vedevo ben chiaro come egli, malgrado il successo della sua attività accademica, avesse l'impressione di essere lasciato un po' nell'ombra e quanto bisogno avesse, lui sempre attivo, di un lavoro di organizzazione, come un tempo, nel museo, e sopratutto, di ritornare al vivo oggetto d'arte, che aveva abbandonato con tanto dolore durante la sua separazione forzata. Ritrovò dunque la via verso questo mondo, che agli inizi della nostra scuola viennese, ai tempi dello Heider e dell'Eitelberger, aveva avuto una parte così importante, estendendo la sua influenza ben al di là dei confini austriaci. E fu vero ritorno per cui il Riegl poté quivi lasciare un'importante eredità ai suoi scolari ed agli scolari di questi e, primi di tutti, al Dvorák ed a D. Frey. Però il suo progetto per una legge sulla conservazione dei monumenti rimase sulla carta; la Wiener Neue Freie Presse pubblicò postumo il testo di questo memorabile abbozzo di legge il 27 febbraio 1905. Quanto al Riegl poté contemplare la terra promessa solo da lontano, dall'alto dell'osservatorio del suo pensiero filosofico-storico, poiché gli furono concessi solo pochi anni e poi lo colse la morte (1905). E' anche difficile dire, se questa alta intuizione avrebbe poi potuto praticamente realizzarsi in tutta la sua estensione. Come introduzione a ciò doveva servire una conferenza sul « culto moderno dei monumenti, la sua essenza e la sua posizione », pubblicata nel 1903, che appartiene agli scritti caratteristici all'ultimo periodo della produzione del Riegl. Ché qui s'intraprende il tentativo di determinare, partendo da un altissimo punto di vista storico- filosofico, i valori, che nel corso dei secoli erano affiorati nell'opera di conservazione dei monumenti. E bisogna di nuovo osservare, come questa, ed in generale tutta l'opera del Riegl, respiri aria austriaca. Infatti attraverso l'opera di Karl Menger (dal 1873 professore all'Università di Vienna, morto nel 1921, nello stesso anno del Dvorák) crebbe la così detta scuola austriaca di economia politica, che risale senza dubbio, direttamente o no, alla teoria del giudizio di valore dell'herbartismo e le cui ricerche ebbero una parte importante nella «scuola di Graz » del Meinong ed in quella dell'Ehrenfels di Praga - dalla quale una volta erano provenuti lo Zimmermann e lo Hanslick - giù giù fino ai nostri giorni. A questo proposito non è certo privo di intimo significato il fatto, che uno scolaro del Wickhoff, Robert Eisler, già di sopra nominato, pubblicasse, negli ultimi anni del Riegl, degli studi sulla teoria dei valori nei quali egli, con successo certo solo parziale, aveva tentato di porre le basi dei giudizio d'arte. M. DVORAK Dopo la morte del Riegl, il Wickhoff poté, ancora per un lustro, dal 1905 alla primavera dei 1909, essere a capo della scuola viennese. Due suoi scolari, il secondogenito ed il più giovane lo coadiuvarono; io, libero docente dal 1892, e M. Dvorák, personalmente assai legato a lui, dal 1897 suo assistente e libero docente dal 1902. Dopo la morte del Riegl fu nominato il Dvorák straordinario, ed io mantenni, incaricato come ordinario (titolare), la mia cattedra «libera», come solevo chiamarla, con lezioni nel museo ed esercitazioni. Ma il mio centro d'azione era pur sempre la mia vecchia officina, l'Hofmuseum di storia dell'arte, dei quale ero divenuto direttore dal principio del secolo, - quelle che io battezzai alla buona «Sammlungen für Plastik u. Kunstgewerbe », sostituendo un nuovo nome al vecchio più ingombrante. Date tutte queste circostanze è comprensibile che io abbandonassi, sempre più, al mio più giovane collega, da me assai stimato, e che stava in intima collaborazione col Wickhoff, i compiti specificamente accademici: discussioni di tesi, esami, commissioni, ecc. ecc.; non presi più parte, se non di rado, alle sedute collegiali. Accenno a questi particolari, per sé insignificanti, perché serviranno ad illuminare quanto segue. Allorquando però il Wickhoff non fece più ritorno, nella primavera del 1909, dalla città cara al suo cuore, da Venezia, che aveva impresso il bacio della morte sulla sua bella fronte dolente, la nostra vecchia scuola viennese ebbe a superare un periodo di crisi. La Commissione aveva ben proposto me primo loco, secondo loco il Dvorák, a gran maggioranza (9 voti contro 2), per la successione alla cattedra di storia dell'arte, con la riserva che eventuali ulteriori modificazioni circa l'insegnamento di storia dell'arte potessero venir proposte solo dopo che fosse stata coperta la cattedra del Wickhoff. La minoranza invece aveva deliberato di nominare unico loco a successore del Wickhoff, Josef Strzygowski, già dal 1892 ordinario di storia dell'arte a Graz, coll'opposta riserva di prender nuove misure per un'ulteriore riforma dell'insegnamento, tenendo conto dei bisogni dell'Istituto austriaco (come sede della « scuola viennese »). Nella seduta di facoltà del 3 luglio 1909, ciò che avviene di rado, dopo un dibattito straordinariamente lungo e burrascoso, non passò la proposta della maggioranza, e ciò per pochissimi voti. Non furono qui i membri delle affini materie filosofico-istoriche a decidere la questione, vennero bensì sopraffatti dai naturalisti in parte vittime di un malinteso. lo avevo già in animo, fin da principio, di non accettare la nomina, non solo perché ritenevo il Dvorák, assai più giovane di me, molto più adatto, ma anche inoltre perché mi trovavo a mio agio nella mia vecchia officina del museo, nella cerchia dei miei collaboratori ed amici e la mia inclinazione per un'attività accademica era già pienamente appagata dalla mia cattedra «libera». Avevo già rinunciato deliberatamente alla vera carriera universitaria anni addietro, quando nel 1903 rifiutai la nomina, assai onorevole, all'unanimità e unico loco, a successore di Alwin Schultz a Praga, senza neppure entrare in trattative. Perciò pregai il mio collega d'ufficio e di Università Robert v. Schneider - seguì nella tomba anche lui troppo presto, nell'autunno dello stesso anno, il nostro comune amico Wickhoff - di comunicare alla Facoltà la mia rinuncia scritta. Si addivenne quindi, nella seguente seduta del 7 luglio, ad un compromesso: ossia fu proposto, accanto allo Strzygowski, anche il Dvorák come ordinario di storia dell'arte; questi venne accettato (di nuovo dopo lungo dibattito) e confermato dal ministero. Da questo momento sorsero due cattedre e due Istituti per la storia dell'arte (chiamati, da quando vi appartenni e dietro mia proposta, I e II). Il «secondo», primo» storicamente, collegato per unione personale con l'Istituto storico, con questa vecchia sede della «scuola viennese » già sovente mentovata, prosegue di fatto, con ininterrotta continuità, la tradizione di questa; l'altro, fondato per lo Strzygowski, secondo ideali e scopi a lui particolari, non aventi nulla in comune con quelli della scuola viennese, anzi sovente deliberatamente ad essa contrapposti, cade, di conseguenza, assolutamente fuori dell'ambito del nostro schizzo storico. Così non questo, ma l'altro, il più vecchio, unico prima esistente e veramente Istituto di storia dell'arte, risponde, fino ad oggi (rimasto dal 1933 di nuovo solo ed unico), fedelmente alla richiesta già espressa nel piano di riforma dei Sickel per la preparazione di impiegati ai musei ed alla conservazione dei monumenti (corrispondentemente alla tradizione oggimai quasi ottantenne della scuola viennese). La grande maggioranza del personale adibito ed autorizzato negli Istituti d'arte della vecchia e della nuova Austria, come pure dell'odierno «estero», proviene da questa scuola e precisamente dai ranghi di quelli che passarono quegli esami di stato (per nulla facili) di membro ordinario e straordinario, contemplati nel programma dell'Oesterreichisches Institut. Non assunse certo il suo ufficio in facili condizioni Max Dvorák (nato nel 1874 a Raudnitz a. d. Elbe, morto nel 1921) e la lotta non gli venne risparmiata. Dei dodici anni che furono concessi alla sua attività, più di metà coincisero col terribile periodo della guerra e con quello ancor peggiore del dopoguerra, ma ciò che egli seppe fare in questo tempo è degno di ogni ammirazione. Il Dvorák, come figlio di terra boema, ci era affine, ma non consanguineo; anche ciò, in principio, non facilitò la sua posizione. Va però ad onore della nostra vecchia scuola storica, se ella seppe tanto avvincere e guadagnare a sé il giovane ceco, che egli le si diede quasi senza riserve, conservandole intatta la sua riconoscenza e fedeltà anche dopo la caduta della vecchia monarchia che, fra la sua antica patria e quella novellamente acquistata, aveva scavati profondi confini. Ché, malgrado egli non abbia mai rinnegato la sua schiatta originaria, malgrado una parte non piccola della sua produzione letteraria testimoni di questa sua provenienza, pure rimase sempre legato, fino all'ultimo, alla sua vera patria spirituale, e, ancora nei suoi ultimi anni, come conservatore dei monumenti della nuova Austria, prese parte sinceramente ed energicamente alla difesa dei crollante patrimonio artistico, caduto preda di brutale dispotismo. Anzi egli giunse a tale intima comprensione dell'indole tedesca, collaborando magnificamente alla fondazione del Bode del Deutscher Verein für Kunstwissenschaft, che l'università di Colonia, nuovamente creata, gli offerse nel 1920, poco prima della sua morte, una cattedra, il che torna ad onore dell'uno e dell'altra; che poi egli l'abbia rifiutata, denota quali profonde radici egli avesse fitte nel suolo viennese. La nostra Akademie der Wissenschaften gli espresse pure la sua riconoscenza accogliendolo fra i suoi membri; purtroppo non poté farne parte che per pochi mesi. Come il Riegl, col quale poi tanto si legò, il Dvorák cominciò quale storico (prima all'università ceca di Praga) e si laureò, anzi, in questa disciplina; l'atmosfera della casa paterna - il padre era archivista del principe Lobkowitz - l'aveva già predisposto a ciò. Allorquando, ancor giovanissimo, venne a Vienna ed entrò nell'Istituto storico, vivaio della severa scienza tedesca per tutta l'ex-duplice monarchia, vi trovò la sua sorte, la sua educazione scientifica nello spirito del Sickel, la sua professione, il suo ambiente di lavoro, il maestro ed amico, che gli fu quasi secondo padre, e poi finalmente casa e famiglia, sia pure con una felicità coniugale troppo presto spezzata dalla morte. Vide la morte presto assai da vicino, si salvò per un capello, quasi per miracolo, da una terribile malattia, che crudelmente troncò in pieno la giovinezza di una sua sorella bella e fiorente. Questo contribuì forse a farlo, ancor giovinetto, così maturo ed agguerrito: ricordo, come fosse ieri, la sua figura di adolescente grave e dolce nello stesso tempo. Il Dvorák crebbe, sebbene non sia stato più personalmente allievo del Sickel, proprio nel suo spirito. Seguì corsi, 1895-97, all'Istituto, iniziò la sua carriera letteraria in modo caratteristico con una tesi di laurea di stretta critica documentaria, su argomento preso dalla sua patria: ricerche intorno alle fonti su Cosma di Praga. Questo segnò l'addio alla dura scuola, dalla quale ormai usciva; poiché già si stava volgendo, sotto l'influenza del Wickhoff e del Riegl, alla nuova storia dell'arte. Sebbene il primo si fosse con lui legato personalmente, è però fuor di dubbio, che il secondo, scientificamente, gli fu più proficuo, data l'indole innegabilmente molto più affine alla sua. Erano entrambi vere e proprie nature di erudito, storici genuini per provenienza ed educazione, però inclinati più all'intellettuale che all'intuitivo, come il Dvorák stesso ebbe a riconoscerlo (già lo accennammo) a proposito del Riegl. Fu così ch'egli divenne suo successore, e non solo esteriormente, proprio in quell'istituto per la conservazione dei monumenti, riorganizzato dal Riegl; continuò, nello spirito di questi, non solo le pubblicazioni dell'Istituto, fra le quali il Jahrbuch für Denkmalpflege, ma fondò pure la topografia dell'arte austriaca (1906), intrapresa le cui premesse erano già poste nella preistoria della nostra scuola viennese (come già dicemmo). Ciò non impedì, che egli svolgesse la sua opera, non solo continuando l'attività del Wickhoff, come membro del corpo insegnante dell'Österreichisches Institut, proseguendo le Kunstgeschichtliche Anzeigen e portando valido aiuto al Corpus da lui iniziato, come alla grande pubblicazione sui manoscritti miniati austriaci, ma anche per conto suo, attraverso la sopradetta collaborazione al Deutscher Verein für Kunstswissenschaft ed ai suoi Monumenta, che non erano estranei allo storico dell'Istituto, non foss'altro grazie ai venerabili Monumenta Germaniae. Egli fu dovunque coadiuvato da una schiera di ottimi scolari, fra i quali vorrei particolarmente nominare Karl Swoboda tanto più ch'egli formò il collegamento tra me e lui, soprattutto nella sua qualità di assistente, per molti anni, di entrambi noi; egli riuscì a portare felicemente in porto l' Istituto anche nel difficile interregno dopo la morte del Dvorák; fu per me una vera soddisfazione di poter finalmente dare la libera docenza all'ottimo, non solo studioso, ma pure maestro. Il Dvorák potrebbe così apparire, in un certo senso, come una sintesi del Wickhoff e del Riegl, se non si trovasse il vero e proprio punto d'unione nel suo spirito indipendente ed assolutamente originale, che, sviluppandosi, specialmente nella sua ultima fase, lo condusse però sempre più verso il Riegl. L'attività di studioso del Dvorák sembra, da un punto di vista meramente bibliografico, come nel Wickhoff, da principio, non molto vasta. E' però così collegata al suo intensissimo lavoro di maestro e conservatore di monumenti, ch'essa non può, anche se fu qualche volta da questo impedita, venirne separata. Ciò vien chiaro quando si considera la mole non comune dei suoi lavori come editore, redattore, critico, e come tale con articoletti brevi spesso non privi di valore personale; la somma di queste diverse attività è tale che si resta ammirati dinnanzi a questo spirito continuamente attivo, che domina un corpo già scosso e non mai perfettamente sano. Forse le sue lezioni, preparate e lavorate con grandissima cura, fecero sugli uditori un'impressione ancor più forte di quelle dei Riegl; certamente esse avevano un fascino irresistibile, come ancor oggi i suoi stessi scolari ne fanno fede. Soltanto così fu pure possibile, a due fra i suoi più cari allievi: K. M. Swoboda e Joh. Wilde, nell'edizione completa delle sue opere, oggi in 5 volumi, di cogliere tale larga messe di opere postume. Voler descrivere qui, nel suo complesso, l'attività spirituale del Dvorák, mi sembra, in fondo, fuor di luogo: siamo ancora troppo vicini a lui, che solo da un decennio ci ha lasciati, per poterlo giudicare con giustizia «storica». Convengono a lui, come al Riegl, le celebri parole d'addio, tanto e non a torto discusse, rivolte dal Grillparzer alla tomba di Schubert: la morte ha sepolto qui un ricco tesoro, ma ancor più belle speranze. Solo la vita di un uomo può costruire il suo destino, e la domanda: come avrebbe potuto essere, sembra, a chi vuol fare della storia, tanto inutile, quanto, in un senso più profondo, quasi « metafisico », insensata. Possiamo però accennare al giudizio dato sul Dvorák da uno dei suoi più devoti scolari, Dagobert Frey, che rese grandi servigi, come successore del Dvorák, nel Wiener Bundesdenkmalamt fino alla sua nomina alla cattedra di Breslau, avvenuta da poco; nei Jahrbücher für Kunstgeschichte (I, 1923) cercò, con intelligenza, di darci « la posizione del Dvorák nella storia dell'arte », da un punto di vista storico-filosofico. A questo si aggiunge il caldo, bello e, malgrado la brevità, intenso necrologio di un altro allievo fedele, di Wilhelm Kóhler di Weimar-Jena, già ultimo assistente del Wickhoff. La grande impressione suscitata nell'uditorio, in tutta la profondità del loro ethos, dalle lezioni del Dvorák, ci fu ben descritta da un terzo suo appassionato scolaro, da Otto Benesch. La produzione letteraria del Dvoràk, ai suoi inizi, si attiene ancora al severo metodo Sickel-Wickhoff. Partendo dal suo primo articolo di storia dell'arte, che tratta dell'influenza bizantina sulla miniatura italiana del Trecento (1901, nelle Institutsmitteilungen, come pure il suo, più sopra nominato, lavoro diplomatico), la sua via lo conduce, da principio, ad un tema, che si riferisce alla sua patria in senso stretto, all'arte boema sotto i Lussemburgo, internazionalmente tanto importante, a quell'articolo sugli alluminatori di Johan von Neumarkt, sotto il di cui modesto titolo si nasconde, di fatto, un problema di storia universale, che egli poi espose, qualche anno dopo, con arte più matura, nella sua vastissima opera sull'enigma dell'arte dei fratelli Van Eyck, la quale porta, si può ben dirlo, al massimo raffinamento ed approfondimento il metodo del Morelli. Il culmine della sua produzione, almeno come poteva venir giudicato lui vivente, ci è dato dalla sua ultima pubblicazione Idealismus und Naturalismus in der gothischen Skulptur und Malerei (è sintomatico che sia dapprima uscito nell'Historische Zeitschrift del 1918). Questo libriccino, uscito poi staccato, anche esternamente di poca apparenza, ebbe, con ragione, uno straordinario successo, ponendo il suo autore fra gli storici dell'arte tedesca di prim'ordine. Infatti, qui ci vien posto sotto gli occhi ciò che costituisce l'essenza sua più intima, la trasformazione della storia dell'arte nella storia dello spirito. Con ragione i devoti editori delle sue opere postume, già menzionati, intitolarono un volume della raccolta, quello contenente gli articoli suoi più importanti: Storia dell'arte come storia dello spirito». Questo nome segna chiaro il mutamento avvenuto nella vita spirituale tedesca intorno al '900, come si manifesta nella netta distinzione, del Rickert e del Dilthey, fra pensiero storico e naturalistico; particolarmente il Dilthey agì fortemente sul Dvorák, e Frey dice, con ragione, come ciò sia già visibile nel bellissimo: Les Alicans, piccolo contributo del Dvorák alla pubblicazione in onore del Wickhoff, del 1903. Infatti qui si ripresenta la problematica della storia dell'arte del Riegl rielaborata secondo uno spirito nuovo e particolare. Il Dvorák, dopo di aver compiuto quell'equiparamento fra «medioevo» e «rinascenza», che il suo spirito aveva già iniziato, se non chiaramente condotto a termine, nei suoi lavori precedenti, si riallaccia infine, ormai artefice maturo, al modo di concepire del Riegl, considerando il barocco come derivato dal «manierismo» italiano, E questo è il punto nel quale appare più evidente la parentela spirituale di questi due uomini: infatti qui entra in gioco un problema attuale, quello del rapporto fra la loro arte e la loro «Weltanschauung». Così come il Riegl, rimase il Dvorák lontano dall'arte dei suoi tempi; come quello proiettò il passato nel presente in conclusioni « intellettuali »; mentre invece il Wickhoff passò, nella sua gioventù, con la sua intuizione sensibile, attraverso l'impressionismo, che, come egli stesso ne convenne, svelò ai suoi occhi una fase dell'arte antica a quello apparentata. Il documento più importante, a questo proposito, è l'introduzione ad una serie di litografie di un artista austriaco, amico suo, del Kokoschka; unico scritto dove il Dvorák pubblicamente si sia espresso sull'arte moderna: la contrapposizione fra il famoso «Mucchio di fieno» del Monet e le «variazioni sulla testa di una giovane donne» del pittore a lui contemporaneo, ch'egli pone genialmente l'uno di fronte all'altre, come i campioni dell'impressionismo ed espressionismo, si trasforma, per lui, in problema di «storia dello spirito», nel superamento della pura contemplazione formale mediante la filosofica. Questo è l'orientamento che mostrano gli ultimi scritti del Dvorák; il «parallelismo» che si credette di aver trovato nella grande opera dello Schnaase, la trattazione storico-culturale e storico-stilistica, è qui risolta in una sintesi: ciò che va interpretato esteticamente si fonde col logico-istorico. Il pensiero corre qui ad un'osservazione, fatta dal Wickhoff stillo scolaro ch'egli grandemente amava e stimava, che rimase impressa nella memoria del Köhler: «è in fondo peccato che il Dvorák sia divenuto storico dell'arte e non della cultura»; osservazione che rispecchia tanto l'indole stessa del Wickhoff, quanto la chiara intuizione di quella dell'altro. Veramente può sorgere il dubbio, se la storia dell'arte, come quella del suo linguaggio, non corra il pericolo, su questa via, di venir contaminata. Ciò venne di fatto detto, e con chiarezza ed acume, dal Kaschnitz-Weinberg, nella sua già mentovata breve recensione del Riegl: l'opera d'arte può, in questa guisa, cadere nella situazione opposta di quando essa serve a puro documento di «stile» per una stretta contemplazione formalistica, dove, se anche appare oggettivata astrattamente, rimane però più vicina al suo fenomeno originario, alla sua sorgente; qui invece esiste un pericolo assai peggiore, cioè che il logicismo (od uno psicologismo, come nel Riegl) prenda il posto del superato esteticismo, andando così perduto il carattere autonomo della disciplina a vantaggio di teorie filosofiche formulate a priori, fondate principalmente su astruse interpretazioni di fonti letterarie. In quell' importantissimo scritto del Dvorák sull'idealismo e naturalismo del medioevo, affiora più di una volta questa secca; uno spirito superiore come il suo poté schivarla, mentre in più di un caso vi si sono arenate miseramente, anche in tempi recenti, nature più deboli e meno critiche. Queste osservazioni vogliono soltanto brevemente e di sfuggita accennare i confini inevitabili, che sono posti anche alle più forti intelligenze; perché si tratta di una questione, proprio oggi, delle più «attuali», che inoltre tocca i problemi della «forma interna del linguaggio», della «struttura» dell'opera d'arte entro la sua situazione storica; problemi, l'importanza dei quali ripetutamente si scorge nel Riegl. Uno dei miei scolari più originali, il già mentovato H. Sedlmayr, cercò, forse con troppa esuberanza giovanile, di ristabilire qui la connessione con quella «psicologia della forma», che andava sorgendo in Austria, specialmente per opera dell'Ehrenfels. Questa tendenza verso la psicologia moderna, quale già il Riegl l'aveva in sé presentita, si palesa oggi diffusa nella più giovane generazione; debbo, a questo proposito, nominare uno dei miei più cari «primi scolari»: E. Kris, i cui studi riprendono appunto questa via con notevole circospezione critica. Mia almeno una cosa è certa: dubbi come quelli sopra proposti non possono diminuire affatto l'alto significato della figura di studioso del Dvorák; solo, piuttosto, darle maggior rilievo. INCIPIT AUCTOR Allorquando nel 1921, all'età di 47 anni, come il Riegl, pure il Dvorák fu colpito da morte prematura, sembrò che la scuola viennese venisse minacciata da una crisi ancor più dura di quella passata alla morte del Wickhoff nel 1909, anzi minacciata nella stessa sua esistenza. Ché allora poté essere superato il pericolo sovrastante, perché si aveva nel Dvorák il successore predestinato alla vecchia cattedra del Wickhoff, lo avevo, come già venne riferito, rinunciato da un pezzo ad una vera e propria carriera accademica e non avrei mai pensato di dovermi trovare di nuovo di fronte a tale questione; sembrava assurdo che il più vecchio dovesse succedere al più giovane; ché il Dvorák si considerò sempre, nei suoi rapporti privati con me, fino negli ultimi tempi, come uno «scolaro riconoscente», denominazione ch'io ritenni sempre dovuta molto più alla amabilità di quest'uomo squisito, che ai reali rapporti esistenti fra noi. Amici e nemici debbono concedermi che non mi diedi veramente nessuna pena per la successione alla cattedra, allorquando la commissione della facoltà avanzò la sua proposta. Sebbene, dopo la rivoluzione, i miei rapporti col mio vecchio museo (vero museo di vecchi tempi, ai quali mi sentivo più consono che al presente coi suoi nuovi ideali certamente più vasti) si fossero, con l'assunzione di questo da parte dello Stato, mutati da capo a fondo, pure ero, come si può ben capire, ad esso attaccato, per quanto non potessi, né dovessi, nascondermi, che anche qui i miei giorni erano contati, appunto perché non potevo più acconciarmi a queste nuove circostanze e, innanzi tutto, non volevo, né potevo, togliere il loro posto al sole ai miei vecchi, cari e fedeli collaboratori ed amici, in particolar modo ai più giovani, nella loro posizione divenuta sempre più opprimente, soprattutto date le pretese sempre crescenti sul rendimento materiale del loro lavoro. Non ho bisogno di insistere più a lungo sul dolore che io, come il Riegl, provai nel separarmi dal contatto quotidiano con gli «oggetti»: lo sentii per me, come egli per sé, quasi un pericolo. La mia cattedra «libera» bastava, come già un tempo, ai miei modesti desideri in questo campo; non bramavo affatto altri pesi accademici, tanto più che, conforme alla mia natura al tutto «asociale», non precisamente espansiva ed anche piuttosto scettica, mi sentii per lungo tempo un «outsider» nella Facoltà e non chiamato a fare di me un maestro, né, ancor meno, un «caposcuola». La particolare posizione poi della nostra disciplina all'università non costituiva per me, per dirla sinceramente, un'attrattiva. Da lungo tempo sognavo un'esistenza da uomo di studi, tranquilla, modesta, senza desideri, alla quale credevo poter accampare dei diritti dopo più di trent'anni di servizio, sia pure malgrado l'avversità dei tempi. Per l'appunto allora si era presentata la possibilità di realizzare questo vecchio sogno, lungamente cullato, e di chiudere i miei giorni su terra italiana, che, per tradizione ed in parte anche per origine familiare, considero sempre mia seconda patria. Non senza ragione e con un doppio senso certamente comprensibile solo agli intimi, avevo dedicato, qualche anno prima della guerra, alla «Terra madre Italia» la mia grande edizione dei Commentarii del Ghiberti. E così si capirà facilmente anche oggi, perché abbia tentato per ben due volte di trovare una soluzione, che escludesse in parte o del tutto la mia persona; una volta, quando proposi Wilhelm Pinder, apprezzato non solo da me, ma, come mi constava di positivo, pure dal Dvorák; poi quando questi, che sembrava prima pronto ad accettare, infine rifiutò, proponendo l'ottimo Wilhelm Köhler, proveniente inoltre dalla nostra scuola, allora già da parecchio tempo direttore dei museo di Weimar, proprio in quel momento in procinto di prender la libera docenza a Jena; se egli potesse starmi al fianco, come straordinario e forse come futuro successore, riterrei possibile un'esistenza più sopportabile all'Università e, prima di tutto, più feconda per la nostra scuola viennese, per lo meno fino a quando io possa ancora essere utile. Quando tutte queste combinazioni fallirono per l'opposizione del ministero, non mi rimase altro che accettare, veramente non a cuor leggero, cattedra ed Istituto, e parimenti quel posto nel corpo insegnante dell'Istituto storico, che una vecchia tradizione collegava a questi per unione personale; li accettai essenzialmente per «dovere di soldato», e per la riconoscenza che professavo al vivaio nel quale io stesso mi ero formato. Se ed in che misura io abbia assolto il compito urgente di riprendere il timone di questa nave abbandonata a sè stessa, lo giudicheranno gli altri e più tardi; ciò si addice tanto poco a me, quanto il dare giudizi sulla mia personalità scientifica. Non posso qui che accennare brevemente al tentativo fatto al momento di assumere l'insegnamento, di dare una mia biografia, non «empirica» esteriore, ma intima e spirituale, destinata in particolar modo ai miei futuri allievi, voglio dire il Lebenskommentar, che così chiamai ricordando il mio vecchio amico Ghiberti e pubblicai nelle Kunstwissenschaft der Gegenwart in Selbstdarstellungen. Una bibliografia delle mie opere venne fatta, con cura ed amore, dal mio caro allievo e poi secondo ex-assistente Hans R. Hahnloser nella pubblicazione che un piccolo cerchio di amici intimi e scolari vollero dedicarmi in occasione del mio 60° compleanno. Mi resta ancora però a dare un breve resoconto sul campo abbracciato e sui fini perseguiti dalla mia attività in quasi dodici anni trascorsi nel già cosidetto secondo Istituto di storia dell'arte, quale sede attuale della scuola viennese. Prima di tutto vidi subito chiaramente, e fu a suo tempo una delle ragioni della mia riluttanza ad accettare la cattedra, che non era possibile pensare ad una collaborazione proficua con l'altro Istituto sorto nel 1910, tanto più che io non possedevo l'indole pieghevole del Dvorák ed ebbi sempre l'orrore di qualsiasi compromesso. Ero già pronto a ritirarmi dall'insegnamento piuttosto che ad addivenire a ciò, quando vidi con piacere questa separazione di letto e di mensa avvenire per mutuo consenso, regolata quasi senza attriti: da allora in poi ognuno dei due Istituti andò per la sua strada fino a quando, nel 1933, l'uno dei due venne soppresso. Che con ciò si fosse creata una situazione ideale, in quanto ora vi erano due classi-tipo di studiosi d'arte, sono le mille miglia lontano dal volerlo affermare, e ne avevo anche allora pienamente coscienza. Ma non volevo, né potevo, esigere più oltre dai miei scolari personali che lavorassero seguendo due metodi, dei quali l'uno era la negazione dell'altro, condizione che doveva condurre non a chiarezza, ma solo a confusione oppure ad un meccanico «imparare a memoria». Non furono, come si potrebbe credere, tanto motivi di insofferenza personale da entrambe le parti che diedero origine a questa separazione, quanto puramente tecnici; certo non tali che, sebbene vi fossero fortissime opposizioni nella concezione e nel metodo, queste non avrebbero tuttavia potuto, grazie ad una critica produttiva, mostrarsi in sommo grado feconde per lo sviluppo di tutti i problemi, anzi quasi loro premessa. Qui ci trovavamo piuttosto di fronte ad un'opposizione in materia di professione di fede scientifica, che non va affatto interpretata come ortodossia o eterodossia, ad un'opposizione totale, che nessuna dialettica poteva risolvere, fra due modi di concepire e di esprimersi, affatto diversi, fra i quali era impossibile qualsivoglia mediazione, sopratutto in ciò che concerne il loro punto di vista circa le due colonne di ogni «scienza dello spirito», circa cioè la conoscenza filosofica e storica nel loro reciproco rapporto. Non è qui il luogo, e sarebbe in tali circostanze assolutamente inutile, di voler entrare in una critica, ancor peggio in una polemica su questo argomento; basta riferirne il fatto compiuto. Conseguenza di tutto ciò fu, che naturalmente l'ordinario della disciplina più affine, della storia dell'arte classica, venne aggiunto, come secondo relatore ed esaminatore, ai «Rigorosen» (cioè sedute di laurea)debbo qui ricordare con la massima gratitudine il mio venerato amico e collega Emil Reisch morto da poco -; donde seguì, che gli allievi dei mio Istituto dovettero occuparsi intensamente di archeologia classica, il che, in fondo, non era cosa ovvia solo da un punto di vista formale, ma, innanzi tutto, effettivo e conforme alla tradizione della nostra scuola dal Bóhm-Eitelberger in poi; tradizione che, con l'opera del Wickhoff e del Riegl, aveva assunto uno speciale significato, come non occorre di ripetere più oltre. E così si era ritornati nella stessa situazione nella quale ci trovavamo prima della fine del secolo; anche la commissione che mi esaminò ai suoi tempi, era costituita da Wickhoff, Benndorf e Sickel, dal triumvirato quindi dei rappresentanti della storia dell'arte antica e moderna e delle cosidette scienze ausiliarie storiche, principio che ho sempre ritenuto giustissimo e che, probabilmente, è evidente per tutti gli storici. Vi mancava però ancora l'ultimo elemento importante, ossia quel rigido metodo di ogni istoria, che doveva venire imparato nella scuola del Sickel, strettamente unita alla nostra. Frattanto prese sempre parte almeno uno storico dell'arte al corso, alternato ogni due anni, dell'Istituto austriaco, in qualità di membro «ordinario», di vincitore di una borsa di studio (avendo in vista di usufruirne poi all'Istituto di Roma), di assistente del cosidetto « laboratorio », compiendovi un tirocinio di tre anni (compresi i «corsi preparatori »), e vi poteva essere assunto, al più presto, dopo il quarto semestre universitario e dietro esami. I legami fra i nostri due Istituti si erano, quasi per forza di cose, negli ultimi tempi allentati, dall'epoca nella quale, coi Wickhoff, l'Istituto di storia dell'arte (allora come oggi unico) aveva raggiunto una perfetta autonomia e, ciò nonostante, il suo direttore aveva continuato a far parte ad personam dei corpo insegnante dell'Istituto di storia. Vi erano per così dire storici dell'arte di primo e secondo grado, i primi conseguivano il diploma, dopo di aver sostenuto esami di Stato dell'Istituto, che li abilitava a posti nei musei e nelle biblioteche; gli altri, la sola laurea; ciò che doveva condurre ad una concorrenza contraria alle intenzioni dell'Istituto -madre. D'altra parte le file degli studiosi di storia dell'arte, che nella generazione passata erano ancora rari, andavano sempre più aumentando ed era quindi quasi escluso ch'essi potessero tutti, sia pur soltanto come « straordinari », divenire membri dell'Istituto storico. Perciò risolsi, anche per impedire l'afflusso dei meno atti, di introdurre un corso preparatorio di due anni per principianti, nel quale essi avessero ad impadronirsi teoricamente e praticamente delle «scienze ausiliarie» più importanti: la paleografia latina e la diplomatica almeno dei documenti imperiali, esercitandosi poi in colloqui. Soltanto quando possono presentare attestati soddisfacenti li assumo con pieni diritti e doveri come membri ordinari nel mio Istituto; sistema questo, credo, che ha dato buoni risultati. Debbo, a questo punto, ricordare con riconoscenza l'aiuto prestatomi dal mio insigne collega Hans Hirsch, attuale direttore dell'Istituto austriaco; cosciente della situazione si caricò, oltre a tutti gli altri suoi impegni, di un non lieve fardello, riuscendo di grande profitto ai miei scolari col suo insegnamento accurato ed animatore. Voglio solo sperare di essere stato in grado di offrire almeno in parte quasi altrettanto agli storici dell'Istituto, che ci sono da sempre così strettamente legati - basta ricordare ancora il Riegl ed il Dvorák - e che, dalla riforma degli studi dei Sickel in poi, hanno la storia dell'arte come materia obbligatoria. Fui generosamente aiutato in questo compìto dal mio provato collaboratore e collega, il prof. K. M. Swoboda, ottimo elemento didattico, al quale procurai tempo fa un incarico per storia dell'arte austriaca, nella convinzione, che corsi ed esercitazioni su monumenti esistenti sul patrio suolo, e quindi sotto gli occhi di tutti e a portata di contemplazione diretta, costituiscano la miglior preparazione di studi non solo per gli storici, ma pure per i principianti di storia dell'arte. In codesta guisa oggi gli allievi provenienti dal mio Istituto hanno anche una perfetta scuola «tecnico»-istorica, realizzandosi così nuovamente il vecchio programma d'esami più sopra accennato. Non tralascio neppure di raccomandare ai miei scolari lo studio delle lingue moderne, sopratutto quello delle romaniche, a loro tanto utile, e particolarmente dell'italiano, indispensabile per lo studio sia dei Vasari sia delle altre fonti della storia dell'arte, delle quali debbono servirsi; anche questo diede già buoni frutti. E' facile comprendere come io li indirizzi ad un serio studio della filosofia, sulla quale materia debbono sostenere, del resto, il «Nebenrigorosum »; anche su questo punto sì è fatto un notevole progresso, in quanto la filosofia non è più, per fortuna, una semplice questione formale di solo «imparare», come tempi addietro (e ancora ai miei tempi), ma, grazie ai suoi odierni rappresentanti, qualcosa da prendersi molto sul serio. Nei miei quarant'anni di attività pedagogica ebbero sempre la preponderanza lezioni ed esercitazioni su oggetti sopratutto dell'ex-Hofmuseum, dove io, nella mia qualità di impiegato, mi potevo muovere, naturalmente, con maggior libertà di un estraneo. Ormai da circa dodici anni continuo nel mio Istituto quella tradizione della scuola viennese che, come si sa, risale, attraverso il Thausing ed il Wickhoff, fino all'Eitelberger ed al Bóhm; ché sono dei parere essere le esercitazioni di seminario la spina dorsale di tutto l'insegnamento accademico e le più atte a rinsaldare i contatti fra scolaro e maestro. Qui sopratutto viene dato il posto che le spetta, come fu già detto a più riprese, all'intuizione immediata; si sa come in particolar modo nella plastica (alla quale rivolsi sempre preponderantemente la mia attenzione, perché di fronte alle sue sorelle, più facilmente accessibili, a lei tocca spesso la parte di Cenerentola) l'aver a che fare con fotografie e, ancor peggio, con zincografie, abbia condotto a conclusioni al tutto errate; già parecchi anni fa Konrad Lange parlò con molto spirito di una «autotypitis». Queste esercitazioni nei musei acquistano efficacia specie grazie alle conferenze tenute nelle Gallerie ex-Imperiali da un conoscitore così fine qual'è L. v. Baldass, la cui libera docenza ritenni assai importante. Debbo al mio stimato collega E. Löwy se i miei scolari possono farsi l'occhio, praticando pure le raccolte antiche; e mi sono rallegrato, dopo di essermi a ciò adoperato con tutte le mie forze, nel vedere come l'odierno direttore delle nostre raccolte d'antichità, F. Eichler abbia ripreso recentemente questa tradizione. A queste vanno aggiunte le mie esercitazioni, tenute nell'Università con l'aiuto di un bellissimo episcopio, regalato a me personalmente da forestieri amici di questa cattedra, le quali servono sopratutto come introduzione allo studio delle fonti secondarie, di quelle scritte ed alla loro critica; vecchia tradizione anche questa della nostra scuola, dall'Eitelberger in poi. Naturalmente le letture del Vasari ne formarono e ne formano il centro, perché egli è innanzi tutto la figura-tipo in questo campo e la teoria e l'istoriografia italiana dell'arte sono le più vecchie, d'esempio per tutta Europa e di massima influenza; perché, inoltre, la critica del Vasari non ha ancora per nulla attirata quell'attenzione, che il mio collaboratore W. Kallab, già da tempo scomparso, aveva, cori ragione, richiesta; e ciò porta con sé tutti i relativi svantaggi per una storia dell'arte scientifica, che possa veramente stare a pari alle altre discipline storiche. Non è questo però affatto l'unico motivo ed argomento di queste esercitazioni, come mi venne a volte rimproverato. In realtà percorsi qui coi miei allievi, esattamente come nelle esercitazioni al museo, tutta intera l'ampia regione della tarda classicità (all'incirca dalla Passio IV Coronatorum all'Heraclius) fino al barocco e non solo in Italia, ma pure nelle province nordiche, tanto francesi, che tedesche. Una parte di queste esercitazioni, alle quali collaborava il mio assistente Hahnloser, ed ora il Sedlmayr, con corsi speciali per principianti e che debbono servire ad un'intuizione anche dell'arte moderna, vengono compiute inoltre con recensioni di progrediti sopra problemi specialmente importanti della storia dell'arte in genere, non limitati al solo occidente; non abbiamo temuto neppur qui, come nel museo, di sconfinare nei campi limitrofi dell'archeologia e, a volte, persino in quello dell'Islam, importantissimo pel medioevo cristiano. Da queste esercitazioni nacquero, com'era loro scopo, un numero ragguardevole di tesi di laurea, per quanto già abbia detto come anch'io, al modo tenuto a suo tempo dal Wickhoff, tenga a non assegnare per le lauree temi come nelle scuole, perché già la scelta libera ed indipendente di un tema costituisce, fino ad un certo segno, una prova della richiesta maturità; bisogna però che si tratti veramente della posizione di un problema, reale e non solo apparente, e non di un puro lavoro di preparazione o di una raccolta di materiale per quello. Se, dopo tutto quanto esposi fin qui, mi si vuol battezzare « filologo », accetto volentieri tale nome, purché non sia nel senso dispregiativo col quale viene spesse volte usato. « Filologo classico » lo sono d'origine e giunsi attraverso l'archeologia alla storia dell'arte, come scolaro dei Benndorf e di W. Klein; che io poi, come giovane impiegato nel museo, passassi all'insigne « Münz und Antikenkabinet», nel quale splendeva ancora il gran nome dell'Eckhel, ciò non portò, credo, pregiudizio allo «storico dell'arte». Ma ritengo di aver sempre compreso la «filologia» nel senso di quella grande vecchia disciplina, ben organata, che cerca, partendo dalla indispensabile critica dei testi, che ne costituisce il fondamento, di giungere alle ultime fonti della conoscenza storica. 1 trent'anni di amicizia spirituale, che mi legano a B. Croce ed a K. Vossler, possono essere almeno un sintomo dì codesto mio modo di pensare; che quest'ultimo nel 1923 mi abbia dedicato la sua opera sulla filosofia del linguaggio (Gesammelte Aufsätze zur Sprachphilosophie), lo ritengo uno dei più grandi onori toccati a me, che, pel resto, vivo assai appartato. Nelle mie lezioni, concepite come compimento alle esercitazioni e specie di sintesi di queste, non persi, o almeno cercai di non perdere mai di vista il nesso storico- universale. Da prima mi sforzai di dare una specie di propedeutica della teoria dell'arte a partire dagli incerti principi, ormai però lontani nel tempo; cercai il centro della visione filosofica donde deve partire lo storico, in qualità di filosofo «al rovescio», per capire i fenomeni; cercai sopratutto di chiarire a me ed ai miei ascoltatori, cosa sia arte, e cosa storia e cosa significhi la sintesi di questi concetti; infine cercai di gettare uno sguardo, almeno generale, come sul naturale rovescio di tali questioni, sulla genesi del problema di storia dell'arte, sulla « storia della storia dell'arte ». Giunsi su questa via, partendo dal vecchio esempio già dato di storia del linguaggio e « storia della letteratura », dal Vossler magnificamente esposto nella sua problematica, a separare la pura storia dell'arte autonoma, che ha a che fare con le grandi creazioni originali e non con «scuole», imitatori, copisti, o «zelanti industriali», da «storia del linguaggio» dell'arte: a ciò dunque, a cui era giunto il Vossler in un suo scritto anteriore, nel 1905, quando distingueva «creazione» da «evoluzione» del linguaggio. Cercai di perseguire metodicamente, in una serie di lezioni, entrambi questi problemi: esponendo la storia dell'arte italiana dal Dugento fino al Quattrocento, scelta che cadeva per l'appunto su uno dei campi da me lavorati per anni, ciò che mi sembra del resto necessario presupposto; quindi tentando di delineare brevemente il quadro della storia del « linguaggio artistico», partendo dalla tarda classicità, che contiene le premesse vere e proprie di ogni conoscenza dell'arte « medioevale »; tutto ciò non nel senso però di una «grammatica storica», che da tempo si era svelata via falsa e problema apparente. Debbo confessare, con grande riconoscenza, che tutte queste mie aspirazioni si consolidarono orientandosi al pensiero «neo-idealista» del Croce; e questo è il motivo per cui dedicai parecchi anni alla traduzione delle sue opere dirette agli stessi ideali. Nei miei giovani anni l'« estetica » era l'orrore e lo spavento degli storici d'arte; l'ultimo sistematico nel senso dell'estetica herbartiana, che ne scrisse pure la storia, R. Zimmermann, aveva cessato da un pezzo di insegnarla prima ch'io fossi studente; serbo ancor vivo il ricordo del come il fine storico dell'arte e della letteratura Hermann Hettner, il cui influsso ancora perdura, volendo precisamente bandire ogni sorta di estetica, fosse rimasto preso al laccio della dottrina dogmatica. Ancor giovane docente vagai per questi labirinti e, avendo avuto già fin dai tempi del ginnasio qualche contatto con lo spirito dello Schelling, allora assai disprezzato, mi tormentai con alcuni di questi «sistemi», anche con quello dello storico dell'arte Konrad Lange, finché nel 1903 l'Estetica del Croce mi portò, finalmente, la liberazione e l'amicizia del suo autore. Tutto quanto venne finora qui esposto è il risultato, lo posso ben dire, di un retto volere; fin dove poi il potere sia andato di pari passo, è dubbio che, avvilendomi, assale molto sovente me, vecchio scettico. Ma mi sono lasciato trascinare molto troppo a parlare della mia persona e bisogna che cessi, ché la parte da me avuta nella «scuola viennese» la sento soltanto come quella del «portatore di fiaccola», per dirla ancora una volta col mio vecchio Lucrezio, da me prediletto fin dai banchi della scuola. Sarò pago, quando verrà il mio tempo, anche se la mia missione si sarà limitata a trasmettere nelle mani del mio successore, intera ed intatta, la tradizione della nostra vecchia scuola e, sopratutto, il legato dei miei maestri Sickel e Wickhoff. Non vorrei perciò chiuder questo schizzo col mio effimero nome, ma vorrei invece gettare uno sguardo sui luoghi dove questa scuola si fece grande, sulla nostra Vienna, alla quale appartengo, non tanto per la mia nascita, avvenuta qui quasi per caso, in nessun modo poi per origine e neppure per disposizione spirituale, ma piuttosto per essermi quivi sviluppato. Del resto è caratteristico per la «seconda» capitale tedesca, col suo variopinto mosaico e colla sua speciale missione nel vecchio impero - ciò è evidente nella lista degli appartenenti e «affigliati» alla nostra «scuola viennese» redatta dal mio coadiuvatore H. R. Hahnloser - che nessuno dei suoi capi, a cominciare dal suo fondatore von Eitelberger, fino al Dvorák, provenga dalla sua terra. In molti luoghi di queste noterelle si parlò ripetutamente della terra viennese e del fluido particolare che, emanato da lei, pervade la nostra «scuola»; ci sia concesso ora, a mo' di conclusione, di toccarne ancora brevemente. L'antichissimo castello romano di confine, posto proprio all'incrocio delle strade, che conducono dal nord al sud, e delle vie fluviali, che conducono dall'occidente all'oriente, tanto accolse correnti che qui tendevano da tutti e quattro i punti cardinali, quanto ne irradiò poi in queste stesse direzioni. Questa città con la sua multiforme miscela di razze fin da tempi immemorabili, cui celto-romani nella grigia preistoria, germani e romanici nel periodo del suo sviluppo diedero carattere, non senza impronte slave, è, come fu già in antico osservato, luogo tanto di solidissima tradizione, quanto di agile sensibilità ed intuizione - ben troppo sovente i necessari difetti della sua indole vennero sfavorevolmente sottolineati, a partire da Enea Silvio fino al Nicolai ed allo Schiller. Ma furono proprio questi elementi settentrionali e meridionali, occidentali e orientali nella loro caratteristica fusione, che costituirono da sempre la magica forza d'attrazione di questa « città imperiale », unica vera città imperiale della Germania. Il che si appalesa anche nell'essenza della « scuola » sorta su questa terra. li suo patriarca fu un emigrato evangelico dell'Ungheria tedesca, ma alla sua cerchia appartengono degli autentici viennesi come lo Heider, il v. Sacken e pure il Camesina, sebbene di origine svizzero-romanica. Ma il più importante fra loro, era oriundo di una città dei monti Sudeti, di natura affatto diversa, che, per la loro rude energia, si differenziano profondamente dalla regione alpina dalla quale provenivano il Wickhoff ed il Riegl. Il Thausing, nel quale non si può non riconoscer un'impronta propria soltanto a Praga e a Vienna, proviene dal cuore della città reale della Moldava, tanto legata a Vienna; il lombardo Morelli, che tanto deve alla vita spirituale tedesca, divenne, da nemico (politico) di Vienna, suo amico e guida e non spiegò in nessun altro luogo tanto intensamente la sua attività; e così due tedeschi del nord, prima il Sickel, poi il Conze, furono quelli che diedero alla «scuola viennese» i tratti fondamentali della sua caratteristica fisionomia scientifica. E da ultimo riuscì a questa città (chiamata, in un momento di quel malumore a cui vanno soggetti gli autentici viennesi, dal più illustre dei suoi figli, certo con troppa amarezza, col nome tuttora appropriato di « Capua degli spiriti ») di fare una delle sue più belle scoperte ed acquisti nel Dvorák, oriundo di terra ceca, conquistato quasi del tutto allo spirito tedesco viennese ed austriaco. Colui che scrive queste righe e che fu, contro ogni sua aspettativa ed aspirazione, chiamato a divenire il suo successore nella scuola viennese, non può chiuderle meglio, che nel nome, per noi indimenticabile, del Dvorák. Da quando assunsi, tardi, forse troppo tardi, la cattedra della nostra scuola, fino al momento in cui rileggo ancora una volta queste righe, sono trascorsi tredici anni; dopo quasi quarant'anni di vita accademica i limiti di età mi imporranno presto il riposo. E questo è bene: la gioventù può e deve reclamare i suoi diritti. Posso consegnare al mio futuro successore intatta, credo, la vecchia eredità della nostra scuola; mi rallegro d'aver allevato, il che da principio avrei appena osato sperare, un numero ragguardevole di ottimi scolari; molti di essi lavorano già scientificamente in istituti di ogni specie, in paese ed all'estero, pionieri della vecchia scuola viennese. Recentemente ebbero l'onore di essere nominati, rispettivamente a Praga ed a Berna, due ottimi miei amici e scolari, Karl U. Swoboda e Hans R. Hahnloser. E la generazione più giovane, proprio quella gioventù nella quale avevo poste le mie speranze, si agita dovunque piena di ardore, anche in altri campi. Bisogna ch'io ricordi qui ancora un terzo giovane studioso a me caro, il quale, come docente ed assistente, sta solerte al mio fianco: Hans Sedlmayr; mi pare, così si vada preparando un ringiovanimento della nostra vecchia scuola. Questi giovani, pur tenendosi saldi alla tradizione istorico-filologica, trovarono il punto di contatto col pensiero filosofico, sopratutto con l'estetica e la psicologia moderne, - come ci si guardava tempi addietro da simili « deviazioni »! - e non per ultimo con la dottrina del mio vecchio venerato amico Benedetto Croce. E se io posso pensare di attribuirmi qualche merito in tutto ciò, esso consiste nell'aver reso nota questa dottrina con le traduzioni e col mio insegnamento, per quanto imperfetto in principio, su questo grande maestro; che essa poi incominci a diffondersi, lo considero come il miglior frutto della mia attività d'insegnante; ciò di cui io, vecchio scettico, avevo tante volte dubitato, ossia del mio modesto ufficio di mediatore fra cultura tedesca ed italiana, non è dunque stato del tutto invano.