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INTRODUZIONE
di Gaetano Paolo Agnini
La nuova edizione di “Don Carlo Gnocchi alpino cappellano” si differenzia da altri volumi che
trattano del nostro Beato per diverse esclusive particolarità. La prima: è scritto da un alpino per gli
alpini, e non è poco. Il volume è impreziosito in particolare dalla prefazione del cardinale Dionigi
Tettamanzi, Arcivescovo di Milano e poi da quella di monsignor Angelo Bazzari, presidente della
Fondazione Don Gnocchi, che guida nella continuità dell'azione e del motto “Amis, ve raccomandi
la mia baracca!” l'Opera di don Carlo. Anche questo libro deve servire a contribuire e rispondere a
quella raccomandazione e quindi a garantire la continuità della grande opera umanitaria.
Primo Levi ha scritto, rivolgendosi a due alpini, Mario e Nuto, che è necessario scrivere libri non
inutili. Si rivolgeva a Mario Mario Rigoni Stern e Nuto Revelli! Questo libro è sicuramente utile. E’
l'unica biografia alpina del nostro Beato don Gnocchi, anche se per noi alpini, ci scuseranno le
autorità ecclesiastiche, lo chiamiamo già il nostro Santo.
Questo volume raggiunge inoltre tre obiettivi, come scrive monsignor Bazzari nella sua prefazione.
Il primo riporta alla memoria il patimento delle migliaia di alpini sui fronti greco-albanese prima e
poi sul fronte russo, che vennero dichiarati dispersi o iscritti nelle liste dei caduti. Tutti erano,
proprio perché alpini, esperti in umanità e specialisti in solidarietà. Il secondo evidenzia il forte e
inscindibile legame che unisce don Carlo alla realtà materiale e spirituale degli alpini. Il terzo mette
in rilievo la passione sacerdotale del beato don Gnocchi, dove si rivela il seme della santità.
Il 25 ottobre 2009, in piazza Duomo a Milano, don Carlo Gnocchi è stato dichiarato beato. Erano
passati solo alcuni mesi da quel 17 gennaio, quando era stata comunicata l’autorizzazione del Papa
alla pubblicazione del decreto che attribuiva il miracolo all’intercessione di don Gnocchi. Sarebbe
sufficiente questa frase e non occorrerebbero altre parole per dare un senso alla ristampa del libro
“Don Carlo Gnocchi alpino cappellano”, ma cerchiamo ugualmente di fare un ulteriore
approfondimento su alcuni contenuti. Un Pontefice ha detto - ritengo che la frase sia stata
pronunciata da Papa Giovanni XXIII e mi sia permesso di dirlo con parole mie - che tutti possiamo
diventare santi, che questa condizione non è prerogativa solo di alcuni, in quanto in ognuno di noi
alberga una radice di santità. Partendo da questo assioma, ci possiamo inoltrare, con grande
deferenza, nella semplice e fattiva santità di don Carlo Gnocchi, proclamato beato dalla Chiesa di
Papa Benedetto XVI.
Il percorso di santità di don Gnocchi inizia molto presto, prendendo linfa dall’esempio della sua
mamma. Le sofferenze della vita, la morte dei fratelli e l’esempio fulgido della figura materna
saranno i prodromi della sua educazione al dolore, denominatore comune della vita. Saranno poi
purtroppo l’orrore e il patimento degli uomini coinvolti nella seconda guerra mondiale - che lui
condividerà con i suoi alpini del battaglione Val Tagliamento della Julia, in Grecia - a dare al
sacerdote un’impronta forte, indelebile. In questa prima fase, infatti, vi sarà un osmosi tra don
Carlo Gnocchi e quegli alpini, quella gente di montagna, di quelle spesso aspre montagne friulane,
a dargli il crisma. Quindi si fonde, nel crogiolo dell’anima, l’alpinità con la friulanità, sull’erta strada
della
Penso che proprio la montagna, vissuta direttamente o altrimenti direi scalata attraverso il sentire
di quei ragazzi che gli erano stati affidati, costituirà il segno intangibile che si imprimerà nell’animo
di don Carlo. L’uomo trova nella montagna e negli uomini di montagna una strada per conoscersi e
per incontrare Dio. E questo avviene in don Gnocchi in quelle difficili, terribili condizioni di guerra.
La montagna a cui tutti tendiamo è Lui, Gesù Cristo, che si erge imperioso proprio come una vetta.
Ecco quindi che noi acquisiamo la spiritualità diretta dalla montagna che saliamo o indiretta per
mezzo soprattutto del patire condiviso con gli uomini di montagna. Ricordo in particolare due
persone che anelavano nella ricerca di una entità superiore. Clemente Maria Rebora, in origine
ateo, di nobile e benestante famiglia milanese, il quale non era appagato dalla vita che conduceva
nei suoi anni giovanili. Iniziò a frequentare la montagna, a vivere tra la gente di montagna e
quando ritornava nella sua Milano, pur sempre accogliente, scopriva di aver lasciato qualcosa, di
aver dimenticato sempre qualcosa. Fu così che la sua ricerca divenne sempre più affannosa. Un
giorno si acquietò: aveva trovato Lui. La ricerca, una volontà di accrescimento della spiritualità fu
anche la molla che spinse Pier Giorgio Frassati a salire. La storia di questo giovane è diversa, ma è
proprio nella diversità, nella necessità non omologabile di ognuno di noi, che si percepisce la
ricerca del soprannaturale.
La montagna non consiste solo in masse rocciose, in dirupi, in pietraie, in ghiacciai e nevai. Essa è
fatta anche e soprattutto di uomini che la popolano, pregni di una religiosità naturale che li rende
unici. La spiritualità è il caratteristico dono che la montagna fa a noi, per cui la vita di una persona
assume un senso di pienezza. E’ la risposta, che ci viene concessa, che ci viene donata, che disseta
il bisogno infinito che sta dentro ad ogni uomo e si coniuga con la risposta a cui ognuno di noi
tende per la sua necessità quotidiana.
La montagna è anche impegno, ci invita a pensare, a vivere la nostra umanità, a dare una
dimensione che ci permette di superare i piccoli e grandi drammi della vita. Spiritualità come
riflessione e continuità: è imperativo ascoltare la voce silente di Dio e la sua presenza insita nel
cuore di ogni uomo, presenza che si percepisce forte nella montagna e, particolarmente, in chi
vive la montagna. La montagna è percorsa dai sentieri del silenzio, dove la natura parla attraverso i
suoi fenomeni: lo stormire delle fronde, lo scroscio dell’acqua che sgorga dal ghiacciaio, il fischio
del vento che percorre velocemente le cime e muove le nuvole. In tutto questo si sente forte la
presenza di Dio e talvolta si percepisce con pensieri ciò che non riusciamo a dire.
Don Gnocchi percorse quella montagna incantata che non concedeva niente quale gratuità,
tramite i suoi giovani alpini: prima con i friulani della Julia e, poi, con i trentini, i veneti e i lombardi
della Divisione alpina Tridentina. Il Cardinale Giovanni Battista Montini, nel 1960, a sei anni dalla
morte dell’alpino cappellano, dirà, durante una celebrazione, proprio rivolgendosi agli alpini: «Sì,
soldato era; ma si faticava a pensare che egli marciasse con gli scarponi, come ciascuno di voi. Era
militare, sì, e per questo sapeva fraternizzare con ogni soldato, ne capiva la ruvida energia, ne
condivideva la franca parola, ne emulava l’intrepida abnegazione. Ma la sua, a ben conoscerla, era
una milizia di altro stampo che non era quello della caserma o della trincea; la tempra, sì, era
dell’alpino, ma le sue vere montagne erano quelle dello spirito. Quando nei momenti pi tragici
della ritirata egli promise ai morenti che sarebbe diventato il padre dei loro orfani figli e quando a
guerra finita, egli guardò alla immensa pietà di file e file di ragazzi e di bambini mutilati dalla cieca
crudeltà della guerra, la sua anima, completamente, si rivelò: era un soldato della bontà».
Don Gnocchi, in una lettera a don Sterpi del 21 agosto 1945, quindi pochi mesi dopo la Liberazione
e la fine della guerra, aveva scritto: «Non desidero che la mia santificazione (dalla quale sono
infinitamente lontano) e la salvezza delle anime, alla quale mi destina il mio sacerdozio. Per questo
sarei disposto, se Dio me ne donasse la grazia, a tutto sacrificare, purché io sappia che questa è la
Sua divina volontà. Sono decisamente a un bivio decisivo della mia vita. Forse oggi mi manca
anche il coraggio delle decisioni supreme; eppure comprendo che oggi solo la carità può salvare il
mondo e che ad essa bisogna assolutamente consacrarsi». Come sempre, per don Carlo, la vita era
missione. La vita per lui era il darsi in prima persona agli altri, dare se stesso prima anche prima
delle cose e dei fatti, pur importanti e necessari. Oggi don Gnocchi è sul sentiero, ha raggiunto la
beatificazione, ma per noi è già santo, come disse l’allora arcivescovo Montini alle sue esequie nel
Duomo di Milano. Era il 1956. Dopo quasi mezzo secolo, nella piazza davanti al maestoso tempio
lombardo, il 25 ottobre 2009 si è potuta udire la dichiarazione che lo ha proclamato beato.
Preti desiderosi di santità. Questo è in sintesi il messaggio che scaturisce dal discorso del Cardinal
Tettamanzi al termine del Sinodo della Chiesa Ambrosiana, che si è concluso il 20 maggio 2009 in
Duomo. Un messaggio che troviamo racchiuso, più esplicitamente, proprio nelle parole
pronunciate dal Cardinale: «I miei preti vogliono diventare santi». Nel pur sobrio testo della
dichiarazione conclusiva, l’Arcivescovo rivolge un invito alla sua Chiesa perché sia sempre più una
Chiesa di missione, che punti all’essenziale evangelico attraverso scelte di saggia e coraggiosa
sobrietà pastorale. Segue poi la sottolineatura della gioia per la grande insistenza da parte dei
preti sui grandi temi della spiritualità, della formazione, dell’accompagnamento e il Cardinale ha
proseguito così: «Sì, ho pensato proprio questo mentre vi ascoltavo: i miei preti hanno voglia di
diventare santi, rifuggono la mediocrità, non si arrendono alla gestione alla meno peggio
dell’esistente, ma vogliono aprirsi ancora di più al dono dello Spirito per essere veri discepoli del
Signore, autentici servi della Chiesa e di ogni uomo. Ecco ribadire, se fosse necessario, che il fine
primo della Chiesa è l’uomo, quell’uomo fatto proprio ad immagine e somiglianza di Dio. L’uomo,
uomo senza distinzione di colore della pelle, senza classificazioni di sorta».
E’ assai significativo e in linea ancora oggi con la diocesi Ambrosiana che la rivista della Fondazione
Don Carlo Gnocchi si chiami proprio “Missione Uomo”: ecco che oggi come ieri e come
sicuramente domani, il messaggio di don Gnocchi è riassunto in quell’ “Amis, me raccomandi la
mia baracca”. In quella baracca ci sono ancora bambini, ci sono donne e uomini, di diversa abilità,
che soffrono, che hanno bisogno di noi, gli edifici ci sono e servono per l’uomo. Ecco la modernità
del messaggio, e noi, laici e religiosi, dobbiamo essere fermi nei nostri propositi, nel fare, nel darsi
proprio seguendo l’esempio, sempre più attuale, di don Carlo Gnocchi.
“Nel mondo di oggi ci manca la formazione a vivere”, diceva anni fa mia madre, friulana. Lei si
riferiva alla sofferenza come formazione e prendeva spunto dalle parole di padre David Maria
Turoldo. Gli alpini della Carnia hanno organizzato il 29 gennaio 2011, nell'Alto Friuli - per ricordare
la tragedia e l'eroica epopea degli alpini in Russia e legarla alla tragedia della guerra - una marcia
nella neve che ha preso avvio a Paluzza ed ha raggiunto il Tempio Ossario di Timau. Sette
chilometri di marcia, di bosco, di ripide salite. Faceva molto freddo lassù. Si sono raggiunti i dieci
gradi sottozero e talvolta sotto le folate di vento gelido anche i meno venti. Nel nostro piccolo
patire di oggi, è stato un importante ricordo del loro grande patimento. Diversa, ma ugualmente
intensa, è stata la cerimonia organizzata dagli alpini della Sezione Carnica di Tolmezzo. Si è svolta
in silenzio ed ha riunito nella meditazione tanti alpini. Con noi c'era don Carlo. Camminava in
mezzo a noi, ci rincuorava come fosse ancora un'altra ritirata. Dopo questa prima edizione, si è
deciso che la marcia verrà organizzata ogni anno, l'ultimo sabato di gennaio e si camminerà in
silenzio, nell'oscurità della sera, da Paluzza a Timau...
A Timau, nel Tempio Ossario, si trova l'Icona del Cristo che fu portata, durante la ritirata di Russia
da un giovane ufficiale alpino. Questa è stata poi incastonata in una stele in ferro battuto atta a
proteggerla e che la presenta alla devozione degli alpini, come un “Ostensorio”. L'Icona è stata
portata, sotto il cappotto lacero e ghiacciato, dall'ufficiale alpino che aveva salvato la sacra
immagine dal fuoco dell'isba. Ricorda la piccola teca con l'Ostia benedetta conservata da don Carlo
Gnocchi, sotto la divisa durante la ritirata. Per tutti quei giorni dolorosi, il cappellano la sentì sotto
la misera veste consunta, bagnata e ghiacciata. Forse, come un pungolo, la sentì premere sulle
ossa dello scarno torace.
Ricomincia il colloquio e il cammino a due. Il cappellano parla al suo grande compagno e quando la
domanda si fa più pressante, la gioia più intensa, il dolore più profondo, la mano corre
istintivamente alla piccola teca che racchiude il Cristo. Così vai e non sai bene se sia Egli che ti
porta o tu che porti Lui. Il Beato don Gnocchi e il Cristo nell'Eucaristia, come una cosa sola, nella
tempesta più rovinosa, di uomini e di cose... Anche l'Icona di Cristo portata dall'alpino è
l'Eucaristia, che si materializzata non nell'Ostia ma nel metallo dell'effigie. L'ufficiale alpino la
sentirà premere sul suo corpo e anche la sua mano, nei tanti momenti difficili di quei giorni, la
cercherà per trarne conforto e speranza…
L'autore, Gaetano Paolo Agnini disponibile a presentare il libro e a parlare della grande figura del
Beato don Carlo Gnocchi. Può essere contattato tramite la Fondazione Don Gnocchi a Milano o
direttamente per posta elettronica all'indirizzo: [email protected]