Putin - Altrenotizie

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Putin - Altrenotizie
CECENIA: UN GENOCIDIO NEL CUORE DELL'EUROPA
di Carlo Benedetti
Le recenti affermazioni di
Berlusconi
relative
ai
bambini che in Cina "ai
tempi di Mao venivano
bolliti
e
usati
per
concimare i campi" sono
rimbalzate sino a Grozny,
capitale della Cecenia. Ma
l'occasione - colta dalle
forze che si oppongono
alla Mosca di Putin - per
diffondere le frasi del
nostro premier non è
stata tanto quella di
fornire una "informazione"
di politica estera, quanto
quella di voler mettere
l'accento sui grandi e
colpevoli
silenzi
che
l'ovest
mantiene
sulla
tragica situazione del Caucaso. E così a Grozny (ma anche negli ambienti progressisti
di Mosca) ci si chiede: perchè un Paese come l'Italia continua a stendere una cortina
sul dramma ceceno? Perché si continua a ritenere "amico" l'uomo che attacca la
Cecenia definendo terroristi i combattenti per l'indipendenza?
Si può partire da queste domande per avanzare una serie di considerazioni che
portano a ritenere che in Cecenia - paese europeo - è in atto un vero e proprio
genocidio. Con bambini "bolliti" all'istante, in questi giorni, in queste ore, e senza far
ricorso a citazioni riprese da un "Libro nero del comunismo"…
***
E' stato Raphael Lemkin - studioso americano d’origine polacca e docente di diritto
internazionale all’università di Yale - a definire con estrema chiarezza il "concetto" di
genocidio: "Per genocidio - ha scritto il giurista - intendiamo la distruzione di una
nazione o di un gruppo etnico (...).In senso generale, genocidio non significa
necessariamente la distruzione immediata di una nazione, se non quando esso è
realizzato mediante lo sterminio di tutti i membri di una nazione. Esso intende
piuttosto designare un piano coordinato di differenti azioni miranti a distruggere i
fondamenti essenziali della vita dei gruppi nazionali, per annientare questi gruppi
stessi. Obiettivi di un piano siffatto sarebbero la disintegrazione delle istituzioni
politiche e sociali, della cultura, della lingua, dei sentimenti nazionali, della religione e
della vita economica dei gruppi nazionali, e la distruzione della sicurezza personale,
della libertà, della salute, della dignità e persino delle vite degli individui che
appartengono a tali gruppi. Il genocidio è diretto contro il gruppo nazionale in quanto
entità, e le azioni che esso provoca sono condotte contro individui, non a causa delle
loro qualità individuali, ma in quanto membri del gruppo nazionale”.
***
Il paragone con la Cecenia di questi tempi è impressionante. Certo, attualmente il
genocidio in atto nel Caucaso trova ampie “giustificazioni” con la cosiddetta “lotta al
terrorismo internazionale”. Un fronte, questo, che ha offerto al Cremlino la possibilità
di inserirsi a pieno titolo nella nuova fase di lotta contro la Cecenia, considerata così
come terra di banditi e laboratorio di terrorismo. in relazione a tutta questa
situazione, c’è un rapporto di Pax Christi international intitolato "Una anno di guerra":
è redatto da Rieks H.J. Smeets (ricercatore in studi caucasici presso l’Università di
Leiden) e da Egbert G.Ch. Wesselink (consulente del consiglio olandese di Pax Christi).
Si tratta di una tra le tante denuncie che arrivano da ogni parte del mondo contro la
sporca guerra cecena. Il documento è un vero atto d’accusa sulle violazioni delle leggi
di guerra e dei diritti umani perpetrate dalle forze armate della Federazione russa in
Cecenia.
La prima parte del rapporto ricostruisce le origini storico-politiche del conflitto: da
un’analisi geopolitica della regione caucasica e dalle sue caratteristiche etnografiche,
per passare poi a descrivere il background storico fino al 1990, la rivoluzione cecena
(il putsch del settembre 1991), il ruolo politico di Dudajev e la guerra in corso. La
seconda parte affronta le gravi violazioni dei diritti umani compiute dall’esercito russo
facendo sempre riferimento ad un vasto repertorio di notizie raccolte sia da fonti
ufficiali (Ocse) sia direttamente dai due autori durante la loro missione nella
Federazione russa dal 1 al 15 aprile 1995, nel corso d'interviste e colloqui effettuati
tanto coi rappresentanti d'organizzazioni politiche (Società per la rinascita
dell’Inguscetija), quanto con gli abitanti ed i rifugiati politici nelle zone del conflitto.
Di tale documentazione è possibile dare uno schematico sommario: violazioni degli
articoli 3 e 4 della Convenzione di Ginevra, compiute dalle autorità russe durante i
primi mesi di guerra, intralciando il lavoro della Croce Rossa Internazionale nell’area di
conflitto; sistematiche violazioni delle leggi di guerra da parte delle forze federali nel
gennaio, nel febbraio e nel maggio 1995. Circostanziati rapporti di Human Rights
Watch documentano in particolare: bombardamenti e cannoneggiamenti di centri
abitati; saccheggio; arresti arbitrali; maltrattamenti e abusi sui detenuti; distruzioni
immotivate; uccisioni; rappresaglie contro civili; punizioni di massa.
Human Rights Watch,
comunque, ha accusato
di violazione delle leggi di
guerra anche le forze
armate cecene, “per aver
installato
postazioni
difensive nelle vicinanze
di centri abitati” e per
l’uso della violenza. Ma
l'accento
generale
è
posto su questo dato:
“Dal dicembre 1995 – è
precisato nel documento
di Human Rights Watch l’aviazione
russa
ha
lanciato
attacchi
indiscriminati su obiettivi
civili nella Repubblica. E
tutti gli abitanti e i
rifugiati intervistati dalla missione, provenienti dai villaggi della Cecenia occidentale e
meridionale, hanno riferito di attacchi improvvisi su obiettivi civili da parte di cacciabombardieri ed elicotteri da guerra russi.” Quindi: distruzioni immotivate, incendi e
distruzioni su vasta scala di case e di edifici pubblici, discriminazioni razziali, uccisioni
di interi gruppi familiari, bombe lanciate su asili e scuole.
C'è poi il "capitolo" delle detenzioni arbitrarie – torture ed altri trattamenti inumani e
degradanti – e c’è anche la testimonianza dell'esponente della Russia, Kovalev, che è
stato Commissario presidenziale per i diritti umani. E’ lui che riferisce sull’uso
sistematico della tortura da parte delle truppe russe nei campi di detenzione e di
smistamento dove la maggioranza dei detenuti sono civili accusati di possesso illegale
di armi o di mancanza di regolari documenti di identità. Il loro arresto, quindi, ha
come scopo l’intimidazione della popolazione. C’è poi il problema relativo all’uso delle
mine che vede, comunque, coinvolte le due parti, quella cecena e quella russa. Ma si
sa anche che le forze aeree russe lanciano mine ad azione ritardata su varie regioni
della Cecenia. E ciò rende impossibile “ottenere” una documentazione circa il loro
esatto dislocamento come, invece, prescrivono le Convenzioni di Ginevra.
***
Alexei Vasiliev è un attento politologo - direttore dell’Istituto di studi africani
dell’Accademia delle Scienze russe - che segue i problemi geopolitici e le questioni
relative alle violazioni dei diritti umani. Sul quotidiano moscovita Nezavisimaja gazeta
si è occupato più volte della Cecenia, notando che in una certa fase del conflitto fra
gruppi confessionali ed etnici le persone, a prescindere dal loro livello d’istruzione e di
cultura, non riescono più a comunicare. Perché avviene una sorta di demonizzazione
del nemico e si rifugge dalle possibilità di dialogo e di compromesso.
Gli ostacoli alla comprensione reciproca e alla cooperazione possono comunque essere
causati anche da circostanze oggettive. In questo senso – sostiene il politologo - è
caratteristico l’esempio del Caucaso. Dove russi e ceceni sono divisi dalla memoria
storica del genocidio di cui per ben tre volte è stato vittima il popolo ceceno: nel
Diciannovesimo secolo, negli anni Venti del Ventesimo secolo e
ancora negli anni Quaranta-Sessanta, nel periodo della
deportazione massiccia nel Caucaso del Nord. Il popolo ceceno
sopravvisse, fra l’altro, grazie alla struttura di clan della sua
società e alla larga diffusione degli ordini sufiti dei nakshbandi e
dei qadri. “È vero anche che questa stessa struttura – ha poi
sostenuto Vasiliev - consente loro di occupare rapidamente
nuove posizioni economico-sociali, spesso con metodi criminali,
nell’economia di mercato attualmente in formazione in Russia”.
“Incomprensioni”, accuse e tradizioni storiche a parte.
l’esecuzione del genocidio in Cecenia attuata del governo
moscovita, prova l’unicità del disegno criminoso che, anzi, ne costituisce presupposto
e fondamento.
L’evento, cioè lo sterminio di massa scientificamente perseguito e realizzato, è in
pratica contenuto nella stessa condotta, vale a dire nelle azioni e nelle omissioni
preordinate al suo compimento. C’è una vera e propria concatenazione finalistica –
“teleologica” come dicono i giuristi – tra tutti gli elementi della condotta. Il che risulta
ancora più chiaro dal fatto che non si tratta d’iniziative, se pur feroci e spietate,
assunte da comandi locali; si tratta invece di una programmazione istituzionale il cui
soggetto attivo e operativo è il governo di Putin. E’ sintomatica a tale proposito
un’intervista di Sergej Stepasin, che ad una domanda sulla possibilità di risolvere la
questione cecena con la forza ha così risposto: “Si. Solo se prima facciamo fuori tutta
la popolazione maschile e poi tutta la popolazione femminile”. E quando gli è stato
chiesto se trovasse realistico tutto ciò ha freddamente risposto: “I generali dicono di
si”.
Le armi di sterminio di massa sono impiegate per coinvolgere e colpire
indiscriminatamente l’intera popolazione senza distinzione alcuna tra civili - bambini
compresi, appunto - e guerriglieri che resistono al genocidio. In questo modo è
conseguito e incrementato, a cascata, l’effetto di terrorismo di Stato, pianificato a
Mosca come strumento del genocidio; viene del pari raggiunto il risultato
dell’annientamento, anche psicologico e morale, dell’intera popolazione.
Il governo di Mosca, lo Stato russo nella sua più alta e responsabile definizione
istituzionale impiega in Cecenia bombe “sottovuoto”, proiettili a frammentazione, mine
antiuomo, razzi e ordigni incendiari d’ogni tipo, armi chimiche e batteriologiche:
nessuno, uomo, donna, bambino, civile disarmato, resistente armato, deve sfuggire
allo sterminio. E dopo i fatti di Mosca - e cioè l’assalto delle truppe speciali di Putin nel
teatro Dubrovka - sappiamo che i russi dispongono di nuovi e micidiali gas. I quali,
proibiti dalle convenzioni internazionali, sono stati usati nella capitale russa senza
tante cerimonie. E c’è da chiedersi se tali gas siano usati anche in Cecenia.
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Alla tragica situazione relativa alle violazioni dei diritti
dell’uomo e al genocidio in atto nel Caucaso si
riferisce André Glucksman, il quale sostiene che con il
pretesto di non “offendere” Mosca, si concede al
Cremlino una pericolosa dispensa sui diritti umani.
Glucksman denuncia poi con forza che le autorità
russe “si puliscono le scarpe” con quelle rimostranze
diplomatiche che la Comunità europea avanza nei
confronti dei russi in relazione alla Cecenia. E
aggiunge: “Le autorità russe non hanno forse
realizzato in due mesi quello che Milosevic ha fatto in
dieci anni? La metà dei ceceni, prima le donne e i bambini, sono stati sbattuti fuori del
loro Paese (metodo Kosovo), la capitale Grozny bombardata. Martirizzata (metodo
Sarajevo alla decima potenza). Due pesi, due misure. Mosca si fa riconoscere il diritto
di commettere crimini vietati alle mezze cartucce di Belgrado. Di fronte a Clinton, Blair
e Chirac, Eltsin martella il suo nuovo diritto di non ingerenza, reso effettivo fino
all’ultimo ceceno morto. Convenzioni di Ginevra, diritti umani, limitazione degli
armamenti: i Trattati appena firmati e subito trasgrediti diventano carta straccia nelle
riserve di caccia del sacrosanto impero russo”.
Sul tema della catastrofe cecena e delle
gravi violazioni dei diritti umani che provoca
la guerra russa, si è pronunciato a suo
tempo anche il Ministro degli Esteri tedesco
Joschka Fisher il quale ha lanciato una serie
di ammonimenti al governo di Mosca.
“Considero la politica russa in Cecenia - ha
affermato Fisher - un grave errore. Credo
che trascinerà Mosca nel pantano di una
guerra coloniale. Nei miei contatti con i
russi, non ho ascoltato alcuna convincente
proposta di soluzione politica. Tutti sanno
che i ceceni non cederanno mai, non lo hanno fatto neppure sotto Stalin. La
conseguenza sarà un conflitto permanente, destabilizzante per l’intera regione.
Nessuno si aspetta che la Russia accetti il terrorismo. Ma il suo comportamento spinge
un intero popolo a solidarizzare con gli islamici. Noi abbiamo interesse a una Russia
stabile e forte, allo sviluppo della democrazia e dell’economia di mercato. E la Russia
non ha solo diritto ma anche il dovere di avere confini sicuri. Trovo tuttavia
inaccettabile l’ultimatum a Grozny. Ci aspettiamo che la Russia lo ritiri”.
E una nuova e forte denuncia a livello istituzionale è arrivata da Lord Russel-Johnston,
presidente dell’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa. “In queste settimane
–ha detto l’esponente europeo – un numero crescente d’avvenimenti conferma un
deterioramento molto netto della situazione dei diritti dell’uomo in Cecenia.
Indubbiamente il comportamento delle forze russe – come testimoniano le recenti
operazioni di pulizia ad Assinovskaja e Sernodovsk – n’è in gran parte responsabile.
Attendo una condanna di tutte le violazioni dei diritti dell’uomo da parte delle autorità
russe al più alto livello. Ma le informazioni relative a nuove violazioni confermano la
deplorevole mancanza di volontà, da parte delle autorità russe, d’indagare
correttamente sulle prove di violenze commesse nel passato. L’incapacità di citare in
giudizio gli autori di questi crimini costituisce una violazione flagrante degli obblighi
della Russia nella sua qualità di membro del Consiglio d’Europa e come Stato
partecipante alle sue più importanti convenzioni, in particolar modo alla Convenzione
Europea dei Diritti dell’uomo e alla Convenzione Europea per la prevenzione della
tortura e delle pene o trattamenti inumani e degradanti (…). Spero – ha proseguito
l’esponente della Ue - che i responsabili europei e mondiali, che hanno allacciato
relazioni strette e cordiali con il Presidente Putin useranno la loro influenza per
esercitare efficaci pressioni sulle autorità russe affinché esse cambino il loro
comportamento attuale che è inaccettabile”.
***
Denuncie forti, quindi, da ogni parte. Anche perché il genocidio praticato in Cecenia è
divenuto terreno di verifica di quanto di peggio la tecnologia militare produce oggi per
l’annientamento di massa. Tutto questo, tra l’altro, avviene nell’ambito di una guerra
(voluta da Mosca) non dichiarata, ma spacciata come “guerra giusta” e, quindi,
democratica e necessaria.
Intanto il governo di Putin, oltre al risultato
di genocidio per la cosiddetta “soluzione
definitiva
della
questione
cecena”
(espressione che in termini agghiaccianti
rievoca la “soluzione finale” dei nazisti nei
confronti del popolo ebraico) realizza in
Cecenia la più complessa finalità di un
laboratorio di sperimentazione di future
guerre di sterminio. A questo laboratorio
sono interessate soprattutto le grandi e
medie potenze, quelle i cui governi, per
usare un'immagine di Antonio Gambino,
sono sempre pronti a “convocare un certo numero di grandi conferenze e concluderle
alla meno peggio con l’approvazione di un documento composto di frasi generiche,
che ognuno si prepara ad ignorare o ad interpretare come preferisce” mentre le loro
intelligenze militari, i loro governi invisibili, studiano e perfezionano - con il vantaggio
di poterlo fare dal vivo - scenari e metodi di guerre di sterminio nel caso possano
divenire in futuro di tragica attualità.
Quell’attualità oggi si chiama Cecenia.
In questa dimensione della tragedia cecena, fatto determinante e rivelatore è
l’organizzazione scientifica della tortura, l’estremo rigore, per così dire, di natura
medico-legale, con cui la tortura è pianificata ed eseguita. Su questo terreno i
“programmatori” di Mosca studiano, arricchiscono, perfezionano le tecniche di tortura
antiche e moderne, mutuandone modalità e risultati statistici dai più vicini, nel tempo,
apparati repressivi dell’epoca contemporanea.
Si scopre così ancora una volta che la tortura non è finita con il tramonto delle
dittature fasciste latinoamericane. Né tanto meno è un reperto del passato remoto,
tipo processi dell’Inquisizione. Non è nemmeno un fenomeno ridotto, riguardante
pochi paesi. Chi credesse, con slancio ottimistico, che di recente la pratica ha avuto un
netto calo, sbaglierebbe di grosso. La verità è un’altra. La Cecenia di oggi lo sta a
dimostrare.
Lasciamo parlare i dati: nel 1996 Amnesty International denunciò casi di tortura in
125 paesi; nel 1997 in 117; nel 1998 ha rilevato un’inversione di tendenza, una
risalita, sino a ritoccare quota 125. Se qualcuno crede che l’orrenda pratica è diffusa,
ma in mondi lontani dal nostro, avrà ancora brutte sorprese.
Dei 125 paesi 31 sono europei, 21 americani, 22 asiatici, 33 africani.
Questi dati si possono leggere nella voce “tortura” presente nella Treccani ed intitolata
“L’universo del corpo”, dove si giunge all’inquietante conclusione relativa al fatto che
questo tipo di violenza ha subìto negli ultimi due secoli un ridimensionamento, ma non
è mai stata completamente sradicata in nessuna parte del mondo. Ci sono dei
momenti, anzi, in cui l’uso delle sevizie conosce risalite insopportabili.
La tortura “è praticata – è detto nella Treccani - tanto all’interno dei corpi speciali o
paralleli degli Stati moderni, quanto in situazioni private”. Il progresso tecnologico - e
con esso il raffinarsi dei mezzi di intimidazione e di persuasione - “stanno ponendo il
problema di nuove forme di tortura e di violazione del libero arbitrio e della dignità
umana”.
La tortura può essere fisica: pestaggi, scosse elettriche, soffocamenti, bruciature,
privazioni del sonno, obbligo della posizione eretta, estrazione violenta dei denti,
costrizione a bere litri di acqua, somministrazione forzata di farmaci e droghe. Oppure
psicologica: inscenare una finta esecuzione, costringere ad assistere alle sevizie inflitte
ai parenti. Il più delle volte, però, le vittime diventano oggetto sia di torture fisiche sia
psicologiche.
La “voce” della Treccani spiega poi che esistono
delle vere e proprie scuole internazionali in cui
s'insegna ad infliggere sevizie. Ciò sarebbe
dimostrato dalle analogie esistenti fra le tecniche
utilizzate anche in paesi fra loro molto distanti. I
medici
hanno
un
ruolo
importante
nell’individuare i punti deboli del corpo delle
vittime in cui si possono concentrare le torture
e, sempre i medici, risultano molto importanti
per controllare che il seviziato non muoia.
Tornando alla Cecenia si scopre che le “scuole”
più seguite sono quelle della repressione
francese della resistenza algerina e delle torture
applicate dal regime della Giunta militare cilena
guidata da Pinochet, il sanguinario dittatore al
quale Putin viene per tanti versi assimilato.
Durante la guerra d’Algeria, Pierre Vidal Maquet
prese le mosse, in fatto di tortura, dal
“sentimento razzista”, cioè dal sentimento per
cui il francese medio era incapace di “mettersi al
posto di un algerino torturato, oppure fucilato,
dopo un processo iniquo, o sommariamente giustiziato”.
L’analisi allora sviluppata dal giornalista francese risulta perfettamente adattabile al
cittadino medio russo di oggi rispetto alla sua valutazione sul genocidio ceceno, quali
siano le sue convinzioni politiche. Questa valutazione richiama quella espressa alla
Duma da Girinovskij il quale ha fatto riferimento al complesso di inferiorità nei
confronti dei ceceni che Mosca non riesce ormai più a sottomettere da più di due
secoli.
Avviene così che la “scienza” della tortura applicata in Cecenia come strumento di
genocidio utilizza ogni precedente, non accantona alcunché.
I torturatori della X-mas di Valerio Borghese durante l’occupazione nazista dell’Italia e
il governo collaborazionista di Salò, si erano specializzati nella tecnica di tortura del
“cavalletto”. Il prigioniero era adagiato di schiena su un cavalletto in modo da restarvi
in perfetto equilibrio. Tale era l’effetto sulla spina dorsale al punto che le sofferenze
del torturato diventavano dopo pochi momenti lancinanti, procurando al torturato
sofferenze indicibili. Per questo l’amnistia che prese il nome dal ministro della Giustizia
Togliatti escludeva dal beneficio i delitti commessi con “sevizie particolarmente
efferate”.
Quella feroce tecnica di tortura è stata adesso perfezionata dai russi in Cecenia con
l’adozione della famigerata “rondine”. Mani e piedi vengono legati dietro la schiena del
torturato il quale viene appeso con la testa in basso e lasciato per ore in quella
posizione. Il dolore diviene sempre più insopportabile; se il torturato supera questa
prova la sofferenza si riproporrà ogni giorno più intensamente mettendo a rischio il
suo equilibrio mentale. Ma anche questa tortura è stata ripresa dalle tecniche
sperimentate dalla X-mas, perché quando il partigiano veniva appeso per i piedi, i
militi di quella banda di assassini prendevano a calci la testa del torturato.
L’elemento decisivo e rivelatore della pianificazione moscovita del genocidio ceceno è
la collaborazione dei medici russi a ogni pratica torturatrice. La prova è reperibile
nell’introduzione di elettrodi nelle parti più sensibili del corpo del prigioniero (genitali,
naso, nuca, ascelle) o contemporaneamente nel retto e nei genitali, o specificamente
nella prostata che ne viene distrutta.
Si tratta di una sperimentazione di laboratorio eseguita sotto la direzione e il controllo
di medici di particolare esperienza come avveniva nei campi di sterminio nazisti,
quando Himmler aveva dato istruzioni di tortura alla quarta sezione della Gestapo. I
medici russi che sovrintendono alle torture in Cecenia sono medici militari o,
comunque, militarizzati, operano cioè alle dirette dipendenze del governo di Mosca.
Ciò trova un precedente nelle responsabilità istituzionali della tortura inflitte ai
resistenti cileni dalla Cni – Confederacion nacional de investigacion – di Pinochet. Nel
caso della Giunta militare di Santiago e dei suoi organismi repressivi, la direzione e il
controllo dei medici venivano assicurati attraverso il riconoscimento agli stessi di uno
status militare.
D’altra parte la reiterazione degli
stessi metodi di tortura in
diverse aree, in diversi “campi”
della Cecenia, eleva il criterio
statistico a ulteriore elemento di
prova
della
pianificazione
centralizzata della tortura stessa
e del genocidio. Lo “Stato di
tortura” che s’identifica con il
governo di Putin, agisce lungo due direttrici sostanzialmente convergenti: una è quella
della tortura come strumento per uccidere, l’altra mira a privare la persona delle sue
funzioni riproduttive. Le torture psichiche nella loro varietà completano il quadro: una
è la falsa fucilazione, con le armi che sparano alto sulla testa dei prigionieri, tecnica
alla quale i nazisti ricorrevano talvolta anche in Italia. Come risulta dalle
testimonianze di partigiani e resistenti italiani che furono sottoposti a questa forma di
tortura.
“Lo stress immenso che si prova - ha denunciato l'esponente ceceno Umar Khanbiev non può essere paragonato a un bombardamento o a un campo minato, che fanno
immaginare lo stesso pericolo per la vita. Nel caso della finta fucilazione l’uomo si
sente completamente indifeso e privo di speranza. A un certo momento si perde la
sensazione della realtà, di conseguenza manca la reazione adeguata benché si veda
tutto quello che sta succedendo e si capisca chiaramente il senso degli eventi”.
Ci sono poi gli “stimoli sonori”, cioè il far sentire, soprattutto di notte, le urla
terrificanti delle vittime sotto tortura. In mancanza del quadro visuale degli eventi, la
mente del prigioniero è spinta a immaginare scenari tremendi a suo carico, con forte
disgregazione della sua capacità psichica. La costrizione ad essere presenti alle torture
realizza effetti di tipo diverso. Denuncia Khanbiev: “Quando si vede un oggetto (una
bomba, una mina ecc.) uccidere un uomo, l’effetto psicologico è forte. Però non lo si
può paragonare alla situazione in cui si vede un uomo ammazzare un altro uomo”.
All’assassinio commesso in presenza di altri prigionieri ricorrevano spesso, durante il
governo del dittatore argentino Jorge Videla (dal golpe del 1976 sino al 1981), i
torturatori responsabili della sparizione di almeno trentamila prigionieri politici,
secondo concordanti e attendibili valutazioni. Il più feroce dei golpisti argentini, Emilio
Eduardo Massera, aveva invitato gli ufficiali a usare il massimo di violenza nella
repressione. L’assassinio in presenza di altri prigionieri, a seguito di tali istruzioni, era
una tortura praticata per acquistare su tutti un terrificante potere di supremazia.
C’è poi la “tavola rotonda cecena” dove i prigionieri, in manette, vengono messi seduti
di fronte a un tavolo. Al quale viene inchiodata la loro lingua. Ci sono poi le violenze
sessuali contro le donne e contro gli uomini, compiuti in pubblico e, non di rado,
seguiti da suicidio; come pure la tortura della “maschera antigas”, che viene applicata
al prigioniero con mani e piedi legate da manette. Quando si chiude il tubo respiratorio
della maschera i tentativi che il prigioniero compie per liberarsi – la sedia cui è legato
è fissata al pavimento – gli causano lesioni gravissime.
Un aspetto è comunque di particolare importanza ai fini dell’accertamento,
dell’ideazione e della pianificazione genocida ed è il divieto che il governo di Putin ha
stabilito all’importazione in Cecenia di medicine psicotrope, cioè quelle che possono
aiutare i pazienti con disturbi psicologici post-traumatici (le morti di tali pazienti per
infarto o per trauma cerebrale sono di quantità impressionante).
Secondo ambienti della dirigenza
cecena vi sarebbe una direttiva
segreta di Putin agli organi di
punizione operanti in Cecenia per
“eliminare l’80% dei prigionieri e
rendere invalidi gli altri”. In
applicazione di tale direttiva,
senza conteggiare le vittime dei
bombardamenti e delle operazioni
di “pulizia”, nei campi russi sono
già state massacrate più di
40mila persone, mentre più di
20mila sono sparite nel nulla.
Dall’insieme di circostanze qui
sommariamente
enunciate
risulta, al di là di qualsiasi
ragionevole dubbio, che il governo russo sta realizzando in Cecenia un ripugnante
genocidio. Infatti, tutte le unità militari russe operanti nella repubblica – quelle
dell’Mvd, cioè del ministero degli Interni; dell’Fsb, vale a dire il Servizio Federale per
la sicurezza; del Mo, che è il ministero della Difesa; del Gru, cioè della direzione
centrale di intelligence militare – dispongono di campi di concentramento dove hanno
giurisdizione esclusiva con licenza di tortura e di sterminio.
E’ questo, il genocidio, che viene perpetrato in Cecenia. Cioè quel crimine di diritto
internazionale che l’Assemblea generale delle Nazioni Unite, con la risoluzione n. 96
dell’11 dicembre 1946, definì “il diniego del diritto all’esistenza di interi gruppi umani”.
La Convenzione per la prevenzione e la repressione del delitto di genocidio, approvata
dall’Assemblea generale dell’ Onu a Parigi il 9 dicembre 1948, ha definito tale delitto
come qualificato dalla “intenzione di distruggere in tutto o in parte un gruppo
nazionale, etnico, razziale o religioso in quanto tale”.
***
Lo studioso americano Lemkin, al quale si dovette appunto l’elaborazione della norma
sul genocidio, ebbe chiara l’idea che l’umanità – negli organismi istituzionali costituiti
dopo la vittoria delle potenze alleate sulla Germania nazista e dopo il genocidio
compiuto dagli stessi nazisti contro la popolazione ebraica, e anche dopo quello, meno
noto, contro gli zingari – avrebbe dovuto affidare la sua difesa a un testo preordinato
nella configurazione normativa. E’ vero che lo Statuto e i principi del Tribunale di
Norimberga e quelli conseguentemente adottati dal Tribunale penale internazionale
per l’Estremo Oriente (cosiddetto Tribunale di Tokyo) rappresentavano già una svolta
di diritto penale internazionale sufficiente a garantire, come fu per i criminali nazisti e
per quelli giapponesi, il diritto-dovere all’esercizio della punizione e la retroattività del
principio punitivo. Ma la Convenzione tenacemente voluta da Lemkin avrebbe
eliminato con la previsione della sua efficacia per il futuro qualsiasi disputa
interpretativa che anche dopo Norimberga e Tokyo, non mancò di venire ripresentata,
come fu nel caso del processo a carico del criminale nazista Eichmann di fronte alla
corte di Tel Aviv.
Tutte le efferate repressioni che il governo di Putin sta effettuando contro la
popolazione caucasica integrano, nella unicità del disegno criminoso, le previsioni della
convenzione. Il massacro colpisce le persone istruite, sane, intelligenti,
fisicamente prestanti; cioè la parte migliore dell’etnia, quella destinata
ad assicurare la sua sopravvivenza. E’ questo, secondo la Convenzione
sul genocidio, l’attentato grave all’integrità fisica o mentale di membri
del gruppo, di fronte al quale suona agghiacciante la dichiarazione resa
in televisione da un abitante di campagna: “Lasciano vivi solo gli
strabici, gli storpi e gli idioti”. L’olocausto perpetrato dai nazisti conobbe
anche la tragica soppressione dei minorati mentali e fisici. In Cecenia il
governo russo pratica la soluzione contraria; vengono lasciati in vita i
portatori di minorazioni psico-fisiche come rovescio della medaglia, prova del nove di
un genocidio che colpisce la parte vitale della popolazione.
E’ pertanto in discussione la sovranità della Cecenia, sostanzialmente di tutta l’area
caucasica, intesa non più nel rapporto giuspubblicistico tra governo e territorio, nel
paradigma ottocentesco tra identità e sovranità, ma nell’idea di popolo che costituisce
l’acquisizione del diritto e dell’etica moderna. Le odierne, complesse metamorfosi della
sovranità, in epoca di globalizzazione del mercato del lavoro, hanno come punto
centrale i grandi flussi migratori per cui etnie, gruppi razziali e religiosi, diventano
elementi costitutivi di altre sovranità giuridicamente intese.
C’è a questo proposito un dato che conferma ulteriormente il dolo di genocidio da
parte del governo russo. Mosca ha sempre rifiutato e rifiuta qualsiasi negoziato sulla
questione cecena: non accetta in alcun modo e in alcuna sede qualsiasi trattativa
diplomatica che avrebbe come presupposto il riconoscimento della nazione caucasica
nella sua sovranità. Zbigniew Brzezinski ha sostenuto la necessità del negoziato che
sarebbe per lo stesso governo di Mosca la sola maniera per evitare la formazione, ai
confini meridionali del Paese, di una durevole, militante ostilità antirussa tra i milioni
di musulmani che abitano dentro e fuori la Federazione.
Il politologo americano ha considerato il peso della etnia musulmana diffusa in tutta
l’area caucasica, a cominciare dal Daghestan, dove già si sono svolte e sono in atto
azioni di resistenza da parte dei ceceni. In pratica l’unica soluzione politica sarebbe il
riconoscimento al governo ceceno di Grozny del suo diritto all’autodeterminazione e
all’indipendenza. Si tratta di una visione geopolitica che riguarda non soltanto
l’interesse del governo di Mosca, che invece la respinge insistendo nel genocidio, ma
anche quello del processo di globalizzazione.
E’ sintomatico a questo proposito il richiamo di Brzezinski alla politica lungimirante di
De Gaulle durante la guerra di Algeria, quando i resistenti algerini – poco contando sul
piano politico generale eccezioni di matrice culturale che pur vanno registrate, come
fu quella di Albert Camus – si erano sentiti lontani anni luce dalla Francia. Tutte le
azioni di repressione della resistenza algerina, a cominciare da quella dell’Oas,
avevano finito per esasperare e amplificare tale lontananza ed estraneità. E’ la stessa
estraneità dell’etnia, della tradizione, del costume ceceno rispetto alla Russia che,
prima con il governo di Eltsin, adesso con quello di Putin, persegue l’obiettivo del
genocidio con un crescente inasprimento politico, tecnologico e militare.
***
Se è consentito parafrasare la definizione che, a proposito degli ebrei, André Frossard
diede nella sua testimonianza al processo contro Klaus Barbie, la tragedia dei ceceni e
la loro condanna al genocidio, con effetto di trascinamento nei riguardi di tutta la
popolazione caucasica, derivano dal fatto di essere nati. Non ci si può dimettere dalla
propria nascita. Del resto la Cecenia è una nazione la cui storia si è sempre
identificata con un tragico destino di genocidio proprio per l’estraneità che
antropologicamente contrappone l’identità di quella etnia rispetto all’identità della
popolazione russa. Tradizione, costume, religioni, cultura, linguaggio; relazioni con
l’ambiente, con la vera e propria ideologia della montagna e della orografia caucasica
in particolare; sentimento e definizione istituzionale della funzione e della
organizzazione pratica e giuridica della famiglia nel rapporto con le finalità sociali e
politiche; la collocazione di ogni rapporto, la filosofia della vita, non soltanto negli
ambiti della shari’a islamica, cioè della tradizione coranica, ma anche nel confronto
con il grande sedimento fornito dalla religione ortodossa nelle acquisizioni realizzate
durante la millenaria separazione dell’Impero bizantino dal mondo occidentale
romano; idea e pratica della scuola e della alfabetizzazione; finalizzazione
dell’insegnamento coordinata con il perseguimento delle utilità pubbliche; concezione
e attuazione dell’idea di giustizia nella oralità e nella possibile codificazione dei sistemi
normativi e ordinamentali; e, da ultimo ma non certo per importanza, i modi di
concepire la valorizzazione delle ricchezze naturali a cominciare dai consistenti
giacimenti petroliferi nella prospettiva della loro finalizzazione allo sviluppo, al
progresso, alla modernizzazione stessa della nazione. Tutte queste circostanze, nel
loro insieme storicamente coeso ed etnicamente inscindibile, costituiscono un unicum
che fa della Cecenia un’area geopolitica non tanto distante dalla realtà della Russia,
quanto inconciliabile e incompatibile con quella realtà e mai destinata ad incontrarsi
con essa.
Nell’area caucasica la Cecenia svolge una
funzione economico-politica e produttiva
trainante; il governo di Mosca persegue invece
la politica di annientamento e di genocidio
perché non intende utilizzare, anzi respinge,
tutte le opportunità costituzionali in fatto di
autonomia e di indipendenza della nazione e
dell’intera regione caucasica.
La storia costituzionale dell’Urss ha sempre
previsto il diritto di recesso per realizzare
l’indipendenza di una nazione nel segno del suo diritto all’autodeterminazione. Ma è
stato notato che “sul punto di dare all’immenso paese una coerente struttura federale,
è difficile dire se la nuova Costituzione risolva più problemi di quanti non ne lasci
aperti e che c’è solo da sperare che la realtà non metta a nudo queste carenze ancor
prima, e più drammaticamente, di quanto faranno gli studiosi del diritto”.L’odierna
tragedia della Cecenia – che si cerca di ovattare e nascondere all’attenzione
dell’opinione pubblica mondiale - conferma questa realistica previsione rispetto alla
quale il diritto finisce per assumere, come l’intendenza di napoleonica memoria, la
funzione di retroguardia, di qualcosa che “seguirà” e piuttosto malamente. Infatti in
sede di Conferenza costituzionale emersero forti contrasti tra i rappresentanti delle
repubbliche presenti nella compagine della Federazione, i quali avevano sostenuto che
il patto federativo doveva essere inteso come un vero trattato internazionale, tale da
legittimare la libera adesione ma anche il recesso di ogni repubblica. Senonché
l’ordinamento della Federazione russa è basato sulla sua integrità statale (art. 5 punto
3, dell’odierna Costituzione), mentre lo status di un soggetto della Federazione russa
può essere modificato mediante accordo tra la Federazione stessa e il soggetto
entrato a farne parte in conformità della legge costituzionale federale (art. 66, punto
5).
In sostanza il genocidio russo è preordinato a difendere l’integrità assoluta della
Federazione senza che venga lasciato aperto qualsiasi spiraglio in fatto di
autodeterminazione e di autonomia. Il diritto di secessione, è vero, è stato
riconosciuto in tutte le Costituzioni dell’Urss.
Ma l’odierna reiezione di ogni apertura sulla questione cecena trova fondamento
proprio negli argomenti adottati da Stalin nel 1936 per vanificare tale diritto in base
all’affermazione che il recesso sarebbe stato possibile soltanto nel caso di una
repubblica non circondata da tutte le parti dal territorio dell’Urss.
Ecco perché alle figure criminose previste dalla Convenzione sul genocidio viene oggi
riconosciuto carattere consuetudinario, cioè natura di norme generali valevoli per tutti
gli Stati membri della comunità internazionale. L’ampio ventaglio di previsioni
processuali e sostanziali sul tentativo, sull’accordo, sulla pubblica istigazione e quindi
anche sull’apologia di tale crimine quando la sua esaltazione si risolva in un fatto
istigativo, definisce margini di intervento e di punibilità alla responsabilità penale e
politica dei governanti che abbiano disposto il genocidio associa e, a titolo di concorso,
anche quella dei singoli che si siano macchiati dei crimini disposti dai loro governi.
Questo significa che la durata delle fattispecie di genocidio, in quanto delicta juris
gentium, è indeterminata e che tale crimine deve essere considerato sottratto a
qualsiasi condizione di liceità, a qualunque causa di giustificazione. Pertanto di fronte
al genocidio non esistono ragioni, di qualsiasi natura, da quelle della storia a quelle più
insidiose dell’uso politico della storia stessa, che possano escluderne la responsabilità;
né esistono circostanze che possano comunque affievolirla.
Il genocidio non ammette alcuna possibilità dirimente di
ritorsione o di rappresaglia e non tollera giudizi di
bilanciamento. Esigere l’accertamento del genocidio è un
potere-dovere assoluto, incomprimibile della comunità
internazionale; come lo è la punizione affidata, per il principio
di complementarità, all’autorità giudiziaria dello Stato
responsabile (la Russia nel caso della Cecenia) o alla stessa
nazione (la Cecenia) nel cui territorio il crimine viene
consumato.
Il Trattato Istitutivo della Corte Penale Internazionale è
entrato in vigore nel quarto anniversario dell’apertura alla
firma del Trattato stesso (Roma, conferenza dei plenipotenziari dell’Onu, 17 luglio
1998), grazie alla ratifica da parte di 76 paesi; la Criminal Court, secondo la dizione
ufficiale inglese, richiama i crimini di particolare gravità, di fronte ai quali l’iniziativa
della Corte stessa è legittimata da un possibile rifiuto di processo (o da un processo
farsa) da parte dello Stato responsabile del genocidio. In tale situazione l’alibi invocato
dal governo moscovita, a pretesa giustificazione del genocidio in Cecenia e nell’area
caucasica, cioè l’attribuzione alla nazione cecena d’essere in quella area sede e luogo
di sviluppo del terrorismo internazionale, secondo la definizione teorizzata
dall’America di Bush dopo l’11 settembre 2001, è un alibi pretestuoso, falso e
inconsistente.
Per citare idee e parole di Gore Vidal - che vanno spesso a sconfinare nel paradosso e
nella provocazione intellettuale – si può sostenere che la tragedia delle Torri Gemelle
avrebbe accelerato rammaticamente quel processo già in corso negli Stati Uniti, cioè
quello che si riferisce alle libertà individuali che, garantite dalla democrazia americana,
hanno cominciato ad essere disattese con sempre maggiore frequenza in nome,
appunto, della lotta al terrorismo e alla droga.
Falso e inconsistente – dicevamo - dal momento che l’odierna interpretazione, di tipo
consuetudinario della normativa sul genocidio, significa che nel diritto delle genti
l’accertamento e la sua punizione, in forma complementare o, ricorrendone le
condizioni, in forma primaria, si fondano sulla reiezione pregiudiziale di qualunque
motivo che lo Stato genocida possa invocare anche solo ad affievolimento della sua
responsabilità. Ecco perché la normativa sul genocidio ha oggi, nel diritto
internazionale, il carattere di fonte primaria che prevale su qualsiasi ordinamento
interno, del resto chiamato a fare i conti con quelle metamorfosi della sovranità sul cui
fondamento è stata istituita la Corte Penale Internazionale. Di fronte a quello che
Carla Del Ponte, la Procuratrice del Tribunale Penale dell’Aja per l’ex Jugoslavia, ha
definito “l’atlante dell’orrore”, ogni norma di diritto interno è destinata a cadere. Se
Putin ha garantito a suo tempo l’impunità di Eltsin, al quale risale la responsabilità
d’aver dato inizio al genocidio in Cecenia e nell’area caucasica, questa norma o peggio
“prassi” dell’ordinamento russo è destinata a cadere di fronte all’iniziativa
internazionale della Criminal Court. E se tale impunità venisse invocata per il
genocidio ceceno, essa non avrebbe alcun valore per il diritto delle genti; sarebbe anzi
ragione per l’intervento autonomo della Corte.
Lo stesso discorso vale per Putin. Il suo consenso alla teorizzazione americana del
terrorismo internazionale gli è valso, sul genocidio in Cecenia e nell’area caucasica, il
compiaciuto silenzio, il sostanziale nulla osta dell’amministrazione Bush. Ma questo
non lo solleva dalla responsabilità per il genocidio a Grozny e in tutta la regione;
crimine del quale dovrà essere prima o poi chiamato, con Eltsin, a rendere conto.
***
C’è, infine, un aspetto - in
apparenza di minore evidenza,
ma sostanzialmente di grande
spessore - che emerge in molti
ambienti della società russa
odierna
capaci
di
notevole
influenza politica e mediatica.
Perché dopo la disgregazione
dell’impero sovietico e la rinascita
della Russia si mira adesso –
utilizzandosi la situazione cecena
- alla dissoluzione del nuovo
impero russo, proprio perché
fermenti di secessione sono ben
presenti in tante zone. In questa
situazione la Cecenia viene utilizzata ancora una volta come “capro espiatorio” di una
dissoluzione strisciante, non proclamata né comunque ammessa, ma certamente
voluta dai fautori di tale dissoluzione. Si ripropone, forse, sotto nuovi aspetti e in
forme inedite e tragiche, l’eterno conflitto tra occidentalisti e slavofili? Un fatto è
certo. Ed è che tutte le forze nazionaliste (comunisti di Zjuganov compresi) sono più
che mai per la salvaguardia dell’integrità territoriale del Paese.
Quindi contro la secessione cecena, da respingere anche con voluti crimini di guerra e
crimini contro l’umanità col feroce genocidio in atto. Dall’altro lato si schierano
ambienti “democratici” che si sono già ben distinti nella lotta all’Urss e nel concorso
alla sua dissoluzione. Sono queste, ora, le forze che in buona misura - pur senza
condividere la tradizione e la religione musulmana - appoggiano le rivendicazioni
cecene come ulteriore leva contro la nazione russa.
Da portare, forse, a dissoluzione così come avvenne per l’Urss.
E’ questo il labirinto in cui – accettando l’eredità di Eltsin – si trova ora intrappolato il
presidente russo. Non per un incidente di percorso, ma per la sua caparbia volontà di
difendere l’integrità della Russia senza tener conto di principi e orientamenti che sono
ormai patrimonio dell’esperienza e del diritto internazionale. Purtroppo la formazione
“culturale” di Putin, la scuola della repressione kaghebista, non gli consente –
nonostante le tanto reclamizzate elezioni democratiche - scelte diverse. Lo ha
dimostrato anche in quell’11 settembre della Russia, quando le “teste di cuoio” hanno
risolto - su suo ordine - la “questione cecena” nel teatro di Mosca con un gas che resta
pur sempre misterioso e con i colpi di kalashnikov. Un finale agghiacciante. Con Putin
che va in tv per dire: “Vi chiedo perdono, non potevamo fare altrimenti”.