Il Foglio 17 giugno 2013 - Over-blog

Transcript

Il Foglio 17 giugno 2013 - Over-blog
In Afghanistan sempre più scuole e vittime Nato. La paninoteca di Vienna con il sandwich “Don Falcone”
Cinquantamila.it,
domenica 9 giugno
Lince Ieri tre carri
armati Lince italiani
stavano rientrando alla base nella
FIOR DA FIORE
cittadina afghana di Farah quando
sono stati colpiti con una bomba: è
morto sull’istante il capitano Giuseppe La Rosa, 31 anni, del 3° reggimento Bersaglieri e originario di
Barcellona Pozzo di Gotto, nella
provincia di Messina. Altri tre commilitoni sono rimasti feriti. La rivendicazione talebana diceva: «Un
coraggioso ragazzino undicenne ha
compiuto questa gloriosa operazione». Invece alcuni testimoni hanno
visto un uomo in uniforme afghana
che avrebbe lanciato la granata
contro il Lince. Sale così a 53 il numero degli italiani uccisi dall’inizio della missione in Afghanistan,
nel 2004. Il numero totale dei morti Nato dalla guerra dell’autunno
2001 supera ora quota cinquemila.
Reclute Negli ultimi quattro anni
in Afghanistan sono cresciute le aggressioni di reclute afgane contro i
loro mentori stranieri. Nel 2012 quasi il 17 per cento delle vittime Nato
sono stati istruttori attaccati dagli
stessi uomini che dovrebbero addestrare.
Scuole In Afghanistan adesso ci
sono 40 mila scuole (200mila inse-
gnanti): erano 650 al tempo dei talebani.
Vacanze Secondo una ricerca di
Confesercenti-Swg solo il 58% degli
italiani quest’estate andrà in vacanza (era l’80% nel 2010). Trademark ha
stimato per la stagione 2013 perdite
per 2,7 miliardi di euro di fatturato.
Notizie preoccupanti anche per l’occupazione stagionale, per cui si prevede un calo di 250-300 mila unità. In
media, oggi ogni italiano per le ferie
spende 961 euro per andare in villeggiatura, contro 1.056 di prima della crisi. Infine: dalle due settimane
di vacanze del 2008 si è passati a 12
giorni (Giubilei, Sta).
Panini A Vienna la paninoteca
(ora chiusa) Don Panino, sulla Seidengrasse, gestita dagli italiani
Marco e Julia Marchetta. Tra i
sandwich che glorificavano personaggi della malavita: Don Greco,
Don Buscetta, Don Corleone. Nel
menù anche Don Falcone, «il più
grande rivale della Mafia, purtroppo è stato arrostito come una salsiccia». Oppure Don Peppino (allusione a Impastato): «Siciliano dalla
bocca larga, fu cotto da una bomba
come un pollo nel barbecue».
lunedì 10 giugno
Tasse Dal 2008, avvio della scorsa
legislatura, sono state varate per le
imprese 288 norme fiscali. «Oltre
quattro volte superiore a quello del-
le 67 “semplificazioni” fatte nello
stesso periodo: ogni norma approvata per snellire la burocrazia ne ha
quindi portate con sé 4,3 capaci di riversare altra sabbia negli ingranaggi. E forse non è un caso, sottolinea
l’ultimo rapporto della Confartigianato che contiene questo dato scioccante, che “la pressione burocratica
abbia lo stesso ritmo di crescita della pressione fiscale”. Ha raggiunto il
44,6 per cento, livello mai visto dal
1990, anno
(segue a pagina due)
IL FOGLIO
Redazione e Amministrazione: via Carroccio 12 – 20123 Milano. Tel 02/771295.1
ANNO XVIII NUMERO 141
Maurizio Alletto, 31 anni. Romano, fidanzato, figlio di operai, ultras della Lazio,
«pieno di amici e disincantato», l’altro pomeriggio era in auto con suo padre quando
a un incrocio quasi investì Luciano Coppi,
guardia giurata di 54 anni, e suo figlio Moreno, diciottenne, che attraversavano la
strada a piedi. Ne venne fuori una lite che
peggiorò quando Alletto tirò fuori dalla tasca un coltello a serramanico. La guardia
giurata corse a casa, poco distante, a prendere la sua pistola d’ordinanza e quindi
tornò in strada, dove il diverbio continuava.
D’un tratto Alletto sferrò una pugnalata sul
viso del diciottenne: Coppi, senza pensarci
due volte, gli sparò e corse via. Quando arrivò il 118, parenti e amici dell’Alletto picchiarono i medici (uno è ricoverato con una
spalla rotta) perché secondo loro ci avevano messo troppo ad arrivare. Comunque la
corsa in ospedale fu inutile perché Alletto
morì poco dopo.
Intorno alle 17 e 30 di giovedì 13 giugno all’incrocio tra via Gigliotti e via Carlo Tranfo,
in mezzo ai palazzoni grigi di San Basilio, periferia nord est di Roma.
Sandita Munteanu, 38 anni. Romena, residente a Foligno (Perugia), qualche tempo fa
aveva mollato il compagno Virgil Murariu,
43, solito riempirla di botte, che alla fine
della loro storia non s’era mai arreso. Costui l’altra mattina aspettò che la Munteanu
uscisse dalla casa dove lavorava come badante per andare a fare la spesa e in mezzo
alla strada le infilò un coltello due volte
nella gola. Quindi montò sulla sua Renault
Scenic, inseguito dai carabinieri imboccò il
raccordo per Orte ma a un certo punto, vistosi senza via di scampo, si fermò e si
piantò la lama nel cuore.
Mattina di venerdì 14 giugno nel centro di
Foligno (Perugia) e sul raccordo per Orte nei
pressi di Amelia (Terni).
SUICIDI
Antonio Formicola, 60 anni. Vedovo, due figli adulti, fioraio, l’altra mattina si presentò
al municipio di Ercolano per chiedere che
gli lasciassero un posto auto riservato davanti al negozio. Per evitare che non lo stessero a sentire, s’era portato da casa una bottiglia piena di benzina e una corda. Quando
seppe che il sindaco non era in sede, impugnò un taglierino e fece allontanare tutti, si
sedette sulla ringhiera del primo piano, vi
legò un capo della corda, l’altro se lo passò
intorno al collo, si cosparse di benzina, si incendiò e poi si lanciò verso il basso.
Mattina di martedì 11 giugno a Ercolano.
Giorgio Troili, 32 anni. Disoccupato, «taciturno e depresso», da tre anni viveva in una
palazzina a Cairo Montenotte, nella Val Bormida savonese, con la madre di 67 anni, Mirella Barabino, e il fratello invalido Roberto, 39 anni. Siccome la sua famiglia, che tirava avanti con una pensione sociale e un assegno di invalidità, stava per essere sfrattata, l’altra mattina aprì una finestra e si buttò
di sotto. Volo di tre piani.
Mercoledì 12 giugno al civico 9 di via Pighini a Cairo Montenotte (Savona).
Un uomo di 44 anni. Imprenditore di Gussago (Brescia), assai depresso perché l’ossessione per il videopoker («passava alle
macchinette giornate intere») l’aveva fatto
indebitare con parenti e amici, l’altra notte
andò nell’azienda di macchine da cucire industriali di cui era proprietario e si impiccò
a una trave. A trovarlo che penzolava, la mattina dopo, i suoi operai.
Notte tra mercoledì 12 e giovedì 13 giugno
in un capannone in via Mandoloamici a Gussago, provincia di Brescia.
Sped. in Abb. Postale - DL 353/2003 Conv. L.46/2004 Art. 1, c. 1, DBC MILANO
LUNEDÌ 17 GIUGNO 2013 - € 1,50
DIRETTORE GIULIANO FERRARA
Delitti
L’uomo ammazzato a Roma
in mezzo alla strada. Il fioraio
che s’è dato fuoco a Ercolano
quotidiano
Fuga dei cervelli, melodramma all’italiana
Sempre più giovani laureati lasciano il Paese. E non sarebbe un male, se poi tornassero. Conseguenze di un’Europa senza frontiere
«Questa sera andrò a festeggiare la partenza di un caro amico di 38 anni, che domani prenderà l’aereo destinazione Singapore. Lì lo aspetta un lavoro qualificato,
pagato, dignitoso, di alta specializzazione.
Un lavoro che ha cercato in Italia per troppo tempo perché, per l’ennesima volta, l’azienda per cui lavorava ha chiuso o delocalizzato. Sono ovviamente contento per
lui, ma stasera, con gli amici d’infanzia,
non so ancora se festeggeremo un nuovo
inizio o intoneremo l’ennesimo de profundis della mia generazione» (dalla lettera di
Antonio Cascio a Massimo Gramellini). [1]
«Caro Gramellini, mi rivolgo subito, sia
pure indirettamente, ad Antonio Cascio e al
suo amico. A loro devo prima di tutto delle
scuse. Le scuse a nome di una politica che
per anni ha fatto finta di non capire e che,
con parole, azioni e omissioni, ha consentito questa dissipazione di passione, sacrifici, competenze» (dalla lettera di risposta
del premier Enrico Letta alla Stampa). [2]
Tra il 2000 e il 2010 hanno lasciato l’Italia 316 mila giovani tra i 25 e i 37 anni, muniti di laurea e con ambizioni professionali di alto profilo. I dati arrivano da una
ricerca condotta dal programma Giovani
talenti di Radio24. Il primo paese verso
cui emigrano i cervelli italiani è la Germania, seguita da Inghilterra, Francia e
Stati Uniti. All’ottavo posto c’è già la Cina,
al nono il Brasile. [2]
«Tutto questo non sarebbe un problema se
rientrasse nel normale flusso fisiologico
dei cervelli che esiste in tutto il mondo sviluppato. Per esempio da noi il tasso di
espatri di laureati in discipline scientifiche (matematica, fisica, chimica, biologia)
è del 16,2%, contro il 23,3% della Germania,
il 25,1% della Gran Bretagna, il 21,1% del
Belgio. Il problema è che da noi chi esce
non rientra» (Giuliana Ferraino). [3]
Il caso di Mariolina Eliantonio, 34 anni, di
Pescara, ricercatrice e insegnante presso la
facoltà di Giurisprudenza dell’Università
di Maastricht: «In Italia la carriera universitaria è impossibile, tutti sanno che le selezioni per i dottorati non sono trasparenti. E non parliamo dell’avvocatura, per anni non vedi un soldo. In Olanda, invece, ho
trovato rispetto e solidarietà sociale. Qui lo
Stato non è percepito come un’entità estranea che chiede tasse e non restituisce. Se
tornerei indietro? Assolutamente no». [4]
Un giovane europeo su quattro è disoccupato, ma Germania e Svizzera hanno il problema di non trovare abbastanza forza lavoro specializzata. Così le aziende di lì hanno cominciato a rivolgersi ai Paesi dove la
disoccupazione giovanile è più alta: Italia
(42%), Spagna (55,8%), Grecia (58%) e Portogallo (38,2%). In Germania servono soprattutto ingegneri, specialisti in Information
technology (IT), dottori. [3]
Tasso di disoccupazione giovanile in Italia: 41,9% (dati Istat relativi ad aprile 2013).
In numeri assoluti si tratta di 635 mila disoccupati, ma la popolazione totale in Italia di
età 15-24 è composta da 6 milioni di individui. In realtà quindi, in Italia c’è un giovane
disoccupato su 10 (un numero in ogni caso
molto alto rispetto alla media europea). [5]
Corsivi
il Fatto Quotidiano,
martedì 11 giugno
ndatelo a dire al presidente Usa, che è
un presidente dimezzato perché lo scelgono solo la metà o poco più dei potenziali elettori. Le democrazie mature, quelle almeno dove il voto non è obbligatorio pena sanzione, sono ormai evolute verso tassi di partecipazione
bassi: assuefazione al rito della scheda, intolleranza alla politica, fatto sta che una metà decide per tutti, che il 26% fa maggioranza assoluta. A Los Angeles il sindaco è stato eletto, a fine
maggio, dal 15% degli aventi diritto: e in effetti
qualche mugugno c’è stato sulla sua rappresentabilità. Ormai, le code ai seggi, le affluenze
alle urne alte paiono patrimonio di Paesi che
s’affacciano alla democrazia post dittature o
guerre. Ma ci resta la convinzione che le nostre
elezioni siano più democratiche, più “vere”, e i
risultati meno manipolati, più equi di quelli dove bisogna protrarre l’apertura dei seggi per far
votare tutti e mostrare il dito intinto nell’inchiostro anti-frode.
Giampiero Gramaglia
A
Note: [1] La Stampa 1/6; [2] La Stampa 2/6; [3] Giuliana Ferraino, Corriere della Sera 31/5; [4] Enrico Caporale, La Stampa 30/12/2012;
[5] Davide Maria De Luca, Il Post 15/5; [6] la Repubblica 7/5; [7] Marco Galluzzo, Corriere della Sera 15/6; [8] Fabrizio Ravoni, il Giorna-
L’Ufficio Statistico federale tedesco ha
fatto sapere che in termini assoluti l’Italia
è il Paese del Sud Europa che nel 2012 ha
fatto registrare più partenze verso la Germania: 38.500 persone (+40% rispetto al
2011). I nuovi immigranti sono dieci anni
più giovani della media dei cittadini tedeschi e hanno per lo più una laurea. [6]
Il vertice di venerdì scorso tra i ministri
delle Finanze e del Lavoro di Italia, Francia, Germania e Spagna ha portato alla
scelta di concentrare in un anno solo la
spesa dei 6 miliardi su scala europea (sono
400 milioni per l’Italia) del piano per l’occupazione giovanile Youth Guarantee. [7]
Secondo un calcolo aritmetico, i fondi europei a disposizione, se distribuiti personalmente, garantirebbero ai 5,6 milioni di
giovani senza lavoro in Europa poco più
150 euro l’anno: 42 centesimi al giorno. [8]
Nel 1983, in Italia, ogni dieci persone che
andavano in pensione ce n’erano quindici
assunte per la prima volta. Oggi ogni tredici uscite i nuovi ingressi sono solo quattro. [3]
Il freelance Antonio Siragusa raccoglie
sul suo blog www.iotornose.it le storie dei
cervelli in fuga italiani. Alcuni esempi: il
cardiochirurgo 39enne Ciro Mastroianni
rinuncerebbe alla carriera avviata al PitiéSalpêtrière di Parigi «se i baroni si faranno da parte per dare spazio ai giovani medici, se saranno applicate leggi che già esistono»; Flora, 37 anni, docente di Filosofia
del diritto all’università di Hong Kong, pone una sola condizione: «Io torno se i concorsi pubblici non saranno più fasulli». [9]
Il 61% dei giovani italiani pensa che in futuro la sua situazione economica sarà peggiore di quella dei propri genitori, il 17%
uguale e solo il 14% migliore, mentre il 9%
non risponde. «Per la prima volta dal dopoguerra la nuova generazione sarà più
povera di quella che l’ha preceduta» (dall’ultima indagine Coldiretti). [10]
Walter Passerini: «Senza infingimenti e
demagogie, bisogna dire subito che l’estero non è per i giovani una sconfitta. Basta
vedere quelli che si fanno onore nei di-
versi campi del sapere e dell’economia. Il
vittimismo è figlio del familismo. Un’esperienza all’estero è da mettere in conto,
in un mondo sempre più piccolo e globale.
Semmai c’è da domandarsi perché l’Italia
non è una meta allettante per i cervelli
globali a caccia di opportunità (ne attiriamo solo il 2%, molti di meno di quelli che
scappano)». [11]
Al di là delle questioni di orgoglio nazionale, la fuga dei cervelli genera una perdita
netta ogni anno di più di un miliardo di euro, vale a dire il capitale generato dai 243
brevetti che i nostri migliori 50 cervelli depositano all’estero. Un valore che, considerato nei prossimi vent’anni, potrebbe arrivare anche a quota tre miliardi, come mostra uno studio dell’Istituto per la Competitività. [12]
Confindustria ritiene che, considerando
università, dottorato, master, corsi di lingue
eccetera, l’investimento per la formazione
di un ricercatore costa allo Stato Italiano
circa 800 mila euro. «Solo negli ultimi anni
il nostro paese ha speso grosso modo cinque miliardi di euro e i nostri competitori
increduli ringraziano del prezioso regalo»
ha commentato Giorgio Squinzi. [2]
Scrive Antonio Polito in Contro i Papà
(Rizzoli, 2012): «Cedere i propri giovani a
Paesi con un tasso di crescita e di occupazione più alto presenta sicuramente degli
svantaggi. […] Ma nel breve periodo tolgono pressione dai nostri conti pubblici, perché non dobbiamo mantenerli direttamente con benefit o indirettamente con altra spesa sociale. E nel lungo periodo sono una riserva di forza lavoro qualificata
che può sempre essere riattivata quando
lo choc culturale, o il mutare della congiuntura o semplicemente la nostalgia di
casa li riportasse indietro. Ciò che viene
chiamata “fuga dei cervelli” potrebbe essere una situazione win-win, in cui cioè
tutti guadagnano qualcosa. Mentre da noi
arrivano professionisti di qualifica più
bassa, soprattutto infermieri, dalla Romania, dalla Spagna e perfino dalla Germania. È così che funzionano le aree di libero scambio, dove circolano cioè liberamente le merci, i capitali e le persone, e la
moneta è unica». [13]
le 15/6; [9] Francesca Paci, La Stampa 3/6; [10] Grazia Longo, La Stampa 3/6; [11] Walter Passerini, La Stampa 3/6; [12] Flavia Amabile, la
Stampa 20/8/2012; [13] Antonio Polito, Contro i papà. Come noi italiani abbiamo rovinato i nostri figli, Rizzoli 2012.
Una domandina per smascherare Travaglio e l’idolatria del dettaglio
I
l Dettaglio, che nell’iconologia è segno di
Dio o del diavolo, nel mainstream giornalistico moderno è la maschera grottesca dell’ideologia. I fatti, per un marxista come me
o per un nicciano di lusso, non esistono. Esiste la realtà, il suo principio ch’è la sintesi,
ma non quegli oggettini da sferruzzamento
a maglia che sono i fatti o fatterelli o dettagli. Ho cercato di spiegarlo a Marco Travaglio, abbassandomi al suo metodo di storpiare i nomi e sfottendolo come Marco Dettaglio, ma non ha capito un belin. A forza di
fare da porta parola di Ingroia, Di Pietro,
Grillo & Casaleggio, l’abile giornalista di destra travestito da tribuno de sinistra, versione ultramanettara con una venatura corrierista anticasta, rischia una forma dolorosa di restringimento delle facoltà.
Ripetere all’infinito, sulla scorta del dettato di qualche pretore o procuratore, che
questo o quello tra i politici e i carabinieri e
altre autorità sono sputtanabili per via di
frequentazioni, collusioni nella zona grigia,
indizi vari di contiguità, sospetti mitologici
Celebrazione del messia più eclettico del rock
Bowie, l’uomo
che porta
a spasso i morti
di Ian Buruma
su agende e parasoli rossi, è un caso di travaglismo e dettaglismo che oscura per fremito ideologico e cupidigia di copie vendute, non poi così tante dato il linguaggio piuttosto tabloid del quotidiano che idoleggia il
Fatto, la realtà politica. La quale è inquinata dai compromessi del potere, che nel giro
della mafia e della lotta alla mafia sono da
sempre all’ordine del giorno, e anche dalle
necessità del contrasto, tenersi bene avvinghiati all’avversario e decidere tu i tempi
dell’assalto (il caso del generale Mori), ma
non sono questi dettagli a dare la risposta
sulla sua qualità e sul suo significato storico.
Replico una domandina da scuola elementare alla quale i Travaglio e i Saviano,
dettaglisti per gola, mai rispondono. Mai
mai mai. Eppure è la domanda più importante per giudicare la realtà. La mafia siciliana è in buona forma rispetto a come stava prima di Falcone, Borsellino, Caselli, Pignatone, Andreotti, Mancino, Conso, Berlusconi, Maroni, Napolitano, Mori, Subranni,
Obinu e molti altri tra premier, ministri del-
la Repubblica, domenica 9 giugno
miei pantaloni hanno cambiato il mondo»
(dal documentario The Story of David
Bowie, 2002). Che David Bowie abbia cambiato il
modo di apparire di tante persone, negli anni
’70, ’80 e ’90, è fuori discussione. Ha ispirato stilisti come Alexander McQueen, Yamamoto Kansai, Dries van Noten, Jean-Paul Gaultier. I suoi
straordinari costumi di scena, dalle tute in stile
Kabuki al travestitismo à la Weimar, sono leggendari. Ragazzi di tutto il mondo hanno cercato di vestirsi come lui, di apparire come lui, di
muoversi come lui (con risultati, ahimé, piuttosto discontinui). Non a caso il Victoria and Albert Museum di Londra propone (fino all’11 agosto, ndr) la colossale mostra dei suoi costumi da
«I
l’Interno, capi dei carabinieri, che hanno
operato su quel fronte negli ultimi venticinque anni? La mia impressione di osservatore disincantato della realtà è che le cosche
di Riina e Provenzano hanno subito colpi
formidabili, lo stato ha fatto scudo, e progressi sono stati compiuti anche con l’apporto di una ribellione della società civile
(compresi tra gli altri dei bravi imprenditori). Ma se invece di guardare a politica e storia mi metto a sbirciare tra le ordinanze e le
sentenze, e riferisco quelle cose a metà tra
indizio e pettegolezzo che funzionari alla
Ingroia agitano (agitavano) nell’aria per fare cattiva informazione e cattiva politica,
eccomi intrappolato nei fatti di Dettaglio,
sono già pronto per un corteo dei più urlanti contro l’antistato o il doppio stato, bandiere e agende rosse, accuse infamanti, l’incubo di una mafia inafferrabile di terzo
quarto quinto livello, più p2 p3 p4 e altre
cazzate in cui si sono specializzati i giornalisti italiani pistaroli o filopistaroli.
E’ tutta una cultura, questa del dettaglio,
scena, con in più video musicali, manoscritti
con il testo delle canzoni, brani di film, opere
d’arte, copioni, storyboard e altri materiali presi dal suo archivio personale. Oltre a tutto il resto, l’arte di David Bowie è fatta di stile, alto e
basso, e lo stile è una faccenda seria.
Il rock è innanzitutto una forma di teatro. Le
rockstar inglesi in questo sono particolarmente
brave, anche perché molte di loro hanno tratto
ispirazione dalla ricca tradizione del teatro di
varietà. Ma c’è anche un’altra ragione: poiché il
rock and roll era nato in America, i musicisti inglesi spesso cominciavano scimmiottando gli
americani. Anzi, peggio ancora: i ragazzi inglesi bianchi, specialmente negli anni ’60, imitavano gli americani neri. E poi c’era la questione di
che va a braccetto con il politicamente corretto. C’è il dato dei centotrentamila aborti
in Italia, scomponiamolo e vedrete che c’è
modo di voltarsi dall’altra parte. La tv greca
viene chiusa per essere drasticamente ristrutturata, immergetevi nel dettaglio e constaterete che forse è una specie di Bbc colpita dai golpisti, sentimento tipico delle trasmissioni resistenziali di Radiotre. Obama
ha tenuto in funzione Guantanamo e manda
droni a uccidere i jihadisti ovunque si trovino e spia cento milioni di americani con
occhiuta perseveranza? Analizzate la cosa
nel dettaglio è vedrete che si possono dimostrare grandi progressi liberal rispetto al
Patriot Act di George W. Bush. I fatti sono
una solenne coglionata, sono la deformazione della realtà e del suo principio, sono lo
schermo per interpretazioni che più ideologiche non se ne conoscono. L’alleanza del
Dettaglio e del Fatto fa il risultato relativista e nichilista che conosciamo, la merda
nel ventilatore si nutre della fattoidolatria. Ma la realtà è un’altra cosa.
classe: proletari inglesi che si atteggiavano a damerini aristocratici e giovani borghesissimi che
ostentavano accenti cockney. E poi c’era l’ambiguità di genere: Mick Jagger che dimenava i
fianchi come Tina Turner, Ray Davies dei Kinks
che faceva la checca come la vecchia delle pantomime natalizie, David Bowie che si vestiva come Marlene Dietrich e strillava come Little Richard. Il rock, e in particolare il rock inglese, in
certi momenti sembrava una colossale e sfrenata festa in maschera. E nessuno più di David
Bowie, nessuno con così tanta immaginazione e
così tanta audacia come David Bowie, ha interpretato il rock in questa maniera. Come dice lui
stesso: «Non concepisco l’idea di uscire sul palco in jeans e avere un’aria il più normale possi-
Amori
Il terzo divorzio di Murdoch,
le nozze di Antonio Conte.
Prandelli fulminato sul Lungarno
Torta Rupert Murdoch ha chiesto alla
Corte Suprema di New York il divorzio da
Wendi, 44 anni, sua terza moglie. Wendi
Deng, figlia di un direttore di fabbrica a
Xuzhou, arrivò a 19 anni in California, dove si mise a fare la cameriera in un ristorante cinese. A 21 anni sposò l’imprenditore Jack Cherry, 53 anni, portandolo via
alla moglie Joyce. Con il visto da studente,
si laureò a Yale e poi arrivò come stagista
nella Start Tv, di proprietà di Murdoch.
L’incontro a una festa, il matrimonio nel
1999. Per sposarla, il magnate lasciò la seconda moglie cui dovette versare la cifra
record di 1,7 miliardi di dollari. Con Wendi ha avuto due figlie: Grace e Chloe (ha altri figli dalle precedenti spose: Prudence
dalla prima, James, Lachlan ed Elisabeth
dalla successiva). Carattere molto forte, la
donna l’anno scorso picchiò un contestatore che voleva lanciare una torta in faccia
al marito. Nell’annunciare pubblicamente il prossimo divorzio di Murdoch, il portavoce ha fatto sapere di «differenze inconciliabili» che vanno avanti da mesi e
che la signora «è stata informata» della
decisione (tutti i giornali del 14/6).
Porsche Antonio Conte, allenatore della Juventus, ha sposato Elisabetta Muscarello, con cui sta da una vita e con la quale ha avuto una bambina di nome Vittoria.
Abito bianco con velo in capo trasparente
per lei, completo grigio luccicante con
bordi bianchi per lui, vestitino color panna per la bimba. Cerimonia alla parrocchia di famiglia, la chiesa dei Santi Angeli Custodi, poco lontana da casa, cena alla
Galleria Diana della Reggia di Venaria,
con 340 ospiti più 40 bambini. Gli sposi si
conobbero sulle scale di casa, nel 1991,
abitando vicini: «Aveva 16 anni quando la
vidi la prima volta. Era troppo piccola».
Anni dopo, quando uscirono insieme,
andò a prenderla in Porsche e lei gli disse: «Guarda, preferisco di no. Non mi piacciono queste macchine» (Pierangelo Sapegno, La Stampa 11/6).
Panchina Tre anni fa Cesare Prandelli,
vedovo, in un locale sul Lungarno conobbe Novella Benini: «L’ho vista. Bionda,
espansiva, bella. Inizialmente volevo far
fidanzare un mio carissimo amico, poi ci
ho ripensato». Quando lo vide, lei non lo
riconobbe: «Se ne stava in un angolo, da
solo. Sentivo che aveva un accento strano.
Pensai che somigliasse a un pastore bergamasco». Quando gli chiese che mestiere
facesse, le rispose: «Rappresentante farmaceutico». Fecero due passi: «La prima
persona che incontriamo gli dice: buonasera, mister. La seconda pure. La terza ho
capito». Ora che vivono insieme, lei s’è anche un po’ appassionata al calcio: «Vedo
sei partite alla settimana da tre anni. Ormai di fuorigioco passivo so tutto». La piace giudicare i calciatori, soprattutto non
dalla loro tecnica ma anche dall’aspetto fisico: «Peccato che tutti quelli che mi consiglia, nelle loro squadre stanno sempre in
panchina» (Alberto Costa e Gaia Piccardi,
Corriere della Sera 3/6).
Sequoie Sean Parker, 33 anni, informatico tra gli inventori di Facebook, si è sposato allestendo un matrimonio in stile medievale ispirato al Signore degli Anelli. Gli
invitati, tra cui molti famosi, sono stati dotati di abiti a tema e nell’area prescelta,
accanto alle sequoie, Parker ha fatto costuire rovine, cascate, ponti e laghetti artificiali. In tutto ha speso 10 milioni di dollari. Poi, però, è stato multato (2,5 milioni
di dollari) dalla California Coastal Commission per abusi edilizi (Massimo M. Veronese, il Giornale 6/6).
bile di fronte a diciottomila persone. Insomma,
non è normale!».
Vestito come Marlene Dietrich
I costumi del “teatro rock” di David Bowie in
mostra al Victoria and Albert sono di una bellezza esagerata. La tuta trapuntata e gli stivali
di plastica rossi disegnati da Freddie Burretti
per Bowie-Ziggy Stardust nel 1972. La mantellina tipo kimono chiazzata con il nome di Bowie
in caratteri cinesi disegnata da Yamamoto Kansai per Aladdin Sane nel 1973. La surreale tuta a
ragnatela con finte mani dalle unghie laccate di
nero che solleticano i capezzoli, disegnata da
Natasha Korniloff per il 1980 Floor Show del
1973. Il completo pantaloni
(segue a pagina due)
ANNO XVIII NUMERO 141 - PAG 2
IL FOGLIO QUOTIDIANO
LUNEDÌ 17 GIUGNO 2013
A Venezia vietato suonare jazz sperimentale, a Ferrara tirarsi palle di neve. Com’è che Mesina è tornato in galera
d’inizio della serie storica. Con un
picco negli ultimi tre
mesi 2012, durante i
quali per ogni minuto
che trascorreva il Fisco incassava un
milione 731.416 euro. L’ufficio studi
della Confartigianato ricorda che tra
il 2005 e il 2013, secondo le stime Ue,
le entrate fiscali sono salite del 21,2
per cento, pari a 132,1 miliardi: cifra
esattamente corrispondente all’aumento nominale del Pil, diminuito
(segue dalla prima pagina)
però in termini reali. Per ogni euro
di crescita apparente, dunque, l’Erario ha intascato un euro in più: è
l’eredità di quello che nel rapporto
viene definito “il ventennio perduto”, iniziato nel 1993 e proseguito con
12 differenti governi» (Rizzo, Cds).
Norme Tra le norme assurde in vigore in Italia: a Venezia non è tollerato il jazz sperimentale, come per
esempio il free jazz, mentre sono ben
accetti il reggae e il dub, purché en-
tro i confini di Campo San Luca e,
fuori Campo San Luca, anche l’acid
jazz; a Ferrara non è ammesso il lancio di palle di neve né l’afflosciarsi
del viandante che, colto da stanchezza, si sdrai su un prato nei confini urbani; a Campobello di Licata
(Agrigento) l’attività ricreativa del
calciobalilla o del flipper va sospesa
entro le 21; a Saluggia (Vercelli) al
termine dei matrimoni è interdetto
il lancio di chicchi di riso, per rispetto del sacro raccolto: si consiglia
di sostituirli con petali del medesimo cereale oppure, meglio ancora,
con petali di rosa; vietato a Castellammare di Stabia indossare abiti
succinti quali «minigonne, maglie o
camicie scollate»; vietato a Roma sedersi sulla scalinata di piazza di Spagna (ma tanto ci si siedono tutti lo
stesso); vietate a Trieste le esibizioni
di artisti di strada non muniti di patentino; vietato a Martinsicuro (Teramo) accompagnare gli atti sessuali con urletti gioiosi che non siamo
più che contenuti; vietata a Novara
la diffusione dell’ambrosia, intesa
come pianta dall’alta produzione di
pollini (Feltri Sta).
martedì 11 giugno
Pil Nel primo trimestre dell’anno
il Pil italiano è sceso più del previsto (-0,6%). Per la prima volta, secondo i dati diffusi ieri dall’Istat, cede
anche l’export (-0,1%) e brutte notizie
pure per la produzione industriale,
che ad aprile è arretrata di 4,6% ri-
spetto allo stesso mese del 2012. L’Istat rileva che il calo riguarda in modo significativo i beni di consumo (5,8%) seguiti a ruota dai beni strumentali e intermedi (-4,5%) e dal
comparto dell’energia (-2,3%). Va meglio la fabbricazione di computer,
prodotti di elettronica e ottica, apparecchi elettromedicali, orologi e
farmaceutici. Federconsumatori calcola che nel solo biennio 2012-2013 il
crollo dei consumi per le famiglie è
stato di 7,3 punti che equivale a una
riduzione della spesa di circa 52 miliardi di euro.
Maialino Graziano Mesina, 71 anni,
bandito e sequestratore sardo negli
anni Cinquanta. Quarant’anni trascorsi in carcere e graziato nel 2004
da Ciampi, aspirante concorrente
dell’Isola dei Famosi poi non ammesso. Da quando era libero si era messo a fare la guida turistica tra i luoghi dei sequestri, cena con maialino
(segue nell’inserto I)
compresa. Ieri è
TUTTI I RISCHI DI BERLUSCONI
Pronuncia della Consulta su Mediaset, sentenza Ruby, Consiglio europeo, aumento dell’Iva. E cresce l’ipotesi di un governo Pd-ex grillini. Ce la farà il Cav. a sopravvivere?
Consulta su Mediaset, sentenza Ruby, ineleggibilità,
lodo Mondadori, Consiglio
europeo, bilancio Fininvest,
Iva, Imu, crisi di governo e
diaspora grillina. I prossimi
dieci giorni decideranno le
sorti del Cav. e di una stagione politica.
Il 19 giugno la Corte costituzionale dovrà pronunciarsi sul ricorso di Berlusconi
contro il tribunale di Milano che, era il 2010, ignorò
una richiesta di legittimo
impedimento nel processo
Mediaset (per il quale è stato condannato in primo grado e in appello). Un’eventuale pronuncia contraria
metterebbe solo il muro
della Cassazione (e della
possibile prescrizione) tra il
Cav. e un provvedimento restrittivo che segnerebbe la
sua fine: quattro anni di
carcere e cinque di interdizione dai pubblici uffici per
frode fiscale. [1]
Berlusconi è convinto che
«il partito di Repubblica stia
tirando la volata a chi teorizza la soluzione giudiziaria». Dal Quirinale, però, sarebbero arrivati segnali positivi nonostante la Consulta parta con undici giudici
non favorevoli al Cavaliere
contro quattro che dovrebbero essere dalla sua. Il ragionamento che si fa è su
una decisione che pur rimandando alla Cassazione
(prevista in autunno) la instradi di fatto giudicando la
non concessione del legittimo impedimento nel 2010
un vulnus. Signore: «Quell’udienza a cui Berlusconi
non partecipò fu strategica
non tanto perché furono
sentiti quattro testimoni,
quanto perché fu decisa la
omessa citazione del Cavaliere nelle successive
udienze». [1]
Il 24 giugno a Milano
sarà emessa la sentenza di
primo grado del processo
Ruby. Cervo: «Un ex premier e azionista di maggioranza del governo di larghe
intese condannato per concussione e prostituzione
minorile sarebbe un rospo
delle dimensioni di un
mammut, malgrado tutti i
segnali opposti mandati in
questo senso (“niente falli
di reazione”, ripete e fa ripetere da settimane Berlusconi)». [2]
Tra la Consulta e il caso
Ruby si intrecciano le
udienze del processo «figlio»: quello a Emilio Fede,
Nicole Minetti e Lele Mora:
venerdì 21 e 28 giugno si
succedono due appuntamenti che potrebbero portare a sentenza, ovviamente
legata a doppio filo al processo «padre». [2]
Il 27-28 giugno si terrà il
Consiglio europeo in cui l’Italia presenterà il suo pacchetto di riforme. Due giorni in cui l’esecutivo si gioca
molto. Al centro del dibattito a Bruxelles ci saranno i
temi di disoccupazione giovanile e crescita che aspettano di tradursi in provvedimenti, soldi, limiti di spesa che saltano. «Piaccia o
meno l’espressione “braccio di ferro” evocata dal Cavaliere, è in occasioni così
che può arrivare qualche
boccata d’ossigeno per un
Paese che resta sospeso sulla china dell’impoverimento. Ed è in quei giorni che si
giocano alcune delle istanze che il Pdl fa proprie nell’azione di governo». [2]
In quelle stesse ore si intrecciano altri due appuntamenti potenzialmente esplosivi. Il 26, mercoledì, inizierà il dibattito parlamentare (voluto dal Movimento
5 stelle) sull’ineleggibilità
di Berlusconi (in base a una
legge del 1957). Un appuntamento al quale il Cav. potrebbe presentarsi quasi
definitivamente «mondato»
oppure carico di una condanna clamorosa e con una
sentenza avversa della Consulta sulle spalle. Circostanze che cambierebbero
non di poco clima e senso
del dibattito. [3]
Il 27, giovedì, ci sarà invece un’udienza della Cassazione che potrebbe essere
risolutiva del Lodo Mondadori, possibile epilogo della
vicenda che ha visto, in sede civile, Berlusconi condannato a risarcire con 564
milioni di euro il gruppo De
Benedetti per i danni derivanti dalla corruzione di un
giudice nella sentenza che
gli assegnò la Mondadori. [4]
Cervo: «Negli stessi giorni
il gruppo del Biscione esibirà i suoi conti, che come è
facile immaginare non
avranno il segno più. Ma
l’effetto combinato di un bilancio in rosso e la certificazione giudiziaria definitiva di quello che Marina
Berlusconi e suo padre hanno più volte definito un
“esproprio” restituirebbe
l’impressione di un colpo al
cuore dell’impero». [2]
Altro snodo è alla fine di
giugno: se il governo non
avrà trovato qualche copertura (e il ministro Saccomanni ha lasciato aperti
pochissimi spiragli), il 1°
luglio scatterà automaticamente l’aumento dell’Iva
che il Pdl in Parlamento
sta facendo di tutto per
scongiurare, soprattutto su
un piano di rendita politica. «Resta la fragile ipotesi di un rinvio di qualche
mese della maggiorazione
dell’aliquota: una dilazione
pericolosa, che in assenza
di provvedimenti strutturali rischierebbe di determinare una mazzata fiscale ritardata ma ancor più tremenda». [2]
Bechis: «Se non c’è un euro per togliere l’Iva che costa 2 miliardi nel 2013, figurarsi per l’Imu sulla prima casa che vale 4 miliardi». Saccomanni ha sostenuto che in effetti l’Imu
2012 era stata prevista per
20 miliardi e 329 milioni.
Ne sono stati incassati 23
miliardi e 792 milioni,
quindi 3 miliardi e 462 milioni in più. Non ci sarebbe
però tesoretto, perché
quella somma è andata a
coprire un calo generale
delle entrate. Renato Bru-
netta ha protestato ricordando che il Dipartimento
delle finanze aveva contabilizzato nel 2012 solo 22,5
miliardi di euro, lasciando
a disposizione un tesoretto
quindi di 1,3 miliardi. «Ma
dopo le parole di Saccomanni il Pdl dovrebbe essere assai più in imbarazzo:
con l’annuncio ufficiale di
un programma che non
verrà realizzato, c’è davvero da chiedersi che ci faccia ancora al governo». [5]
teoria secondo la quale l’ex
premier è pronto a far saltare il banco nel caso i tre
appuntamenti giudiziari di
fine giugno non vadano bene. Nonostante questo governo sia inerte – è il ragionamento – il Cavaliere non
può strappare e dire davvero quel che pensa proprio
perché aspetta le decisioni
sui suoi processi. [6]
Il Cavaliere continua a tenere il doppio binario, ma il
fastidio verso quello che definisce «l’immobilismo» del
governo cresce di giorno in
giorno. E tutto ciò per Berlusconi è «assolutamente
inammissibile», soprattutto
se condito dalle ripetute
frenate pubbliche del ministro dell’Economia o da
quello dello Sviluppo Zanonato e dalle tante prese di
distanza di un consistente
pezzo di Pd che continua a
mal sopportare la convivenza con il Pdl. [6]
A rendere più probabile
l’ipotesi di elezioni ci sono
poi le indiscrezioni insistenti relative a una mossa
della Consulta che permetterebbe di fare a meno di
una nuova legge elettorale.
Secondo i costituzionalisti
la suprema Corte, che presumibilmente riterrà legittima la questione sollevata
dalla Corte di Cassazione,
potrebbe evitare il vuoto legislativo, cancellando il solo premio di maggioranza
del Porcellum e non tutta la
norma. Il che offrirebbe ai
partiti una sorta di proporzionale puro per andare al
voto senza riforma. [7]
È un Cavaliere deciso a
non arretrare su quelle questioni che considera «dirimenti», al punto che, spiegano alcuni parlamentari
vicini, andrebbe ribaltata la
Alla progressione politicogiudiziaria sfavorevole a Berlusconi si potrebbe aggiungere un dettaglio in più. Non
è affatto detto che la minaccia di far saltare tutto da
parte del Pdl sia efficace. Se
infatti un gruppo corposo di
senatori del M5s si staccasse
da Beppe Grillo e costituisse un blocco autonomo, è facile intuirne il potere attrattivo per un possibile governo senza Pdl che eviti le
elezioni. Si spiega anche così la violenta reazione di Casaleggio e Grillo nei confronti dei «ribelli»: nel caso
perdesse il controllo dei
suoi cittadini a palazzo Madama, sarebbero guai tanto
per il comico quanto per un
Berlusconi mezzo affondato,
che dovrebbe rinunciare anche all’ultima sua arma,
quella della campagna elettorale. A quel punto, la tenaglia sarebbe chiusa. [2]
Dell’Arti: «L’irrigidimento sul taglio dell’Iva e dell’Imu non nasconderà per caso una svolta politica, o magari la premessa di una
svolta politica, il cui esisto
finale potrebbe essere la fine del governo Pd-Pdl e la
nascita di un governo di
centro-sinistra? Finora il
M5s ha perso tre parlamentari. I due deputati Alessandro Furnari e Vincenza Labriola che se ne sono andati in polemica con Grillo, il
senatore Marino Mastrangeli espulso perché colpevole
di essere andato in televisione. Lunedì (oggi, ndr)
verrà processata dai suoi
colleghi la senatrice Adele
Gambaro, che ha avuto con
Grillo uno scambio molto
violento. Lei lo ha accusato
della perdita di consensi alle ultime amministrative,
lui le ha risposto: non vali
niente, e l’ha invitata a dimettersi. Lei ha controreplicato minacciando di portarlo in tribunale». [8]
I senatori grillini dovranno decidere se espellere la
Gambaro o meno. La spaccatura tra falchi e colombe
è profonda: si dice che, in
caso di espulsione, un gruppo di cinquestelle se ne andrebbe a sua volta nel Misto
per protesta. E per garantire una maggioranza a un governo di centro-sinistra ne
basterebbero una ventina.
Non è impossibile. Dalle
parti di Berlusconi non si
parla d’altro. [8]
(a cura di Francesco Billi)
Note: [1] Adalberto Signore, il
Giornale 13/6; [2] Martino Cervo,
Libero 14/6; [3] il Fatto Quotidiano
12/6; [4] Il Messaggero 10/6; [5]
Franco Bechis, Libero 14/6; [6]
Adalberto Signore, il Giornale
15/6; [7] Martino Cervo, Libero 15/6;
[8] Giorgio Dell’Arti, La Gazzetta
dello Sport 15/6.
Ma quanto sono belli Il Foglio e l’elefantino (se visti dalla Svizzera)
A Basilea si ragiona sul chiaroscuro italiano attraverso la storia di un giornale «del tutto inutile» e del suo direttore, 150 chili e tre bassotti, a cui manca di vedere giusto un miracolo
Basler Zeitung, martedì 11 giugno
Italia non è un paese dai contrasti netti. Se al Nord delle Alpi le cose sono
sempre chiare – bianco e nero, giusto e sbagliato, morale e immorale – non è così nel
Bel Paese. D’altro canto sono stati proprio
pittori italiani del Quattordicesimo secolo a
inventare il chiaroscuro, questa tecnica pittorica caratterizzata da un continuo mutare delle tonalità. E la inventarono, questa
tecnica, in tempi in cui i loro colleghi europei nemmeno padroneggiavano ancora alla
perfezione la prospettiva.
Un rappresentante per eccellenza di una
visione del mondo in chiaroscuro è Giuliano Ferrara, direttore del quotidiano Il Foglio. Ferrara è uno di quegli italiani che liquidano tutto ciò che un visitatore del Nord
pensa di aver sempre saputo sull’Italia, con
un sorriso che non lascia scampo: tutto sbagliato, punto. Chi pensa che Berlusconi non
sia altro che un corrotto e assatanato di sesso, che la Chiesa non sia altro che un collegio di pedofili reazionari, dopo un incontro
con Ferrara si ritroverà o traumatizzato oppure illuminato.
Ferrara, 61 anni, 150 chili, una rada barba rossiccia, soprannome “elefantino”, ha
condotto una vita che ben riflette passioni
ed errori di questo paese e della sua storia:
sua madre era il braccio destro del leggendario leader comunista Palmiro Togliatti; il
padre dirigeva il giornale di partito L’Unità.
Tra il sesto e nono anno di vita Giuliano e la
famiglia vivono a Mosca. Al ritorno in Italia
al ragazzo tocca per prima cosa imparare di
nuovo l’italiano. Anni dopo diventerà segretario di partito a Torino, il fulcro del movimento operaio italiano. Nel 1982 rompe
con i compagni: «Perché a un certo punto
non ne potevo più del “noi”, quando intendevo “io”», ricorda Ferrara.
Se c’è una cosa di cui sembra importargli
decisamente poco è quella di fare bella figura. Gli spazi della redazioni del Foglio che
si trovano in Trastevere, e dove lavorano 18
giornalisti, sono modesti. Solo Ferrara dispone di un ufficio tutto suo, una specie di
caotico studio, dove i libri e i giornali arrivano fino al soffitto, e l’aria è satura del fumo acre di sigaro. Coricati a terra ci sono poi
tre bassotti: due figli e la madre «il padre era
un gigolò, che se l’è data a gambe».
Da leader operaio a intellettuale di spic-
L’
co dell’area Berlusconi – un percorso non
da poco. E ovviamente non sono mancati gli
attacchi di vecchi compagni di strada, anche
se a dire il vero, gli attacchi l’hanno più divertito che ferito. Lo scrittore Antonio Tabucchi, ricorda Ferrara, aveva pubblicato
su Le Monde un terribile pamphlet nel quale affermava che Ferrara ai tempi del soggiorno a Mosca aveva ricevuto, nientemeno
che dalle mani del capo di stato e di partito Leonid Breznev un’onorificenza. «Se i
conti tornano, avrei dovuto avere sette anni,
allora».
Diversi decenni dopo, Ferrara è, tra il
1994 e il 1995, portavoce ufficiale del governo Berlusconi. «Sono amico personale di
Berlusconi. E quando decise di entrare in
politica gli offrii la mia esperienza», dice
Ferrara. Gli offrì il suo aiuto, anche se gli
era venuto da ridere sentendo che Berlusconi voleva dare al suo partito il nome Forza Italia, cioè il grido che si leva dallo stadio quando gioca la Nazionale.
Berlusconi e Ferrara; il self made man al
qual piace veder ballare giovani fanciulle
poco vestite, e l’uomo di pensiero che legge
Martin Heidegger in tedesco. Ma di che cosa parleranno mai quando si trovano insieme? Berlusconi non ha complessi d’inferiorità nei confronti degli intellettuali, assicura Ferrara. Sa però riconoscere le doti intellettuali di una persona, così come sa riconoscere un buon calciatore. «E se uno ha
cultura e sa scrivere allora gli dice: “Lei è
bravo tanto quanto Van Basten”». A Ferrara questo piace.
Certo, per essere un capo di Stato, serio,
autorevole, il suo amico è troppo uomo privato: «Ama le donne e il calcio, è un narciso – e ha sempre il fuoco nel bassoventre».
La sinistra odia Berlusconi, perché ha rinnovato il paese – e perché è il classico uomo
che s’è fatto da sé. «Quelli di sinistra amano
invece l’establishment, le grandi banche, la
Confindustria, le pensioni, in altre parole:
lo status quo».
Quando Berlusconi, a metà anni Novanta,
entra in politica, i due grandi partiti di allora, quello democristiano e quello socialista, erano stati da poco risucchiati nel gorgo di Tangentopoli. «Da un giorno all’altro
tutto era cambiato, e proprio in quel momento arriva Berlusconi. Arriva e rimane
per vent’anni. Un vero record per gli stan-
e gilet neri disegnato da
Ola Hudson per l’incarnazione bowiana del Duca Bianco nel 1976. E la redingote con una Union
Jack deliziosamente anticata disegnata da
Alexander McQueen nel 1997 (già esposta nella mostra Anglomania del 2006 al Metropolitan
Museum di New York). E poi c’è il look nauticoperverso, la tuta in vinile nero “Tokyo Pop”, il
mantello da torero, gli stivali turchese eccetera, eccetera.
L’immagine di Bowie era accuratamente studiata, non solo per le esibizioni dal vivo, ma anche per le copertine degli album: la foto in bianco e nero di Sukita Masayoshi con Bowie in posa da manichino sulla copertina di Heroes (1977);
o Bowie steso su un divano di velluto azzurro co-
(segue dalla prima pagina)
dard italiani. Vent’anni durante i quali ha
vinto, perso, rivinto, e riperso ancora». Ovvio che in quanto tycoon, aveva a cuore la
salvaguardia della sua ricchezza. Ma per
Berlusconi è sempre valsa anche la regola
che: la libertà imprenditoriale che rivendicava per sé, doveva essere riconosciuta anche a qualsiasi altro cittadino.
Quello che Ferrara trova terribilmente
noioso dei corrispondenti stranieri è la loro
presunzione quando si tratta di Berlusconi.
«Provi a immaginare se da un momento all’altro scomparissero in Gran Bretagna i Labour e i Tories. Berlusconi lo si può solo
comprendere, se non si dimentica che che
quando arriva lui, l’Italia, politicamente
parlando, andava ricostruita da zero».
Dopo due anni Ferrara si dimette da ministro ed esce dalla politica. «D’altro canto, con un
passato da comunista, non
avrei mai potuto entrare
nella cerchia ristretta degli
adepti» spiega sorridendo. I
talk show lo fanno invece entrare nelle case di milioni di
italiani. Ma tutto questo non
gli basta. «Avevo tempo, e così
ho deciso di fondare un giornale, un giornale, a essere sinceri,
del tutto inutile».
I soldi riesce a racimolarli da
imprenditori milanesi e sardi, vicini a Berlusconi. Anche l’ex moglie del Cavaliere, Veronica Lario, scuce una certa somma e resterà proprietaria del 38 per cento
delle quote fino al 2011. Ferrara decide di
chiamare il giornale Il Foglio, e in effetti, all’inizio si componeva giusto di quattro pagine, o meglio quattro lati di un foglio piegato in due. Oggi le pagine sono sei-otto, con
un inserto di sedici il sabato.
Se si vuol dar credito ad art-director e altri direttori di giornali, Ferrara ha sbagliato tutto quello che si poteva sbagliare. Il suo
è una colata di piombo, senza foto, senza gli
alleggerimenti grafici, che vanno tanto di
moda. Ciò nonostante Il Foglio vende 14 mila copie e riesce, per il rotto della cuffia, a
non finire in rosso.
Nei suoi quasi 18 anni di vita, Il Foglio è
diventato una lettura obbligatoria per ogni
anticonformista che si rispetti: un prodotto
me una pin-up preraffaellita, con un lungo vestito di raso disegnato dalla boutique Mr. Fish
per The Man Who Sold the World (1971); o lo spettrale disegno di Guy Peellaert con un Bowie raffigurato come fenomeno da baraccone anni
Venti per Diamond Dogs (1974). Tutte queste immagini furono create dallo stesso Bowie in collaborazione con altri artisti. Prendeva ispirazione da tutto quello che colpiva la sua fantasia:
la Berlino di Christopher Isherwood degli anni
Trenta, le dive hollywoodiane degli anni Quaranta, il teatro Kabuki, William Burroughs, i mimi inglesi, Jean Cocteau, Andy Warhol, le chansons francesi, il surrealismo di Buñuel e i film
di Stanley Kubrick, in particolare Arancia meccanica, che con il suo miscuglio di cultura alta,
per buongustai. Un giornale che riserva la
stessa puntigliosa attenzione alle notizie
provenienti da dietro le mura vaticane, e al
ritorno del direttore d’orchestra James Levine sul palcoscenisco della New Yorker
Carnegie Hall; un giornale che racconta e
discetta, con la stessa serietà e dovizia di
particolari, su ogni sfogo dell’economista di
fama mondiale Paul Krugman e la Premier
League britannica.
«Pensavo a qualcosa di snello» spiega Ferrara. «I fatti nudi e crudi, la gente li apprende dalla televisione. A me interessa invece
cavalcare la notizia, non esserne dominato».
E in effetti, Ferrara con il Foglio si muove assai più agilmente delle corazzate La Repubblica e Corriere della Sera. Strada facendo il
giornale ha anche trovato imitatori: giusto qualche settimana fa è nato in Francia un
giornale simile, dall’eloquente nome L’Opinion. Il Foglio
non conosce tabù: anche se la
linea del giornale è fondamentalmente cattolica e liberista, non mancano mai voci
fuori dal coro. L’anarchico
Adriano Sofri, negli anni sessanta e settanta leder del movimento della sinistra radicale
Lotta Continua, ha una rubrica
sul Foglio: per anni i pezzi li ha
mandati dal carcere.
Il sogno di ogni giornalista,
avere un giornale secondo i
propri gusti, sembrava dunque
essersi avverato. Con il Foglio
Ferrara aveva in mano uno strumento per
portare avanti, e ai livelli più alti, le sue battaglie culturali. Ciò nonostante, decide di
tornare, seppur solo per un breve periodo,
una volta ancora nell’arena politica. «La società secolarizzata sta correndo il pericolo
di perdere il suo valore fondante, e cioè la
difesa della vita sin dal concepimento» spiega con fare da professore. «Io sono contro
l’aborto. Ma diversamente dalla chiesa, non
voglio che venga vietato per legge». Secondo lui nessuna donna e nessun medico devono essere perseguiti per aver praticato
l’aborto: «Una legge siffatta sarebbe contro
la morale cristiana». La posizione di Ferrara è presto detta: massima libertà di scelta
a ognuno dunque, ma anche una sempre più
fantascienza e minaccia latente gli calzava a
pennello. Artisti e cineasti spesso producono
opere interessanti rifinendo la cultura popolare in opere di arte “alta”. Bowie faceva il contrario: come spiegò una volta in un’intervista,
saccheggiava l’arte alta e la portava giù in strada. Questo era il marchio distintivo del suo “teatro rock”.
Il gioco degli specchi
Ma la cosa davvero insolita di David Bowie,
rispetto ad altre commedie rock, è la velocità
fulminea dei suoi – per così dire – cambi di costume rispecchiati nei suoi cambiamenti musicali, dal ritmo martellante dei primi Velvet Underground alle dissonanze stridenti di Kurt
necessaria opera di sensibilizzazione dell’opinione pubblica su questo argomento.
Per questo, nel 2007 si era presentato alle elezioni con il partito monotematico Lista
Pazza. Un’avventura elettorale, una crociata anti abortista soprattutto, che non gli ha
portato tanti nuovi amici. Tutt’altro. A Bologna lo volevano addirittura linciare. «A un
certo punto mi sono ritrovato da solo di
fronte a duemila femministe, assistenti sociali e altri radicali, infuriati. Mi volevano
ammazzare. Ma io ho tenuto lo stesso il mio
comizio e poi me la sono data a gambe». Giusto il 0,35 per cento dei voti riuscì a ottenere la Lista Pazza. «Un magnifico flop» ammette divertito Ferrara.
E ora basta chiacchiere. È tempo di andare a pranzo. Ed è un’esperienza curiosa
vedere Ferrara percorrere i pochi metri che
separano la redazione dalla trattoria Checco er Carettiere: ad accompagnare questo signore dall’imponente stazza, sono tre piccoli bassotti che lui tiene al guinzaglio.
Mentre usciamo dalla redazione, Ferrara
racconta che di tanto in tanto davanti alle finestre del suo ufficio aveva visto passare
Bendetto XVI, seduto in una grande Mecedes, fiancheggiata a sua volta da una colonna di forze della sicurezza in moto. Che
enorme differenza con l’attuale Papa Francesco, che si sposta con una Volkswagen.
A Ferrara Papa Francesco piace, tanto
quanto gli piaceva prima Papa Benedetto.
«Il fatto è che noi romani siamo papisti. E
per questo amiamo ogni Papa» spiega. Certo, il nuovo Pontefice è molto diverso dal
suo predecessore. Ferrara non ha dubbi:
«Ratizinger è stata la persona in assoluto
più intelligente che abbia mai incontrato,
ma Francesco è tutt’altra cosa». «Il suo papato segna la fine del Concilio Vaticano Secondo: questo Papa non è stato coinvolto
nella lotta tra le due grandi scuole di pensiero sulla modernizzazione della chiesa».
Dopo il Concilio, in Vaticano si era venuto
costituire «un nutrito gruppo di intellettuali», studiosi che non facevano altro che
litigare. Con Francesco è salito al Soglio
Pontificio un outsider, e con il suo arrivo sono cessate anche le dispute. Il che, secondo
Ferrara, non può che far bene alla chiesa. E
poi, aggiunge: «L’unica cosa che, dall’alto
dei miei 61 anni, mi potrebbe oggi ancora
veramente stupire sarebbe un miracolo».
Weill e alla disco beat della Filadelfia anni ’70.
La versatilità della sua voce, struggente in certe canzoni, virtuosistica in altre, ma sempre perseguitata da un senso di pericolo, lo aiutava a
barcamenarsi fra diversi generi. Per apprezzare l’energia delle migliori esibizioni dal vivo di
David Bowie bisognava essere lì, ma i bellissimi video realizzati dal cantante stesso insieme
a una serie di cineasti di talento (e che la mostra del Victoria and Albert Museum in alcuni
casi propone, con ottimi risultati) danno comunque un’idea del suo fascino teatrale. Due
dei più famosi fra questi video sono Ashes to
Ashes ( 1980) e Boys Keep Swinging (1979), girati
tutti e due da David Mallet. Nel primo Bowie interpreta tre ruoli: un astronauta, un uomo ran-
Arriviamo alla trattoria. Ferrara è a dieta, il che significa, niente carciofi fritti per
antipasto, solo fagiolini. Ci raggiunge la moglie americana, «una ex femminista, maritatasi sì, ma ahimé senza sottomettersi» dice Ferrara ridendo, mentre il cameriere divide una gigantesca spigola.
Filoamericano Ferrara lo è però non solo nelle passioni private: «Sul piano economico sono un liberista, stimo Ronald Reagan e Margaret Thatcher» spiega. Filoamericano ma, politicamente parlando, anche
un realista, e così non si illude affatto su
quel che è possibile fare al di fuori di paesi come la Gran Bretagna e gli Usa.
Quando l’Italia, ai tempi del governo Berlusconi, entrò a fianco degli americani in
Iraq, Ferrara era tra i più convinti ed eloquenti sostenitori di questa operazione – e
fino a oggi non se ne pente. «Ammiro George W. Bush per il suo coraggio». La guerra è
una cosa terribile, ma la pace è sempre conseguenza di una guerra condotta bene. «E
non me ne importa proprio nulla di sapere
se Saddam Hussein le armi di distruzione di
massa le avesse davvero oppure no, anche
se la loro supposta esistenza è servita a giustificare l’operazione» ammette Ferrara.
«La cosa importante era che l’Occidente
passasse all’offensiva, facesse chiaramente
intendere al mondo islamico: “No pasarán!”». Ferrara usa il grido di battaglia
dei repubblicani durante la guerra civile
spagnola. «Il mondo islamico aveva bisogno
di una pressione esterna affinché qualcosa,
da quelle parti, cominciasse a cambiare».
Viene da chiedersi, ma quest’uomo cos’è?
Un provocatore per il semplice gusto di provocare? «Caro Giuliano, nel tuo corpo di elefante si nasconde l’animo di un Don Chisciotte» aveva scritto Adriano Sofri all’amico, ai tempi della crociata antiabortista.
«Sei riuscito a isolarti da tutti».
«Sarò anche rimasto solo, ma certo non
mi do per vinto» gli aveva replicato Ferrara sempre dalle pagine del Foglio. «Non ho
tradito le mie origini. Sono e resterò fino alla fine un ateo, che però è saggio abbastanza, per guardare in faccia alla verità. E la verità è che viviamo in un mondo dominato
dal nichilismo, senza più coscienza né limiti. In un mondo di deboli».
Hansjörg Müller
(traduzione di Andrea Affaticati)
nicchiato in una cella imbottita e un Pierrot tragico tormentato dalla madre. In Boys Keep Swinging appare invece nelle vesti di un rocker anni ’50 e interpreta, travestito da diva hollywoodiana, tutte e tre le cantanti del trio di accompagnamento: due delle cantanti finiscono per
strapparsi la parrucca, prese da una sorta di furia; una si trasforma in una figura materna vagamente minacciosa. Un tratto comune in molti video di Bowie – e anche delle sue esibizioni
dal vivo – è l’ossessione per gli specchi, a volte
più specchi contemporaneamente: i suoi personaggi guardano se stessi che vengono guardati.
Non a caso in alcune sue prime interviste Bowie
parlava spesso di schizofrenia: i ruoli che in(segue nell’inserto I)
terpretava sul palco
ANNO XVIII NUMERO 141 - PAG 3
IL FOGLIO QUOTIDIANO
LUNEDÌ 17 GIUGNO 2013
Il Dna degli americani schedato dalla polizia. La Legione straniera sopravvive ed è sempre più globale
sua creatività. Il
25% dei manager che ammettono di comportarsi
male dice di averlo fatto
perché i loro leader lo facevano (Riboni, Cds).
(segue dall’inserto II)
Dna Come se non bastassero le notizie sullo spionaggio telefonico e in
rete, è emersa la notizia che esistono
archivi in cui si registra il Dna di parecchi americani. La schedatura genetica dei sospettati di aver commes-
so crimini viene già fatta dall’Fbi da
una ventina d’anni, ma di recente è
diventata prassi comune anche tra le
polizie locali, che schedano il patrimonio genetico non solo dei condannati, ma anche degli indiziati, degli
scagionati, delle vittime e di tutti
quelli che vengono controllati. A
New York i cittadini schedati sulla
base del Dna sono solo 11mila mentre nella Orange County californiana
(3 milioni di abitanti che vivono tra
Los Angeles e San Diego) i profili ge-
netici archiviati sono già 90mila
(Gaggi, Cds).
Agricoltura Ortaggi visti all’AgroMashov, fiera annuale dell’agricoltura hi-tec israeliana: il cocomero per
single, che pesa solo un chilo e mezzo; lo spinacio nano che cresce solo 2
centimetri, dal sapore concentrato; il
broccolo dolce, piccolo come un grano di pepe, ottimo al forno o in padella; il pepe più potente al mondo,
300 volte più piccante di quello nor-
male; la melanzana che non assorbe
olio in cottura; il peperone a stella,
basso e largo; il sedano che sembra
una zucchina; il limone con la polpa
della prugna eccetera (Scuto, Rep).
sabato 15 giugno
Un euro Primo bilancio dell’operazione “Srl a un euro”, voluta dal
governo Monti a partire da settembre 2012: da allora fino a maggio sono state aperte 4.353 Srl (società a
responsabilità limitata) a capitale
ridotto e 8.620 semplificate. In totale circa 13mila. Di queste 13mila
nuove società una buona parte, più
del 15%, ha davvero il capitale di un
solo euro. La provincia nella quale
si registra la maggiore disponibilità
a inaugurare società è Roma con
1.464 nuove aperture che corrispondono da sole alle nuove aziende dell’intera Lombardia. Dopo Roma sono diverse le città meridionali che
si segnalano: Napoli, Bari, Palermo,
Catania. Se analizziamo i settori, in
testa alle opzioni dei neo-imprenditori c’è il commercio al dettaglio e
all’ingrosso, seguito dall’edilizia e
dalla ristorazione. Sommando le varie voci di questi tre settori si arriva
a quasi al 60% delle nuove aperture.
Inoltre i primi dati segnalano che su
13mila nuove Srl quelle che hanno
dovuto già chiudere sono 20 (Di Vico, Cds).
Legione Quarant’anni fa c’erano
40mila soldati della Legione stranie-
ra provenienti da una cinquantina di
nazioni. Oggi ci sono 7mila legionari
di 150 nazionalità. Il 14% è composta
da soldati occidentali (Nord America ed Europa), il 6% dell’America Latina, il 17% dell’Europa centrale e
dei Balcani, il 23% dei Paesi slavi e
dell’Asia del Nord, il 15% dell’Africa e del mondo arabo, il 10% dell’Asia (Mattioli, Sta).
Daria Egidi
(ogni mattina il Fior da Fiore quotidiano su www.cinquantamila.it)
C’è un giudice in Germania che sta processando l’euro
Alla sbarra a Karlsruhe la politica monetaria, i limiti e la credibilità della Banca centrale europea. Aspettando una sentenza che potrebbe costare molto cara all’Italia
A Karlsruhe, nel Baden-Württenberg, sudovest della Germania, otto giudici della Corte costituzionale tedesca hanno iniziato
mercoledì scorso il processo alla politica
monetaria della Banca centrale europea.
Sotto esame è la legittimità, in base alla
Costituzione di Berlino, del programma Omt
(Outright monetary transactions) messo a
punto dalla Bce tra agosto e settembre 2012.
Il programma, soprannominato “scudo antispread” e finora mai attivato, prevede
l’acquisto da parte della Bce sul mercato
secondario (senza limiti, in caso di necessità) dei bond di Paesi i cui spread siano saliti oltre i livelli di guardia. Il fondo salvaStati Esm può intervenire anche sul mercato primario (cioè in asta). Per attivare il programma il Paese in crisi deve siglare un
memorandum con la Commissione e la Bce
impegnandosi a riforme strutturali e risanamento dei conti. [1]
Il 26 luglio 2012 il governatore della Bce
Mario Draghi disse che la sua istituzione
avrebbe fatto «tutto il necessario» (whatever it takes) per salvare l’euro, in quel momento sotto grande pressione per
l’aumento degli spread tra i titoli di stato
della zona euro. «In quei giorni l’Italia era
con una forbice superiore ai 500 punti e tassi intorno al 7%, cioè prossimi dall’essere
espulsi dai mercati. La nostra espulsione
dai mercati, cioè il nostro fallimento, avrebbe significato il fallimento dell’euro. Il
mondo smise subito di vendere Btp e lo
spread prese a viaggiare a livelli meno patologici». [2]
Lo spread fra Btp e Bund in un anno è sceso di circa 250 punti percentuali. [3]
A contestare la legittimità del programma
Omt trentacinquemila cittadini tedeschi. In
prima linea c’è il cristiano-democratico bavarese Peter Gauweiler, dell’ala conservatrice del partito di Angela Merkel, ma anche la sinistra di Die Linke. [1]
La Corte costituzionale tedesca non ha formalmente alcun potere sulle decisioni della Bce, essendo un’istituzione di diritto europeo. Punto sottolineato dallo stesso presidente della Corte mercoledì scorso aprendo la prima udienza. [4]
I temi di cui gli otto giudici (cinque uomini e tre donne) si occuperanno saranno essenzialmente due: il primo è se i nuovi interventi della Bce a favore dei Paesi in crisi comportano rischi a carico del bilancio
pubblico tedesco così elevati da impedire
altre decisioni di spesa del Parlamento. Il
secondo è se la condizione principale posta dal Parlamento tedesco per la firma del
Trattato di Maastricht – e cioè che l’euro sia
una moneta stabile quanto il marco – sia rispettata anche alla luce dei rischi di infla-
zione conseguenti a grandi immissioni di liquidità. [5]
drebbe su di lei e in definitiva sui contribuenti tedeschi. [6]
Una memoria della Banca di Draghi ha ricordato alla Corte che l’intero ammontare
dei titoli di Italia, Spagna, Irlanda e Portogallo è pari a 524 miliardi di euro. E, dal
giorno in cui ha pronunciato la parola “illimitato”, Mario Draghi non ne ha dovuto
comprare neanche uno. [2]
Si tratta comunque di un’evoluzione molto ipotetica e al momento non molto plausibile. Come detto, la Bce non ha ancora acquistato nessun titolo di stato sotto il programma Omt e la Bce non ha registrato alcuna perdita a causa dei suoi precedenti
acquisti di titoli di stato dei paesi in difficoltà. Anzi: al momento ne detiene circa 209
miliardi di euro, e lo scorso anno quei titoli hanno fatto guadagnare alla Bce 1,1 miliardi di euro in interessi. [6]
Una banca centrale come la Bce non può
fallire, ma in caso di perdite cercherebbe
probabilmente una ricapitalizzazione, che
sarebbe fornita dai paesi sovrani che ne detengono le quote. La Germania è il primo
azionista con il 18 per cento (poi viene la
Francia con il 14 per cento e l’Italia con il
12 per cento) e quindi il peso maggiore rica-
La sentenza della Corte tedesca dovrebbe
arrivare in autunno, dopo le elezioni politiche del 22 settembre. La Corte tedesca, dichiarando un difetto di giurisdizione, po-
trebbe rinviare la causa alla Corte europea
di giustizia. Oppure decidere e promuovere
il programma con dei “ma”: per esempio,
potrebbe imporre un tetto agli acquisti. [7]
ti gli impegni tedeschi di adesione ai Trattati europei. Secondo gli esperti, questo caso limite, poco probabile, porterebbe a una
crisi dell’euro. [8]
Nell’ipotesi più drastica, gli otto giudici
della seconda sezione di Karlsruhe potrebbero bocciare l’Omt perché contrario alla
Costituzione tedesca. In tal caso non potrebbero imporre comportamenti alla Bce
ma la Bundesbank non sarebbe più in grado di avallare all’interno del board le decisioni dell’istituto centrale. [1]
Senza la rete di sicurezza delle Omts, senza cioè la possibilità che la Bce possa acquistare i titoli di Stato italiani (se l’Italia
chiedesse e ottenesse l’aiuto dell’Esm), il
rendimento del Btp decennale rischierebbe di tornare al livello del luglio 2012, attorno al 6,5%: per poi schizzare a quota 7%
oppure 8%, come nel novembre 2011, nel
caso di un peggioramento dell’andamento
dell’economia in un contesto politico sempre più incerto e un debito/Pil che non
scende sotto il 130 per cento. A tanto si avventurano alcuni strategist e trader che
operano sul mercato dei titoli di Stato italiani, nell’ipotesi di un’Eurozona senza le
Omt della Bce. [9]
Per l’ex-giudice della Corte tedesca Udo Di
Fabio «in un caso estremo» la Corte potrebbe decidere che «non è più permessa» una
partecipazione della Germania alla moneta
unica, se ravvisasse che non sono rispetta-
Draghi torni a lezione di inflazione e austerità. Parola di Krugman
Il Sole 24 Ore, sabato 15 giugno
n corrispondente mi fa notare, quasi in preda alla disperazione, l’ultima parte di una
dichiarazione di Mario Draghi, presidente della Banca centrale europea, a una conferenza stampa. Ha ragione: c’è di che scoraggiarsi. Draghi, dopo tutto, è un presidente
intelligente e flessibile come non ne vedremo per molto tempo. Può anche darsi perché
l’euro potrebbe non sopravvivere.
Veniamo alle osservazioni di Draghi. Gli rivolge una domanda uno tra i presenti, presumibilmente spagnolo: «Sono originario di un paese che ha un tasso di disoccupazione
del 27%, che è come dire forte depressione, una politica fiscale di austerità e una politica monetaria altrettanto severa, perché alle Pmi non è accessibile il credito. Intende forse dire al popolo spagnolo, portoghese, irlandese o anche italiano che la Bce non può fare nient’altro con un’inflazione che di fatto è inferiore al 2 per cento?». Ecco la risposta
di Draghi: «Beh, non sono sicuro di cogliere il punto, ma forse ci arrivo. Primo, il fatto
che l’inflazione sia bassa non è un male di per sé. Con un’inflazione bassa si possono fare più acquisti. Secondo, non vediamo alcuna deflazione ed è questa che dobbiamo temere. Ancora non se ne vede traccia». Poi Draghi prosegue difendendo le politiche di austerity, e così facendo affronta altri temi spinosi. Ma focalizziamoci su questa parte.
Primo: «Con un’inflazione bassa si possono fare più acquisti»? Non insegniamo forse agli
studenti di economia del primo anno perché questo concetto è un errore ingenuo? Che
bassa inflazione significa anche crescita inferiore degli utili e che il costo dell’inflazione
non ha niente a che vedere con un ridotto potere d’acquisto? Va bene. Per quanto ciò risulti allarmante, quello che conta per la politica è la dichiarazione di Draghi secondo cui
«non vediamo alcuna deflazione ed è questa che dobbiamo temere». Wow. Forse questo
non si insegna a Economia al primo anno, ma credevo che ogni economista serio capisse
U
che non esiste una linea rossa in coincidenza dell’inflazione zero, così che la bassa inflazione diventa un problema potenziale solo e soltanto se si supera la soglia zero.
Esistono due ragioni per le quali credere che l’inflazione nelle economie avanzate in
genere, e in Europa in particolare, è al momento troppo bassa e dannosa. La prima è che
stiamo soffrendo perché la domanda è inadeguata e il limite inferiore allo zero sui tassi
di interesse è un freno importante per la politica monetaria. Larry Ball, economista e professore alla Johns Hopkins University, ritiene che i tassi di disoccupazione negli Stati Uniti negli ultimi anni sarebbero stati in media di 2 punti percentuali inferiori se fossimo
entrati nella crisi finanziaria con un’inflazione al 4% invece che al 2.
L’altra questione relativa all’inflazione è la rigidità salariale nominale verso il basso e
in certa qual misura la rigidità dei prezzi nominali verso il basso. Potreste anche pensare che questi siano problemi solo se fossimo davvero in presenza di una deflazione, ma
poiché prezzi e salari cambiano di continuo, la verità è che questa rigidità verso il basso
inizia a essere un problema in un’economia depressa anche a tassi di inflazione bassi e
sopra lo zero. Tutto ciò è molto chiaro negli Stati Uniti. Nella zona euro, invece, dove ci
si aspetta che i paesi debitori raggiungano forti «svalutazioni interne», questa è una faccenda molto più seria.
Trovo difficile credere che Draghi non sia consapevole di queste questioni. Forse sta
semplicemente giocando con i falchi dell’inflazione che siedono nel suo consiglio. Anche così, però, il fatto che queste antiche credenze erronee siano tirate fuori ancora oggi, con l’Europa che si trova in quella che è una vera depressione, lasciatemelo dire: beh,
è molto deprimente.
Paul Krugman
(traduzione di Anna Bissanti)
Elogio del fallimento pilotato, salvezza del capitalismo
Finalmente anche noi abbiamo il Chapter 11, perché quando si liquida un’azienda ci perdono tutti. Imparate da Chrysler & Co.
Affari & Finanza – la Repubblica, lunedì 10 giugno
ul finire dell’Ottocento, dopo la corsa all’Ovest le società americane che gestivano le nuove ferrovie transcontinentali entrarono in crisi. I creditori si resero conto
che non avrebbero ricavato nulla dalla vendita di binari e
traversine e accettarono di ricapitalizzare le società perché continuassero a operare, confidando in tal modo di poter essere pagati nel lungo temine. Nacque così la procedura americana di reorganization, poi consolidatasi nel 1978
nel Chapter 11 del Bankruptcy Act.
I casi Chrysler, General Motors, United
Airlines, Delta, e molti altri, hanno
confermato che l’interesse dei
creditori e dell’economia in generale è meglio servito da procedure di ristrutturazione, fondate sull’accordo tra debitore e
creditori e su un piano approvato da questi ultimi, che consentano di salvare l’impresa in crisi, invece di liquidarla. Tale sistema è oggi adottato da quasi
tutti i Paesi maggiormente industrializzati; nel 2006 si è finalmente allineata anche
l’Italia.
Il nostro Chapter 11 si chiama
concordato
preventivo
e
l’introduzione della disciplina è
stata capace di fare risalire l’Italia
di molte posizioni nella graduatoria Doing Business della Banca
Mondiale. Nel settembre 2012 sono
stati introdotti i nuovi istituti del concordato con riserva (o in bianco) e del concordato con continuità aziendale. Il primo permette di ottenere subito, con la presentazione della domanda, l’ombrello
protettivo della sospensione delle azioni esecutive con un
termine fissato dal giudice per presentare il piano (tra 60
e 120 giorni). Il secondo contiene norme per favorire la prosecuzione dell’attività: moratoria per il pagamento dei creditori privilegiati, possibilità di proseguire i contratti in
corso; possibilità di pagare i fornitori strategici per crediti sorti anteriormente al concordato; pre-deduzione della
nuova finanza. Gli istituti hanno avuto successo: le domande presentate nei tribunali sono aumentate in misura rilevante, anche se in molti casi in mancanza di un piano la
S
(è sempre stato un amante dell’arte) e dall’isolamento geografico della città,
visse a Berlino per diversi anni, dopo il 1975,
in relativo anonimato. Con l’aiuto di Brian Eno
laggiù creò alcuni dei suoi album migliori, conosciuti oggi come la Trilogia di Berlino: Low,
Heroes e Lodger.
La sua voce diventò più profonda, con uno stile vagamente innaturale e cantilenante, che
evocava gli anni Trenta o le chansons di Jacques
Brel. I testi si fecero più cupi, di una malinconia inquieta. La musica, influenzata dal tecnopop tedesco, aveva il tamburellìo alienante del
rumore industriale. E tute e kimono cominciarono a lasciare il passo a eleganti giacche doppiopetto. Bowie si era reinventato come roman-
(segue dall’inserto II)
proposta è stata dichiarata inammissibile.
per aggravamento del dissesto. Le attestazioni dei profesNascono qui le critiche alla disciplina: si teme che ven- sionisti sulla fattibilità del piano di ristrutturazione sono
ga utilizzata come strumento di frode verso i creditori e ge- assistite da aggravate responsabilità anche penali. Ulterioneri effetti distorsivi della concorrenza. Le critiche van- ri garanzie sono fornite dal vaglio del tribunale, che può
no prese in considerazione ma non si può perdere di vi- rifiutare di ammettere alla procedura l’azienda che mansta il fatto che i nuovi istituti implicano un rilevante sal- chi di un piano credibile; dal voto dei creditori sul piano di
to culturale. Qualche correttivo può essere utile sia per ristrutturazione; dalla possibilità di revoca del concordacombattere gli abusi, sia in generale per migliorare to e di dichiarazione del fallimento nel corso della procel’attuazione. Ma vale la pena chiedersi che cosa succede- dura, su istanza del creditore e del pubblico ministero. Parebbe se il nuovo concordato non esistesse. Il risultato non re difficile, in effetti, ravvisare l’abuso del concordato
sarebbe il pagamento immediato dei creditori, come sug- quando la maggioranza dei creditori si sia espressa a favogeriscono i critici.
re del piano di ristrutturazione. Resta la possibilità di abuL’alternativa è il fallimento: l’esperienza ha con- so del concordato in bianco, dato che la domanda può esfermato che i fallimenti pagano i creditori tardi sere presentata senza formalità, ma il rimedio è agevole.
e male, con percentuali di soddisfacimento dei Si può modificare la legge per anticipare la nomina da parchirografari irrisorie. La prosecuzione dell’atti- te del tribunale del commissario che vigila sull’andamenvità dell’impresa consente
to della procedura. Il giudice può aldi conservarla come unità
lora chiudere immediatamente la
«L’istituto del fallimento serve a favori- procedura, quando constati che non
produttiva e di evitarne,
come nel caso di liquida- re le innovazioni tecnologiche e organizza- vi è possibilità di risanamento o che
zione, la vendita dei sin- tive contenendo e quindi rendendo accetta- il debitore non stia svolgendo alcugoli componenti, con bili i rischi e le perdite. Paradossalmente, na seria attività in tale direzione.
massicce perdite di va- il collettivismo è fallito perché le unità proNon
ci
sembra
fondato
lore. Dati recenti della duttive non potevano fallire; il capitalismo l’argomento secondo cui il concorCerved mostrano un ha vinto perché le unità, le imprese, pote- dato in bianco determina una distoraumento dei concor- vano fallire».
sione della concorrenza a danno
Paolo Sylos Labini delle imprese sane. La disciplina si
dati
preventivi.
L’analisi delle caratteapplica ex-ante a tutte le imprese,
ristiche delle aziende
anche se solo quelle che entrano in
coinvolte conferma che le imprese che vi crisi se ne serviranno: ciò é sufficiente ad escludere
accedono sono più strutturate e ancora l’esistenza sia di una discriminazione giuridica, sia di una
operative rispetto alle società che fallisco- distorsione economica. Il trattamento riservato alle impreno, e che i nuovi istituti agevolano se in crisi di favore è giustificato dall’interesse pubblico all’emersione precoce della crisi. E’ vero an- la preservazione dell’attività produttiva e dei suoi valori,
che che nel periodo di protezione dai credi- oltre che dei posti di lavoro. Il giudice ha gli strumenti per
tori possono maturare crediti in prededuzione, assicurarsi che l’accertamento della situazione sia rapido
che derivano dalla prosecuzione della gestione ordinaria e non si traduca in un pregiudizio ingiustificato dei credidell’impresa, e che in caso di successivo fallimento questi tori; il suo compito è di identificare la soluzione economicrediti andranno a ridurre la percentuale di rimborso de- camente soddisfacente per tutti gli interessi coinvolti, angli altri creditori. Non è vero invece che non vi siano nel- che quelli dei creditori.
la legge presidi contro i furbi che si avvalgono del concorCerto, correttezza e tempestività nell’applicazione delle
dato per non pagare i creditori. Il reato di bancarotta (re- nuove procedure possono essere migliorate, con il concorclusione da 3 a 10 anni) si applica anche alle imprese in so di tutti gli attori coinvolti: imprese, professionisti, tribuconcordato, mentre gli atti compiuti prima dell’ammissio- nali. Ma sarebbe un grave errore ritornare indietro, frenanne sono soggetti a revocatoria in caso di successivo falli- do o cancellando i nuovi istituti.
mento. L’imprenditore che chiede il concordato e poi non
Stefano Micossi
presenta il piano si espone all’imputazione di bancarotta
Luciano Panzani
tico depresso. Le sue mosse diventarono meno va che la storia fosse finita. Era sposato da una
decina d’anni con la modella somala Iman.
istrioniche, la sua recitazione più suadente.
Avevano una figlia. Vivevano a New York.
L’uomo che porta a spasso i morti
Bowie faceva il padre di famiglia, dipingeva,
Ora, come invecchia una rockstar? Di solito aiutava la figlia a fare i compiti, viaggiava a Fisvanisce pian piano. Qualcuna rimane incastra- renze per vedere i suoi adorati pittori del Rita in un ruolo e va avanti all’infinito: gli Stones nascimento, andava nelle librerie a cercare
sono ancora vivi e vegeti, anche se un po’ tra- qualcosa da leggere.
Sembrava proprio che il messia del rock alballanti, con una voglia da adolescenti. Qualcuno suona il vecchio canzoniere: Eric Clapton co- la fine si fosse messo a riposo.
E poi, colpo di scena, quando nessuno se lo
me un classico del blues, o Bryan Ferry come
aspettava Bowie ha fatto un altro album. È stauna specie di donnaiolo anni Cinquanta.
Nel 2004 sembrava che David Bowie avesse to annunciato a gennaio, il giorno del suo sesfatto l’ultimo inchino e fosse uscito con elegan- santaseiesimo compleanno. Sul suo sito è spunza dalla scena. Aveva avuto un attacco di cuo- tato il video di una delle canzoni, Where Are We
re nei camerini, dopo un concerto. E sembra- Now?, e l’album, The Next Day, per un periodo
Stefano Feltri: «Quella della Germania è
una posizione egoista perché l’annuncio di
Draghi ha penalizzato molto poco la Germania, il tasso di interesse sul debito tedesco
a 10 anni è all’1,61 per cento contro l’1,32
per cento di settembre 2012. Nello stesso
periodo quello sui titoli decennali italiani
è passato da circa il 5,5 per cento al 4,4 di
oggi. Loro ci hanno rimesso poco, noi ci abbiamo guadagnato tanto. Rimettere in discussione il programma Omt di acquisti illimitati può spaventare gli investitori facendoli spostare di nuovo dal debito italiano (o spagnolo) a quello tedesco, con piccoli benefici per Berlino e grossi disastri per
noi». [10]
(a cura di Luca D’Ammando)
Note: [1] Roberta Miraglia, Il Sole 24 Ore 12/6; [2]
Giorgio Dell’Arti, La Gazzetta dello Sport 13/6; [3] Stefania Tamburello, Corriere della Sera 10/6; [4] Andrea
Tarquini, la Repubblica 12/6; [5] Carlo Bastasin, Il Sole 24 Ore 12/6; [6] Il Post 11/6; [7] Alessandro Alviani, La
Stampa 13/6; [8] Marika de Feo, Corriere della Sera
10/6; [9] Isabella Bufacchi, Il Sole 24 Ore 12/6; [10] Stefano Feltri, il Fatto Quotidiano 12/6.
Ecco come i catastrofisti dei numeri
ci terrorizzano e bloccano la ripresa
La Stampa, giovedì 13 giugno
essant’anni e passa per rivedere un’occupazione decente. Un ventennio – e non
basterà nemmeno – perché le famiglie possano tornare a quei consumi che si permettevano prima della crisi. E il Pil procapite
degli italiani, poi, destinato a dimezzarsi nei
confronti di quello degli Stati Uniti nel prossimo mezzo secolo.
Se l’ansia da fabbrica in crisi, da export
languente e da spread rampante non avesse ormai raggiunto il livello di guardia, ecco abbattersi su di noi un’ondata di previsioni catastrofiche a lungo termine. Tutte certificate da qualche blasonato istituto, le funestissime previsioni, tutte inconfutabili
perché – vista la loro proiezione su tempi biblici – eventuali contestazioni sono destinate ad arrivare di sicuro fuori tempo massimo. Ma anche basate su assunti difficilmente verificabili e su tendenze passate e presenti sulle quali non c’è alcuna garanzia per
il futuro.
Da ultimo, ad esempio, è toccato alla
Confcommercio annunciare, grazie a una ricerca effettuata assieme al Cer, che – vista la
caduta del potere d’acquisto per cui ogni famiglia italiana ha perso dal 2007 ad oggi oltre 3.400 euro – bisognerà aspettare fino al
2036, dunque oltre un ventennio, per tornare al livello di consumi pre-crisi. E appena
dieci giorni fa è stato l’ufficio economico
della Cgil a urlare ai quattro venti che, se le
cose continueranno così, per tornare al livello di Pil del 2007 ci vorranno 13 anni,
mentre per recuperare il milione e mezzo di
lavoratori che mancano all’appello di anni
ne saranno necessari addirittura 63, portando il traguardo a un siderale 2076. Un exploit che è valso allo studio sindacale
l’etichetta di «terrorismo psicologico», appioppata da Matteo Renzi.
Non che dall’altra parte, però, pensieri e
parole siano troppo differenti. Confindustria, già da qualcuno criticata per le uscite
del suo presidente Giorgio Squinzi che in
più occasioni ha parlato di un’economia che
soffre effetti simili a quelli di una guerra,
S
limitato è stato scaricabile gratuitamente.
Bowie si è reinventato per l’ennesima volta?
Sta interpretando un altro ruolo ancora?
Ma ha bisogno di farlo? Sì e no. La musica di
The Next Day, con il suo ritmo duro, quasi implacabile, sembra qualcosa che avrebbe potuto essere scritta negli anni Ottanta. Gli va riconosciuto che non prova a spacciarsi per giovane. Il tono dell’album è intriso di malinconia,
denso di ricordi. Where Are We Now? È uno
sguardo introspettivo sui giorni di Berlino: «A
man lost in time/Near Ka-DeWe/Just walking the
dead…» (Un uomo perso nel tempo/ vicino a KaDeWe/ che porta a spasso i morti…). Nel video,
la faccia di Bowie ancora una volta guarda in
uno specchio, ma non c’è nessuna ombra di ma-
due mesi fa ha presentato uno studio secondo cui il Pil pro-capite italiano, che nel 2010
era di 65 se paragonato al 100 di quello statunitense, cadrà nel 2060 fino al misero livello di 38.
Assieme alle previsioni catastrofiche dilagano nel dibattito economico anche i «fattoidi», quelle realtà dubbie travestite da fatti e che però fatti non sono. Esempi? All’assemblea della Confartigianato il presidente
dell’associazione parla di un total tax rate di
oltre il 68% che incide sugli utili lordi delle
imprese. Si tratta di un indice, usato dalla
Banca Mondiale per paragonare le condizioni operative di un’azienda in ciascun Paese,
che in effetti in Italia ha quel livello. Ma la
sua efficacia nel misurare l’effettiva incidenza delle imposte è dubbia, visto che in
casi come quello dell’Argentina il total tax
rate risulta del 108%, mentre per alcuni Paesi africani supera addirittura il 200%. Oppure, ecco il celebrato – almeno negli Usa –
«Tax Freedom Day», il giorno in cui il contribuente smette di lavorare per tasse e contributi e comincia a guadagnare per sé. Secondo la Cgia di Mestre, infaticabile produttrice di studi e comunicati in materia fiscale cui giornali e televisioni si abbeverano
spesso senza un pizzico di spirito critico,
quel giorno in Italia è arrivato solo ieri. Peccato che da noi la pressione fiscale, a differenza degli Usa, contenga anche i contributi previdenziali che serviranno alla nostra
pensione. In realtà abbiamo smesso di lavorare per il fisco già da qualche tempo, probabilmente verso metà aprile.
Ultimo capitolo, quello dei dati mal interpretati. Enrico Giovannini, a lungo presidente dell’Istat e adesso ministro del Welfare, non si dà pace per la vulgata che vuole
disoccupati quasi quattro giovani su dieci,
mentre in realtà quel tasso del 40% riguarda
solo i giovani in cerca di lavoro – non quelli che studiano – e riduce quindi il dato dei
senza lavoro a un ragazzo su dieci. Non poco, ma nella giungla dei numeri, un dato che
porta un po’ di chiarezza.
Francesco Manacorda
quillage. È la faccia di un uomo di sessant’anni, ben conservato e ancora bello, che non nasconde le rughe e la pelle cascante.
È un album estremamente professionale,
con qualche melodia che rimane impressa. È il
lavoro di un uomo che sembra tranquillo e soddisfatto di sé. Non assume più pose. È un lavoro dignitoso, maturo. Ma è rock and roll? Ma soprattutto: ha importanza? Forse Bowie ha spinto questa forma d’arte ai suoi limiti estremi e
il rock sta diventando come il jazz, un genere
che ha perso l’energia grezza della sua gioventù ed è entrato ormai in una venerabile vecchiaia.
Ian Buruma
(traduzione di Fabio Galimberti)
ANNO XVIII NUMERO 141 - PAG 4
IL FOGLIO QUOTIDIANO
LUNEDÌ 17 GIUGNO 2013
Le folli fissazioni che fanno scrivere capolavori
Svegliarsi all’alba, spiare amplessi, pensare al suicidio. Così le migliori penne della letteratura ispirano le loro opere
il Giornale, venerdì 14 giugno
onathan Safran Foer, il cui
Ogni cosa è illuminata (2002)
ha ricevuto le recensioni più entusiastiche tra tutte le opere prime degli ultimi dieci anni, da
bambino scorreva l’elenco telefonico e pensava: «Tra cent’anni questa gente sarà tutta morta», e forse è per questo che nei
suoi libri aleggia sempre la paura.
Khaled Hosseini scrisse Il cacciatore di aquiloni di getto, in un
anno, tra le 5 e le 8 del mattino,
prima di andare a lavorare come medico tirocinante. Mentre
Charles Frazier, il cui romanzo
Tredici lune è stato forse, dopo
Ritorno a Cold Mountain, il più
atteso degli ultimi 10-15 anni in
America, in una giornata buona
scrive al massimo un paragrafo,
o due.
Come, cosa, quando e perché
si scrive? Un’ottima risposta è il
libro Come leggere uno scrittore
(Codice, pagg. 380, euro 21) in cui
John Freeman, direttore dell’edizione americana della leggendaria rivista Granta, ha raccolto
i suoi incontri con una cinquantina di grandi autori della narrativa mondiale, da Don DeLillo a
McEwan, da Robert M. Pirsig a
Jim Crace. Dove si viene a sapere, ad esempio, che:
J
Scuola Toni Morrison, quando
era una mamma single, abitava
a Midtown Manhattan e il Nobel
era di là da venire (1993), lavorava in una casa editrice. Si alzava tutti i giorni alle 5 e scriveva prima di svegliare i bimbi e
prepararli per la scuola. Ancora oggi, che probabilmente è la
scrittrice più pagata d’America,
quando lavora a un romanzo si
sveglia all’alba, prende matita e
bloc-notes, e comincia a scrivere. Finché non le fa male la mano.
Correre Un giorno Haruki Murakami, quando fumava tre pacchetti di sigarette al giorno, ebbe una «rivelazione», come la
chiama lui: «E se andassi a fare
una corsetta?», si chiese. Dopo
tre anni uscì L’arte di correre
(2007). Ancora oggi è un bestseller.
Sigaretta Richard Ford ha cominciato a scrivere racconti
molto tardi, e in parte perché
Raymond Carver lo incoraggiò a
farlo. Gli fece leggere il suo primo racconto, Rock Springs, del
1987: «All’inizio non gli è piaciuto. Io gli ho detto che si sbagliava. Me lo rivedo ancora Raymond, che mugugna con la sigaretta in bocca: “Ma sì... mah,
chissà...”».
Silenzio A differenza di altri
premi Nobel come Grass, Wole
Soyinka o Dario Fo, ognuno dei
quali ha pubblicato memorie
autobiografiche che ripercorrono la propria formazione politica, Nadine Gordimer preferisce
il silenzio: «Non amo parlare di
ciò che io e mio marito abbiamo
fatto quando eravamo attivisti...
Penso che le uniche cose della
mia vita che possano minimamente interessare agli altri siano i libri che ho scritto».
Penne Oliver Sacks, 80 anni, è
costretto dall’artrite a scrivere
con penne oversize. Si sveglia
tutti i giorni alle 4.30: prima nuota, poi visita i pazienti, poi ri-
sponde alle mail, quindi scrive.
Pezzi David Foster Wallace continuava a ripeterglielo a quelli di
Harper’s: «Lo capite o no che non
sono un giornalista?». Loro rispondevano: «È per questo che ti
chiediamo dei pezzi».
Ticchettio Siri Hustvedt e
Paul Auster, la coppia di scrittori di successo più famosa del
mondo (e «la più prolifica industria letteraria d’America»), vivono a Brooklyn da oltre 30 anni, in un bellissimo loft, ma scrivono separati. Lei non sopporta
il ticchettio della macchina per
scrivere, e lui va a lavorare in
un piccolo appartamento lì vicino.
Idee Kazuo Ishiguro, a detta
del direttore di Granta, è lo
scrittore più elegante e permaloso che abbia incontrato. Per
l’intervista al Café Richoux di
Piccadilly, a Londra, si è presentato in maglione nero e pantaloni impeccabili. Ma si è innervosito quando nel discorso è usci-
ta la parola fantascienza. «Mentre scrivo un romanzo non penso
mai in termini di genere. Il mio
modo di scrivere è diverso, parto sempre dalle idee».
Cassettiera Joyce Carol Oates,
che dal 1963 a oggi ha pubblicato mille racconti, cinquanta romanzi, una dozzina di saggi, testi
teatrali e poesie, tiene in casa
una
cassettiera
a
prova
d’incendio, dove custodisce le
opere già scritte, in attesa di
pubblicazione.
Gay Per qualche strano caso di
karma immobiliare, nella stessa
via di Manhattan abitano tre delle figure più illustri dell’arte e
della letteratura gay: in cima alla strada il poeta John Asbery,
poco più avanti lo storico Martin
Duberman che col suo Cures «ha
liberato schiere di omosessuali
dal giogo della terapia dell’odio
di sé», e vicino all’ottava Strada,
nell’angolo più gay di quella che
è probabilmente la città più gay
d’America, Edmund White. Giusto a fianco di una chiesa.
Gli schiavi lavorano nei magazzini di Amazon
Ansa, venerdì 10 maggio
osa si nasconde nei retroscena di Amazon: il colosso americano del libro online il cui fatturato ha superato i 60 miliardi di dollari nel 2012. Un
giornalista è andato a indagare facendosi assumere in uno dei magazzini di Amazon France, a Montelimar (sud-est): da questa esperienza ha scritto un
libro in cui racconta di dipendenti-robot, di contratti precari, di compiti faticosi e ripetitivi, come
percorrere 20 chilometri ogni giorno tra i reparti di
immensi depositi.
L’autore di En Amazonie, infiltré dans le meilleur
des mondes (Fayard) si chiama Jean-Baptiste Malet. Il giornalista aveva dapprima chiesto un’intervista ai responsabili di Amazon France, ma di
fronte al rifiuto si è presto reso conto che «per
poter scoprire cosa c’è dall’altro lato del monitor» si sarebbe dovuto «infiltrare»: «Ho scoperto
che i dipendenti non avevano diritto di esprimersi sulle condizioni del loro lavoro, né nei media,
né con la famiglia, a dispetto delle regole del codice del lavoro. La compagnia limita ogni forma
di comunicazione», ha raccontato alla stampa
transalpina. In vista del Natale, nel 2012, Amazon
France assumeva 1.200 persone con contratto interinale per turni di sette ore al giorno a 9,725 euro lordi l’ora.
Malet è stato assunto nel magazzino di Montelimar, un hangar di 36mila metri quadrati, come
«picker» (letteralmente «raccoglitore»), l’operaio
C
che percorre a piedi 20-25 chilometri ogni giorno per andare a cercare i prodotti (libri, cd e ogni
altro oggetto venduto su Amazon), caricarli su
carrelli e portarli al «packer» (l’imballatore).
Faceva i turni di notte, dalle 21.30 alle 4.50.
Ogni suo gesto era estremamente codificato, dal
modo di manipolare i carrelli (la marcia indietro è vietata) a come impilare gli articoli (per dimensioni, con il codice a barre verso il basso,
ecc.). Come tutti i dipendenti era munito di uno
«sbirro elettronico», uno scanner con sistema
Gps che controlla in tempo reale spostamenti, velocità dei gesti e eventuali tempi di pausa.
Un rapporto finale di produttività gli veniva
consegnato a fine turno. «I picker modelli – dice
– devono tenere un ritmo di 130 articoli all’ora,
davvero molto alto, considerando che all’inizio
non si riesce a caricare più di 50 oggetti. Vengono dolori di schiena, collo, ai polsi, le gambe si
pietrificano. Se gli obiettivi non sono tenuti, si
viene sanzionati. Solo i dipendenti più produttivi possono sperare in un contratto a tempo indeterminato.
I clienti di Amazon – sottolinea – devono sapere tutto questo quando fanno le loro ordinazioni,
devono sapere che i dipendenti vengono inebetiti e trasformati in robot. E pensare che il motto interno dell’azienda – aggiunge – è «Work hard,
Have fun, Make history».
Luana De Micco
Suicidio Imre Kertész negli ultimi cinquant’anni ha passato la
maggior parte del tempo a pensare al suicidio.
Amplessi Durante le sue ricerche per scrivere Io sono Charlotte Simmons (2004), che parla della pervasività del sesso nella vita universitaria americana, Tom
Wolfe, con cinque bypass, stava
in giro nei campus fino alle 4 o
alle 5 del mattino a piantonare i
seminterrati delle confraternite
per spiare «pomiciate» e «amplessi». Diventò tanto sciolto nello slang sullo «scopare» da essere in grado di parlarlo lui stesso.
Censura Mo Yan (Nobel nel
2012): «La censura è una questione di astuzia. Nella vita reale ci possono essere questioni
spinose o temi critici che non si
vuole vengano affrontati. In questi casi lo scrittore può usare
l’immaginazione per isolarle dal
mondo reale, o esagerare la situazione perché sia più vivida...
Sono convinto che limitazioni e
censure, in realtà, abbiamo un
effetto benefico sulla creatività
letteraria».
Falegname Donna Leon è una
delle gialliste più famose del
mondo: dal suo debutto, nel ’92,
ha pubblicato un romanzo all’anno, quasi tutti ambientati a
Venezia, con protagonista il
commissario Brunetti (sono pubblicati in 23 lingue ma non in
italiano, per suo espresso rifiuto). Sullo snobismo della critica,
dice: «Sono un falegname, non
un liutaio».
Firme
A cura di Giorgio Dell’Arti. Redazione: Francesco Billi, Luca D’Ammando, Jessica D’Ercole.
Grafici: Roberto Vespa, Giuseppe Valli. Hanno
collaborato: Daria Egidi, Roberta Mercuri.
BURUMA Ian. 61 anni. Nato all’Aia da
madre inglese e padre olandese, vive da otto anni a New York. Scrittore, saggista ed
esperto di cultura e tradizioni orientali. Collabora con il New York Review of Books, il
New Yorker e il New York Times.
DE MICCO Luana. Laureata in sociologia
alla Sapienza di Roma, vive a Parigi. Scrive
dal 2006 per l’Ansa e da quest’anno è corrispondente per il Giornale dell’Arte.
DI TURI Nicola. 24 anni, di Castrovillari
(Cosenza). Laureato in Lettere, scrive per A,
Panorama, Linkiesta, Corriere della Sera,
Fatto Quotidiano, Lettera43, Sole 24 Ore. Si
occupa principalmente di politica e si interessa di economia.
ECO Umberto. 81 anni, di Alessandria.
Scrittore, filosofo e semiologo. Appassionato di libri di antiquariato e di Dylan Dog.
GIARDINA Roberto. 72 anni, palermitano.
Giornalista e romanziere, da anni in Germania, prima a Bonn e ora a Berlino. Collabora con ItaliaOggi.
GRAMAGLIA Giampiero. Nato a Saluzzo
(Cuneo), compirà 63 anni questo sabato. Ha
lavorato alla Provincia Pavese, alla Gazzetta del Popolo e per trent’anni all’Ansa, che
ha anche diretto per tre anni. Ora è editorialista al Fatto. Sposato con la collega Elysa
Fazzino, due figli, Chiara e Luca. Juventino.
GUZZANTI Paolo. 72 anni, romano. Per
dieci anni ha lavorato all’Avanti, ha diretto
il Giornale di Calabria, è stato tra i fondatori di Repubblica. Già vicedirettore del Giornale. Ultimo libro: Senza più sognare il padre
(Aliberti, 2012).
KRUGMAN Paul. 72 anni, di Long Island.
Premio Nobel per l’Economia nel 2008, saggista. È autore di 20 libri (l’ultimo, Fuori da
questa crisi, adesso, Garzanti 2013) e di oltre
200 articoli pubblicati su riviste specializzate. È editorialista del New York Times dal
1999 e insegna Economia a Princeton.
Scrivere John Updike, sei mesi prima della morte (2009):
«Quando ho cominciato, negli
anni ’50, agli scrittori non veniva
chiesto di promuovere il libro, di
girare per le librerie, di firmare
copie... Dovevamo solo scrivere,
e tutto finiva lì. Adesso pubblicare il libro è solo l’inizio della
storia, perché poi ti tocca uscire
e andare a venderlo».
MANACORDA Francesco. Nato a Napoli
nel 1965. Si occupa di economia e finanza
per la Stampa «da un pezzo», precisamente
dal 1988. Sposato con Stefania, ha due figli.
Lettore bulimico e onnivoro, ama il ciclismo
ma lo trova mortalmente noioso in tv.
Male Paul Theroux alla domanda se ha mai sofferto del
«blocco dello scrittore»: «È una
grande paura, ma ne esiste una
ancora peggiore, si chiama scrivere male».
Luigi Mascheroni
MARCHESE RAGONA Fabio. Trent’anni,
nato Milano ma «siciliano di Canicattì». Cattolico, ha insegnato religione a scuola e scrive di cose vaticane. Professionista dal 2008,
lavora a News Mediaset e collabora con Panorama e il Giornale. Ha scritto anche per
l’edizione del sabato del Foglio.
MASCHERONI Luigi. 45 anni, di Varese.
Già collaboratore del Sole 24 Ore, del Foglio
e di riviste letterarie. È al Giornale dal 2001
e quando non scrive, di solito, legge. Adora
la marmellata di arance e le penne.
MICOSSI Stefano. 66 anni, di Bologna. Direttore Generale dell’Assonime. Sposato
con Daniela Zanotto, due figli.
MÜLLER Hansjörg. Vive a Laufen-Uhwiesen, comune del Canton Zurigo. Redattore
del quotidiano svizzero Basler Zeitung.
PANZANI Luciano. 63 anni, dal 2009 presidente del Tribunale di Torino e prima, per
dieci anni, a capo di quello di Alba. Esperto di diritto fallimentare. Sposato con Elisabetta Beria d’Argentina, hanno due figli: Maria chirurgo e Ugo, neo laureato in Lettere.
SEGANTINI Edoardo. 63 anni, genovese.
Nel 1976 autore della parodia Disney I promessi paperi. Lavora al Corriere della Sera.
Colleziona e suona chitarre elettriche. Vive
tra Milano e Roma.
TECCE Carlo. 28 anni, di Avellino, vive a
Roma. Scrive sul Fatto Quotidiano dal primo numero e collabora con Vanity Fair. Ha
cominciato a 16 anni recensendo un libro di
filosofia.
VERDELLI Carlo. 55 anni, milanese. È
stato vicedirettore per sette anni del Corriere della Sera e, fino all’estate scorsa, executive vicepresident di Condé Nast. Collabora
con Repubblica.
ZUCCONI Vittorio. 69 anni di Bastiglia
(Modena), inviato della Repubblica dagli
Stati Uniti (ha la doppia nazionalità).
IL FOGLIO
quotidiano
Direttore Responsabile: Giuliano Ferrara
Vicedirettore Esecutivo: Maurizio Crippa
Vicedirettore: Alessandro Giuli
Coordinamento: Claudio Cerasa
Redazione: Annalena Benini, Stefano Di Michele,
Mattia Ferraresi, Marco Valerio Lo Prete,
Giulio Meotti, Salvatore Merlo, Paola Peduzzi,
Daniele Raineri, Marianna Rizzini,
Nicoletta Tiliacos, Piero Vietti, Vincino.
Giuseppe Sottile (responsabile dell’inserto del sabato)
Editore: Il Foglio Quotidiano società cooperativa
Via Carroccio 12 - 20123 Milano
Tel. 02/771295.1
La testata beneficia di contributi diretti di cui alla legge n. 250/90
Presidente: Giuseppe Spinelli
Direttore Generale: Michele Buracchio
Redazione Roma: Lungotevere Raffaello Sanzio 8/c
00153 Roma - Tel. 06.589090.1 - Fax 06.58335499
Registrazione Tribunale di Milano n. 611 del 7/12/1995
Tipografie
Poligrafico Sannio srl - Loc. colle Marcangeli - 67063 Oricola (Aq)
Poligrafico Europa srl - Via Enrico Mattei, 2 - Villasanta (Mb)S.T.S.
Distribuzione: PRESS-DI S.r.l.
Via Domenico Trentacoste 7 - 20134 Milano
Pubblicità: Mondadori Pubblicità S.p.A.
Via Mondadori 1 - 20090 Segrate (Mi)
Tel. 02.75421 - Fax 02.75422574
Pubblicità legale: Il Sole 24 Ore Spa System
Via Monterosa 91 - 20149 Milano, Tel. 02.30223594
e-mail: [email protected]
Copia Euro 1,50 Arretrati Euro 3,00+ Sped. Post.
ISSN 1128 - 6164
www.ilfoglio.it
e-mail: [email protected]
L’apertura di prima pagina
è stata realizzata da Luca D’Ammando
ANNO XVIII NUMERO 141 - PAG I
IL FOGLIO QUOTIDIANO
LUNEDÌ 17 GIUGNO 2013
Wall Street fa affari con gli animali da compagnia. La Clinton su Twitter guadagna mille seguaci al minuto
di nuovo arrestato per associazione a delinquere, traffico di droga, estorsioni, tentati rapimenti.
(segue da pagina due)
Animali Dal 2007 a oggi negli Stati
Uniti le spese per gli animali da compagnia sono cresciute del 30%, arrivando a 53 miliardi, più del Pil della
Tunisia. La finanza ha scoperto che
può fare affari col settore: Alliance
Growth, hedge fund newyorchese, ha
puntato qualche milione su Kriser’s,
catena di cibo “olistico” per animali
che prevede quest’anno di far crescere il giro d’affari del 40%. Alcuni fondi di San Francisco hanno sottoscritto un aumento di capitale da 7 milioni di Whistle, titolare del brevetto di
un Gps che controlla ogni movimento del cucciolo e spedisce i dati sullo smartphone del proprietario. A
Wall Street Petsmart, unico big del
settore quotato, ha visto il valore delle sue azioni volare dai 13 dollari di
Vaticano/1
Esce allo scoperto il silente
direttore dello Ior: «Senza di noi la
Chiesa non sarebbe libera»
il Giornale, venerdì 14 giugno
a Chiesa necessita d’indipendenza finanziaria, avere quindi un’istituzione
predisposta a ciò non solo è essenziale, ma
è doveroso». Ne è convinto Paolo Cipriani,
dal 2007 direttore generale dello Ior,
l’Istituto per le Opere di Religione, la cosiddetta «Banca Vaticana». L’istituto nel 2012 ha
gestito un patrimonio complessivo di 7,1 miliardi di euro, con un utile netto di 86,6 milioni e 18.900 clienti. Su questi, con l’arrivo
del nuovo presidente, Ernst von Freyberg,
sono stati attivati controlli per verificare
eventuali irregolarità. Ed è solo il primo passo della rivoluzione che riguarda lo Ior:
l’istituto sta cambiando, in linea con la voglia di riforma voluta da Papa Francesco.
Direttore, per il Vaticano è necessario avere un istituto finanziario?
«Il nostro fine è sostenere la Chiesa nella gestione dei propri bisogni finanziari per
il raggiungimento degli alti fini istituzionali carismatici dei vari istituti ed enti ecclesiastici. È vero, altri istituti finanziari possono fornire spesso gli stessi servizi, ma con
una logica di profitto e non di missione. Secondo il mio modesto parere la garanzia di
un’indipendenza finanziaria, affinché la
Chiesa possa operare per il raggiungimento delle sue finalità senza dover sottostare
a pressioni di Stati o poteri terzi, è estremamente necessaria. Il poter disporre quindi
di un’istituzione propria che è preposta a
ciò non solo è essenziale ma è doveroso».
Però qualcuno insiste sul fatto che lo Ior
non sia necessario. Pensa che il Papa voglia
chiuderlo?
«Non posso essere così presuntuoso da
sapere i desiderata del Santo Padre! Il Papa
ha detto di apprezzare lo Ior per i servizi
che ha svolto e svolge e che dà fiducia alle
persone che sono addette all’adeguamento
agli standard che chiedono le varie istanze
internazionali».
Si parla però sempre più insistentemente
di una riforma.
«Stiamo effettuando da tempo grandi
cambiamenti rispetto al passato, per adeguarci ai tempi in relazione alle necessità e
alle nuove normative, prima inesistenti».
Il vostro presidente ha annunciato novità
(nascita di un sito web, bilanci online)...
«La visione pubblica dell’istituto deriva
da una mancanza di corrette informazioni,
anche se per quanto riguarda i bilanci, questi sono già pubblici all’interno della Santa
Sede. L’arrivo del nuovo presidente ha dato quella spinta che noi dipendenti chiedevamo da tempo, le verifiche che sta effettuando sulla nostra operatività ci permetteranno di confermare che abbiamo tutti i requisiti per poter operare a livello internazionale senza problemi».
Parlava di visione pubblica dell’istituto:
quando si parla di Ior si pensa subito a conti
cifrati, al riciclaggio, ecc...
«Posso affermare con certezza che allo
Ior non esistono conti cifrati, né tantomeno
anonimi. Ogni transazione è sempre registrata nei nostri sistemi con la precisa indicazione del titolare del rapporto. Per sgomberare il campo da ogni dubbio dobbiamo
iniziare a comunicare nel modo più chiaro
possibile».
A proposito di trasparenza, l’Aif, l’Autorità
d’Informazione Finanziaria, nel rapporto annuale 2012 parla di 6 operazioni sospette che
riguardano lo Ior...
«L’istituto ha predisposto procedure per
prevenire i rischi di riciclaggio. Così quando una transazione è registrata nei nostri sistemi operativi è automaticamente sottoposta a una serie di controlli. Per le operazioni citate i sistemi hanno rilevato alcune anomalie che non corrispondono a movimenti
abituali, quindi abbiamo segnalato la cosa
all’Aif perché facesse delle verifiche. Naturalmente la segnalazione all’autorità di controllo non significa che queste operazioni
comportino riciclaggio di denaro».
Anche lei è stato accusato di riciclare denaro sporco: un faccendiere in un’intercettazione parla di lei come «amico» che riciclava
denaro con operazioni di Ior Lussemburgo.
«Non conosco e non ho avuto rapporti con
quella persona. Con il mio legale abbiamo
comunicato ai giornali che avevano pubblicato la notizia di ritenersi responsabili della verifica sulla veridicità di certe affermazioni. Nel giro di poche ore i quotidiani hanno pubblicato una smentita e quindi per me
il caso è chiuso».
Fabio Marchese Ragona
«L
inizio 2009 ai 68 attuali, mentre la
quotazione di Zoetis, prodotti veterinari, ha donato agli azionisti +20% in
pochi giorni (Livini, Rep).
Topino Oggetti per animali: il giocattolo topino fatto di pezza e alimentato con energia solare, il dogbrella, ombrello per cani (29,95 dollari), il tapis roulant (400 dollari), il
lancia palle automatico, il condizionatore per la cuccia, il kit antincendio con giubbino ignifugo e masche-
ra d’ossigeno (318 dollari), la candela che neutralizza gli odori delle flatulenze, attrezzi che traducono in
linguaggio umano miagolii e abbai
(220 dollari), cagnoline gonfiabili per
cani solitari eccetera (ibidem).
mercoledì 12 giugno
Negozi Rapporto Confesercenti:
nei primi quattro mesi dell’anno, a
fronte di 8.006 aperture di attività, ci
sono state 20.756 chiusure. Da gennaio ad aprile il saldo è stato nega-
tivo per 12.750 botteghe. A questo ritmo, entro l’anno, i negozi spariti saranno quasi 43.000. Le chiusure sono
superiori alle aperture in tutte le regioni d’Italia, con punte in Calabria
e Sicilia. Guardando alle grandi
città, Roma è in testa alla classifica:
solo nei primi quattro mesi dell’anno 1.390 negozi. A Napoli le chiusure sono state 1.363. Seguono Torino,
Palermo e Milano (Grion, Rep).
Tv Il governo di Atene ha annun-
ciato – causa austerity - la chiusura
temporanea della Ert, televisione di
Stato. Alla mezzanotte di ieri il governo ha spento il segnale delle cinque reti televisive e delle 29 radio di
Ert. I 2.780 dipendenti della società
«saranno sospesi e indennizzati» ed
Ert rinascerà «come una struttura
più snella e privata il prima possibile». Replica dei giornalisti, che hanno occupato due studi: «Noi proveremo a tenere accesi i ripetitori». Lo
Stato, secondo le promesse, attiverà
Luigi Manconi, 65 anni, parlamentare Pd, già radicale di estrema sinistra, sociologo e molto altro, cieco da sette anni
«Io, senatore, non so che faccia abbia Obama»
Non porta il bastone. Gira con fasci di soldi come un camorrista. L’unica privazione i libri (per i giornali basta Bordin)
la Repubblica, venerdì 14 giugno
er esempio, io non so che faccia abbia Obama. Nel 2008, quando venne
eletto, non ero già più in grado di memorizzarne il volto. Direi che ha una testa ovaloide. È così?». Mentre parla, non ti centra,
guarda un po’ altrove. «Anche Giovinco, per dire,
eroe della mia
epopea sportiva. È
venuto dopo, e io
non so immaginare i tratti del suo
viso, né riconoscerne movenze
e
traiettorie
sul campo».
«Tutto quello
che non ho filmato
nel cervello prima
della mia patologia, mi è visivamente sconosciuto».
Luigi Manconi,
65 anni, sardo di Sassari, senatore del Pd e fresco presidente della
Commissione per i Diritti Umani, oltre a un
altro sacco di cose, dalla sociologia alla militanza politica fino a una conoscenza dottorale in musica leggera e popolare, non
vede praticamente da 7 anni e non ne ha
mai parlato. Per pudore, forse, o per volontà di rimozione. Resta il fatto che, anche
se la definizione clinica è “ipovedente”,
per la Asl è un “cieco civile”, con un «residuo visivo non superiore a un ventesimo»
all’occhio sinistro e zero al destro. In un
parlamento di non larghissime vedute, lui
è l’unico a non vederci sul serio. Ma non
porta il bastone, né gli occhiali scuri, gira
spesso da solo, attraversa la strada come
un pazzo. Non che la cecità per Manconi
sia un segreto da celare, ma neanche un
handicap da esibire. «Lo dico a quelli con
cui entro in contatto, molti lo apprendono
all’improvviso. Di solito, mi danno una pacca lieve sul braccio e mormorano: scusa,
non sapevo. Scusa di che? Io sono più cose: politico, docente universitario, padre di
tre figli. E c’è Bianca (Berlinguer, direttore del Tg3, ndr).
In più ho anche un handicap. Anche, capisce. Handicap che, oltretutto, posso affrontare con i privilegi di classe e di censo
che comporta la mia condizione sociale».
Suona un telefono. Le assistenti che gli
danno sei occhi, le due Valentine (Calderone e Brinis) e Cecilia (Aldazabal), sono fuori dalla stanza per discrezione. Lui raggiunge disinvolto l’apparecchio e risponde,
poi si sdraia con la faccia sulla tastiera per
comporre un numero. Sulla scrivania, fogli
di appunti scritti con grafia enorme. Per
leggerli, li schiaccia contro l’angolo dell’occhio sinistro, l’unico da cui filtra un micro
raggio di visione. Poi torna a sedersi e mi
«P
dice: «Lei porta una camicia con le maniche rimboccate, un gilet, visto che non sembra tipo da panciotto, ed è un peccato, e ha
un blocco a spirale. Il viso non so». Vede
delle ombre? «No, è come se fosse tutto sfumato».
Quando tutto ha cominciato a sfumare?
«Già dal 2005 sapevo
del glaucoma, che si sommava a una forte miopia,
a un distacco della retina, e a tanti altri guai dei
miei occhi. Ma non immaginavo un peggioramento tanto rapido».
Ricorda il momento
del non ritorno?
«Ho una totale, e
addirittura suicida
ignoranza del mio
corpo, e non riesco
a collocare con precisione quel momento. So però che è
irreversibile.
Allo
stato attuale, neanche le
staminali, dice il professor Mario
Stirpe che mi ha in cura, potrebbero invertire il processo».
Quando le accadde? Non può non esserci
l’istante preciso in cui la vista svanisce e te
ne rendi spaventosamente conto.
«Novembre 2007, credo. Ero sottosegretario alla Giustizia e alla Camera dovevo
dare il parere del governo su emendamenti e mozioni. Da un po’ mi ero accorto che
la situazione del mio visus si stava aggravando, così avvisai il presidente di turno,
Giorgia Meloni, che avrei potuto avere delle difficoltà. Cominciai, ma da lì a poco mi
accorsi di non riuscire a leggere neanche
mezza riga. Mi venne in soccorso un funzionario, suggerendomi le parole, ma io faticavo a ripeterle. L’opposizione prese a rumoreggiare. Quando la protesta si fece più vivace, mi rivolsi all’aula: “Per un problema
di salute non sono più in grado di proseguire”. Da quel momento non sono stato più
capace di leggere un testo, né gli appunti
per i miei interventi, che curavo maniacalmente. Decifro a malapena qualche riga,
scritta a mano in grandi caratteri».
Lei, una persona che vive di parole scritte, colpita al cuore della passione. Come
reagì?
«Qualcuno mi considera un depresso. Ed
è possibile che questo sia un tratto del mio
carattere che allora si accentuò per un breve periodo e che ancora, occasionalmente,
si manifesta. Per converso, ho accentuato il
mio iperattivismo e l’agitazione psicomotoria di tante iniziative, parole, scritti».
Conseguenze pratiche?
«Giro con un fascio di contanti come un
camorrista perché non posso usare il bancomat. Io che sono titolare di una moltitudine di cravatte, e che me ne regalai una
di Bardelli il giorno del mio ventesimo
compleanno, facendo una follia, appena
espulso dalla Cattolica di Milano e senza
una lira, adesso corro rischi terribili con
gli abbinamenti. Mi aiuta spesso mia figlia
Giulia, ma prima era una scelta gelosamente mia».
Passando a mutazioni più traumatiche?
«Prima leggevo 6 quotidiani al giorno in
due ore. Li ho sostituiti con 6 rassegne radiofoniche più tre gr. Comincio alle 6.30
con Radio1 e vado avanti fino alle 9.30 con
Terza pagina di Radio3; in mezzo,
l’imperdibile Massimo Bordin su Radio
Radicale. Va molto peggio con i libri: mi
vengono letti i capitoli essenziali di quelli
scientifici, sociologia e politologia, e ne apprendo il succo. Ma la narrativa e la poesia sono la vera privazione. Mi hanno appena regalato un Meridiano di Amelia Rosselli. So che è lì e non posso farci niente.
E abbiamo un bellissimo quadro tutto
bianco di Gianni Dessì: per vederlo, devo
toccarlo con le mani. Va un po’ meglio con
i film: mi attacco il lettore dvd all’occhio sinistro e qualcosa riesco a seguire. Con
Django di Tarantino sarà dura perché c’è
tanta azione, ma con Amour di Hanneke,
meravigliosamente parlato da Trintignant
ed Emmanuelle Riva, è andata bene».
Mai pensato di ricorrere a strumenti che
agevolano la vita dei ciechi?
«Ho 65 anni, trovo più faticoso apprendere nuove tecniche piuttosto che farmi aiutare all’interno di “A buon diritto”, che ho
fondato nel 2001 e dove mi sento a casa ».
L’Italia è un Paese che sta attento ai ciechi?
«Vent’anni fa, lessi un’indagine Istat che
quantificava il numero dei portatori di
handicap. Ci scrissi un saggio: Cinque milioni di disabili e il predellino del tram di
Milano. Scalini altissimi, un ostacolo insormontabile per portatori di handicap, donne incinte o con passeggino. Oggi, prendere un treno, specie se regionale, comporta
le stesse difficoltà».
In Senato invece…
«C’è un cortile interno, che avrò fatto
centinaia di volte. Mi ero scordato che nel
mezzo si trovano due gradini e così, tornatoci quest’anno, sono incespicato pericolosamente. Ho segnalato a un assistente parlamentare che, per legge, su tutti i gradini
va tracciata una striscia nera. Si è scusato,
l’ha fatta mettere e mi ha raccontato di
quando anche Andreotti, coi suoi passettini, rischiò di cadere proprio lì, ma lui,
l’assistente, si buttò e lo raccolse al volo,
cosa che gli valse la prima nota di merito».
Lei ha una vita politica insolita. A parte
l’antica militanza in Lotta Continua, è stato
portavoce dei Verdi, con dimissioni date immediatamente dopo la sconfitta alle Europee
del ’99, sottosegretario di Prodi, senza essere parlamentare, fino al 2008. In mezzo c’è
l’attività di “A buon diritto”, che, tra l’altro,
ha reso pubblico lo scandalo di Stefano Cuc-
chi. Come mai, dopo 12 anni, il Pd l’ha candidata?
«Non spetta a me dirlo. Credo che qualcuno si sia ricordato che già nel ’95 presentai il primo disegno di legge sulle unioni civili e nel ’96 il primo sul testamento biologico. Persino in politica, talvolta questo
può contare».
Che differenze nota con le altre legislature che ha vissuto?
«Oggi, sia perché un qualche rinnovamento in effetti c’è stato sia perché le larghe intese hanno modificato il quadro, tutto appare più difficilmente riconoscibile e
classificabile: le dislocazioni politiche e le
opzioni individuali. Persino la distinzione
tra maggioranza e opposizione risulta più
sfumata».
E sul piano personale?
«Politicamente io mi definirei un radicale di sinistra estrema, tuttavia sempre interessato a trattare le questioni intrattabili e, se possibile, a governarle. Comunicando assiduamente, parlando, incontrando.
Per esempio, passando molto tempo nei
settori dell’aula dove siedono i miei avversari politici. Ecco, se devo discutere di libertà religiosa col valdese Malan, del Pdl,
o di unioni civili con Bondi, devo prima chiedere all’assistente se
si trovano in aula, poi farmi
accompagnare da loro o
chiedere loro di raggiungermi; e così con 5 Stelle».
Qualche volta riesce a ridere della sua disgrazia?
«Spesso. Pensi che il
primo giugno ho presentato a Cremona, in piazza
del Duomo, il mio La musica è leggera, con Maurizio Maggiani, altro ipovedente. Al termine, lui dice: io e Luigi non possiamo salutarci con un “ci
vediamo un’altra volta”,
perché non ci vediamo
proprio. Poi attacca una
canzone popolare del primo Novecento, che fa così
(Manconi si mette a cantarla, con bella voce bassa ben
temperata, ndr): “Son cieco e
mi vedete /devo chieder la carità/ho 4 figli, piangono,/ del pane non ho
da dar.//. Noi anderemo a Roma / davanti al
papa e al re / noi grideremo ai potenti / che
la miseria c’è”».
Come fa a prenderla così?
«La Chiesa parla di grazia di stato, un
qualcosa che ti offre risorse impensabili
per affrontare circostanze particolarmente
dolorose o comunque gravose. L’ho sperimentata su di me e, per esempio, sui familiari di vittime di ingiustizie atroci. Ilaria
Cucchi ha avuto il bene di questa grazia,
nonostante tutto».
Carlo Verdelli
Eco ha finalmente capito la tv grazie alle parole crociate
I talkshow piacciono se quelli che ci vanno litigano. Altro che Terza Camera: chi li guarda vuole un incontro di wrestling
l’Espresso, venerdì 14 giugno
pero che il direttore de l’Espresso non me ne voglia
se affermo che la rivista che leggo ogni settimana con
maggior interesse e rispetto è la Settimana enigmistica,
anche perché non mi impone soltanto i propri contenuti, ma mi chiede di collaborare al completamento delle
sue 48 pagine.
Molto istruttive sono le definizioni delle parole crociate. La tradizione italiana è diversa da quella francese, dove la definizione si pone come un enigma, e celebre rimane l’esempio citato da Greimas per cui «l’amico dei semplici» doveva essere decrittato come «erborista» (il che
prevedeva che il solutore sapesse che i semplici sono tradizionalmente piante con virtù curative, usate dai medici di un tempo). Le definizioni delle nostre parole crociate sono piuttosto richiami a opinioni diffuse e comunemente accettate per cui «contempla pasta e ortaggi» va
inteso come «dieta mediterranea» e «serpente americano» va letto come «boa».
Ora accade che in una pagina di parole crociate abbia
trovato «vivacizzano i talkshow», e a prima vista pensavo
che la definizione rimandasse alla presenza di personaggi celebri, o ai riferimenti all’attualità. Niente affatto, la
soluzione era «scontri». Il compilatore della definizione
si era rifatto dunque all’opinione corrente per cui quel-
S
tracimavano nella sua vita
(segue da pagina due)
personale. «Non riuscivo a decidere se ero io
che scrivevo i personaggi o se erano i personaggi che scrivevano me».
Il sassofonista di Little Richard
Ma chi è in definitiva David Bowie? Nasce nel
1947 con il nome di David Jones a Brixton, South
London, ma cresce per lo più a Bromley, un sobborgo relativamente agiato e profondamente
noioso. Molte rockstar, compresi Mick Jagger e
Keith Richards, sono cresciuti in posti del genere, che il romanziere J. G. Ballard, che visse per
quasi tutta la sua vita adulta a Twickenham, descrive come «posti molto più sinistri di quello
che si immagina chi vive in città. La loro insul-
lo che rende interessante un talkshow non è che sia condotto da un personaggio popolare come Vespa, che vi partecipino Vladimir Luxuria o un esorcista, che ci si occupi della pedofilia o di Ustica. Tutti questi elementi sono
accessori certamente importanti, e noioso sarebbe un
talkshow condotto da un filologo bizantino, che esibisse
come ospiti una monaca di clausura affetta da mutismo
secondario o si occupasse del papiro di Artemidoro. Però
ciò che lo spettatore realmente vuole è lo scontro.
Mi è capitato di assistere a un talkshow accanto a
un’anziana signora che, ogni volta che i partecipanti si
parlavano addosso, reagiva con: «Ma perché
s’interrompono a vicenda? Non si capisce quel che dicono! Non potrebbero parlare a turno?» – come se un talkshow italiano fosse una delle memorabili trasmissioni di
Bernard Pivot nel corso delle quali il conduttore con un
impercettibile cenno del mignolo avvertiva il parlante
che era ora che cedesse la parola al vicino.
La verità è che gli spettatori dei talkshow godono solo
quando la gente litiga, e non importa tanto quel che dicono (che di solito è già inteso come irrilevante) ma del
modo in cui fanno la faccia feroce, urlando «mi lasci finire, io non avevo interrotto lei» (e questa reazione fa ovviamente parte del gioco dell’interruzione), o si insultano con epiteti desueti come «vaiassa», che da quel mo-
saggine costringe l’immaginazione a esplorare
terre nuove. Sei costretto a svegliarti al mattino
pensando a un’azione deviante, solo per avere la
sicurezza di essere libero». Come Jagger e Richards, il giovane David Jones si ridestò da quel
torpore residenziale al suono del rock and roll.
Ricorda: «A otto anni volevo essere un Little Richard bianco, o almeno il suo sassofonista». Per
gran parte degli anni Sessanta, la carriera pop
di David, variegata ma infruttuosa, non lasciava
presagire il fenomeno teatrale che sarebbe diventato. Brillante lo è sempre sembrato, ma
straordinario non lo era ancora. Ci fu qualche
falsa partenza: lo spot di un gelato, una canzone
scherzosa intitolata The Laughing Gnome.
Cambiò il suo nome in David Bowie, dalla
marca dei coltelli Bowie, perché c’era un altro
Davy Jones che era diventato famoso con il
gruppo dei Monkees. Poi, verso la fine dei ’60,
incontrò due persone destinate a cambiargli la
vita: Angela Barnett, una modella americana
con cui poco dopo si sposò, e Lindsay Kemp, il
mimo e ballerino inglese, con cui ebbe una storia: «La sua vita di ogni giorno era la cosa più
teatrale che avessi mai visto» disse di lui Bowie.
Sempre stato gay
La prima e unica volta che vidi David Bowie
fu nei primi anni ’70, in una discoteca per omosessuali a Kensington High Street, chiamata
“Yours and Mine”, al pianterreno di “El Sombrero”, un ristorante messicano. Non ancora fa-
mento sono ripresi dall’ultima edizione dei dizionari come dialettalismi laureati. Si assiste a un talkshow come
a una lotta di galli, o a una sessione di wrestling, dove
non importa se i contendenti facciano finta, così come
non importa nelle comiche di Ridolini che una torta in
faccia sia finta, quel che conta è far finta di prenderla
per vera.
Tutto questo andrebbe benissimo se i talkshow fossero presentati come meri programmi di intrattenimento tipo Il Grande Fratello. Ma qualcuno ha definito la trasmissione Porta a Porta come la Terza Camera – o l’antica-mera del tribunale. Quello che sarà discusso in parlamento, o il giudizio finale su chi abbia strangolato la tal fanciulla, è ormai anticipato dal talkshow a tal segno da rendere irrilevante, e in ogni caso predeterminata, la seduta parlamentare o la sentenza di Corte d’Assise.
Pertanto, se quel che conta non sono i contenuti bensì
la forma dello scontro, è come se una lezione universitaria sulla «consecutio temporum» fosse anticipata e resa
quindi inutile da un discorso in «grammelot» di Dario Fo
o da una farneticazione di Troisi. E poi ci lamentiamo se
la gente si disinteressa sempre più a quanto avviene a
Montecitorio o a Palazzo Madama, o a quanto dirà la Cassazione sulle olgettine, e non vada a votare.
Umberto Eco
moso in tutto il mondo, ballava intensamente
sulle sue lunghe gambe ossute, i capelli tinti
che ciondolavano. Era una presenza così insolita che quell’immagine mi rimase impressa, anche se l’occasione non aveva niente di particolarmente significativo. Nel 1972 Bowie rilasciò
un’intervista alla rivista pop inglese Melody
Maker. L’intervistatore, Michael Watts, scriveva:
«Il look attuale di David è quello di una checca, come un ragazzo meravigliosamente effeminato. È ostentatamente gay, con la sua mano moscia e il suo vocabolario stridulo. “Sono gay”, dice lui, “e lo sono sempre stato, anche quando
ero David Jones”. Ma c’è un’ilarità sorniona nel
modo in cui lo dice, un sorriso segreto agli angoli della bocca». Watts aveva colto nel segno.
tutti gli ammortizzatori sociali possibili e i giornalisti potranno fare domanda per venire assunti nella nuova Ert che avrà in organico non più
di 400 persone. I greci non pagheranno il canone (4,3 euro in ogni bolletta della luce per un totale di 300 milioni l’anno) fino alla ripresa delle
trasmissioni.
Hillary Debutto da record su Twitter di Hillary Clinton: mille nuovi se(segue nell’inserto II)
guaci al minuto,
Vaticano/2
Messori: «Sui soldi il Papa fa
demagogia. La Curia povera è una
cavolata: Gesù vestiva Armani»
il Fatto Quotidiano, mercoledì 12 giugno
a denuncia di Francesco non stupisce:
«Era una confidenza a un gruppo di
amici, non voleva che lo sapesse il pianeta, però, potremmo dire che poteva osare di
più», scherza con un paradosso Vittorio
Messori, scrittore e storico, editorialista
del Corriere, frequentatore assiduo di Joseph Ratzinger. Un pontefice che si sconcerta per lobby gay e corruzione non s’era
mai sentito: «E c’è un pericolo, ancora più
grave».
Quale, Messori?
«Il ricatto».
Va oltre al turbamento di Francesco.
«No, non mi permetterei, non darei mai
consigli al pontefice, sarei ridicolo, questo
lo scriva per favore».
E cosa teme per la Chiesa?
«Il rischio non viene soltanto da un’organizzazione di gay, non farei una distinzione di gusti sessuali, il problema è il ricatto a cui si sottopongono i funzionari o i prelati che conducono una doppia vita: che
vanno con la donna o col camionista».
Chi può maneggiare le minacce?
«Il Vaticano non è un paradiso. Ci sono
moltitudine di nemici esterni e soprattutto interni, non è una scoperta affermare
che continua la battaglia fra i
conservatori e i progressisti».
Nemmeno la corruzione la fa
tribolare.
«Il Vaticano è uno speciale
e piccolo Stato, ma è pur sempre una realtà burocratizzata
che distribuisce appalti,
commesse, denaro e non
può farne a meno».
Francesco ha citato la Curia, in tanti la indicano come
un malanno diventato incurabile.
«Il Vaticano non può rinunciare a una struttura di
governo, comunque funzionale per la diffusione evangelica. Un po’ di serietà».
Cosa pensa di Tarcisio Bertone, il segretario di Stato, più volte – soprattutto nei retroscena e
per le indiscrezioni – sul punto di essere costretto a lasciare o di essere sostituto?
«La questione non comincia e
non si esaurisce con Bertone».
Il Papa inneggia al cattolico povero, umile e inveisce contro il carrierismo e il malaffare. La cura funziona?
«Io non ho mai accettato di vivere a Roma per non cadere in queste interpretazioni. Non è intenzione di Francesco, però i
suoi discorsi vengono dipinti con demagogia e lo stesso pontefice può sembrare demagogo. Non è corretto dire che “San Pietro non aveva una banca” come dichiarato
un paio di giorni fa: la Chiesa non ha mai
disprezzato il denaro. E poi ha letto le leggende sugli scarponi?».
Bergoglio non utilizza i mocassini rossi di
Ratzinger.
«Nessun dubbio, ma è per un motivo fisico: soffre di sciatica, zoppica un pochino
e necessita di un sostegno più saldo. E la
Chiesa povera è una cavolata: Gesù non era
un morto di fame».
Qui viene giù tutto, Messori.
«Non raccontiamo bufale. Gesù aveva
una disponibilità economica, persino un
tesoriere che poi l’ha tradito, Giuda Iscariota. Quando fu crocifisso, le guardie notarono che aveva un abito cucito con un solo
pezzo di stoffa, un lusso raro, e se lo giocarono a dadi perché costava. Era di valore.
Gesù vestiva Armani».
Sempre in quel colloquio con i latino-americani, Francesco ha ammesso di non poter
promettere le riforme che in tanti invocano
e in tanti soffrono.
«Ovvio, la Curia è il braccio del pontefice e regge equilibri complicati che non
possono essere spazzati o modificati in fretta».
Benedetto XVI non riusciva a rassettare
la Curia, a convertire i peccatori, si è dimesso anche per un senso di impotenza?
«Lo conosco da anni, ricordo la sua timidezza, ma non è un uomo pauroso. Ha dieci anni più di Bergoglio, è fisicamente debilitato, sapeva di non poter più svolgere i
compiti a cui era chiamato: la Curia inquieta, certo e molto di più».
Carlo Tecce
L
Anche quell’omosessualità ostentata era parte
di una recita, una posa, come quando Bowie, in
un concerto di quello stesso anno, fingeva di
praticare una fellatio allo strumento del suo
eterosessualissimo chitarrista, Mick Ronson.
Era sicuramente una scelta audace per una
rockstar, all’epoca, perché il rock era ancora un
mondo quasi esclusivamente etero. Bowie fu
uno dei primi a farlo, ma presto diventò una
specie di moda, specie in Inghilterra, ostentare
le leziosaggini di uno stile gay che stava rapidamente – dopo i moti di Stonewall – diventando démodé fra i gay veri. Il rock britannico negli anni Settanta, con i New Romantics e star come Bryan Ferry o Brian Eno, quest’ultimo tutto truccato e con un boa
(segue nell’inserto II)
ANNO XVIII NUMERO 141 - PAG II
IL FOGLIO QUOTIDIANO
LUNEDÌ 17 GIUGNO 2013
I maleducati in ufficio danneggiano l’azienda. I grillini i più presenti a Montecitorio, i montiani pecore nere
350.000 fan in sei
ore (Rampini, Rep).
(segue dall’inserto I)
giovedì 13 giugno
Tasse/1 Nelle ventuno città capoluogo d’Italia
la pressione fiscale sui piccoli artigiani è stata del 66,27% nel 2012. Colpa delle tasse, soprattutto locali. A
Napoli e Bologna sono le più alte: rispettivamente 74,16% e 73,29%. Il livello più basso si registra a Trieste,
con il 61,18% (Conte, Rep).
Tasse/2 Leo Messi e suo padre Jorge Horacio sono stati indagati dalla
Procura per frode fiscale. Avrebbero nascosto al fisco il ricavato dei diritti d’immagine degli anni 2007, 2008
e 2009. La tecnica usata: simulazione
di cessione dei diritti d’immagine a
società di comodo con sede in paradisi fiscali (in questo caso Belize e
Uruguay) che poi s’incaricherebbero
di riposizionare il denaro a utenze
bancarie di convenienza nel Regno
Unito o in Svizzera. Per l’erario spa-
Lettura
Nessuno arriva in fondo a un
articolo ma tutti lo condividono
e poi guardano le video-gallery
Linkiesta, martedì 11 giugno
uesto articolo? Non finirai mai di leggerlo, e dal momento che non hai intenzione di restare a lungo, la farò breve».
Inizia così un report che il portale americano Slate ha redatto in partnership tra il suo
columnist Farhad Manjoo, e la società
Chartbeat, specializzata in analisi. Argomento: i lettori e i loro comportamenti e abitudini in termini di tempo di lettura, comprensione dei contenuti e apprendimento
degli stessi. Risultato? Gran parte di noi non
finisce di leggere neanche ciò che inizia,
commenta o condivide.
Per ogni 161 persone che sono arrivate su
questa pagina, circa 61 di voi se ne sono già
andate. Così ora ci sono 100 di voi, ma non
per molto! Cinque non sono mai andati oltre
il titolo. Ma aspettate un secondo, dove state andando? State già twittando il link a
questo articolo? Non lo avete nemmeno letto, ancora! Aspettate, aspettate, adesso state già andando fuori per commentare? Andiamo, ma non c’è niente da dire ancora»
scrive l’editorialista di Slate Manjoo. Il 40%
dei lettori ha lasciato la pagina di un articolo senza leggere nemmeno una riga. Dei
restanti, la metà non è andata oltre le prime
100 parole. La conclusione? «I dati dimostrano che i lettori non rimangono concentrati. E non solo su Slate, è così ovunque, online. Quando la gente plana su una storia,
molto raramente arriva fino in fondo alla
pagina» scrive l’editorialista.
Per raggiungere un buon grado di affidabilità, lo studio è stato basato sulla correlazione tra diversi elementi: frequenza degli
“scroll” sulla pagina (scorrimenti del mouse, ndr), tempistica delle condivisioni sui social network, ma soprattutto tempi effettivi
di permanenza sulla pagina, e annesse interazioni col testo (sottolineature simulate,
movimenti del mouse). «Un articolo sul web
è lungo circa 2000 pixel, e i dati mostrano come la maggior parte dei lettori arrivino fino
al 50% della pagina, il 1000° pixel, mentre solo il 25% arriva al pixel 1600. Ma questo è
molto comune; ho guardato un buon numero
di articoli recenti su Slate, scoprendo addirittura che nel 5% dei casi c’è un picco a 0
pixel, perché il 5 per cento dei lettori non va
oltre il titolo» continua Manjoo.
Ma se su Slate il lettore medio legge un
articolo quasi sempre non oltre la metà, la
situazione cambia analizzando le performance di video e foto: la quasi totalità dei
visitatori completa gallery e videogallery fino in fondo. Eppure le note dolenti, e più
paradossali, arrivano dal rapporto tra il totale delle persone che hanno «dimostrato»
di leggere un articolo scorrendolo, e il totale delle condivisioni sui social network. «C’è
un rapporto molto fragile fra la profondità
di scorrimento e la condivisione di un articolo. Sia su Slate, che altrove sul web, gli articoli con un sacco di tweet non necessariamente sono stati letti in profondità, infatti
presentano un numero di “scroll” basso».
Secondo lo studio, l’86,2% del tempo di
permanenza speso da un utente su un articolo del portale si concentra nella parte
conclusiva del testo, mentre dai dati aggregati della società di analisi americana è
emerso come su altri siti il dato si fermi al
66%. Questo significa che la quasi totalità
degli utenti di Slate tengono particolarmente a leggere la conclusione degli articoli, andando spesso, e quasi subito, a valutare quali siano i risultati dell’analisi sviluppata, soffermandosi per molto tempo su di
essi. La conclusione dell’editorialista
Farhad Manjoo: «Come scrittore, tutti questi dati mi infastidiscono. Mi chiedo se includere altri due dati interessanti, o se forse sarebbe meglio saltarli perché la gente
ormai è andata altrove. Ed è anche vero che
l’anno scorso mia moglie ed io abbiamo
guardato almeno una mezza dozzina di film
poco oltre la metà, mentre ci sono diversi libri sul mio Kindle fermi al capitolo 2. Comunque, se vedete qualcuno che raccomanda una storia on-line, non credetegli subito: avrà letto quello che ha condiviso?».
Nicola Di Turi
«Q
gnolo la somma sparita corrisponde
a 4.167.674,96 euro.
d’Italia con l’83,10%, il Pdl con
l’81,15% e Scelta Civica con il 79,19.
Votazioni Secondo i dati pubblicati sul sito di Montecitorio il gruppo
più presente alle votazioni della Camera è il Movimento 5 Stelle con il
95,99% di presenze (comprese le missioni, cioè gli impegni autorizzati all’esterno) alle votazioni. Segue il Pd
con il 93,23%, Sel con il 91,42%, il Misto con l’88,65% seguito dalla Lega
Nord con l’87,17%. C’è poi Fratelli
Miele Sono arrivate in Italia dalla
Cina le vespe velutine, aggressive e
determinate, che attaccano e mangiano le api da miele nostrane. Le
prime in Europa giunsero nel 2004 a
Bordeaux, sud-est della Francia,
dentro un carico di vasi ordinati da
un coltivatore di bonsai. In Francia
trovarono l’habitat ideale e si riprodussero a ritmi impressionanti. Pre-
sto diventarono emergenza nazionale: nel biennio 2009-2010 gli apicoltori ridussero del 40% la produzione
di miele a causa loro, con perdite
per milioni di euro. Dalla Francia la
vespa si è diretta al confine con il
Belgio, poi in Spagna, nel sud della
Francia e da qui è approdata in Italia, sulla Riviera Ligure (Valli, Rep).
venerdì 14 giugno
Ingroia Antonio Ingroia ha deciso
di abbandonare la magistratura per
passare definitivamente alla politica: «Ho deciso a malincuore. Non ci
sono più le condizioni perché la tenga ancora indosso e ci sono invece
delle gravi ragioni per le quali è venuto il momento di dedicarsi a tempo pieno all’attività politica».
Villani La Harvard business review ha scritto in un articolo che un
capo o un collega maleducato crea
danno economico all’azienda. «Negli
ultimi 14 anni abbiamo raccolto da-
Snowden, talpa o condor: sempre una spia è
Il tecnico Cia che ha inguaiato Obama si è giocato la libertà convinto di restituirla agli altri. Ora è la nuova icona americana
il Giornale, martedì 11 giugno
a talpa (The mole) fu il libro
che rese noto al mondo John
Le Carré, ex spia britannica e
massima autorità letteraria in materia di spionaggio. Ma prima di
lui c’era stato Graham Greene che,
sempre nei recinti dell’intelligence, aveva scritto Il fattore umano
dove si mostra la prevalenza delle
passioni sulle regole ferree delle
spie. Questi sono i due elementi di
cui si deve tenere sempre conto
quando si parla di intelligence e
delle sue falle. La talpa è l’infiltrato che il nemico ti ha allevato
in casa; e il fattore umano – le
emozioni, l’amore, l’idealismo etico e politico – è ciò che mina un sistema teoricamente perfetto e invece vulnerabile. Gli agenti si innamorano, si indignano, si ribellano, anche quando non si vendono per denaro.
Che cos’è Edward Snowden, il
tecnico contrattista della Cia che
è andato al Guardian britannico e
spifferato tutto sul più grande sistema di intercettazioni della storia? È una talpa? Non sembra perché non risponde a un nemico,
benché non lo si possa escludere.
Stiamo alle sue parole e alla sua
bella faccia pulita di giovane con
un paio d’occhiali che danno l’idea del nerd secchione. Ora è rintanato a Hong Kong, rilascia interviste fiume allo stesso Guardian che ha ospitato le sue rivelazioni, dice che sperava che con
Obama arrivasse un mondo migliore per la privacy dei cittadini
americani, ma che invece tutto è
andato sempre peggio, molto peggio e lui è disposto a rovinare la
famiglia, la vita della sua compagna, perdere le sue finanze e l’as-
L
sicurazione sulla salute, tutto pur
di dire la verità al suo popolo e al
mondo intero.
In genere i secchioni sono cretini, ma Edward non è un cretino
perché si sente un idealista: «Non
mi nascondo perché non ho fatto
nulla di male e anzi ho fatto quel
che mi ha dettato la coscienza:
informare il pubblico, il mondo, i
cittadini americani. Siete tutti
spiati, il governo controlla tutti i
vostri messaggi e la vostra vita». E
dunque siamo nel campo del fattore umano, piuttosto che in quello
della talpa. Edward si sente un
crociato della società americana
originaria basata sui cardini della
libertà, del diritto a vivere e cercare la propria strada verso la felicità, un sentiero che si snoda anche nelle pieghe del secondo
emendamento della Costituzione
americana che autorizza i cittadini
dell’Unione a portare armi, anche
per difendersi dal governo, e costituire delle militias partigiane contro lo strapotere del presidente.
Quello è l’emendamento che
manda in bestia mezzo mondo
ogni volta che in Usa un pazzo imbraccia un fucile a ripetizione e fa
una strage. E ogni volta si riaccende il dibattito sul diritto del
singolo a difendersi comunque
contro il potere, certamente non
solo impugnando un fucile a ripetizione o una pistola, ma anche
con l’arma della disobbedienza. Il
giovane Snowden fa parte dell’ultima generazione di ribelli al potere governativo in nome dello
spirito della rivoluzione e della
Costituzione, una generazione che
aveva mosso i primi passi sotto
George W. Bush a causa della
guerra in Irak e che poi si è svi-
luppata sotto la presidenza di Barack Obama.
Diciamo che due terzi dell’America sono oggi soddisfatti delle
iniziative del presidente, il quale
autorizza personalmente
gli omicidi
mirati di terroristi, fra cui
anche cittadini americani
di
origine
asiatica. Obama fa abitualmente ciò che
Bush ancora
non aveva il
potere di fare: leggere un
dettagliato
rapporto su
un supposto
terrorista, decidere di ucciderlo e far
partire
un
drone che colpirà il bersaglio sotto gli occhi delle telecamere che trasmettono nella Situation room della
Casa Bianca.
Nel luglio del 2006 fece scalpore una legge fatta passare da Vladimir Putin alla Duma con cui si
autorizzava il presidente russo a
consentire l’eliminazione fisica di
chiunque fosse considerato «nemico della patria russa» e in qualsiasi luogo si trovi. Gli Stati Uniti
hanno il loro apparato di legittimazione nel Patriot Act passato
dal Congresso americano su richiesta del presidente Bush a un
mese e mezzo dall’undici settem-
bre 2001, in forza del quale gli Stati Uniti, considerandosi un Paese
in guerra contro il terrorismo,
usano leggi di guerra che prevedono il monitoraggio di tutte le
forme di comunicazione
civile fra i cittadini. Come sappiamo, sono stati in particolare
gli utenti della
compagna Verizon a cadere sotto lo spot del potere. Ma il potere
afferma, per bocca dello stesso
Obama, che questo è l’unico modo
per prevenire attacchi, di averne
anzi sventati almeno due di
grandi proporzioni grazie al
monitoraggio
e aggiunge
che in realtà
non vengono
ascoltate le
conversazioni
ma soltanto incrociati i dati di partenza e arrivo.
È a questo punto che un tecnico
civile, trovandosi in mezzo alle
macchine tecnologiche usate dall’ultima versione del grande fratello, sente il richiamo del ribelle,
impersonato nella mitologia americana da Yankee Doodle che se
ne va alla guerra su un ronzino
spelacchiato e la piuma sul cappello, e fa il grande passo: rivela,
sputtana, mette allo scoperto, imbarazza e si chiama addosso la
maledizione del potere, sicché an-
nuncia di voler fuggire in Islanda,
l’isola felice dei nuovi partigiani
del web libero e della tutela delle libertà.
Così facendo Edward Snowden
incarna un’altra icona: quella di
Robert Redford nei Tre giorni del
Condor dove un altro contrattista
della Cia, chiamato soltanto a leggere romanzi e a riassumerne le
trame, si trova coinvolto nel gioco
del potere che lo porterà a consegnare il suo dossier non al Guardian di Londra, ma al New York
Times. Condor-Redford scoprirà
però che il suo gesto plateale sarà
del tutto inutile: «Cretino – gli dice il direttore della Cia nell’epilogo del film – tu pensi davvero
che pubblicheranno? E poi, ammesso pure che pubblichino: che
cosa pensi che cambi?».
Oggi è Edward nei panni di
Condor. Ha pubblicato e si aspetta che il mondo cambi, che la tutela della privacy prevalga insieme alla tutela della libertà. Ma
davvero cambierà qualcosa?
E poi, qualcuno dirà che il giovane Snowden, umanamente non
troppo lontano dal giovane Holden
di Salinger, forse non è poi questo
campione duro e puro d’idealismo, e che magari ha avuto rapporti con i cinesi, o con gli iraniani, o con i nordcoreani, chi può
dirlo. Certo è che la Cia, un po’ per
desiderio di punirlo e un po’ per
vederci chiaro, vorrebbe mettergli
le mani addosso e chiuderlo in
uno sgabuzzino per interrogarlo.
Ed è così che Snowden ora incarna l’ultimo mito americano: l’uomo «on the run», il cittadino in fuga braccato dalle polizie e dagli
sceriffi.
Paolo Guzzanti
Rinunciare alla privacy per saltare la fila
Lo ha fatto Zucconi, stufo di sprecare ore di vita in aeroporto. Adesso anche il Mossad sa tutto di lui (sempre che gliene freghi qualcosa)
la Repubblica,
venerdì 14 giugno
o venduto l’anima al
Grande Fratello in
cambio di un’ora di lenticchie. Per la “convenience”,
per la comodità di scavalcare la massa di umanità
compressa negli intestini
degli aeroporti americani
ho ceduto al richiamo della sirena che mi sussurrava di dirle tutto di me, in
cambio di qualche minuto
di attesa evitata. Ho imparato a vivere con il Grande
Fratello e a essere felice.
Quando la paranoia del
post 11 settembre si abbattè sull’America di Bush
nel panico della propria
impotenza, sugli aeroporti
calò una nuova burocrazia
in uniforme. Fu chiamata
Tsa, Transportation Security Administration, un’altra burocrazia che Casa
Bianca e Congresso, avarissimi nel concedere un
dollaro in più per curare
bambini e vecchi, allagarono di fondi e personale. Oggi è parte di quel faraonico
apparato chiamato Agenzia per la Sicurezza Nazionale e impiega quasi 60 mila persone, al costo di 8 miliardi all’anno.
Mentre all’ingresso negli
Stati Uniti, un’altra burocrazia in uniforme, l’Ins,
Immigrazione e Naturalizzazione anche nota ai latino americani come “la Migra”, controlla passaporti,
scruta pupille, scannerizza
visti e stampa impronte digitali, all’uscita uomini e
H
di struzzo, diventò molto
camp, anche se quasi nessuno di questi uomini era realmente attratto da altri uomini. Ma
anche se era una mossa studiata, per attirare
l’attenzione, l’ostentata omosessualità di
Bowie fu vista come un comingout, e fu di incoraggiamento e ispirazione per molti giovani
confusi dell’epoca. L’uomo anomalo e isolato
di un altro pianeta diventò un modello, quasi
il leader di una setta. Nell’ultimo numero di
Out, la rivista gay, diverse persone raccontano
l’influenza che ha avuto Bowie sulla loro vita.
(segue dall’inserto I)
La fama arriva dallo Spazio
Bowie voleva la fama. Ma ci arrivò così in
fretta che quasi ne restò ucciso. Lo descrisse
donne della Tsa zappano
passeggeri all’imbarco, sequestrano biberon, svuotano flaconi di creme detergenti, sfilano cinture e
scarpe. Ore di vita sprecate
nella speranza di salvarsi
la vita.
Per questo, quando uno
spiraglio si aprì, mi ci tuffai dentro. In cambio della
completa cessione dei miei
dati e della mia storia personale, Cerberi e Caronti
mi avrebbero risparmiato
il tormento all’ingresso e
all’uscita. Sarebbe bastato
il semplice passaggio del
passaporto nella fessurina
accogliente di un computer
e via, appunto, il computer.
Per ottenere il servizio
detto “Global Entry” dovetti compilare un curriculum
vitae completo di codice fiscale e ogni altro “segno vitale”. Dopo un’attenta e
inappellabile ruminazione
della mia vita nel proprio
immenso stomaco per un
mese, l’Onnisciente mi convocò per l’ultimo esame.
Documenti, certificati, carte di credito, storia creditizia, perché nella terra del
dollaro non c’è blasfemia
più grande del “chiodo”
piantato e non ripagato, interrogatorio, sguardi diffidenti. E infine il rito della
dita, tutte, sul vetrino luminoso che fotografa le im-
pronte e, ora lo sanno tutti,
striscia quanto basta del
Dna per entrare nel catalogo nazionale, statale e locale dei possibili padri. O futuri criminali. Siamo tutti
potenziali delinquenti in
questo Minority Report.
Finito lo “screening”
per l’ingresso, arrivò quello del “pre screening” per
l’uscita, altra procedura
per dribblare la processione dei dannati con le brache senza cintura tenute su
con una mano, il portatile
nell’altra, il biglietto in
bocca e le calze con i buchi
in bella vista. Io, accolto
fra i beati nell’Empireo
delle anime denudate, con-
vertito alle gioie del Fratellone elettronico, volo sopra le loro miserie di individui a Lui ignoti.
Ora tutti sanno tutto di
me. La National Security
Agency, la Cia, il Dipartimento di Stato, lo Fbi, la
Homeland
Security
Agency, la Apple, la Microsoft, la Verizon, la AT&T, la
Cina che fruga nei loro database, la Russia che fruga
nei database della Cina, il
Mossad che traffica nei dati di tutti, la Nsa che fruga
nei computer dei cinesi
per scoprire quello che i
cinesi hanno pescato dai
propri computer, in un
“loop”, in un cerchio or-
Sul web le nostre vite valgono 0,0005 dollari
Corriere della Sera, venerdì 14 giugno
ell’era del protagonismo individuale, le nostre vite valgono pochissimo: almeno prese una a una,
perché sommate costituiscono un bel gruzzolo per chi
ne fa commercio. È quanto emerge da un’inchiesta del
Financial Times sul mercato dei dati personali. Da cui
risulta, ad esempio, che le informazioni più semplici
(età e sesso) valgono 0,0005 dollari a persona, cioè mezzo dollaro per mille; 2,11 dollari (sempre per mille persone) se si tratta di dati su potenziali acquirenti di automobili; 260 se gli individui in questione sono affetti da
gravi malattie.
I venditori di profili personali (cioè i nostri) sono società specializzate a frugare, come nuove Stasi (la polizia
segreta tedesco-orientale), nelle vite degli altri: vendono
la loro merce a chi la compra, dalle banche alle assicurazioni, interessatissime a sapere, della gente, quanto,
probabilmente, camperà. Altre sono finite in pancia alle
balene bianche di Internet, com’è capitato ad Abacus Direct, specialista nel monitorare lo shopping, poi acquisita da Double Click, l’agenzia pubblicitaria di Google.
N
in Cracked Actor, un affascinante documentario realizzato nel 1974 per la Bbc. Bowie, pallido, emaciato, col naso che si contraeva spasmodicamente per le eccessive ingestioni di
cocaina, raccontava ad Alan Yentob, il suo intervistatore, degli orrori della fama. Era come
stare «in una macchina quando qualcuno comincia ad accelerare come un pazzo, e non sei
tu che controlli il volante […] e non sei sicuro
se ti piace o no […] il successo era così». All’apice del successo, Bowie creò il suo personaggio più famoso, Ziggy Stardust, una sorta di alter ego. Nello show, Ziggy era un messia del
rock venuto dallo spazio, che alla fine viene
fatto a pezzi dai suoi fan in una bellissima canzone intitolata Rock ‘n’ Roll Suicide.
Una particolare attenzione è dedicata ai neonati, prima ancora che vengano al mondo. Per chi vende informazioni sensibili, non c’è infatti periodo più interessante di quello che precede una nuova vita: quando future mamme e futuri papà sono più disponibili ad aprire il portafoglio. Da qui la nascita di database come il
«network del bebè», che contengono ogni genere di
informazioni sui genitori, i nonni e gli zii.
Questo «film» si svolge in America, dove la privacy vale quasi niente. La nostra realtà è un po’ diversa: e lo
resterà fino a quando sarà contrastata la lobby del «sistema Washington», impegnatissima a portare un po’
d’America nella vecchia Europa. Che sia per regalarci
un piano Marshall digitale? La trama può comunque aiutare le anime più candide a svegliarsi dal sogno, a capire che Internet non è gratis e lo paghiamo con le nostre
identità. D’altronde è stato proprio l’ex capo della General Electric Jack Welch, uno dei manager più bravi di
tutti i tempi a farsi pagare, a intitolare la sua biografia
Controlla il tuo destino o lo farà qualcun altro.
Edoardo Segantini
La storia, tipicamente davidbowiana, è una
fantasia tossico-fantascientifica-paranoide. La
rivista Rolling Stone pubblicò una divertente
conversazione con William Burroughs in cui
Bowie cerca di spiegarsi: «La fine arriva quando l’infinito arriva. Loro in realtà sono un buco nero, ma io li ho trasformati in persone perché sarebbe molto difficile spiegare un buco
nero sul palco»; e via di questo passo. Il problema è che Bowie si lasciò trasportare un po’
troppo nel suo spazio siderale privato. Cominciò a pensare di essere Ziggy. Saggiamente
cercò di ucciderlo sul palco, a Londra, nell’estate del 1973, quando annunciò che non sarebbe più stato Ziggy Stardust e che avrebbe
sciolto la sua band, gli Spiders from Mars. Ma
mai senza più inizio né fine dove gli altri scoprono
non i segreti altrui, ma i
propri. Tutto perfettamente sancito da leggi e autorizzato da tribunali che approvano misure che non
capiscono.
Quando il mio passaporto sveglia il terminale del
Grande Computer Universale all’aeroporto, qualcuno a Shanghai, che ha
hackerato sicuramente il
server della “Migra” americana saprà, se gliene importasse qualcosa, da dove
vengo, dove vado, quanto
ho dichiarato di reddito,
quant’è la mia colesterolemia poiché anche le cartelle cliniche sono ormai
trasmesse in Rete, quanti
libri ho comperato, quali
app ho scaricato, quante
foto di nipoti al baseball o
al calcio o allo spettacolino di fine anno ho ricevuto
e ritrasmesso. Saprà di me
cose che neppure io so.
Questo perché il vero,
inarrestabile, inesorabile
Grande Fratello di me
stesso sono io. Sono io, non
Obama, non Bush, non la
Nsa o la Tsa o l’Ins o il
compagno Zhang, che ho
scelto di rinunciare alla
mia privacy, di rivelare i
piccoli segreti della mia
vita banale per la “convenience”, per avere il libro
recapitato a casa, la app
scaricata dal wi-fi, il bonifico con un clic e il passaporto che mi fa volare. Siamo noi le spie di noi stessi.
Vittorio Zucconi
il personaggio di Ziggy continuò a perseguitarlo: «Quello stronzo non mi lasciò in pace per
anni».
Dev’essere un’esperienza sconcertante per
un ragazzo di Bromley, o di Dartford, o di Heston, o magari di Duluth, Minnesota, essere un
messia del rock. Forse più riflessivo della maggior parte dei musicisti rock, Bowie dedicò un
mucchio di pensiero cupi alla sua fama. Ziggy,
disse una volta, era il tipico profeta rock che
aveva avuto tutto il successo possibile e non sapeva cosa farsene. In una bella canzone intitolata Fame (1975), cantava: «Fame makes a
man take things over/Fame lets him loose, hard
to swallow/Fame puts you there where things are
hollow» (La fama fa prendere tutto a un uomo/
ti da più di 14mila persone: il 98% ha
sostenuto di aver subito comportamenti maleducati in azienda. Nel
1998 il rapporto era di uno su quattro». L’80% di chi subisce la villania
sottrae tempo al lavoro per il turbamento patito, il 78 % diventa meno
fedele all’azienda, il 66% confessa di
aver diminuito il proprio rendimento, il 48% riduce intenzionalmente
l’impegno sul lavoro. Chi è stato trattato in modo sgarbato, infine, dimi(segue a pagina tre)
nuisce del 30% la
Scrittura
Allo Spiegel hanno 80 redattori
solo per controllare le fonti. Ogni
volta trovano almeno 1.000 errori
ItaliaOggi, giovedì 13 giugno
he il declino dei quotidiani, a parte internet, sia cominciato anche da quando abbiamo abolito i correttori? Almeno in
Italia, si è detto: basta la correzione automatica del computer. Ma corregge solo l’ortografia. Se per distrazione scrivo che Berlino è la capitale dell’Angola, si preoccupa che abbia battuto «B» e non «P».
Il resto non è compito suo. Ai vecchi
tempi, i correttori erano convinti che i
giornalisti fossero ignoranti, e il loro divertimento era coglierli in errore. Non
avevano sempre ragione, ma a giovarne
era il giornale.
Allo Spiegel, sia pure in calo (da un milione e 100 mila a 900 mila copie, un livello che i concorrenti possono solo sognare),
risparmiano ma non tagliano in un settore considerato vitale: una squadra di 80 redattori è impegnata solo nel fact checking.
Cioè il controllo dei fatti, anche i tedeschi
hanno la mania del gergo in inglese. Non è
una novità, ma gli altri ci hanno quasi totalmente rinunciato, per la solita ragione
dei costi. La qualità del prodotto non è ritenuta essenziale.
Come li controllano? Internet è adoperato soprattutto per risalire all’origine del
pezzo, in altre parole per accertare se e da
chi hai copiato. Non è una colpa. Tutti noi
ci serviamo del lavoro dei colleghi, basta
per onestà citare la fonte, e non abusare
nelle citazioni. Per la squadra di «sceriffi»
allo Spiegel, però la citazione deve essere
esatta, parola per parola. Wikipedia serve,
ma con molta diffidenza. La fonte di controllo primaria è l’archivio, altro strumento che viene negletto dai concorrenti.
Quando uscì il primo numero della rivista
di Amburgo, nel 1947, l’archivio stava tutto in una scatola di scarpe.
Oggi conserva 60 milioni di documenti, e
5 milioni di immagini in microfilm, su dischetto, e perfino su carta, e si archiviano
oltre 300 pubblicazioni in 15 lingue, italiano compreso ovviamente.
Dal 1990 l’archivio è stato digitalizzato e
ogni redattore ovunque si trovi nel mondo
può entrare nel sito e documentarsi. Lo
fanno anche gli inviati di molti altri giornali e riviste, ma il punto è che cosa poi
trovano in archivio. In Le Monde, ad esempio, ci si documenta soprattutto sugli articoli pubblicati fin dal 1987 dal quotidiano,
una sorta di autocitazione. Gli 80 colleghi
impegnati nell’archivio compiono sul numero in uscita il fact checking più accurato al mondo. Per fare un confronto, al New
Yorker vi sono impegnati 15 redattori, e al
New York Times, ancor meno.
Un numero dello Spiegel è di 150 pagine, che equivalgono più o meno, a un libro
di 400 pagine. Un lavoro enorme in poco
tempo. Si iniziò negli anni Cinquanta,
quando non c’era alcun supporto elettronico, e il servizio è stato costantemente sviluppato. Di ogni articolo si fa l’«autopsia»,
e due diversi redattori controllano a vicenda il testo e le foto separatamente. Per
lo Spiegel ogni immagine contiene altrettante informazioni di un pezzo, e come si
sa può essere manipolata, e oggi costruita
completamente al computer. Per i primi
tre giorni della settimana, la squadra è impegnata soprattutto nella ricerca, da giovedì a sabato nel controllo. Dietro ogni articolo, quasi mai firmato, c’è il lavoro di
questa équipe.
In ogni numero vengono in media trovati un migliaio di errori, 400 sbagli veri e
propri, il resto opinioni o citazioni non del
tutto esatte. In squadra ci sono specialisti,
dall’economia all’architettura, alla storia
antica e moderna, ma non lavorano in compartimenti stagni.
Il confronto è necessario: magari quel
che è chiaro all’esperto non è comprensibile da un profano. Sempre dalla parte dei
lettori.
Quando a fine luglio del ’77, apparve il
numero sull’Italia con il revolver sul piatto di spaghetti fumanti, gli italiani si offesero e non l’hanno ancora dimenticato.
Ogni dato e frase del reportage di una ventina di pagine era esatto, e preso quasi
sempre dai nostri giornali e settimanali. Il
montaggio dei singoli dati sarà stato tendenzioso, ma questo è un altro discorso.
E le fonti di questo articolo sono la Columbia Journalism Review, lo Spiegel, e
me stesso come lettore e copiatore.
Roberto Giardina
C
La fama gli dà mano libera, difficile da mandar giù/ La fama ti mette dove le cose non hanno significato). Cominciò a citare Nietzsche
nelle sue interviste, la morte di Dio. Espressioni come homo superior fecero capolino nelle sue canzoni. La combinazione fra droghe e
isolamento da rockstar produsse anche qualche idea piuttosto bislacca su Hitler, «una delle prime rockstar», e sulla Gran Bretagna che
aveva bisogno di un leader fascista. Insomma,
Bowie aveva bisogno di prendersi un periodo
di tranquillità, lontano dalle tentazioni del superstar-system. E se lo prese, più o meno, in
quel di Berlino. Ammaliato dal fascino decadente dell’epoca weimariana, dall’espressionismo
(segue a pagina tre)