Putin - Altrenotizie
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CECENIA: UN GENOCIDIO NEL CUORE DELL'EUROPA di Carlo Benedetti Le recenti affermazioni di Berlusconi relative ai bambini che in Cina "ai tempi di Mao venivano bolliti e usati per concimare i campi" sono rimbalzate sino a Grozny, capitale della Cecenia. Ma l'occasione - colta dalle forze che si oppongono alla Mosca di Putin - per diffondere le frasi del nostro premier non è stata tanto quella di fornire una "informazione" di politica estera, quanto quella di voler mettere l'accento sui grandi e colpevoli silenzi che l'ovest mantiene sulla tragica situazione del Caucaso. E così a Grozny (ma anche negli ambienti progressisti di Mosca) ci si chiede: perchè un Paese come l'Italia continua a stendere una cortina sul dramma ceceno? Perché si continua a ritenere "amico" l'uomo che attacca la Cecenia definendo terroristi i combattenti per l'indipendenza? Si può partire da queste domande per avanzare una serie di considerazioni che portano a ritenere che in Cecenia - paese europeo - è in atto un vero e proprio genocidio. Con bambini "bolliti" all'istante, in questi giorni, in queste ore, e senza far ricorso a citazioni riprese da un "Libro nero del comunismo"… *** E' stato Raphael Lemkin - studioso americano d’origine polacca e docente di diritto internazionale all’università di Yale - a definire con estrema chiarezza il "concetto" di genocidio: "Per genocidio - ha scritto il giurista - intendiamo la distruzione di una nazione o di un gruppo etnico (...).In senso generale, genocidio non significa necessariamente la distruzione immediata di una nazione, se non quando esso è realizzato mediante lo sterminio di tutti i membri di una nazione. Esso intende piuttosto designare un piano coordinato di differenti azioni miranti a distruggere i fondamenti essenziali della vita dei gruppi nazionali, per annientare questi gruppi stessi. Obiettivi di un piano siffatto sarebbero la disintegrazione delle istituzioni politiche e sociali, della cultura, della lingua, dei sentimenti nazionali, della religione e della vita economica dei gruppi nazionali, e la distruzione della sicurezza personale, della libertà, della salute, della dignità e persino delle vite degli individui che appartengono a tali gruppi. Il genocidio è diretto contro il gruppo nazionale in quanto entità, e le azioni che esso provoca sono condotte contro individui, non a causa delle loro qualità individuali, ma in quanto membri del gruppo nazionale”. *** Il paragone con la Cecenia di questi tempi è impressionante. Certo, attualmente il genocidio in atto nel Caucaso trova ampie “giustificazioni” con la cosiddetta “lotta al terrorismo internazionale”. Un fronte, questo, che ha offerto al Cremlino la possibilità di inserirsi a pieno titolo nella nuova fase di lotta contro la Cecenia, considerata così come terra di banditi e laboratorio di terrorismo. in relazione a tutta questa situazione, c’è un rapporto di Pax Christi international intitolato "Una anno di guerra": è redatto da Rieks H.J. Smeets (ricercatore in studi caucasici presso l’Università di Leiden) e da Egbert G.Ch. Wesselink (consulente del consiglio olandese di Pax Christi). Si tratta di una tra le tante denuncie che arrivano da ogni parte del mondo contro la sporca guerra cecena. Il documento è un vero atto d’accusa sulle violazioni delle leggi di guerra e dei diritti umani perpetrate dalle forze armate della Federazione russa in Cecenia. La prima parte del rapporto ricostruisce le origini storico-politiche del conflitto: da un’analisi geopolitica della regione caucasica e dalle sue caratteristiche etnografiche, per passare poi a descrivere il background storico fino al 1990, la rivoluzione cecena (il putsch del settembre 1991), il ruolo politico di Dudajev e la guerra in corso. La seconda parte affronta le gravi violazioni dei diritti umani compiute dall’esercito russo facendo sempre riferimento ad un vasto repertorio di notizie raccolte sia da fonti ufficiali (Ocse) sia direttamente dai due autori durante la loro missione nella Federazione russa dal 1 al 15 aprile 1995, nel corso d'interviste e colloqui effettuati tanto coi rappresentanti d'organizzazioni politiche (Società per la rinascita dell’Inguscetija), quanto con gli abitanti ed i rifugiati politici nelle zone del conflitto. Di tale documentazione è possibile dare uno schematico sommario: violazioni degli articoli 3 e 4 della Convenzione di Ginevra, compiute dalle autorità russe durante i primi mesi di guerra, intralciando il lavoro della Croce Rossa Internazionale nell’area di conflitto; sistematiche violazioni delle leggi di guerra da parte delle forze federali nel gennaio, nel febbraio e nel maggio 1995. Circostanziati rapporti di Human Rights Watch documentano in particolare: bombardamenti e cannoneggiamenti di centri abitati; saccheggio; arresti arbitrali; maltrattamenti e abusi sui detenuti; distruzioni immotivate; uccisioni; rappresaglie contro civili; punizioni di massa. Human Rights Watch, comunque, ha accusato di violazione delle leggi di guerra anche le forze armate cecene, “per aver installato postazioni difensive nelle vicinanze di centri abitati” e per l’uso della violenza. Ma l'accento generale è posto su questo dato: “Dal dicembre 1995 – è precisato nel documento di Human Rights Watch l’aviazione russa ha lanciato attacchi indiscriminati su obiettivi civili nella Repubblica. E tutti gli abitanti e i rifugiati intervistati dalla missione, provenienti dai villaggi della Cecenia occidentale e meridionale, hanno riferito di attacchi improvvisi su obiettivi civili da parte di cacciabombardieri ed elicotteri da guerra russi.” Quindi: distruzioni immotivate, incendi e distruzioni su vasta scala di case e di edifici pubblici, discriminazioni razziali, uccisioni di interi gruppi familiari, bombe lanciate su asili e scuole. C'è poi il "capitolo" delle detenzioni arbitrarie – torture ed altri trattamenti inumani e degradanti – e c’è anche la testimonianza dell'esponente della Russia, Kovalev, che è stato Commissario presidenziale per i diritti umani. E’ lui che riferisce sull’uso sistematico della tortura da parte delle truppe russe nei campi di detenzione e di smistamento dove la maggioranza dei detenuti sono civili accusati di possesso illegale di armi o di mancanza di regolari documenti di identità. Il loro arresto, quindi, ha come scopo l’intimidazione della popolazione. C’è poi il problema relativo all’uso delle mine che vede, comunque, coinvolte le due parti, quella cecena e quella russa. Ma si sa anche che le forze aeree russe lanciano mine ad azione ritardata su varie regioni della Cecenia. E ciò rende impossibile “ottenere” una documentazione circa il loro esatto dislocamento come, invece, prescrivono le Convenzioni di Ginevra. *** Alexei Vasiliev è un attento politologo - direttore dell’Istituto di studi africani dell’Accademia delle Scienze russe - che segue i problemi geopolitici e le questioni relative alle violazioni dei diritti umani. Sul quotidiano moscovita Nezavisimaja gazeta si è occupato più volte della Cecenia, notando che in una certa fase del conflitto fra gruppi confessionali ed etnici le persone, a prescindere dal loro livello d’istruzione e di cultura, non riescono più a comunicare. Perché avviene una sorta di demonizzazione del nemico e si rifugge dalle possibilità di dialogo e di compromesso. Gli ostacoli alla comprensione reciproca e alla cooperazione possono comunque essere causati anche da circostanze oggettive. In questo senso – sostiene il politologo - è caratteristico l’esempio del Caucaso. Dove russi e ceceni sono divisi dalla memoria storica del genocidio di cui per ben tre volte è stato vittima il popolo ceceno: nel Diciannovesimo secolo, negli anni Venti del Ventesimo secolo e ancora negli anni Quaranta-Sessanta, nel periodo della deportazione massiccia nel Caucaso del Nord. Il popolo ceceno sopravvisse, fra l’altro, grazie alla struttura di clan della sua società e alla larga diffusione degli ordini sufiti dei nakshbandi e dei qadri. “È vero anche che questa stessa struttura – ha poi sostenuto Vasiliev - consente loro di occupare rapidamente nuove posizioni economico-sociali, spesso con metodi criminali, nell’economia di mercato attualmente in formazione in Russia”. “Incomprensioni”, accuse e tradizioni storiche a parte. l’esecuzione del genocidio in Cecenia attuata del governo moscovita, prova l’unicità del disegno criminoso che, anzi, ne costituisce presupposto e fondamento. L’evento, cioè lo sterminio di massa scientificamente perseguito e realizzato, è in pratica contenuto nella stessa condotta, vale a dire nelle azioni e nelle omissioni preordinate al suo compimento. C’è una vera e propria concatenazione finalistica – “teleologica” come dicono i giuristi – tra tutti gli elementi della condotta. Il che risulta ancora più chiaro dal fatto che non si tratta d’iniziative, se pur feroci e spietate, assunte da comandi locali; si tratta invece di una programmazione istituzionale il cui soggetto attivo e operativo è il governo di Putin. E’ sintomatica a tale proposito un’intervista di Sergej Stepasin, che ad una domanda sulla possibilità di risolvere la questione cecena con la forza ha così risposto: “Si. Solo se prima facciamo fuori tutta la popolazione maschile e poi tutta la popolazione femminile”. E quando gli è stato chiesto se trovasse realistico tutto ciò ha freddamente risposto: “I generali dicono di si”. Le armi di sterminio di massa sono impiegate per coinvolgere e colpire indiscriminatamente l’intera popolazione senza distinzione alcuna tra civili - bambini compresi, appunto - e guerriglieri che resistono al genocidio. In questo modo è conseguito e incrementato, a cascata, l’effetto di terrorismo di Stato, pianificato a Mosca come strumento del genocidio; viene del pari raggiunto il risultato dell’annientamento, anche psicologico e morale, dell’intera popolazione. Il governo di Mosca, lo Stato russo nella sua più alta e responsabile definizione istituzionale impiega in Cecenia bombe “sottovuoto”, proiettili a frammentazione, mine antiuomo, razzi e ordigni incendiari d’ogni tipo, armi chimiche e batteriologiche: nessuno, uomo, donna, bambino, civile disarmato, resistente armato, deve sfuggire allo sterminio. E dopo i fatti di Mosca - e cioè l’assalto delle truppe speciali di Putin nel teatro Dubrovka - sappiamo che i russi dispongono di nuovi e micidiali gas. I quali, proibiti dalle convenzioni internazionali, sono stati usati nella capitale russa senza tante cerimonie. E c’è da chiedersi se tali gas siano usati anche in Cecenia. *** Alla tragica situazione relativa alle violazioni dei diritti dell’uomo e al genocidio in atto nel Caucaso si riferisce André Glucksman, il quale sostiene che con il pretesto di non “offendere” Mosca, si concede al Cremlino una pericolosa dispensa sui diritti umani. Glucksman denuncia poi con forza che le autorità russe “si puliscono le scarpe” con quelle rimostranze diplomatiche che la Comunità europea avanza nei confronti dei russi in relazione alla Cecenia. E aggiunge: “Le autorità russe non hanno forse realizzato in due mesi quello che Milosevic ha fatto in dieci anni? La metà dei ceceni, prima le donne e i bambini, sono stati sbattuti fuori del loro Paese (metodo Kosovo), la capitale Grozny bombardata. Martirizzata (metodo Sarajevo alla decima potenza). Due pesi, due misure. Mosca si fa riconoscere il diritto di commettere crimini vietati alle mezze cartucce di Belgrado. Di fronte a Clinton, Blair e Chirac, Eltsin martella il suo nuovo diritto di non ingerenza, reso effettivo fino all’ultimo ceceno morto. Convenzioni di Ginevra, diritti umani, limitazione degli armamenti: i Trattati appena firmati e subito trasgrediti diventano carta straccia nelle riserve di caccia del sacrosanto impero russo”. Sul tema della catastrofe cecena e delle gravi violazioni dei diritti umani che provoca la guerra russa, si è pronunciato a suo tempo anche il Ministro degli Esteri tedesco Joschka Fisher il quale ha lanciato una serie di ammonimenti al governo di Mosca. “Considero la politica russa in Cecenia - ha affermato Fisher - un grave errore. Credo che trascinerà Mosca nel pantano di una guerra coloniale. Nei miei contatti con i russi, non ho ascoltato alcuna convincente proposta di soluzione politica. Tutti sanno che i ceceni non cederanno mai, non lo hanno fatto neppure sotto Stalin. La conseguenza sarà un conflitto permanente, destabilizzante per l’intera regione. Nessuno si aspetta che la Russia accetti il terrorismo. Ma il suo comportamento spinge un intero popolo a solidarizzare con gli islamici. Noi abbiamo interesse a una Russia stabile e forte, allo sviluppo della democrazia e dell’economia di mercato. E la Russia non ha solo diritto ma anche il dovere di avere confini sicuri. Trovo tuttavia inaccettabile l’ultimatum a Grozny. Ci aspettiamo che la Russia lo ritiri”. E una nuova e forte denuncia a livello istituzionale è arrivata da Lord Russel-Johnston, presidente dell’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa. “In queste settimane –ha detto l’esponente europeo – un numero crescente d’avvenimenti conferma un deterioramento molto netto della situazione dei diritti dell’uomo in Cecenia. Indubbiamente il comportamento delle forze russe – come testimoniano le recenti operazioni di pulizia ad Assinovskaja e Sernodovsk – n’è in gran parte responsabile. Attendo una condanna di tutte le violazioni dei diritti dell’uomo da parte delle autorità russe al più alto livello. Ma le informazioni relative a nuove violazioni confermano la deplorevole mancanza di volontà, da parte delle autorità russe, d’indagare correttamente sulle prove di violenze commesse nel passato. L’incapacità di citare in giudizio gli autori di questi crimini costituisce una violazione flagrante degli obblighi della Russia nella sua qualità di membro del Consiglio d’Europa e come Stato partecipante alle sue più importanti convenzioni, in particolar modo alla Convenzione Europea dei Diritti dell’uomo e alla Convenzione Europea per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani e degradanti (…). Spero – ha proseguito l’esponente della Ue - che i responsabili europei e mondiali, che hanno allacciato relazioni strette e cordiali con il Presidente Putin useranno la loro influenza per esercitare efficaci pressioni sulle autorità russe affinché esse cambino il loro comportamento attuale che è inaccettabile”. *** Denuncie forti, quindi, da ogni parte. Anche perché il genocidio praticato in Cecenia è divenuto terreno di verifica di quanto di peggio la tecnologia militare produce oggi per l’annientamento di massa. Tutto questo, tra l’altro, avviene nell’ambito di una guerra (voluta da Mosca) non dichiarata, ma spacciata come “guerra giusta” e, quindi, democratica e necessaria. Intanto il governo di Putin, oltre al risultato di genocidio per la cosiddetta “soluzione definitiva della questione cecena” (espressione che in termini agghiaccianti rievoca la “soluzione finale” dei nazisti nei confronti del popolo ebraico) realizza in Cecenia la più complessa finalità di un laboratorio di sperimentazione di future guerre di sterminio. A questo laboratorio sono interessate soprattutto le grandi e medie potenze, quelle i cui governi, per usare un'immagine di Antonio Gambino, sono sempre pronti a “convocare un certo numero di grandi conferenze e concluderle alla meno peggio con l’approvazione di un documento composto di frasi generiche, che ognuno si prepara ad ignorare o ad interpretare come preferisce” mentre le loro intelligenze militari, i loro governi invisibili, studiano e perfezionano - con il vantaggio di poterlo fare dal vivo - scenari e metodi di guerre di sterminio nel caso possano divenire in futuro di tragica attualità. Quell’attualità oggi si chiama Cecenia. In questa dimensione della tragedia cecena, fatto determinante e rivelatore è l’organizzazione scientifica della tortura, l’estremo rigore, per così dire, di natura medico-legale, con cui la tortura è pianificata ed eseguita. Su questo terreno i “programmatori” di Mosca studiano, arricchiscono, perfezionano le tecniche di tortura antiche e moderne, mutuandone modalità e risultati statistici dai più vicini, nel tempo, apparati repressivi dell’epoca contemporanea. Si scopre così ancora una volta che la tortura non è finita con il tramonto delle dittature fasciste latinoamericane. Né tanto meno è un reperto del passato remoto, tipo processi dell’Inquisizione. Non è nemmeno un fenomeno ridotto, riguardante pochi paesi. Chi credesse, con slancio ottimistico, che di recente la pratica ha avuto un netto calo, sbaglierebbe di grosso. La verità è un’altra. La Cecenia di oggi lo sta a dimostrare. Lasciamo parlare i dati: nel 1996 Amnesty International denunciò casi di tortura in 125 paesi; nel 1997 in 117; nel 1998 ha rilevato un’inversione di tendenza, una risalita, sino a ritoccare quota 125. Se qualcuno crede che l’orrenda pratica è diffusa, ma in mondi lontani dal nostro, avrà ancora brutte sorprese. Dei 125 paesi 31 sono europei, 21 americani, 22 asiatici, 33 africani. Questi dati si possono leggere nella voce “tortura” presente nella Treccani ed intitolata “L’universo del corpo”, dove si giunge all’inquietante conclusione relativa al fatto che questo tipo di violenza ha subìto negli ultimi due secoli un ridimensionamento, ma non è mai stata completamente sradicata in nessuna parte del mondo. Ci sono dei momenti, anzi, in cui l’uso delle sevizie conosce risalite insopportabili. La tortura “è praticata – è detto nella Treccani - tanto all’interno dei corpi speciali o paralleli degli Stati moderni, quanto in situazioni private”. Il progresso tecnologico - e con esso il raffinarsi dei mezzi di intimidazione e di persuasione - “stanno ponendo il problema di nuove forme di tortura e di violazione del libero arbitrio e della dignità umana”. La tortura può essere fisica: pestaggi, scosse elettriche, soffocamenti, bruciature, privazioni del sonno, obbligo della posizione eretta, estrazione violenta dei denti, costrizione a bere litri di acqua, somministrazione forzata di farmaci e droghe. Oppure psicologica: inscenare una finta esecuzione, costringere ad assistere alle sevizie inflitte ai parenti. Il più delle volte, però, le vittime diventano oggetto sia di torture fisiche sia psicologiche. La “voce” della Treccani spiega poi che esistono delle vere e proprie scuole internazionali in cui s'insegna ad infliggere sevizie. Ciò sarebbe dimostrato dalle analogie esistenti fra le tecniche utilizzate anche in paesi fra loro molto distanti. I medici hanno un ruolo importante nell’individuare i punti deboli del corpo delle vittime in cui si possono concentrare le torture e, sempre i medici, risultano molto importanti per controllare che il seviziato non muoia. Tornando alla Cecenia si scopre che le “scuole” più seguite sono quelle della repressione francese della resistenza algerina e delle torture applicate dal regime della Giunta militare cilena guidata da Pinochet, il sanguinario dittatore al quale Putin viene per tanti versi assimilato. Durante la guerra d’Algeria, Pierre Vidal Maquet prese le mosse, in fatto di tortura, dal “sentimento razzista”, cioè dal sentimento per cui il francese medio era incapace di “mettersi al posto di un algerino torturato, oppure fucilato, dopo un processo iniquo, o sommariamente giustiziato”. L’analisi allora sviluppata dal giornalista francese risulta perfettamente adattabile al cittadino medio russo di oggi rispetto alla sua valutazione sul genocidio ceceno, quali siano le sue convinzioni politiche. Questa valutazione richiama quella espressa alla Duma da Girinovskij il quale ha fatto riferimento al complesso di inferiorità nei confronti dei ceceni che Mosca non riesce ormai più a sottomettere da più di due secoli. Avviene così che la “scienza” della tortura applicata in Cecenia come strumento di genocidio utilizza ogni precedente, non accantona alcunché. I torturatori della X-mas di Valerio Borghese durante l’occupazione nazista dell’Italia e il governo collaborazionista di Salò, si erano specializzati nella tecnica di tortura del “cavalletto”. Il prigioniero era adagiato di schiena su un cavalletto in modo da restarvi in perfetto equilibrio. Tale era l’effetto sulla spina dorsale al punto che le sofferenze del torturato diventavano dopo pochi momenti lancinanti, procurando al torturato sofferenze indicibili. Per questo l’amnistia che prese il nome dal ministro della Giustizia Togliatti escludeva dal beneficio i delitti commessi con “sevizie particolarmente efferate”. Quella feroce tecnica di tortura è stata adesso perfezionata dai russi in Cecenia con l’adozione della famigerata “rondine”. Mani e piedi vengono legati dietro la schiena del torturato il quale viene appeso con la testa in basso e lasciato per ore in quella posizione. Il dolore diviene sempre più insopportabile; se il torturato supera questa prova la sofferenza si riproporrà ogni giorno più intensamente mettendo a rischio il suo equilibrio mentale. Ma anche questa tortura è stata ripresa dalle tecniche sperimentate dalla X-mas, perché quando il partigiano veniva appeso per i piedi, i militi di quella banda di assassini prendevano a calci la testa del torturato. L’elemento decisivo e rivelatore della pianificazione moscovita del genocidio ceceno è la collaborazione dei medici russi a ogni pratica torturatrice. La prova è reperibile nell’introduzione di elettrodi nelle parti più sensibili del corpo del prigioniero (genitali, naso, nuca, ascelle) o contemporaneamente nel retto e nei genitali, o specificamente nella prostata che ne viene distrutta. Si tratta di una sperimentazione di laboratorio eseguita sotto la direzione e il controllo di medici di particolare esperienza come avveniva nei campi di sterminio nazisti, quando Himmler aveva dato istruzioni di tortura alla quarta sezione della Gestapo. I medici russi che sovrintendono alle torture in Cecenia sono medici militari o, comunque, militarizzati, operano cioè alle dirette dipendenze del governo di Mosca. Ciò trova un precedente nelle responsabilità istituzionali della tortura inflitte ai resistenti cileni dalla Cni – Confederacion nacional de investigacion – di Pinochet. Nel caso della Giunta militare di Santiago e dei suoi organismi repressivi, la direzione e il controllo dei medici venivano assicurati attraverso il riconoscimento agli stessi di uno status militare. D’altra parte la reiterazione degli stessi metodi di tortura in diverse aree, in diversi “campi” della Cecenia, eleva il criterio statistico a ulteriore elemento di prova della pianificazione centralizzata della tortura stessa e del genocidio. Lo “Stato di tortura” che s’identifica con il governo di Putin, agisce lungo due direttrici sostanzialmente convergenti: una è quella della tortura come strumento per uccidere, l’altra mira a privare la persona delle sue funzioni riproduttive. Le torture psichiche nella loro varietà completano il quadro: una è la falsa fucilazione, con le armi che sparano alto sulla testa dei prigionieri, tecnica alla quale i nazisti ricorrevano talvolta anche in Italia. Come risulta dalle testimonianze di partigiani e resistenti italiani che furono sottoposti a questa forma di tortura. “Lo stress immenso che si prova - ha denunciato l'esponente ceceno Umar Khanbiev non può essere paragonato a un bombardamento o a un campo minato, che fanno immaginare lo stesso pericolo per la vita. Nel caso della finta fucilazione l’uomo si sente completamente indifeso e privo di speranza. A un certo momento si perde la sensazione della realtà, di conseguenza manca la reazione adeguata benché si veda tutto quello che sta succedendo e si capisca chiaramente il senso degli eventi”. Ci sono poi gli “stimoli sonori”, cioè il far sentire, soprattutto di notte, le urla terrificanti delle vittime sotto tortura. In mancanza del quadro visuale degli eventi, la mente del prigioniero è spinta a immaginare scenari tremendi a suo carico, con forte disgregazione della sua capacità psichica. La costrizione ad essere presenti alle torture realizza effetti di tipo diverso. Denuncia Khanbiev: “Quando si vede un oggetto (una bomba, una mina ecc.) uccidere un uomo, l’effetto psicologico è forte. Però non lo si può paragonare alla situazione in cui si vede un uomo ammazzare un altro uomo”. All’assassinio commesso in presenza di altri prigionieri ricorrevano spesso, durante il governo del dittatore argentino Jorge Videla (dal golpe del 1976 sino al 1981), i torturatori responsabili della sparizione di almeno trentamila prigionieri politici, secondo concordanti e attendibili valutazioni. Il più feroce dei golpisti argentini, Emilio Eduardo Massera, aveva invitato gli ufficiali a usare il massimo di violenza nella repressione. L’assassinio in presenza di altri prigionieri, a seguito di tali istruzioni, era una tortura praticata per acquistare su tutti un terrificante potere di supremazia. C’è poi la “tavola rotonda cecena” dove i prigionieri, in manette, vengono messi seduti di fronte a un tavolo. Al quale viene inchiodata la loro lingua. Ci sono poi le violenze sessuali contro le donne e contro gli uomini, compiuti in pubblico e, non di rado, seguiti da suicidio; come pure la tortura della “maschera antigas”, che viene applicata al prigioniero con mani e piedi legate da manette. Quando si chiude il tubo respiratorio della maschera i tentativi che il prigioniero compie per liberarsi – la sedia cui è legato è fissata al pavimento – gli causano lesioni gravissime. Un aspetto è comunque di particolare importanza ai fini dell’accertamento, dell’ideazione e della pianificazione genocida ed è il divieto che il governo di Putin ha stabilito all’importazione in Cecenia di medicine psicotrope, cioè quelle che possono aiutare i pazienti con disturbi psicologici post-traumatici (le morti di tali pazienti per infarto o per trauma cerebrale sono di quantità impressionante). Secondo ambienti della dirigenza cecena vi sarebbe una direttiva segreta di Putin agli organi di punizione operanti in Cecenia per “eliminare l’80% dei prigionieri e rendere invalidi gli altri”. In applicazione di tale direttiva, senza conteggiare le vittime dei bombardamenti e delle operazioni di “pulizia”, nei campi russi sono già state massacrate più di 40mila persone, mentre più di 20mila sono sparite nel nulla. Dall’insieme di circostanze qui sommariamente enunciate risulta, al di là di qualsiasi ragionevole dubbio, che il governo russo sta realizzando in Cecenia un ripugnante genocidio. Infatti, tutte le unità militari russe operanti nella repubblica – quelle dell’Mvd, cioè del ministero degli Interni; dell’Fsb, vale a dire il Servizio Federale per la sicurezza; del Mo, che è il ministero della Difesa; del Gru, cioè della direzione centrale di intelligence militare – dispongono di campi di concentramento dove hanno giurisdizione esclusiva con licenza di tortura e di sterminio. E’ questo, il genocidio, che viene perpetrato in Cecenia. Cioè quel crimine di diritto internazionale che l’Assemblea generale delle Nazioni Unite, con la risoluzione n. 96 dell’11 dicembre 1946, definì “il diniego del diritto all’esistenza di interi gruppi umani”. La Convenzione per la prevenzione e la repressione del delitto di genocidio, approvata dall’Assemblea generale dell’ Onu a Parigi il 9 dicembre 1948, ha definito tale delitto come qualificato dalla “intenzione di distruggere in tutto o in parte un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso in quanto tale”. *** Lo studioso americano Lemkin, al quale si dovette appunto l’elaborazione della norma sul genocidio, ebbe chiara l’idea che l’umanità – negli organismi istituzionali costituiti dopo la vittoria delle potenze alleate sulla Germania nazista e dopo il genocidio compiuto dagli stessi nazisti contro la popolazione ebraica, e anche dopo quello, meno noto, contro gli zingari – avrebbe dovuto affidare la sua difesa a un testo preordinato nella configurazione normativa. E’ vero che lo Statuto e i principi del Tribunale di Norimberga e quelli conseguentemente adottati dal Tribunale penale internazionale per l’Estremo Oriente (cosiddetto Tribunale di Tokyo) rappresentavano già una svolta di diritto penale internazionale sufficiente a garantire, come fu per i criminali nazisti e per quelli giapponesi, il diritto-dovere all’esercizio della punizione e la retroattività del principio punitivo. Ma la Convenzione tenacemente voluta da Lemkin avrebbe eliminato con la previsione della sua efficacia per il futuro qualsiasi disputa interpretativa che anche dopo Norimberga e Tokyo, non mancò di venire ripresentata, come fu nel caso del processo a carico del criminale nazista Eichmann di fronte alla corte di Tel Aviv. Tutte le efferate repressioni che il governo di Putin sta effettuando contro la popolazione caucasica integrano, nella unicità del disegno criminoso, le previsioni della convenzione. Il massacro colpisce le persone istruite, sane, intelligenti, fisicamente prestanti; cioè la parte migliore dell’etnia, quella destinata ad assicurare la sua sopravvivenza. E’ questo, secondo la Convenzione sul genocidio, l’attentato grave all’integrità fisica o mentale di membri del gruppo, di fronte al quale suona agghiacciante la dichiarazione resa in televisione da un abitante di campagna: “Lasciano vivi solo gli strabici, gli storpi e gli idioti”. L’olocausto perpetrato dai nazisti conobbe anche la tragica soppressione dei minorati mentali e fisici. In Cecenia il governo russo pratica la soluzione contraria; vengono lasciati in vita i portatori di minorazioni psico-fisiche come rovescio della medaglia, prova del nove di un genocidio che colpisce la parte vitale della popolazione. E’ pertanto in discussione la sovranità della Cecenia, sostanzialmente di tutta l’area caucasica, intesa non più nel rapporto giuspubblicistico tra governo e territorio, nel paradigma ottocentesco tra identità e sovranità, ma nell’idea di popolo che costituisce l’acquisizione del diritto e dell’etica moderna. Le odierne, complesse metamorfosi della sovranità, in epoca di globalizzazione del mercato del lavoro, hanno come punto centrale i grandi flussi migratori per cui etnie, gruppi razziali e religiosi, diventano elementi costitutivi di altre sovranità giuridicamente intese. C’è a questo proposito un dato che conferma ulteriormente il dolo di genocidio da parte del governo russo. Mosca ha sempre rifiutato e rifiuta qualsiasi negoziato sulla questione cecena: non accetta in alcun modo e in alcuna sede qualsiasi trattativa diplomatica che avrebbe come presupposto il riconoscimento della nazione caucasica nella sua sovranità. Zbigniew Brzezinski ha sostenuto la necessità del negoziato che sarebbe per lo stesso governo di Mosca la sola maniera per evitare la formazione, ai confini meridionali del Paese, di una durevole, militante ostilità antirussa tra i milioni di musulmani che abitano dentro e fuori la Federazione. Il politologo americano ha considerato il peso della etnia musulmana diffusa in tutta l’area caucasica, a cominciare dal Daghestan, dove già si sono svolte e sono in atto azioni di resistenza da parte dei ceceni. In pratica l’unica soluzione politica sarebbe il riconoscimento al governo ceceno di Grozny del suo diritto all’autodeterminazione e all’indipendenza. Si tratta di una visione geopolitica che riguarda non soltanto l’interesse del governo di Mosca, che invece la respinge insistendo nel genocidio, ma anche quello del processo di globalizzazione. E’ sintomatico a questo proposito il richiamo di Brzezinski alla politica lungimirante di De Gaulle durante la guerra di Algeria, quando i resistenti algerini – poco contando sul piano politico generale eccezioni di matrice culturale che pur vanno registrate, come fu quella di Albert Camus – si erano sentiti lontani anni luce dalla Francia. Tutte le azioni di repressione della resistenza algerina, a cominciare da quella dell’Oas, avevano finito per esasperare e amplificare tale lontananza ed estraneità. E’ la stessa estraneità dell’etnia, della tradizione, del costume ceceno rispetto alla Russia che, prima con il governo di Eltsin, adesso con quello di Putin, persegue l’obiettivo del genocidio con un crescente inasprimento politico, tecnologico e militare. *** Se è consentito parafrasare la definizione che, a proposito degli ebrei, André Frossard diede nella sua testimonianza al processo contro Klaus Barbie, la tragedia dei ceceni e la loro condanna al genocidio, con effetto di trascinamento nei riguardi di tutta la popolazione caucasica, derivano dal fatto di essere nati. Non ci si può dimettere dalla propria nascita. Del resto la Cecenia è una nazione la cui storia si è sempre identificata con un tragico destino di genocidio proprio per l’estraneità che antropologicamente contrappone l’identità di quella etnia rispetto all’identità della popolazione russa. Tradizione, costume, religioni, cultura, linguaggio; relazioni con l’ambiente, con la vera e propria ideologia della montagna e della orografia caucasica in particolare; sentimento e definizione istituzionale della funzione e della organizzazione pratica e giuridica della famiglia nel rapporto con le finalità sociali e politiche; la collocazione di ogni rapporto, la filosofia della vita, non soltanto negli ambiti della shari’a islamica, cioè della tradizione coranica, ma anche nel confronto con il grande sedimento fornito dalla religione ortodossa nelle acquisizioni realizzate durante la millenaria separazione dell’Impero bizantino dal mondo occidentale romano; idea e pratica della scuola e della alfabetizzazione; finalizzazione dell’insegnamento coordinata con il perseguimento delle utilità pubbliche; concezione e attuazione dell’idea di giustizia nella oralità e nella possibile codificazione dei sistemi normativi e ordinamentali; e, da ultimo ma non certo per importanza, i modi di concepire la valorizzazione delle ricchezze naturali a cominciare dai consistenti giacimenti petroliferi nella prospettiva della loro finalizzazione allo sviluppo, al progresso, alla modernizzazione stessa della nazione. Tutte queste circostanze, nel loro insieme storicamente coeso ed etnicamente inscindibile, costituiscono un unicum che fa della Cecenia un’area geopolitica non tanto distante dalla realtà della Russia, quanto inconciliabile e incompatibile con quella realtà e mai destinata ad incontrarsi con essa. Nell’area caucasica la Cecenia svolge una funzione economico-politica e produttiva trainante; il governo di Mosca persegue invece la politica di annientamento e di genocidio perché non intende utilizzare, anzi respinge, tutte le opportunità costituzionali in fatto di autonomia e di indipendenza della nazione e dell’intera regione caucasica. La storia costituzionale dell’Urss ha sempre previsto il diritto di recesso per realizzare l’indipendenza di una nazione nel segno del suo diritto all’autodeterminazione. Ma è stato notato che “sul punto di dare all’immenso paese una coerente struttura federale, è difficile dire se la nuova Costituzione risolva più problemi di quanti non ne lasci aperti e che c’è solo da sperare che la realtà non metta a nudo queste carenze ancor prima, e più drammaticamente, di quanto faranno gli studiosi del diritto”.L’odierna tragedia della Cecenia – che si cerca di ovattare e nascondere all’attenzione dell’opinione pubblica mondiale - conferma questa realistica previsione rispetto alla quale il diritto finisce per assumere, come l’intendenza di napoleonica memoria, la funzione di retroguardia, di qualcosa che “seguirà” e piuttosto malamente. Infatti in sede di Conferenza costituzionale emersero forti contrasti tra i rappresentanti delle repubbliche presenti nella compagine della Federazione, i quali avevano sostenuto che il patto federativo doveva essere inteso come un vero trattato internazionale, tale da legittimare la libera adesione ma anche il recesso di ogni repubblica. Senonché l’ordinamento della Federazione russa è basato sulla sua integrità statale (art. 5 punto 3, dell’odierna Costituzione), mentre lo status di un soggetto della Federazione russa può essere modificato mediante accordo tra la Federazione stessa e il soggetto entrato a farne parte in conformità della legge costituzionale federale (art. 66, punto 5). In sostanza il genocidio russo è preordinato a difendere l’integrità assoluta della Federazione senza che venga lasciato aperto qualsiasi spiraglio in fatto di autodeterminazione e di autonomia. Il diritto di secessione, è vero, è stato riconosciuto in tutte le Costituzioni dell’Urss. Ma l’odierna reiezione di ogni apertura sulla questione cecena trova fondamento proprio negli argomenti adottati da Stalin nel 1936 per vanificare tale diritto in base all’affermazione che il recesso sarebbe stato possibile soltanto nel caso di una repubblica non circondata da tutte le parti dal territorio dell’Urss. Ecco perché alle figure criminose previste dalla Convenzione sul genocidio viene oggi riconosciuto carattere consuetudinario, cioè natura di norme generali valevoli per tutti gli Stati membri della comunità internazionale. L’ampio ventaglio di previsioni processuali e sostanziali sul tentativo, sull’accordo, sulla pubblica istigazione e quindi anche sull’apologia di tale crimine quando la sua esaltazione si risolva in un fatto istigativo, definisce margini di intervento e di punibilità alla responsabilità penale e politica dei governanti che abbiano disposto il genocidio associa e, a titolo di concorso, anche quella dei singoli che si siano macchiati dei crimini disposti dai loro governi. Questo significa che la durata delle fattispecie di genocidio, in quanto delicta juris gentium, è indeterminata e che tale crimine deve essere considerato sottratto a qualsiasi condizione di liceità, a qualunque causa di giustificazione. Pertanto di fronte al genocidio non esistono ragioni, di qualsiasi natura, da quelle della storia a quelle più insidiose dell’uso politico della storia stessa, che possano escluderne la responsabilità; né esistono circostanze che possano comunque affievolirla. Il genocidio non ammette alcuna possibilità dirimente di ritorsione o di rappresaglia e non tollera giudizi di bilanciamento. Esigere l’accertamento del genocidio è un potere-dovere assoluto, incomprimibile della comunità internazionale; come lo è la punizione affidata, per il principio di complementarità, all’autorità giudiziaria dello Stato responsabile (la Russia nel caso della Cecenia) o alla stessa nazione (la Cecenia) nel cui territorio il crimine viene consumato. Il Trattato Istitutivo della Corte Penale Internazionale è entrato in vigore nel quarto anniversario dell’apertura alla firma del Trattato stesso (Roma, conferenza dei plenipotenziari dell’Onu, 17 luglio 1998), grazie alla ratifica da parte di 76 paesi; la Criminal Court, secondo la dizione ufficiale inglese, richiama i crimini di particolare gravità, di fronte ai quali l’iniziativa della Corte stessa è legittimata da un possibile rifiuto di processo (o da un processo farsa) da parte dello Stato responsabile del genocidio. In tale situazione l’alibi invocato dal governo moscovita, a pretesa giustificazione del genocidio in Cecenia e nell’area caucasica, cioè l’attribuzione alla nazione cecena d’essere in quella area sede e luogo di sviluppo del terrorismo internazionale, secondo la definizione teorizzata dall’America di Bush dopo l’11 settembre 2001, è un alibi pretestuoso, falso e inconsistente. Per citare idee e parole di Gore Vidal - che vanno spesso a sconfinare nel paradosso e nella provocazione intellettuale – si può sostenere che la tragedia delle Torri Gemelle avrebbe accelerato rammaticamente quel processo già in corso negli Stati Uniti, cioè quello che si riferisce alle libertà individuali che, garantite dalla democrazia americana, hanno cominciato ad essere disattese con sempre maggiore frequenza in nome, appunto, della lotta al terrorismo e alla droga. Falso e inconsistente – dicevamo - dal momento che l’odierna interpretazione, di tipo consuetudinario della normativa sul genocidio, significa che nel diritto delle genti l’accertamento e la sua punizione, in forma complementare o, ricorrendone le condizioni, in forma primaria, si fondano sulla reiezione pregiudiziale di qualunque motivo che lo Stato genocida possa invocare anche solo ad affievolimento della sua responsabilità. Ecco perché la normativa sul genocidio ha oggi, nel diritto internazionale, il carattere di fonte primaria che prevale su qualsiasi ordinamento interno, del resto chiamato a fare i conti con quelle metamorfosi della sovranità sul cui fondamento è stata istituita la Corte Penale Internazionale. Di fronte a quello che Carla Del Ponte, la Procuratrice del Tribunale Penale dell’Aja per l’ex Jugoslavia, ha definito “l’atlante dell’orrore”, ogni norma di diritto interno è destinata a cadere. Se Putin ha garantito a suo tempo l’impunità di Eltsin, al quale risale la responsabilità d’aver dato inizio al genocidio in Cecenia e nell’area caucasica, questa norma o peggio “prassi” dell’ordinamento russo è destinata a cadere di fronte all’iniziativa internazionale della Criminal Court. E se tale impunità venisse invocata per il genocidio ceceno, essa non avrebbe alcun valore per il diritto delle genti; sarebbe anzi ragione per l’intervento autonomo della Corte. Lo stesso discorso vale per Putin. Il suo consenso alla teorizzazione americana del terrorismo internazionale gli è valso, sul genocidio in Cecenia e nell’area caucasica, il compiaciuto silenzio, il sostanziale nulla osta dell’amministrazione Bush. Ma questo non lo solleva dalla responsabilità per il genocidio a Grozny e in tutta la regione; crimine del quale dovrà essere prima o poi chiamato, con Eltsin, a rendere conto. *** C’è, infine, un aspetto - in apparenza di minore evidenza, ma sostanzialmente di grande spessore - che emerge in molti ambienti della società russa odierna capaci di notevole influenza politica e mediatica. Perché dopo la disgregazione dell’impero sovietico e la rinascita della Russia si mira adesso – utilizzandosi la situazione cecena - alla dissoluzione del nuovo impero russo, proprio perché fermenti di secessione sono ben presenti in tante zone. In questa situazione la Cecenia viene utilizzata ancora una volta come “capro espiatorio” di una dissoluzione strisciante, non proclamata né comunque ammessa, ma certamente voluta dai fautori di tale dissoluzione. Si ripropone, forse, sotto nuovi aspetti e in forme inedite e tragiche, l’eterno conflitto tra occidentalisti e slavofili? Un fatto è certo. Ed è che tutte le forze nazionaliste (comunisti di Zjuganov compresi) sono più che mai per la salvaguardia dell’integrità territoriale del Paese. Quindi contro la secessione cecena, da respingere anche con voluti crimini di guerra e crimini contro l’umanità col feroce genocidio in atto. Dall’altro lato si schierano ambienti “democratici” che si sono già ben distinti nella lotta all’Urss e nel concorso alla sua dissoluzione. Sono queste, ora, le forze che in buona misura - pur senza condividere la tradizione e la religione musulmana - appoggiano le rivendicazioni cecene come ulteriore leva contro la nazione russa. Da portare, forse, a dissoluzione così come avvenne per l’Urss. E’ questo il labirinto in cui – accettando l’eredità di Eltsin – si trova ora intrappolato il presidente russo. Non per un incidente di percorso, ma per la sua caparbia volontà di difendere l’integrità della Russia senza tener conto di principi e orientamenti che sono ormai patrimonio dell’esperienza e del diritto internazionale. Purtroppo la formazione “culturale” di Putin, la scuola della repressione kaghebista, non gli consente – nonostante le tanto reclamizzate elezioni democratiche - scelte diverse. Lo ha dimostrato anche in quell’11 settembre della Russia, quando le “teste di cuoio” hanno risolto - su suo ordine - la “questione cecena” nel teatro di Mosca con un gas che resta pur sempre misterioso e con i colpi di kalashnikov. Un finale agghiacciante. Con Putin che va in tv per dire: “Vi chiedo perdono, non potevamo fare altrimenti”.