Per uno sguardo evangelico al grado zero: fra

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Per uno sguardo evangelico al grado zero: fra
Per uno sguardo evangelico al grado zero: fra Cristo e il grande inquisitore
responsabilità e libertà. Sette livelli dell’esserci nella scala dell’umano, in La
responsabilità di essere liberi. La libertà di essere responsabili, L’Era di
Antigone, Quaderno n° 5 del Dipartimento di Scienze giuridiche della Seconda
Università degli Studi di Napoli, F. Angeli, Milano 2012, ISBN 9788856846799,
pp. 9-32.
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Per uno sguardo evangelico al grado zero: fra Cristo e il grande
inquisitore responsabilita’ e liberta’. Sette livelli dell’esserci nella scala
dell’umano
di Giuseppe Limone
1. Il problema e la scena
Il tema del Cristo e del Grande Inquisitore è un luogo ormai classico. Esso dà
potentemente a pensare. È stato affrontato da autori di grande caratura. Ha una forza
e una vitalità di straordinario fascino. La sua fascinazione non è semplicemente la
capacità di sedurre l’attenzione dell'intellettuale, ma l’attitudine a far risuonare un
covone di contraddizioni radicali.
Si tratta, come vedremo, di uno scenario che non è apologetico ma aporetico. Colui
che mette in scena le domande lo fa con grande spirito teatrale, riuscendo a presentare
questioni che sono degne di una meditazione lunga, anche aspra, che deriva da un
confronto serrato con gli interrogativi fondamentali dell’esistenza.
Vorremmo qui esaminare una strada impervia, consistente nel mettere a confronto
il testo evangelico, da cui muove il problema del Grande Inquisitore, con lo stesso
testo dostoëvskiano del Grande Inquisitore1. Il racconto evangelico è espresso in due
versioni, quella di Matteo (4, 1-11) e quella di Luca (4, 1-13). Tali testi vanno
confrontati col passo in cui Dostoëvskij presenta l'incontro di Ivan Karamazov con il
fratello Alioscia.
La strada che vorremmo tentare è quella consistente nel guardare a questo
problema non soltanto con attenzione teologica ma, per così dire, con uno sguardo
teologico al grado zero, cioè guardando il problema come se Dio non esistesse: sapendo
dell’incomprimibilità della domanda, indipendentemente da ogni risposta. Guardare
con questo sguardo significa affrontare la radicalità della condizione umana.
Intendiamo il grado zero come il grado in cui viene custodita l’inevitabilità della
domanda ancor prima della possibilità della risposta. In questa condizione, ci si trova
come davanti a una tela esposta al fuoco perché il fuoco ne riveli la trama e, al tempo
stesso, faccia emergere tutte le aporie e gli incroci, che non costituiscono questioni
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F. DOSTOEVSKIJ, I fratelli Karamazov, Einaudi, Torino 2005, p. 330 ss.
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semplicemente intellettuali poiché attraversano il vissuto, l'esistenza concreta, le
situazioni ultimative.
Guardando con un tale sguardo noi vediamo in Matteo e in Luca questa scena:
Cristo si mette alla prova, anzi è lo Spirito che lo mette alla prova, col digiuno. Egli è
poi messo alla prova dal tentatore. Sia il mettere alla prova sia il tentare sono due
forme di probatio, di collaudo, di sperimentazione in vivo del sé.
Nel momento in cui per quaranta giorni e per quaranta notti Cristo si sottopone a
digiuno, egli vede emergere la sua fragilità, sperimentando in sé l’uscire allo scoperto
di ciò che è proprio dell'uomo. Si tratta di mettere la tela davanti al fuoco per vederne
la trama. La prova del deserto è una prova radicale. Una prova in cui si è chiamati a
lavorare se stessi. In essa accade un fenomeno di rivelazione ultima dell'umano. Cristo,
dopo quaranta giorni e quaranta notti, ha fame. Il tentatore gli dice: «Se sei Figlio di
Dio, di' che questi sassi diventino pane». La risposta di Cristo è: «Sta scritto: non di
solo pane vivrà l'uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio».
C'è un secondo momento della tentazione. Qui si rileva una differenza tra Matteo
e Luca: Luca mette in ordine diverso ciò che narra Matteo. Si tratta di una variazione
che però, dal punto di vista dal quale ci poniamo, non tocca la vicenda nelle sue linee
essenziali.
Il tentatore porta Cristo sul pinnacolo del tempio e gli dice: «Se sei Figlio di Dio,
gèttati giù, poiché sta scritto: ai suoi angeli darà ordini a tuo riguardo, ed essi ti
sorreggeranno con le loro mani, perché non abbia a urtare contro un sasso il piede».
Cristo risponde: «Sta scritto anche: non tentare il Signore Dio tuo».
Nella terza prova il tentatore porta Cristo su un monte altissimo, da cui si domina
l’intero mondo, con i suoi regni e la sua gloria. Il tentatore dice: «Tutte queste cose io
ti darò, se, prostrandoti, mi adorerai». Cristo oppone il terzo rifiuto: «Vattene, satana!
Sta scritto: adora il Signore Dio tuo e a lui solo rendi culto».
Siamo quindi davanti a tre rifiuti. Essi vanno, a nostro avviso, non solo guardati
nella loro autonomia, ma meditati nella loro concatenazione, perché il loro susseguirsi
non è indifferente: dice qualcosa sull’uomo, e questo qualcosa è essenziale. Attraverso
le parole di Ivan, Dostoëvskij sottolinea che in questa rappresentazione delle tentazioni
c'è una sorta di miracolo dell’intelligenza, perché in questa prova lo spirito tentatore ha
messo in scena le domande radicali che ogni tempo porrà all'uomo. Non si tratta di un
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semplice episodio quindi, ma di un paradigma in cui si mette in questione ciò che
appartiene in ogni tempo all'umano.
Qual è la prima questione posta a una fragilità che è nuda? La prima domanda
riguarda il pane, la seconda il potere, la terza la gloria. Cristo esprime qui una libertà
come distacco. Come distacco dal pane, dal potere, dalla gloria.
Questi tre gradini vanno, a nostro avviso, considerati non soltanto in modo
indipendente, ma concatenato. Il livello del pane, del bisogno, è reso possibile e
propiziato dal potere; d'altra parte, il potere è reso possibile e propiziato da una forza
che lo legittima, la gloria. Il potere incorona il bisogno, la gloria incorona il potere. I
tre livelli delle tentazioni sono livelli intrinsecamente concatenati.
Cristo esprime, rispetto a questi tre livelli della condizione umana, una libertà
come distacco. Istituire la libertà come distacco non significa semplicemente rinunciare
al bisogno o al potere o alla gloria, ma significa riprendersi una libertà che,
distaccandosi, può consapevolmente riorientarsi nel fine. Si osservi ancora però: Cristo,
nel rifiutare la gloria, sta anche rifiutando di sottomettersi a un potere, perché chi gli
offre la gloria lo fa per sottometterlo al suo potere. Il rifiuto della gloria che Cristo
compie è anche il rifiuto di sottomettersi a un potere che si ponga come puro potere.
L’atto di Cristo quindi non è solo un distacco dal potere, ma un sottrarsi al potere.
In controluce appaiono qui alcune riflessioni possibili sulla libertà. Il distacco dal
bisogno è certamente un atto di libertà; il distacco dal potere è certamente un atto di
libertà; il distacco dalla gloria è un atto di libertà. Osserviamo: questi atti di distacco
devono essere pensati nella loro radicalità, ma senza perdere di vista la fragilità
dell'umana condizione. Perché nessuno può fare a meno del pane, nessuno può fare a
meno del potere, nessuno può immaginare un proprio distacco totale da quel desiderio
di considerazione sociale che è pur sempre un momento minimo della gloria. Si tratta
di tre forme di distacco che scavano l’uomo per farne emergere una coscienza liberata
da ogni rumore: una coscienza scarnificata, rastremata, pura, in cui si recupera il
contatto con la profondità che a noi soggiace. Ma, a ben vedere, anche ciò da cui ci si
distacca contiene nuclei di verità. Nuclei di verità che continuano a permanere in colui
che si distacca e di cui la coscienza dovrà sentire la lezione. L’atto di distacco dal pane,
dal bisogno, dovrà necessariamente attraversare i bisogni primari in nome di altri
bisogni: una libertà dal bisogno è libertà di altri bisogni («non di solo pane vive
l’uomo»). Allo stesso modo, l’atto di distacco dal potere è un atto compiuto in nome di
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un’altra possibilità di potere, possibilità di cui si chiede in ogni caso la tutela, per
realizzarne la praticabilità: una libertà dal potere è libertà di potere. Infine, l’atto di
distacco dalla gloria è compiuto in nome di un valore motivante più alto: la libertà dalla
gloria è libertà che decide per un valore. I tre atti di distacco (dal bisogno, dal potere e
dalla gloria) traggono dal luogo da cui si distaccano tre insegnamenti specifici
riguardanti la stessa libertà che quegli atti compie: il distacco dal bisogno fa emergere
l’importanza di una libertà decondizionata (“libertà da”); il distacco dal potere fa
emergere l’importanza di una libertà di potere (“libertà di”); il distacco dalla gloria fa
emergere l’importanza di una libertà motivata dal valore (“libertà per”).
Non può pensarsi una libertà senza un minimo di condizioni di fatto che la renda
possibile. Su queste condizioni di fatto dobbiamo concentrare lo sguardo. A una prima
considerazione, è necessario distinguere fra una libertà come condizione e una libertà
come capacità. Tra la condizione della libertà e la capacità della libertà.
Nella libertà come condizione si ha da fare con la situazione di fatto in cui si trova
un'azione umana, l'azione di un essere umano. Possiamo distinguere cinque livelli di
questa condizione. Al primo livello troviamo la situazione dell'azione umana in quanto
sia non impedita (“libertà da”); al secondo livello troviamo la situazione dell'azione
umana in quanto sia possibilitata fra scelte (“libertà fra”); al terzo livello troviamo la
situazione dell'azione umana in quanto sia presidiata in alcune forme del suo esercizio
concreto (“libertà di”); al quarto livello troviamo la situazione dell'azione umana in
quanto sia promossa in un esercizio valorialmente motivato (“libertà per”); al quinto
livello troviamo la situazione dell'azione umana in quanto sia propiziata nel regolare se
stessa, nell'autoregolarsi (“autonomia”). Va considerato, all'interno di questa libertà
come autonomia, il più specifico livello in cui essa è regolata sul “tu”, diventando, per
così dire, una “auto-tu-nomia”.
Ma tutte queste condizioni di libertà non avrebbero senso se non fossero
precedute e sottese da una libertà come capacità. Senza le condizioni fattuali di libertà,
o almeno senza un minimo di condizioni di libertà, non può esercitarsi una libertà come
capacità. Ma senza la libertà come capacità non avrebbero senso quelle condizioni di
libertà.
Si osservi: i cinque livelli della libertà di cui abbiamo parlato possono essere intesi
sia disgiuntamente sia congiuntamente. Si tratta di livelli che esprimono le tante
diverse forme in cui gli assetti costituzionali delle consuetudini o dei poteri possono
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generare le condizioni della libertà. A ben guardare, i diritti soggettivi di libertà di cui
parla la trattatistica giuridica possono essere intesi, volta per volta, sia in relazione a
questi cinque livelli disgiuntamente considerati, sia in relazione a forme congiunte tra
gli stessi. Possono configurarsi in questo senso diritti soggettivi di libertà in relazione
a una “libertà da”, in relazione a una “libertà fra”, in relazione a una “libertà di”, in
relazione a una “libertà per”, in relazione a una “libertà come autonomia”. Un diritto di
libertà avrà contenuto diverso a seconda che sia considerato in relazione all’uno o
all’altro dei livelli sopra esaminati: non è lo stesso un diritto di libertà pensato secondo
una “libertà da” o secondo una “libertà di” o secondo una “libertà per” o secondo forme
di congiunzione fra le stesse.2 Vale in ogni caso la considerazione per cui tutti questi
livelli della libertà sono tali in quanto si incastonano in una Forma di vita, in una
Lebensform, in cui siano agibili. Di tutto ciò possono essere opportune metafore sia un
assetto costituzionale (che una tale forma di vita generi e/o protegga) sia, in
determinati limiti, la formula romana del «civis romanus sum» (in quanto affermazione
dell’appartenenza a una comunità di vita e di diritto che ci precede). Da ciò può
osservarsi come possano emergere, in popoli diversi, tanti diversi stili di libertà.
Passiamo ora dalla prospettiva della libertà come condizione di fatto alla
prospettiva della libertà come capacità. Nella libertà come capacità si ha da fare con
quella particolare potenza del volere, del distaccarsi, del sottrarsi alla mera serie delle
cause, dell’orientarsi verso un fine. Questa capacità è la libertà di prendere distanza
dalla propria condizione, di fare o di non fare, di disfare ciò che si è fatto, di fare
altrimenti, di orientarsi verso un fine, di generare un inizio nuovo. Questa libertà è la
capacità di trascendere la propria condizione, di prenderne distanza, di riorientarla
sempre e daccapo.
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È noto che, in questo orizzonte, accanto ai diritti di libertà la scienza giuridica ha configurato i diritti
sociali, facendo corrispondere ai primi il comportamento di un Potere che non fa (dovere consistente in
un non facere) e facendo corrispondere ai secondi il comportamento di un Potere che fa (dovere
consistente in un facere). Va detto però che anche ai diritti di libertà può dover corrispondere il
comportamento di un Potere che fa, se tale comportamento è necessario allo scopo di creare le condizioni
del non impedimento: si pensi, ad esempio, a ciò che uno Stato deve fare, attraverso le strutture di polizia,
per realizzare le condizioni di un’azione libera da impedimento. Si noti però che la “libertà” di cui si parla
sopra nel testo ha un significato più ampio di quello, ben più ristretto, che è contenuto nel concetto di
“libertà” di cui parla la scienza giuridica quando configura i “diritti di libertà”. Infatti, anche il diritto di
istruzione, il diritto all’assistenza, il diritto alla salute, e tutti gli altri diritti configurabili come sociali,
sono momenti intrinseci nella condizione della libertà. Ciò vale naturalmente anche per tutti gli altri diritti
configurabili da una dottrina giuridica come fondamentali, ossia come pertinenti a una condizione umana
da tutelare nella sua incomprimibilità e irrevocabilità.
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Questa libertà come capacità, a ben guardare, si scandisce secondo gli stessi cinque
livelli che concernono la libertà come condizione di fatto. La libertà come capacità
infatti è la libertà di distaccarsi da un impedimento, di collocarsi davanti a possibili
scelte, di esercitarne in concreto una, di essere motivati dal valore di un fine, di
regolare se stessa, di regolarsi su un tu, nel quale ultimo livello agisce la libertà come
potenza di comparare, di ponderare e di giudicare. È l'insieme di questi livelli a costituire
il significato maturo di una libertà come capacità, cui corrisponde una precisa
responsabilità.
Quando si parla, sul piano empirico, della liberazione di un uomo, si possono
intendere più cose distinte, considerabili in modo separato o in modo congiunto:
liberare un uomo può significare soltanto liberarlo da una schiavitù o liberarlo da una
condizione in cui manca di scelte o
liberarlo da una condizione in cui non può
esercitare in concreto le sue scelte, ma una libertà che sia solo libertà come indifferenza
o libertà come scelta o libertà come possibilità concreta di esercitare una scelta
mancherebbe ancora della libertà di indirizzarsi secondo un valore, secondo un
autogoverno e secondo un tu. In realtà, una libertà pensata come
pura libertà
decondizionata o come pura libertà di scelta o come pura libertà di esercitare una scelta
potrebbe ridursi a una mera pratica nichilistica, se sradicata dall’orizzonte complessivo
in cui deve potersi esercitare come libertà matura. Una scelta di nichilismo potrà pur
sempre essere presentata come scelta di libertà; sarà lungamente discutibile però se
essa possa essere considerata liberante, generatrice di liberazione. In un orizzonte
pieno, la libertà non è solo un sostantivo, ma un verbo; non è solo uno stato, ma
un’azione: la libertà non è solo la condizione e la forza di ciò che è libero, ma l’azione
che libera.
2. Cinque livelli della libertà
Quando Cristo dichiara il suo distacco dal pane, dal potere e dalla gloria, in
controluce si coglie l'affermazione di una libertà che, distaccandosi dal bisogno, dal
potere e dalla gloria, − tutte situazioni considerate come possibili forze impedienti −
intende percorrere, a partire dal livello primo della libertà come capacità, sia il livello
della “libertà da”, sia il livello della “libertà fra”, sia il livello della “libertà di”, sia il
livello della “libertà per”, sia il livello della “libertà che regola se stessa” (“autonomia”),
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sia il livello della libertà regolata su un tu. La libertà come distacco quindi, nel
momento in cui si realizza come tale, deve potersi esprimere in tutte le condizioni in
cui deve potersi esercitare.
Siamo in realtà in una situazione in cui deve distinguersi fra la libertà intesa come
l'insieme delle condizioni storicamente offerte all'azione umana e la libertà intesa come
la capacità trascendentale dell'essere umano in quanto possa attraversarle nel
realizzarsi come libertà. Se si guarda alla libertà nel primo senso, ossia alla libertà
come condizione di fatto, essa, nel momento in cui è resa possibile da una struttura di
forze che ne disegni il raggio d’azione, è il risultato propiziato da una “fides”, ossia da
un atto di affidamento all'arbitrio di chi è destinatario di quell'insieme di condizioni.
Una tale fides è attributiva di una condizione di fatto in cui può emergere una libertà,
ossia una responsabilità. Se io sono attributario di fides, sono attributario di
responsabilità.
Siamo davanti a cinque livelli della libertà come condizione di fatto, che sono
preceduti da un livello primo che tutti li condiziona e li attraversa. Ai cinque livelli
della libertà intesa come condizione di fatto (“libertà da”, “libertà fra”, “libertà di”,
libertà per”, “libertà che regola se stessa” in quanto autonomia) corrispondono cinque
livelli della libertà come espressione della capacità trascendentale.
Ora, nella sua testimonianza di uomo, Cristo dice con chiarezza no alle tre forme
di impostura che sono proprie dell'umano e che l'umano non riesce a respingere da sé.
Egli, esprimendo il distacco dal bisogno di pane, di potere e di gloria, sta esprimendo il
distacco dal mero benessere, dalla ricchezza, dal potere, dalla gloria.
3. Cristo e il Grande Inquisitore
Guardiamo ora il confronto di Cristo col Grande Inquisitore. Il Grande
Inquisitore, vedendo Cristo tra la folla mentre compie un miracolo, lo riconosce e
l’arresta. Il suo ministero di cardinale nasce per investitura di Cristo. Siamo al primo
paradosso, esprimente in pieno l’aporia che sta sulla scena. Il Grande Inquisitore, in
nome di Cristo, arresta Cristo. E la folla, che fino a quel momento acclamava Cristo per
il miracolo compiuto, nulla fa per evitare che lo si arresti. Dostoëvskij sembra qui
suggerirci che, ove mai Cristo tornasse, riceverebbe dagli uomini (e dal potere
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religioso) lo stesso trattamento già ricevuto. Cristo viene arrestato e imprigionato, e il
Grande Inquisitore apre una lunga requisitoria contro di lui, in nome di lui.
Si osservi: non siamo davanti a un’apologetica del cristianesimo, ma davanti a
un'aporetica. Urge qui tutto il dramma che opera ne I fratelli Karamazov. Siamo, per
così dire, davanti a un grande quadro teologico in cui appare un dramma umano che si
dà anche se Dio non esistesse. Qual è la contestazione che il Grande Inquisitore
muove a Cristo? Egli pone a Cristo un problema che egli sembra non essersi posto: il
problema politico. Io − potrebbe dire Cristo − uomo fragile che mi sono consegnato
alla fiamma per vedere la trama della mia debolezza, rifiuto il pane, la ricchezza, il
potere e la gloria: da queste forme mi sono distaccato. Ma − può obiettare il Grande
Inquisitore − chi può permettersi una tale potenza?
Il Grande Inquisitore sembra voler dire: Ma tu conosci l'uomo? Dov’è mai
quest'uomo libero che può rinunciare al pane, alla ricchezza, al potere, alla gloria? Noi
dobbiamo porci il problema dell'uomo com'è, non dell'uomo come tu immagini che sia.
D'altra parte, tu non potevi non sapere che l'uomo, uscito dalle tue mani, era quel che è.
Quindi io, rappresentante della Chiesa che tu hai fondato, in tuo nome mi sento
autorizzato a correggere la tua dottrina in alcuni punti fondamentali che sono i principi
del miracolo, del mistero e del potere, i quali sono tutti all’uomo indispensabili.
Se ragioniamo in termini strettamente singolaristici, ossia persona per persona −
potrebbe proseguire il Grande Inquisitore − noi potremmo certamente pensare di
poter distaccarci dal pane, dalla ricchezza, dal potere e dalla gloria. Ci domandiamo
però: sulla base dei grandi numeri, in cui c'è necessità di un potere che governi, come è
possibile mai parlare di un uomo che, almeno in media, non esiste e che invece ha
bisogno di pane, di potere, di ricchezza, di gloria? Per queste ragioni noi, dice il
Grande Inquisitore, ci siamo fatti carico di questa tua grave omissione. Tu hai errato
nel non considerare com’è fatto l'uomo. Quindi noi ci siamo fatti carico del problema
del prossimo, perché il prossimo è colui che è esposto al bisogno di essere soccorso: è
l'uomo consegnato alla sua fragilità. E allora noi siamo venuti in soccorso di
quest'uomo povero, di quest'uomo fragile, di quest’uomo che non ha la potenza eroica
che tu a lui richiedi. E, nel momento in cui abbiamo fatto questo, noi ti contestiamo
quanto hai preteso. Anche se l’uomo infatti è libero, potremmo dire che egli non è
libero di essere libero. Ma perché?
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Per le precise ragioni collegate alle condizioni di cui dicevamo. L'uomo non può
essere libero nella misura in cui non trova conveniente essere libero. Nella condizione
della possibile libertà da, che è una libertà d'indifferenza, ossia la libertà di andare
arbitrariamente in qualsiasi direzione, l’uomo dovrebbe scegliere di realizzare una libertà
come capacità di distaccarsi dal bisogno, dal potere e dalla gloria: ma l’uomo non trova
conveniente scegliere un tale tipo di libertà. E, nella libertà tra possibilità (“libertà
fra”), sceglie la strada più conveniente e più facile. D'altra parte, l'uomo non solo non
trova conveniente essere libero, ma non ha la forza di essere libero, cioè non ha la
“libertà di”. Quest'uomo, a ben vedere, non ha nemmeno una libertà motivata, cioè la
“libertà per”. Infatti, sceglie per la convenienza e non per il valore. Egli liberamente
sceglie di essere servo. In conclusione, l’uomo non ha nessuna intenzione di essere
libero, perché questa libertà a lui richiesta ha dimensioni super-erogatorie: gli si chiede
più di quello che egli possa fare. Quindi nemmeno questa “libertà per”, questa libertà
motivata, egli può avere. Alla fine quest'uomo, così considerato, non ha la possibilità di
autoregolarsi attraverso una libertà motivata che faccia emergere dal proprio seno il
valore dell’essere autoregolati e dell’essere regolati sul tu.
Quindi dice in realtà il Grande Inquisitore: Tu, Cristo, stai chiedendo a un uomo
ciò che egli non può fare. Noi quest’uomo l'abbiamo soccorso, mentre tu l’hai devastato.
E, in ogni caso, anche ove questo tipo d’uomo da te preferito esista, gli uomini di
questo tipo sono pochi, mentre i molti sono ben diversi da essi. Io, cardinale della
Chiesa, mi batto per i molti, poveri e fragili, contro i pochi, mentre tu ti batti per i
pochi, di statura eroica, contro i molti. Siamo quindi molto più soccorrevoli noi, che
abbiamo corretto il tuo errore, di quanto sia soccorrevole tu che imponi agli uomini un
giogo troppo pesante da sostenere.
4. Anatomia filosofica di due scandali del pensiero: il rifiuto della libertà e la
sofferenza dei bambini
L'argomento retorico sostenuto dal Grande Inquisitore contro Cristo quindi è:
l'uomo, al quale tu chiedi di essere libero, non vuole essere libero. Ma perché non vuole
essere libero? Egli non vuole essere libero perché non può essere libero, ossia non
riesce a essere libero. Osserviamo questo mutamento di livello che l'argomentazione
del Grande Inquisitore a questo punto produce. Abbiamo sopra detto che esiste una
libertà come condizione di fatto ed esiste una libertà come capacità, ossia come potenza.
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Si osservi: assumiamo questa distinzione chiamando “libertà” anche la prima forma
(quella della libertà come condizione di fatto), ma ciò in ossequio a una tradizione
antropologico-linguistica che così la chiama, perché per questa prima forma dovremmo
più propriamente parlare, più che di “libertà”, di “condizioni empiriche della libertà”.
Nella libertà come condizione io vivo semplicemente lo stato di fatto per cui la mia
azione non è impedita (primo livello), è collocata tra chances (secondo livello), è messa
in grado di esercitare in concreto queste possibilità (terzo livello), è promossa alla
condizione di esercitare una motivazione valoriale interiore (quarto livello), è
propiziata nell'esercitare un'auto-regolazione e un'auto-tu-regolazione, ossia una
regolazione sul tu (quinto livello). Fin qui si tratta di una condizione storica, ossia di
uno stato di fatto possibilitato, promosso, propiziato. Ma tutti questi livelli non
avrebbero senso in termini di libertà se non fossero preceduti e sottesi da una capacità
di libertà, ossia dalla libertà come capacità, come potenza. È la libertà come capacità
infatti che riesce a trascendere la condizione di fatto, a staccarsi dalla condizione di
fatto, orientandola in una direzione o in un'altra. Una tale capacità è l’attitudine a fare
in un certo modo o diversamente. Essa è, come già dicevamo, la capacità di disancorarsi
dalla mera serie delle cause e di orientarsi verso un fine. È la capacità di generare un
inizio nuovo.
Ma l'argomentazione del Grande Inquisitore mette in questione appunto questa
capacità. O, per meglio dire, ne relativizza la forza, perché, pur ammettendo che l'uomo
possa volere qualcosa, non ritiene che possa volere certe cose. Il ragionamento tocca
qui un ulteriore livello, perché qui è l'intero complesso della capacità e delle condizioni
di fatto a tradursi in una condizione. A una condizione che la persona può volere o
disvolere. Il complesso della capacità e delle condizioni di fatto che la riguardano si
riconduce, in questo caso, anch’esso a una condizione: a una condizione ontologica. Qui il
complesso costituito da “capacità+condizione” decade a condizione. Cioè degrada a una
condizione tale che si possa volere o disvolere. È proprio della libertà come capacità
l’attitudine a prendere sempre daccapo distanza dalla propria condizione e dalla propria
stessa capacità, ma qui viene in questione appunto la limitatezza di questa possibilità di
trascendersi.
L'uomo, secondo l'argomento del Grande Inquisitore, non vuole questa libertà.
Ossia, poiché può volerla o non volerla, decide di non volerla. Ma perché non la vuole?
Egli non la vuole perché non può volerla, ossia non riesce a volerla. Ciò sembra
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significare che alla condizione ontologica della libertà non corrisponda una capacità
ontologica in grado di sostenerla o almeno di sostenerla durevolmente. L'uomo, in
quanto non vuole questa condizione ontologica, sembra essere libero di non volerla.
Ma, in quanto non riesce a volerla, sembra non essere libero di volerla. Egli non vuole
volerla e non può volerla. In quanto non la vuole, ha una sua tal quale libertà. In
quanto non può, questa sua libertà è limitata, è vulnerata.
Sennonché, nella stessa quadratura teorica che appare da questo confronto tra il
Grande Inquisitore e Cristo deve essere introdotta una linea di confine invalicabile, che
non va mai dimenticata. Essa nasce dal capitolo che precede quello del Grande
Inquisitore, là dove Ivan obietta ad Alioscia: Io non riesco a capire perché soffrono i
bambini3. Dammi una sola ragione per cui Dio, se esiste, dovrebbe consentire la
sofferenza di un solo bambino. Noi dobbiamo porre la questione della sofferenza di un
solo bambino davanti all’intero mondo. Tu mi devi spiegare come questo Dio, che fa
soffrire un solo bambino, possa esistere come Dio.
Qui l’aporia diventa interna allo stesso modo di ragionare di Ivan. Egli infatti ha
altrove affermato che, se Dio non esiste, tutto è permesso. Ora, nel momento in cui
Ivan parla della sofferenza dei bambini, sta cercando di dimostrare che Dio non esiste.
Ma, se Dio non esiste, per Ivan tutto è permesso. Ivan stesso, però, sta dicendo che, se
tutto è permesso, non è permesso e non deve essere permesso, nel suo stesso universo
valoriale, che un bambino soffra. Un bambino è innocente, ed è massimamente illecito
nuocere a chi non nuoce. La sofferenza di un solo bambino fronteggia la realtà del
mondo come un problema insolubile. Anche se Dio non esistesse. Ma il bambino chi è?
È l'innocente. È colui per il quale noi non possiamo non convocare in tribunale tutto il
mondo e Dio stesso perché ci si spieghi perché egli soffre. L'innocente è una figura che
nel testo di Dostoëvskij è sempre presente. Il bambino Iliuscia muore innocente.
Dmitri Karamazov è condannato innocente. Egli, condannato innocente, assume su di
sé le altre colpe, commesse da altri e da lui stesso, che nella sua colpa non commessa
vengono rappresentate.
Ora il problema dell'innocente rovescia in modo spaesante l’aporia interna al
rapporto tra il Grande Inquisitore e Cristo. S’impone infatti qui un nuovo argomento:
l'argomento di uno solo contro tutti. Il problema, a questo punto, non è più quello
consistente nel rapporto fra i pochi e i molti, di cui parlavamo. Non si tratta di un
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F. DOSTOEVSKIJ, I fratelli Karamazov, op. cit., p. 318 ss.
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problema di statistica etica. Non è affatto più vicino alla verità colui che fa soffrire i
molti rispetto a chi fa soffrire i pochi, e nemmeno viceversa. Il problema non può essere
statistico, perché un solo innocente mette in scacco una simile logica, destituendola di
senso. E, se è vero che per il Grande Inquisitore Cristo condanna alla sofferenza i molti
per santificare i pochi, è anche vero che il Grande Inquisitore per salvare i molti brucia
i pochi. Infatti egli stesso dice a Cristo: Domani ti farò bruciare. Dixi. Così ho detto.
Davanti al problema dei bambini che soffrono siamo collocati in una situazione che
chiamiamo di livello teologico al grado zero. Ivan, guardando alla sofferenza dei
bambini nell'ipotesi che Dio esista, rivolge la domanda sul perché Dio lo consenta. Ma,
d'altra parte, guardando alla sofferenza dei bambini nell'ipotesi che Dio non esista,
ossia nell'ipotesi in cui tutto sia permesso, Ivan stesso non può non rivolgersi la
domanda sul perché ciò sia considerato permesso. Ciò significa che, sia che si guardi al
mondo come se Dio esistesse sia che si guardi al mondo come se Dio non esistesse, la
sofferenza dei bambini solleva un problema insuperabile. Sotto la terraferma delle due
ipotesi alternative emerge l’unica forza an-ipotetica di un’eguale interrogazione
insopprimibile. In questa situazione siamo, appunto, al livello teologico al grado zero,
perché siamo al livello di una domanda di Dio che persiste indipendentemente dalla
risposta sul problema di Dio: sia nel caso che Dio esista, sia nel caso che Dio non esista.
Si faccia quindi un bilancio della postura del pensiero di Ivan Karamazov nel suo
dialogo con Alioscia. Egli, guardando il mondo come se Dio esistesse, si pone il
problema insoluto dei bambini sacrificati; e, guardando il mondo come se Dio non
esistesse, ossia guardando un mondo in cui tutto sia permesso, si pone ancora una volta
il problema dei bambini sacrificati. Sia che io guardi il mondo come se Dio esistesse sia
che io guardi il mondo come se Dio non esistesse, rimane in ogni caso ineludibile il
problema dell’innocenza sacrificata.
Guardare il mondo come se Dio non esistesse è impostare i problemi etici in modo
radicale; guardare il mondo come se Dio esistesse è impostare i problemi radicali in
modo etico. D’altra parte, sia il guardare il mondo come se Dio non esistesse sia il
guardare il mondo come se Dio esistesse non implica né che Dio esista né che Dio non
esista. Guardare il mondo da questo punto di vista complesso significa esprimere uno
sguardo teologico al grado zero cioè uno sguardo puro.
A ben considerare, colui che, assumendo questo sguardo, vive nel proprio
profondo la domanda di Dio, imposta il suo problema non domandandosi direttamente
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se Dio esista o no, ma domandandosi se sia giusto che Dio esista o no: egli, per così
dire, sta domandando a un “altro” Dio che renda possibile l’esistenza di Dio. Una tale
domanda esprime l’esigenza della coscienza morale al grado puro.
5. Una doppia insostenibilità e il mutamento di piano
Nell'incontro tra il Grande Inquisitore e Cristo sembrano confrontarsi due
posizioni entrambe insostenibili o, per così dire, entrambe contraddittorie. È
contraddittoria la posizione di chi vuole sostenere i pochi contro i molti ed è
contraddittoria la posizione di chi vuole sostenere i molti contro i pochi. In ognuna
delle due posizioni, infatti, chi la sostiene lo fa in nome del rispetto del singolo uomo
ma, nell’assumere questa posizione, contraddice il suo assunto di partenza. In questo
quadro, in cui sono a confronto un punto di vista singolare (diciamo santo, ascetico) e
un punto di vista politico, entrambi i punti di vista scontano la propria interna
contraddittorietà.
La cosa viene rappresentata scenicamente in modo magistrale perché lo svolgersi
della vicenda è legata, per dir così, a queste due figure: a quella di un uomo potente e
glorioso, come il Grande Inquisitore che, mentre dà pane e sicurezza a chi è debole,
accusa Cristo, e alla figura di un uomo che invece, accusato, non parla.
Cristo, non parlando di fronte alle accuse che gli vengono rivolte, appare
contraddirsi, perché dovrebbe, sulla base della sua missione, rispondere a chi ne
contesta il senso: anche a lui infatti è indirizzata la sua missione. D’altra parte, il
Grande Inquisitore, accusando Cristo, si contraddice, perché è proprio dal messaggio
di Cristo che il suo potere riceve fondamento. Ove mai Cristo, parlando, sostenesse le
ragioni dei pochi contro i molti, rischierebbe di contraddirsi, perché chiederebbe ai
molti di agire oltre le proprie forze e rischierebbe di strumentalizzare i molti per i
pochi: il che sarebbe contro la sua dichiarata missione a protezione di ognuno.
Tutto il dialogo è legato al silenzio ostinato di Cristo, il quale non dice nemmeno
una parola. Perché Cristo non parla? Egli non può parlare, perché è fedele al suo
messaggio, che è già compiuto ed è stato affidato ai secoli futuri affinché lo interpretino
senza fine. Egli non parla, perché qualsiasi sua affermazione potrebbe apparire
contraddittoria. E la contraddizione è teatralmente espressa in modo sublime: Cristo,
alla fine del dialogo, bacia il Grande Inquisitore, mettendolo in una condizione di
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sconvolgimento muto. Il Grande Inquisitore, che lo ha condannato, lo lascia andare.
Anche qui siamo in una situazione intrinsecamente contraddittoria. La stessa soluzione
del dramma è in sé contraddittoria. Cristo dovrebbe replicare alle accuse argomentate
che vengono rivolte da un uomo che tra l'altro vive sulla propria pelle una condizione
di asceta: il Grande Inquisitore ha mangiato locuste e radici; egli si è impegnato per un
uomo misero, in nome del prossimo, e addirittura può darsi che non creda in Dio e che,
nonostante non creda, soccorra il prossimo sulla base del messaggio cristiano.
Siamo al vertice delle possibili contraddizioni. Cristo va via e si dissolve nel buio
dopo aver baciato il suo interlocutore. Se Cristo col suo silenzio e col bacio sembra
contraddirsi, anche il Grande Inquisitore si contraddice, perché non obbedisce alla sua
stessa volontà di bruciarlo.
Ora, se noi guardiamo la vicenda dal punto di vista della trama che non appare
allo sguardo, noi possiamo compiere una riflessione ulteriore. Perché Cristo non
risponde? Egli non risponde perché il problema da cui parte non è il piano
controversistico su cui vorrebbe porsi il Grande Inquisitore. Se Cristo si collocasse sul
semplice piano controversistico, ossia sul piano di una controversia articolata
argomento contro argomento, nella questione sollevata dal Grande Inquisitore non
potrebbe darsi alcuna soluzione perché ognuna delle due posizioni, mentre contraddice
l'altra, appare contraddittoria in se stessa. Il problema sta nel fatto che Gesù nel suo
messaggio, folle perché appartenente a una logica diversa, si pone su un altro piano.
La sofferenza di un solo bambino, costituisce l’argomento che Ivan può rivolgere
sia a se stesso sia al Grande Inquisitore. A se stesso perché, come dicevamo, questa
sofferenza pone non solo al credente ma anche all’ateo il problema di Dio. Al Grande
Inquisitore perché essa mostra l’inconsistenza di ogni argomento fondato sull’idea di
maggioranza. La sofferenza di un solo innocente mette in scacco ogni concezione che
riguardi il problema di Dio e ogni concezione che si fondi su una statistica delle
maggioranze. Siamo ancora una volta collocati al livello teologico al grado zero.
Sul piano meramente controversistico, Cristo, chiedendo all'uomo di essere libero,
non può chiedergli più di quanto egli può. Ma, d'altra parte, anche il Grande
Inquisitore, sottoponendo l'uomo al suo potere, non può chiedergli di fare meno di
quanto egli deve, se lo può. Nella logica del Grande Inquisitore, Cristo sacrifica i molti
ai pochi. Ma, nella logica di Ivan che crea la figura del Grande Inquisitore, il Grande
Inquisitore sacrifica i pochi ai molti. Se ci collochiamo al livello teologico al grado zero,
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entrambe le posizioni sono insostenibili perché entrambe sacrificano degli innocenti. A
ben guardare, la posizione di Ivan nei confronti di Dio è simmetrica rispetto alla
posizione del Grande Inquisitore nei confronti di Cristo: il Grande Inquisitore critica
Cristo in nome di Cristo; Ivan critica Dio in nome di Dio.
Sulla scena si dànno due figure: Cristo e il Grande Inquisitore, entrambe
paradossali. L’una si caratterizza perché parla, l’altra perché non parla. Si osservi. Il
Grande Inquisitore ha arrestato Cristo in nome di Cristo. Ma anche Cristo, col suo
silenzio, rappresenta da sempre una posizione paradossale: egli, in nome del Nomos
antico, ha rovesciato il Nomos. In nome del Nomos, ha comandato di disobbedire al
Nomos, quando è in gioco la condizione dell’ultimo. Cristo, in nome dell’ultimo, ha
mutato il piano del discorso. Egli è colui che ha contrapposto a una teologia del Primo
una teologia dell’Ultimo. L’ultimo è un singolo uomo. È l’ultimo a misurare il Nomos e
non il Nomos a misurare l’ultimo. Ogni singolo può essere un ultimo. Non è il Nomos
a misurare il singolo, ma è il singolo a misurare il Nomos, se nel singolo è in gioco la
sua ultimità. Tutto ciò rovescia il Nomos in nome del Nomos. Il comandamento del
Nomos può diventare così il comandamento a disobbedirgli. Oltre la teologia del
Primo nasce la teologia dell’Ultimo.
La requisitoria del Grande Inquisitore e il silenzio di Cristo presentano allo
sguardo filosofico due scandali del pensiero: il rifiuto della libertà e la sofferenza dei
bambini. Un pensiero filosofico vero non può rimanere indifferente rispetto a questi
problemi essenziali. Un pensiero filosofico è tale a condizione di non separarsi dal
vissuto. Il problema del dolore non può essere relegato nella vetrina delle preferenze
offerte dal mercato delle scelte, dal mercato delle cose relativisticamente considerate
senza verità. Nel problema del dolore balena il nucleo forte di una verità che resiste a
ogni relativizzazione. Né sopportano di essere relativizzati il fenomeno della volontà
intollerabile che produce quel dolore e il fenomeno della catastrofe, in cui si dà il
dolore. Un pensiero che pretenda consumarsi in pure argomentazioni logiche separate
dalla vita non è vero pensiero, ma salotto filosofico.
6. Un ulteriore piano: per un’offerta di sguardo fra la gloria e la pietà
La riflessione di Cristo non è una riflessione normativa: non si tratta di una
riflessione che si pone sul piano controversistico. Essa può capirsi soltanto a partire da
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una considerazione radicale, mai sufficientemente pensata, per cui qualsiasi grandezza,
per quanto grande, si riduce a zero. In una situazione in cui tutto si riduce a zero non
c'è gloria che resista. Qualunque gloria vive nell'illusione, nell’autoinganno della sua
sussistenza e perennità.
La riflessione di Cristo non è l'affermazione di una norma o di un precetto, ma
l'apertura di una possibilità. È l'offerta di uno sguardo sull’esserci, su una nuova
possibilità interpretativa dell'esistenza. Si tratta di un’offerta di sguardo, destinata a
ogni persona, una alla volta considerata, concepita nelle sue singolari forze e nella sua
singolare responsabilità.
Che io sia nella mia condizione di libertà come capacità, che io sia nella mia
condizione di comodità e di ricchezza, che io sia nella mia condizione di potere che
legittima quella ricchezza, che io sia nella mia condizione di gloria che legittima quel
potere, io sono sempre nella condizione dello zero. Ed è frutto di illusione
trascendentale pensare diversamente.
Appaiono distinguibili, a questo punto, tre livelli della libertà. Esiste un livello
storico della libertà, un livello ontologico della libertà e un livello teologico (teologico al
grado zero) della libertà.
Al livello storico della libertà, quello consistente nel generare una libertà come
condizione di fatto, corrisponde un atto di fides, di fiducia, che produce le condizioni di
questa libertà: a questo livello storico della libertà corrisponde una responsabilità, una
responsabilità civile.
Al livello ontologico della libertà, quello consistente nel generare le condizioni di
una libertà come capacità, corrisponde un atto di fides, di fiducia: a questo livello
ontologico della libertà corrisponde una responsabilità, una responsabilità etica.
Al livello teologico della libertà, consistente nel generare e nel riconoscere le
condizioni di una libertà relativa, vulnerata, corrisponde una fides, un atto di fiducia che
fa emergere come suo risultato non semplicemente una responsabilità ma una pietas:
una pietas che è sguardo attivo non solo sull’altrui fragilità ma sulla propria.
Nel momento finale dell’incontro fra Cristo e il Grande Inquisitore, Cristo bacia il
suo interlocutore ed esce dissolvendosi nella notte. Ma sul fondale di questa scena,
dominata dal buio, può apparirci in filigrana l’ultimo atto delle tentazioni di Cristo nel
deserto. In quel momento Gesù, resistendo alla lusinga del tentatore, rifiuta la gloria.
Esistono tre modi di rifiutare la gloria, che costituiscono altrettanti livelli
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nell’atteggiamento che la rifiuta. È riconoscibile, nel rifiutare la gloria, un
atteggiamento eroico, nel quale colui che rifiuta esprime una statura superiore
all’umano; esiste un atteggiamento profetico, nel quale chi rifiuta dice la propria volontà
di seguire Dio e non gl’idoli; esiste infine un atteggiamento sapienziale, nel quale chi la
rifiuta lo fa perché qualsiasi grandezza è destinata, per suo intrinseco statuto, a
confrontarsi con lo zero, a moltiplicarsi per zero e a ridursi in cenere. È in quest’ultimo
atteggiamento che si rivela lo sguardo teologico al grado zero come sguardo puro.
7. Fra il dire e il fare: fra una condanna e un bacio
Nel confronto tra il Grande Inquisitore e Cristo, il Grande Inquisitore parla e
Cristo non parla. Il Grande Inquisitore dice e Cristo nulla dice. Anche qui siamo
davanti a libertà e a responsabilità che si confrontano. Il Grande Inquisitore è libero e
responsabile di dire e Cristo è libero e responsabile di non dire. Ma tutto il dire del
Grande Inquisitore approda a un fare: egli condanna Cristo a essere bruciato.
Potremmo dire che tutto il “dicere” del Grande Inquisitore si conclude in un “facere”:
l’atto di condanna. Tutto il dire del Grande Inquisitore può riassumersi in un: “io ti
condanno”. Com’è noto, nella teoria degli atti linguistici esiste un particolare atto su
cui, seguendo le orme di Austin, ha molto lavorato la trattatistica del secondo
Novecento:
l’atto
performativo.
L’atto
performativo
è
un
dire
che
è
contemporaneamente un fare e che, per giunta, fa quello che dice nel momento in cui lo
dice. Se tutto il dire del Grande Inquisitore appare riassumersi nella formula “io ti
condanno”, il Grande Inquisitore, nel dire “io ti condanno”, impiega un atto linguistico
performativo: egli condanna nel momento stesso in cui dice di condannare. Egli fa quel
che dice nel momento in cui lo dice. Davanti a questo atteggiamento del Grande
Inquisitore, Cristo per tutto il tempo non dice. Il suo “non dire” è un “fare”. Ma è, a ben
considerare, un fare che dice. Accanto alla teoria linguistica degli atti performativi, che
dicono nell’atto del fare ciò che dicono, occorre a nostro avviso porsi il problema
teorico di un fare che dice. Dovremmo dire in proposito quindi che non solo il dire, in
quanto identità linguistica, ha una semantica, perché anche il fare, in quanto identità
non linguistica, può avere una semantica. Una differenza cruciale appare nel fatto che il
dire ha una semantica in quanto si affida a un codice attraverso il quale il destinatario
legge un significato, mentre il fare può avere una semantica senza affidarsi a nessun
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codice, avendo come unico codice quello non formalizzato che consiste nella pura
risonanza generata nel vissuto. Il “dire” è un “offrire”: è un offrire un’entità linguistica a
un pensiero perché ne enuclei un significato. Ma anche un fare può avere una semantica
se nel suo darsi offre qualcosa a un vissuto altrui che, essendone destinatario, può dalla
propria risonanza elaborarne col pensiero un significato. Nel loro incontro il Grande
Inquisitore dice, Cristo non dice. Ciò significa pure che il Grande Inquisitore dice e
Cristo semplicemente fa: fa il suo non dire. Se ben si osserva, il problema di una
semantica del fare è leggibile anche in un’opera musicale. L’esecutore di un’opera
musicale fa. Ma si tratta di un fare che ha una sua semantica: dice. Che cosa dice e in
che senso possiamo dire che dice? Il suo fare dice, se intendiamo quel fare come dicente
le risonanze di vissuto che chi riceve trova in sé come effetti di quel fare. L’opera
musicale individua e nomina le emozioni di chi la sente, e sono appunto queste emozioni
il contenuto semantico del “facere” che l’opera musicale “è”. Che cosa dice il Grande
Inquisitore? Egli condanna. Che cosa fa Cristo davanti a quel dire? Egli fa il suo non
dire. Si tratta di un fare che, in simmetria col dire del Grande Inquisitore concludentesi
in un atto di condanna, si conclude in un diverso atto: l’atto del bacio. Tutto il
comportamento di Cristo si pone, nel contesto di questo confronto, come un’opera
musicale: opera musicale consistente in un facere che si dà in un silenzio e in un bacio.
L’atto del bacio è un fare la cui semantica ha per contenuto le risonanze che desta. Il
Grande Inquisitore condanna, Cristo bacia. A un dire che è un fare corrisponde un fare
che è un dire. A un atto linguistico performativo, consistente in un dire che dicendo fa,
corrisponde un atto non linguistico, che chiameremmo, in un significato nuovo,
perlocutivo, consistente in un fare che facendo dice.
Dicevamo che il “dire” è un “offrire” un’identità linguistica a un pensiero, perché
ne enuclei un significato. Questo bacio ha un suo dire perché è un’offerta con valore
semantico: l’offerta di una risonanza di vissuto in chi lo riceve. Si tratta di una
risonanza destata sia nel Grande Inquisitore che riceve quel bacio, sia in noi lettori che
a quel bacio assistiamo. È esattamente questa risonanza di vissuto il contenuto
semantico di quell’offerta. È esattamente in questa risonanza il contenuto semantico di
quel bacio. Ci domandiamo: il “fare” di questo bacio di Gesù dice? E, se qualcosa dice,
che cosa dice?
Perché Gesù nell’andarsene bacia il Grande Inquisitore? Le risposte possibili sono
molteplici, e mai potrà dirsi di averle tutte esaurite. Egli lo bacia perché capisce la forza
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delle ragioni espresse dal suo interlocutore. Egli lo bacia perché, pur capendole e
contrastandole, le assume daccapo al livello di una prospettiva diversa. Egli lo bacia
perché ama anche chi non l’ama. Egli lo bacia perché il Grande Inquisitore ha saputo
sacrificarsi duramente per la sua idea e per gli altri. Egli lo bacia perché il Grande
Inquisitore, qualunque sia il suo potere e la sua convinzione, è solo un povero mortale
che dice quel che sa e fa quel che può. Ma egli soprattutto lo bacia perché ciò che il suo
silenzio dice non si colloca sul piano di una controversia fra posizioni, perché si
presenta come offerta di uno sguardo che si consegue uscendo da quel campo
prospettico: Cristo è colui che da una prospettiva più alta ama. Egli non semplicemente
guarda da un punto di vista più alto, ma offre questo punto di vista come una
possibilità prospettica da cui guardare. Egli non sta dettando una prescrizione
normativa: sta offrendo la possibilità di uno sguardo nuovo. Egli non impone un punto
di vista: lo propone. Apre il varco a un punto di vista che, praticato, scandisce un nuovo
livello della libertà. Egli però, offrendo la possibilità di questo sguardo, tiene conto, e
non può non tener conto, della singolarità della coscienza a cui si rivolge e delle sue
specifiche forze. Chi bacia, guarda un volto e quel volto. Cristo sta offrendo il suo
messaggio a tutti, a una persona alla volta, anche se le persone debbono essere
considerate nella loro relazione essenziale.
Il rapporto tra il Grande Inquisitore e Cristo può essere pensato su un piano
ulteriore. Il Grande Inquisitore dice, Cristo fa. Ma potremmo dire, in generale, che ogni
dire è anche un fare. Colui che dice opera a tre livelli di significato, potremmo forse
anche dire: a tre livelli di verità. A un primo livello, colui che dice, dice ciò che intende
dire: il suo dire è nel contenuto semantico di ciò che dice. A un secondo livello, colui
che dice esprime ciò che egli sente nel momento in cui dice: il suo dire è nell’esprimere
ciò che sente. A un terzo livello, colui che dice, fa: nel suo dire si rivela quanto lo
sottende e quanto lui stesso non sa di dire e fare. Al primo livello, il dire enuncia; al
secondo livello, il dire esprime; al terzo livello, il dire rivela. Al primo livello, è in atto
un’intenzione semantica che si connette a un enunciato; al secondo livello, è in atto
l’esprimersi di un vissuto, che riguarda non più il semplice enunciato ma l’enunciante;
al terzo livello, è in atto una condizione ontologica dell’esserci dell’enunciante,
condizione ontologica che in quel dire e in quel dicente si dà: qui si ha l’agire di una
condizione che è indipendente dallo stesso agente. Che cosa il Grande Inquisitore, nel
suo dire, fa? Egli condanna. Che cosa significa questa condanna ai tre livelli qui
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identificati? Al primo livello, il Grande Inquisitore condanna in quanto enuncia l’atto
eseguendo il quale Cristo dovrà essere bruciato. Al secondo livello, il Grande
Inquisitore, nel condannare, esprime il suo vissuto di uomo di Chiesa che, nel governo
degli uomini, rende esperibile il suo sentire nei confronti dell’accusato. Al terzo livello,
il Grande Inquisitore rivela, senza esserne necessariamente consapevole, la sua
condizione ontologica di uomo che, stando nell’identità di un cardinale della Chiesa,
quella sua posizione fa agire e rende visibile. Il livello della condizione ontologica
infatti precede ogni consapevolezza. Il Grande Inquisitore, stando nella sua condizione,
sa quel che enuncia, sa quel che esprime, ma non sa quello che fa. Che cosa, davanti a
questo dire del Grande Inquisitore, Cristo fa? Egli lo bacia. Questo bacio è l’atto
riassuntivo di quel suo non dire e di quel suo silenzio. Ma che cosa significa questo fare
rispetto a quel dire? Anche il comportamento di Cristo può essere guardato a tre livelli.
Al primo livello, il bacio di Cristo risponde alla condanna del Grande Inquisitore
mostrando che quella condanna si muove su un piano semplicemente controversistico
ed è quindi fuori bersaglio. Al secondo livello, il bacio di Cristo mostra al Grande
Inquisitore che egli, pur non consentendo con lui, continua a sentire insieme con lui. Al
terzo livello, il bacio di Cristo mostra che egli guarda al Grande Inquisitore come a un
uomo mortale che sta facendo ciò che la sua condizione di potere gli detta mentre non
sa quello che fa. Cristo sta spostando a un livello più alto il punto di osservazione e da
quel livello sta considerando la condizione ontologica di un uomo mortale còlto nella
situazione di un potere di cui sa e di un fare di cui egli stesso non sa. Da questo punto
di osservazione, che guarda a quell’uomo mortale osservato, Cristo col suo bacio sta
dicendo che l’ama. Si consideri però che il comportamento di Cristo, nel momento in
cui
si
confronta
col
comportamento
del
suo
interlocutore,
riguarda
contemporaneamente due piani: Cristo infatti, mentre da un lato si rapporta col
Grande Inquisitore che gli parla, si sta rapportando contemporaneamente con tutti gli
uomini di cui il Grande Inquisitore parla e ai quali la sua azione di governo si rivolge.
Il comportamento di Cristo pertanto ha nello stesso tempo due livelli di interlocutori:
gli uomini di potere a cui parla e gli uomini senza potere di cui i primi parlano, ed è
all’altezza di questa complessità che va capito quel comportamento. D’altra parte, a ben
considerare, anche il comportamento di Cristo può essere guardato a tre livelli di
verità. Al primo livello, egli dice; al secondo livello, egli esprime; al terzo livello, egli
rivela. Che cosa, a questo terzo livello, nel comportamento di Cristo si rivela? In Cristo
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si rivela il suo essere uomo che ha attraversato la morte e che, avendola attraversata,
può guardare la condizione mortale da un punto di vista più alto: ed è da questo punto
di vista che ama. Ma, come già dicevamo, il vero contenuto semantico di quel fare di
Cristo è nel complesso delle risonanze di vissuto che genera nel Grande Inquisitore e
nei lettori. Alle tre verità di chi condanna rispondono le tre verità di chi bacia.
Osserviamo: Cristo risponde alle argomentazioni del Grande Inquisitore con un
atto, con un facere, che lo sottrae alla struttura di campo costituita dalla semplice legge
della controversia. Si tratta di un gesto nuovo. Cristo compie col bacio un atto
inaspettato, spaesante, che è un uscire da quel campo e un collocarsi su un piano
superiore. Si tratta, a ben considerare, della scelta di chi si pone fuori da un orizzonte
istituendone un altro. Siamo, anche in questo caso, davanti a un distaccarsi. A un
prendere distanza. A un collocarsi su un piano superiore. A un elevarsi. Qui l’atto del
distaccarsi non è soltanto il distaccarsi dalla ricchezza, dal potere e dalla gloria, ma è il
distaccarsi dal campo stesso di osservazione in cui si pone il Grande Inquisitore
osservato. In una notevole riflessione teorica sviluppata da ricercatori della Scuola di
Palo Alto si è fatto un bilancio dei problemi teorici e pratici posti all’attenzione degli
psicologi dalla sofferenza di uomini che non riuscivano a liberarsi dal loro gravissimo
stato di difficoltà, che s’imponeva loro come una situazione senza scampo. Questi
ricercatori si accorgevano, con una mossa riflessiva nuova, che i problemi della
sofferenza umana riuscivano in certi casi a risolversi secondo modalità fortuite o
strane, assolutamente impensabili da uno psicoterapeuta di professione: essi scoprivano
che queste modalità erano però riconducibili a una matrice logica comune. Solo con un
nuovo atto, del tutto “illogico”, si riusciva a generare un cambiamento nella sofferenza
osservata, ma tale cambiamento, attentamente studiato nella sua matrice, appariva
sotteso da un mutamento di livello logico e di prospettiva che, liberandosi dai legami
invisibili del consueto, spalancava un orizzonte nuovo. Cercando l’unica matrice che
sottendeva quel mutamento di piano, quei ricercatori venivano a configurare il
rapporto tra invarianza e mutamento mettendo a confronto la teoria dei gruppi di
Evariste Galois con quella dei tipi logici di Alfred North Whitehead e di Bertrand
Russell, là dove la prima teoria mostra le variazioni all’interno di un campo circoscritto
e la seconda presenta invece il cambiamento che nasce da uno sguardo che si pone
22
all’altezza di un meta-livello, mai confondibile col livello sottostante4. Il silenzio di
Cristo rappresenta la testimonianza che muove da un osservatorio più alto, che si pone
non solo come meta-osservatorio ma come osservatorio che tutti gli altri domina: come
osservatorio radicale. Il silenzio di Cristo si esprime, alla fine, in un bacio. Quel bacio
significa il gesto spaesante che, sottraendosi alle variazioni interne all’oggetto
osservato, ne rompe la logica e ne rovescia il senso.
Un campo di termini è un luogo di variazioni che, producendosi attraverso l’agire
di alcuni operatori costanti e di alcune operazioni fondamentali, lasciano immutato il
campo. Per un rigoroso paradosso, pur producendosi all’interno del campo
innumerevoli variazioni possibili, il campo resta invariato. Perché si generi un
cambiamento occorre uno sguardo che, operando dall’esterno e da un luogo più alto del
campo osservato, ne muti gli operatori e le operazioni, realizzando così un mutamento
del campo. Solo chi sa inventare un punto di vista che esca dalle regole del gioco, può
mutare le regole del gioco. Occorrerà quindi uno sguardo nuovo, un gesto nuovo. Ma
un tale sguardo e un tale gesto non possono essere scoperti attraverso una semplice
procedura di calcolo. Non occorre un calcolare, ma un pensare, e questo pensare non è
calcolabile. Solo chi pensa può inventare una mossa nuova, una soluzione nuova. Lo
sguardo nuovo nega il campo osservato non nel senso che ne contrasti i termini
rimanendo all’interno del campo e nemmeno nel senso che semplicemente se ne
distingua. Lo sguardo nuovo nega non per opposizione né per distinzione ma per presa
di distanza prospettica e per elevazione. Chi guarda da un punto di vista più alto può
vedere operatori possibili che non sono visibili all’interno del campo e, avendoli
scoperti, può configurarli come appello a un possibile mutamento, che nasce da una
vera e propria invenzione di sguardo. Il campo delle variazioni infinite che resta
invariato può essere, fra l’altro, il campo dei conflitti umani e il sovrastante campo delle
controversie teoriche che riguardano questi conflitti. Si pensi, solo per un esempio, al
comportamento nuovo costituito, nell’ambito dei conflitti regolati dalla violenza, dal
comportamento gandhiano della “non violenza” e si pensi, nell’ambito delle
controversie, al comportamento costituito dal mutare i termini appartenenti all’ordine
del discorso, mutando il discorso. Si pensi inoltre, nelle situazioni psico-patologiche e
4
Ci riferiamo qui a Richard Fisch, Jonh H. Weakland, Paul Watzlawick, Change. Principles of problem
formation and problem solution, (tr. it. di M. Ferretti) Change. Sulla formazione e la soluzione dei
problemi, Astrolabio, Roma 1974. Si tratta di un testo in cui si connette il problema del cambiamento in
qualsiasi disciplina a una prospettiva teorica generalissima ricostruita a partire da ricerche di logica
matematica.
23
socio-patologiche a circuito chiuso, ai comportamenti nuovi e impensati che mutano il
contesto dei termini all’interno dei quali la situazione patologica si costituisce e si
conserva. In tutti i predetti casi accade che, attraverso le continue operazioni fra i
termini del campo, tutto sembra mutare, mentre in realtà nulla muta. Il
comportamento di Cristo nel suo confronto col Grande Inquisitore realizza l’appello a
un gesto inedito che sollecita a mutare gli operatori e le operazioni osservate. Cristo
guarda e invita a guardare da un punto di vista più alto. È il punto di vista che
costituisce un appello a una condizione diversa, a una condizione di libertà
responsabile, in quanto possibile e compresa. È il punto di vista che contiene cinque
fattori: l’appello a ogni uomo perché faccia maturare in sé una condizione spirituale più
alta, l’amore per ogni persona come promozione della sua libertà, l’invito a una
responsabilità misurata dal rapporto con l’ultimo e con il tu, l’esortazione alla
consapevolezza dell’unico fuoco che tutti uguaglia e l’atto sapiente della compiuta
pietà. È un punto di vista che, guardando il legame, muove dallo stesso legame su cui
punta la vista. È il punto di vista che getta una luce nuova sul gioco, mutandone le
regole. Si tratta di una prospettiva che non si costituisce sulla base di un universale
predefinito in modo chiuso, perché è offerta persona per persona. La sua universalità
ricomincia sempre daccapo a partire dalle singole unicità, chiamate a realizzare la loro
specifica universalità, universalità consistente nel concorso originale e imprescindibile
di ognuna all’essenza sempre aperta dell’umano e alla sempre aperta comunità degli
umani5. Ma una tale prospettiva, un tale punto di vista non può essere conseguito se
non a partire dalla consapevolezza della catastrofe. Non a partire dalla vita si capisce la
catastrofe, ma a partire dalla catastrofe si capisce la vita. È questo il livello più alto
della verità, della verità compatibile con l’umano.
Occorre, per uscire dal campo osservato, un punto di vista superiore. Il
comportamento di Cristo, che si esprime in un silenzio e in un bacio, costituisce il
sigillo di un significato nuovo. Si delineano però, a questo punto, due livelli del
problema. Cristo, parlando al Grande Inquisitore, parla a una Chiesa che opera nel
mondo e che, contemporaneamente, rappresenta un Regno che non è di questo mondo.
Che cosa significa, a questo livello di considerazione, mutare il campo osservato? Si
deve cambiare il mondo stando nel mondo oppure si deve cambiare il mondo
5
Sulla configurazione dell’ “universale” all’incrocio fra il significato logico della pura classificazione e il
significato fenomenologico della risonanza e del legame vedi Giuseppe Limone, La colpa fra ‘terza
persona’, scienza e civiltà, in “Filosofia e teologia”, n° 2/2009, annata XXIII, ESI, Napoli, pp. 256-273.
24
cambiando mondo? La domanda, offerta a ogni persona, una alla volta considerata,
resta sulla soglia di tutte le possibili risposte che ogni persona a partire dalle sue
proprie forze, potrà dare stando in relazione con le altre. Si tratta di una domanda
offerta a ogni singola libertà responsabile e a tutte insieme. È una domanda immensa.
Anche di questo complesso groviglio interrogativo è sigillo quel bacio.
8. La cenere e la gloria
Sul fondo della notte che circonda l’incontro riemergono per noi in filigrana
l’ultima tentazione di Gesù e il suo rifiuto della gloria. Un uomo è chiamato a rifiutare
la gloria non tanto per atteggiamento eroico e non solo per atteggiamento profetico,
ma per atteggiamento sapienziale. La tela esposta al fuoco fa vedere la trama. Anche la
tela umana deve attraversare il fuoco. Non c'è uomo che non debba attraversare il
fuoco
riducendosi
a
cenere.
Appartiene
alla
intrinseca
legge
dell'umano
l’attraversamento del fuoco. Ogni grandezza, quale che sia, si moltiplica per lo zero. E,
nel moltiplicarsi per zero, si riduce a zero. Tra una grandezza immensa e un piccolo
granello non c'è, rispetto allo zero, differenza alcuna. Entrambe le grandezze, passando
per il fuoco, si riducono in niente.
Gesù sta offrendo all’uomo un altro modo di leggere la propria esistenza e l’altrui,
orientandola verso un passo nuovo. Questa lettura non è una lettura politica. Può
diventare una lettura politica, ma resta pur sempre il dato per cui siamo collocati al
livello del riconoscimento di una fragilità che prende consapevolezza di se stessa e che
non è abrogabile dall’umano. Si tratta di quell’atteggiamento che noi qualche volta
chiamiamo santità. Ma la stessa santità non dice abbastanza perché essa fa ancora
pensare alla gloria, cioè fa pensare a un livello in cui ci sia la gloria di essere santi,
mentre qui si sta affermando che qualsiasi gloria non è altro che cenere. La vera
sapienza, in quanto atteggiamento di pietas, è negazione di ogni indifferenza, perché è
affermazione di quel legame profondo che lega fra loro i differenti. Ma essa, nel
confronto con la gloria, è affermazione di indifferenza, perché è affermazione non solo
di rinuncia alla gloria, ma di indifferenza alla gloria. Ossia di quella trasparenza al fuoco
che rende superflua ogni scoria.
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Walter Benjamin ha scritto: «Solo per chi non ha più speranza ci è data la
speranza». Qui potremmo dire: solo per chi rifiuta la gloria, è restituita al suo cόmpito
la gloria. Si tratta però di rifiutarla veramente, non per finta.
Un antico pensiero della tradizione dice: «oltre il rogo non vive ira nemica».
Questo pensiero esprime un atteggiamento sapienziale che sa che ogni uomo
attraverserà il fuoco della pira e che a quest’uomo non può essere riservata più alcuna
ira. Ciò significa che oltre la morte non deve conservarsi rancore, perché bisogna
scoprire quella verità profonda che è la pietà. Si noti: il fatto che non debba vivere più
alcuna ira non significa soltanto che non deve vivere più ira verso l’altro, ma significa
che verso di lui deve vivere quella “non ira” che è un atteggiamento positivamente
simmetrico a essa. Si tratta di un sentimento di legame cui soggiace, come nella
scoperta di una segreta colpa, il sentirsi in debito con la sua morte, insieme col sentirsi
mortali come lui. Oltre il rogo non vive il nulla della pura indifferenza, ma
quell’atteggiamento simmetrico all’ira che è un’altra modalità del legame. Chi non
sente questo legame è empio, nel senso che vìola la pietà: non è pio. Dentro le metafore
nascoste nelle parole antiche e nei loro slittamenti vive una grammatica evolutiva di
gesti e di civiltà: in esse parla, come sapeva Giambattista Vico, una logica inconscia di
intuizioni e di nessi fra significati. Secondo una illuminante suggestione etimologica
esiste una parentela linguistica originaria tra la purezza e il fuoco, così come parentela
analoga appare tra il fuoco e la pietà. La purezza si realizza liberandosi, attraverso il
fuoco, dalle scorie che la contaminano e la pietà ha da fare con ciò che è puro, ossia con
ciò che è stato purificato col fuoco. Emerge qui, a ben vedere, un nesso intrinseco fra
l’atteggiamento puro e l’atteggiamento pietoso. Chi guarda con atteggiamento pietoso,
guarda dal luogo temporale che succede al tempo del fuoco, al tempo della catastrofe;
chi guarda con atteggiamento puro, guarda dal luogo che sa del fuoco e della cenere,
già prima che il fuoco e la cenere si siano dati. In questo orizzonte, la pietà è la
condizione liberata dal rancore: essa esprime il legame con ciò che è passato attraverso
il fuoco; e, d’altra parte, la purezza è la condizione liberata dal legame con ciò che la
contamina: essa guarda, ancor prima che si passi per il fuoco, con lo sguardo di chi sa
del tempo che succede al fuoco. Esiste quindi un nesso inscindibile fra la purezza e la
pietà, nesso rappresentato dall’esperienza e dalla sapienza del fuoco. Ciò che
simbolicamente campeggia qui al centro dell’attenzione è ciò che in greco si chiama il
«pyr», il fuoco. Nell’evoluzione simbolica della lingua e dei suoi significati il fuoco ha
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una tradizione antica e pregnante: esiste il fuoco di Eraclito, che rende universale e
unico l’essere; il fuoco di Prometeo, che rende gli uomini liberi e creatori; il fuoco della
pira, che li rende uguali e pietosi; il fuoco dell’Inquisitore, che li rende bisognosi e
assoggettati e il fuoco dell’amore agapico che li fa incontrare nel loro essere unici,
uguali, imperfetti, liberi e pietosi. La purezza e la pietà si rivelano perciò la forma
umana del «pyr». La purezza libera dal legame con le scorie; la pietà conserva il legame
con ciò che resta. La pietà testimonia, da dopo, la verità della purezza; la purezza
custodisce, da prima, l’anticipazione della pietà. La purezza libera dal legame con ciò
che è falso, la pietà conserva il legame vero. Si osservi però: in un mondo civile, in cui
si è sedimentata una tradizione, non è più necessario che la pietà si dia dopo l’evento
del fuoco, perché, per sapienza stratificata, essa può darsi già prima. In questo senso, la
pietà è gemella della purezza: ma, mentre la purezza ricorda alla pietà l’autentico, la
pietà ricorda alla purezza il legame. Il puro e il pietoso si riassumono in ciò che è pio.
Esistono però la purezza narcisistica e la pietà che commisera e asserve, la purezza
rituale e la pietà delle pratiche devote, ma la purezza e la pietà autentiche non sono né
l’una né l’altra cosa, perché nel loro reciproco rispecchiarsi si dà il perenne rigenerarsi,
nel fuoco, del legame puro. «Se non siesi pio, non si può daddovero esser saggio»
(Giambattista Vico, Scienza Nuova). A fondamento della scienza non può non esserci la
sapienza e a fondamento della sapienza non può non esserci la pietà.
Si delineano così, in questo orizzonte, sette gradi dell’esserci nella scala
dell’umano. Essi sono articolabili in tre macrolivelli complessivi: quello della libertà
come capacità trascendentale, quello della libertà come capacità di vivere una
condizione storica in cui può fiorire la libertà e quello della libertà come sguardo
teologico puro.
Al primo grado si colloca la libertà fondante, trascendentale, ontologica, operante ma
fragile; al secondo grado si colloca la libertà come capacità di operare nella condizione
del non impedimento (“libertà da”); al terzo grado si colloca la libertà come capacità di
scegliere fra le possibilità date (“libertà fra”); al quarto grado si colloca la libertà come
capacità di esercitare in concreto una delle possibilità scelte (“libertà di”); al quinto
grado si colloca la capacità di esercitare le proprie possibilità secondo l’asse di un fine
valoriale vissuto che comanda l’intero movimento dell’agire (“libertà per”); al sesto
grado si colloca la libertà come capacità di autoregolarsi e di regolarsi su un tu
concreto e interiorizzato che funge da guida (“autonomia” e “tu-o-nomia”): al quale
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grado la libertà come autonomia si realizza, al livello più maturo, come libertà di
espressione capacitaria, in cui è presente il tu come riferimento essenziale; al settimo
grado si dà la libertà come capacità sapiente ma umile, che sa della propria esposizione
al fuoco della prova e che sa che ogni grandezza deve attraversare inevitabilmente lo
zero: libertà alla quale corrisponde non la semplice responsabilità ma la pietà, la pietas,
ossia la coscienza profonda della propria e dell’altrui fragilità, di quella fragilità che in
quanto fragili ci lega. In un tale orizzonte di fragilità, la libertà va pensata come
esercitabile e la responsabilità come sostenibile, mentre l’una e l’altra diventano feconde
di un livello nuovo e più alto dell’umano.
Qualsiasi tela, esposta al fuoco, mostra la trama. Qualsiasi grandezza, passando
per il fuoco, si riduce in cenere. Tutto diventa, attraversando lo zero, uguale. Ma ci
sono verità etiche che, passando per il fuoco, rimangono inalterate. Come quella del
bambino che soffre. Tutto diventa cenere, ma qualcosa resta. Esattamente come nella
vanitas vanitatum del Qoelet biblico, che sa contemporaneamente della bellezza e della
morte. Nonostante la bellezza, c’è la morte; nonostante la morte, c’è la bellezza. Fra ciò
che precede la morte e ciò che la segue opera il fuoco. Lungo quel transito una verità
dura. La verità della purezza e della pietà.
L’intero testo evangelico è ricco di una straordinaria intelligenza sommersa,
offerta a tutti i secoli futuri. Il Vangelo sarebbe un grande libro anche se si fosse scritto
da solo. Esso può essere attraversato con uno sguardo che, cogliendone la trama, può
intenderne la radicalità e la potenza. È a questo livello che può strutturarsi uno
sguardo teologico al grado zero. Ed è soprattutto a partire da questo sguardo che
possono delinearsi, quando si delineano, le condizioni da cui può germinare una fede
matura. Nell'ultimo versetto di Matteo c'è un narrato che può essere còlto in modo
radicale. Gesù rifiuta la gloria. Egli, portato sull’alto monte, mentre gli viene offerta la
gloria dell’intero mondo, la rifiuta. E subito dopo, dice lo scrittore evangelico, vennero
gli angeli a dargli gloria.
Solo per chi rifiuta la gloria è data la gloria.
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