COMPASSION AND REJECTION. ITALIAN MEDIA

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COMPASSION AND REJECTION. ITALIAN MEDIA
COMPASSION
AND
REJECTION.
ITALIAN
MEDIA
REPRESENTATION
OF
MIGRANTS AND AUDIENCES’ MEDIATED SELF-REACTIONS
Antonia Cava (University of Messina) [email protected]
Mariaeugenia Parito (University of Messina) [email protected]
Francesco Pira (University of Messina) [email protected]
Keywords: Media representation – Migration – Audience – European integration –
Italian media system
Public debates on migration oscillate between two conflicting claims: on the one hand,
compassion and protection, on the other hand, rejection and fear. Both representations are more
focused on emotional reactions (Castells, 2009) than rational reflections (Habermas, 1962, 1992,
1996a,1996b, 1999).
The media hyper-simplification concurs to a social representation of migration that is
currently distorting real-life experiences to such an extent that the spectacularization of migrants
brings about problems in terms of their negative self-representations. Furthermore, information
about migrants reported by media is usually decontextualized (Marletti 1995; Faso 2008; Ghirelli
2005, Maneri 2001; Musarò, Parmiggiani 2014), worsening this state of affairs. Media do not
encourage the audience to give evaluations about specific topics, thus framing an agenda of issues
to reflect on, so that the presentation of a topic does not cause prejudice or influence a course of
action, but favour its contextualization (Shaw 1979). Consequently, the complex phenomenon of
migration is concealed in many degrees and ways by the Italian media system.
Starting from this assumption, we argue that these kinds of representation do not allow the
audience to understand the complexity of the question, indeed feeding populism and influencing
European and national policies to manage migration. In particular, emotional representations
conceal the central issue of the potential breaking of fundamental rights claimed in the European
Union Charter of Fundamental Rights (Ambrosini, 2015).
This paper thus aims to analyse the migration issue within the theoretical framework of the
European public sphere (Koopmans, Statham 2010; Risse, 2014) and of the transformation of public
sphere in the digital era (Dahlgren, 2005). The two frameworks are intertwined, as the Internet, and
social networks in particular, reflect this simplification in the process of understanding what is
behind the phenomenon of migration. Recent surveys (e.g. Poll Demos-Coop, 2015; Pew Research
Center, 2015) illustrate the contrast between opportunities (e.g. in education) and risks (e.g. in the
loosening of individual morality) on the web. As a consequence, the ensuing relational environment
is more conceived as a closed circle that excludes those who do not conform and/or belong. We will
conclude our discussion by outlining how individuals build their self-representations by following
frames, images, posts, messages, while trying to reproduce reality at the same time.
Introduzione
L’enorme aumento dei flussi migratori verso l’Europa dagli ultimi mesi del 2013 ha fatto
entrare il tema delle migrazioni nel dibattito pubblico attraverso il frame della crisi e
dell’emergenza. Gli spostamenti di persone verso le zone del mondo, come i Paesi europei, con più
alti standard di benessere e sicurezza, non sono certo una novità, tanto che, insieme ai problemi
economici, quelli riconducibili alle migrazioni possono essere considerati, “l’altra crisi” dell’Europa,
e persino il suo “problema cronico più importante” (Giddens, 2014: 123). Tuttavia, in un contesto
già segnato da paure, incertezze e sfiducia da parte dei cittadini verso le istituzioni innescato dalla
lunga crisi economico-finanziaria, l’aumento dei flussi migratori ha attivato un dibattito pubblico
intorno ad alcuni elementi portanti dell’Unione europea e reazioni di contrasto che finiscono per
mettere in discussione aspetti centrali del processo d’integrazione, dal trattato di Schengen ai diritti
previsti dalla Carta dei diritti fondamentali.
La crisi legata alla gestione dei flussi migratori intercetta le questioni del multiculturalismo –
che risente del problema del terrorismo di matrice islamico-fondamentalista − e della solidarietà
sociale – che risente dell’indebolimento del sistema di welfare – e finisce per rappresentare
un’importante sfida ai valori e ai principi fondanti del progetto d’integrazione europea. L’esigenza
di affrontare le migrazioni forzate in un’ottica europea e non esclusivamente nazionale apre alla
consapevolezza della reciproca interdipendenza: sono sempre più numerose le persone che si
rendono conto di vivere in un contesto d’integrazione di fatto, tuttavia, la mancata formazione di
una preesistente «solidarietà tra estranei» (Habermas, 1999) non facilità il percorso di soluzioni
comuni.
La rappresentazione dei flussi migratori che emerge attraverso i media contribuisce
all’articolazione delle dinamiche d’opinione finendo per diventare un importante fattore implicato
nelle politiche d’intervento.
Il contributo si propone di riflettere criticamente su come da una parte tali rappresentazioni
rischino di non permettere ai pubblici di comprendere la complessità della questione – alimentando
invece il populismo – dall’altra s’interroga sul rischio che le narrazioni mediali influenzino
negativamente le politiche europee e nazionali sulla migrazione.
La crisi dell’Unione europea e la sfida delle migrazioni
Il tema delle migrazioni intercetta una questione cruciale e non risolta del processo
d’integrazione europea: cioè come deve essere intesa e come vada costruita un’identità collettiva
che possa dirsi europea. Affrontare le migrazioni obbliga a riflettere sulle questioni dei confini
(dentro/fuori) e del rapporto con l’altro (noi/loro), per cui non significa solamente stabilire come
gestire l’ennesima “emergenza” ma decidere quale Unione europea si vuole costruire, quali sono le
sue finalità, qual è la sua collocazione nell’era della globalizzazione e della società cosmopolita
(Parito, 2012). Le migrazioni contribuiscono ad erodere le tradizionali frontiere tra le lingue, le
culture, i gruppi etnici e gli Stati nazione; sfidando l’identità nazionale e l’autonomia delle
istituzioni politiche contribuiscono al declino della sovranità dello stato-nazione (Castels, 2009). I
Paesi che con più forza pongono la cultura comune alla base del mito di costruzione della nazione
hanno più difficoltà ad affrontare le migrazioni.
La Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea stabilisce un sistema di diritti e principi
e allo stesso tempo definisce un nucleo valoriale e simbolico che qualifica l’identità dell’Unione e
la sua posizione nello scenario geopolitico globale. Il Preambolo recita che «l’unione si fonda sui
valori indivisibili e universali di libertà, di dignità umana, di uguaglianza e di solidarietà», inoltre,
«il godimento di questi diritti fa sorgere responsabilità e doveri nei confronti degli altri come pure
della comunità umana e delle generazioni future». Anche la Commissione europea è intervenuta con
una Comunicazione del 19 ottobre 2010 (COM/2010/573) affermando che «l’azione dell’Unione in
materia di diritti fondamentali si estende al di là delle politiche interne» e la Carta si applica anche
alla sua «azione esterna». Si tratta di un riconoscimento che riformula il modo d’interpretare le
migrazioni nella misura in cui come scrive Rodotà (2012: 28): «è davvero nato un altro luogo, si è
creato un altro spazio, un’altra idea di confine è emersa, spaziale e temporale». L’esplicito
riferimento agli “altri”, alla “comunità umana” nel suo insieme e alla rilevanza “esterna” della sua
azione amplia la responsabilità dell’Unione oltre i suoi confini: «l’ampliarsi degli orizzonti è
coerente con una proiezione cosmopolitica della solidarietà, di cui possono cominciare a saggiarsi la
consistenza e le concrete opportunità che essa offre all’universalismo. Il tema dei migranti riguarda
immediatamente le modalità di produzione di solidarietà nei loro confronti, che può essere
considerata più largamente nelle prospettiva del diritto delle persone alla libera circolazione»
(Rodotà, 2016: 91).
Tuttavia, l’aumento dei flussi migratori verso le sponde mediterranee dell’Unione dalla fine
del 2013 ha innescato un dibattito pubblico e anche una gestione dei flussi migratori che vanno
spesso in direzione contraria. La focalizzazione sui respingimenti dei migranti ha aperto una frattura
tra riconoscimento dei diritti fondamentali all’interno dei confini della “Fortezza Europa” e
all’esterno di essa, palesando le contraddizioni tra enunciazioni e prassi, tra l’Unione progettata e
l’Unione reale. Le barriere di contenimento che alcuni governi hanno eretto tra i confini di Ungheria,
Bulgaria, Serbia, Slovenia, Macedonia, Austria per impedire la mobilità dei profughi lungo la rotta
dei Balcani e la discussione animata sulla sospensione dello spazio Schengen hanno finito non solo
col negare il riconoscimento dei diritti fondamentali a chi non è cittadino europeo ma anche per
mettere in discussione quel principio di libera circolazione tra gli Stati membri che è centrale nel
progetto di Europa unita.
La natura del fenomeno migratorio verso i Paesi europei è mutato nel tempo assumendo
forme peculiari in relazione alle caratteristiche delle persone che sono arrivate e alle motivazioni
che le hanno spinte al trasferimento ma anche come conseguenza dell’ubiquità garantita dalla
diffusione delle tecnologie mediali (Giddens, 2014). I flussi di persone sono un fenomeno rilevante
della globalizzazione e della modernità che s’intreccia anche alle opportunità e alle aspettative
promosse dalla contemporanea circolazione dei flussi simbolici (Appadurai, 1996). Tanto che
l’intersezione di culture, sistemi valoriali, stili di vita diventa esperienza che sempre più persone
vivono quotidianamente, dando luogo a forme di dislocazione imprevedibili.
Per i fini di questo articolo, è utile sottolineare che la definizione e le classificazioni delle
migrazioni non rispondono a criteri oggettivi ma sono costruzioni sociali: «esse sono il risultato
delle politiche statali, introdotte in risposta agli obiettivi economici e politici e agli atteggiamenti
pubblici» (Castels, 2009: 45). L’interpretazione del fenomeno migratorio rispecchia il sistema delle
aspettative e degli interessi delle società di destinazione, che stabiliscono chi rientra in questa
categoria di persone e con quale forma di riconoscimento, desiderabilità, tutela (dal lavoratore
stagionale, all’immigrato irregolare al rifugiato).
In questo processo di costruzione sociale delle migrazioni il sistema dei media ha un ruolo
rilevante, contribuendo a formare la rappresentazione pubblica dell’”altro” e l’agenda dei temi e dei
problemi avvertiti dai cittadini e posti all’attenzione dei decisori pubblici. Il sistema dei media e gli
attori politici partecipano al processo di costruzione sociale del migrante dando origine a forme di
etichettamento (extracomunitario, profugo, clandestino, ecc.) che condizionano la percezione dei
cittadini sui migranti.
Anche il concetto di mobilità ha una connotazione marcatamente costruttiva: «definire un
movimento richiede di tracciare una riga e convenire che essa è stata attraversata. Dove tale linea
venga tracciata geograficamente e amministrativamente è sostanzialmente una costruzione sociale e
politica» (Massey, 2002: 47). Il diritto ad attraversare questa linea è in genere stabilito e dagli Stati,
con forme di regolamentazione variabili che rendono il diritto di migrare uno dei meno equamente
distribuiti tra le diverse zone del mondo (Wihtol de Wenden, 2015). L’integrazione europea ha
definito uno scenario innovativo e al contempo contradditorio. Il progetto di Europa unita ha reso
liquidi i confini tra gli Stati che partecipano alla sua formazione, tanto da permettere l’annessione di
Paesi con storie e culture differenti e da incoraggiare la mobilità dei cittadini degli Stati membri. Il
trattato Schengen ha creato uno spazio unico di circolazione, rimuovendo frontiere e barriere e
stimolando attivamente la circolazione transnazionale dei cittadini. Ma il controllo dei confini viene
spostato, mantenuto verso l’esterno e difeso in modo rigoroso: «lo si può definire il paradosso
dell’Europa dei confini mobili: mentre i confini tra l’Europa e la non-Europa vengono resi mobili
come in nessun altro continente del mondo, come una vera e propria novità della storia mondiale,
nello stesso tempo per assicurare i confini l’integrazione sociale viene per così dire riontologizzata e
trasformata in una modalità di esclusione» (Beck e Grande, 2004: 228).
I movimenti di persone verso le zone del mondo con più alti standard di benessere e sicurezza
costituiscono una delle dimensioni centrali della globalizzazione e le modalità attraverso cui si
articolano questi flussi sono legate ai cambiamenti geopolitici, demografici, ambientali, economici,
sociali, culturali. La circolazione dei flussi simbolici agevolata dai media elettronici (Appadurai,
1996), prima, e dalle tecnologie digitali e interattive, poi, influenza la configurazione dei flussi
migratori incidendo sulle rappresentazioni delle diverse parti del mondo e del sé, sul sistema delle
aspettative e delle opportunità. Il profilo delle persone che negli ultimi venticinque anni si sono
spostate verso gli Stati europei è, dunque, mutato: prima sono arrivati migranti in cerca di lavoro,
poi sono arrivati i familiari e i bambini per i ricongiungimenti, più di recente sono aumentati
studenti e soprattutto richiedenti asilo (Wihtol de Wenden, 2015).
Da una prospettiva di tipo economico, le analisi sulle cause delle migrazioni internazionali e
sull’impatto verso i Paesi ricchi ipotizzano un aumento dei flussi a causa della divaricazione dei
redditi tuttavia i dati che illustrano la situazione degli spostamenti degli ultimi anni sembrano
suggerire uno scenario differente. Negli ultimi 6 anni sono scoppiati o riesplosi 15 conflitti, di cui 8
in Africa, causando milioni di profughi che, in parte, fuggono verso l’Europa. Il rapporto Unchr
sulla situazione del 2014 rileva che i rifugiati nel mondo sono stati 59,5 milioni, la cifra più alta da
quando l’Onu raccoglie i dati e con un incremento in un solo anno che è stato il maggiore mai
registrato. I dati disponibili, fino a giugno 2015, rilevano una tendenza della medesima portata. Il
World Populations Prospect 1 aggiornato delle Nazione Unite, che analizza la situazione fino al
2015, rileva che le asimmetrie demografiche tra i Paesi continueranno, probabilmente, a generare le
migrazioni internazionali ma i movimenti di rifugiati stanno influenzando profondamente i livelli di
migrazione affrontati da alcuni Paesi, in particolare quelli coinvolti dalla crisi della Siria.
1
http://esa.un.org/unpd/wpp/
Le stime dell’Unchr che riguardano la situazione relativa all’Europa segnalano un aumento
fortissimo dei profughi negli ultimi anni. Gli arrivi via mare nel 2015 sono stati 1.015.078 a cui si
aggiungono 3.771 morti o dispersi. Nei primi mesi del 2016 (fino a marzo), nonostante le
condizioni metereologiche in questo periodo generalmente scoraggino i difficili viaggi, sono stati
rilevati 171.132 arrivi, oltre 7 volte in più dell’anno precedente. Si tratta di un incremento senza
precedenti: che giustifica un’attenzione straordinaria e una considerazione della questione in quanto
“emergenza”; che innesca da parte di attori politico-istituzionali e cittadini valutazioni di segno
opposto, spostando l’attenzione o sugli aspetti umanitari o sulla paura dello straniero. Il confronto
con le cifre degli anni precedenti, segnala con impressionante chiarezza le dimensioni del
fenomeno: considerando un arco di tempo che parte dal 2008, il numero più alto di arrivi si era
avuto nel 2011 (70.412) quello più basso nel 2010 (9.654). Nel 2014 sono stati registrati 216.054
arrivi, un dato quadruplicato rispetto all’anno precedente, che aveva già fatto accendere l’attenzione
soprattutto di fronte alla tragedia dei 3.500 morti o dispersi durante la traversata in mare.
Di fronte all’impatto dovuto al flusso eccezionale di arrivi via mare, la reazione dell’Unione
europea e degli Stati membri è stata senza dubbio lenta, spesso insufficiente, caratterizzata da un
insieme di ambiguità e contraddizioni che derivano dal modo in cui è avvenuto il processo di
comunitarizzazione delle politiche migratorie. Fino alla fine degli anni ’90 del secolo scorso, infatti,
le politiche europee sull’immigrazione si sono basate sull’idea “fortezza Europea” e sul tentativo di
contenimento dei flussi (Zanfrini, 2007).
Il modo in cui gli arrivi sono stati gestiti negli ultimi anni sembra più un tentativo dei governi
di contenere le pubbliche opinioni nazionali che volontà di agire efficacemente. Tanto più se si
aggiunge che l’eccezionale numero di arrivi via mare non significa un aumento complessivo delle
migrazioni verso l’Europa: il World Populations Prospect2 delle Nazioni Unite stima nel periodo
2010-2015 un flusso migratorio che è meno della metà (4.123.000) di quello dei cinque anni
precedenti (8.495.000). L’atteggiamento delle istituzioni europee e di quelle degli Stati rimanda,
inoltre, alla riproposizione di un atteggiamento già emerso rispetto alla crisi economico-finanziaria
e stigmatizzato (Beck 2012a, 2012b; Hebermas 2012, 2014) per essere caratterizzato dal “decidere
di non decidere” e dalla tendenza a fronteggiare solo alcuni episodi o singoli aspetti di un problema
sul quale si riesce a negoziare un accordo, senza risolvere il problema complessivo. Per le politiche
migratorie si ripropone la questione del rapporto tra la struttura sovranazionale e le resistenze degli
Stati membri che cercano di mantenere la sovranità soprattutto su questioni sensibili che
coinvolgono l’opinione pubblica. Si aggiunge il rapporto conflittuale tra governi con interessi e
visioni divergenti sulle modalità di interpretare l’integrazione europea e quindi gestire di
2
http://esa.un.org/unpd/wpp/
conseguenza i flussi migratori. Come nota Sayad, (2002) le categorie nazionali, o alcune volte
addirittura nazionaliste, che caratterizzano il «pensiero Stato» e un modo sociale, economico,
culturale e politico di pensare l’immigrazione portano a vedere l’immigrato come un intruso che
turba l’ordine sociale confondendo la separazione tra ciò che è nazionale e ciò che non lo è e
intaccando l’integrità, la purezza e la perfezione mitica di tale ordine.
Tra insicurezza e diffidenza
Soprattutto nelle situazioni d’incertezza possono acuirsi i ripiegamenti identitari localistici e
nazionalistici in particolare da parte di quei segmenti di cittadini che sentono più minacciati i propri
stili di vita. Nei periodi di crisi della democrazia, notava Eugen Weber più di dieci anni fa,
«l’insoddisfazione e la paura diffusa possono concentrarsi sugli Altri che vengono accusati di
togliere alla gente del posto il lavoro, il pane di bocca, la sicurezza delle strade del denaro versato
con le tasse. In periodi simili i vicini diventano nemici e il nazionalismo occasionale si trasforma
nella xenofobia del noi contro loro (…) I diritti dell’uomo sono soltanto quelli che qualcuno
concede a qualcun altro (…) La democrazia esprime spesso i pregiudizi della maggioranza e non
solo i suoi sentimenti e le aspirazioni migliori» (Weber, 2013: 3-4).
Lo sguardo attraverso il quale si osservano i migranti è quello di un “noi” che definisce
“l’altro”, comportando spesso un’interpretazione del fenomeno in quanto problema. Soprattutto nei
periodi di maggior malessere, sui migranti, non solo, si proiettano insofferenza e disagio, ma si
finisce spesso per compattare la comunità contro una minaccia che proviene dall’esterno (Dal Lago,
1999). È una situazione che si presta facilmente a legarsi con le forme di nazional-populismo
dilaganti in Europa, ponendo la questione delle fratture etnico-culturali accanto a quelle politicocivili (Martinelli, 2013). Dopo la pesante crisi economico-finanziaria che ha inciso sulla vita
quotidiana delle persone minacciando stili di vita e aspettative di benessere, il migrante è diventato
un’altra fonte di tensioni.
In molti Paesi l’immigrazione è tra le principali preoccupazioni dei cittadini. Secondo la
rilevazione Eurobarometro effettuata a settembre 2015, rappresenta, subito dopo la disoccupazione
(49%), la maggiore sfida che l’Unione deve affrontare, interessando complessivamente il 47% degli
intervistati. Il confronto con i dati di giugni 2013 mostra la portata della percezione del problema: si
è registrato, infatti, un incremento del 33%. In due anni, i temi della “disoccupazione”, delle
“ineguaglianze sociali”, del “debito pubblico”, dell’“accesso al lavoro per i giovani”, dello
“sviluppo insufficiente” subiscono tutti una diminuzione d’interesse, salgano significativamente
solo “immigrazione” e “terrorismo” che, con un incremento del 15%, è tema cardine per il 26% del
campione. È interessante notare che il tema dell’immigrazione, nel 2015, è indicato dai greci (43%)
al di sotto della media europea e con un incremento rispetto al 2013 più contenuto (25%) nonostante
la Grecia sia il Paese in cui è più elevato il numero di arrivi di migranti o rifugiati. L’Italia, invece,
altro Paese che ha dovuto fronteggiare gli arrivi, ma in misura nettamente inferiore a quella della
Grecia, è il secondo in cui l’immigrazione è più sentita (67%) con un balzo enorme rispetto alla
rilevazione precedente che aveva registrato il 10%.
Secondo Bauman (2015), nella società liquida, flagellata dalla paura del fallimento e di
perdere il proprio posto nella società, i migranti rappresentano delle «vittime collaterali» delle forze
della globalizzazione che, una volta trasformati in nomadi senza casa, portano allo scoperto la verità
della fragilità del nostro comfort e della sicurezza del nostro posto del mondo: la colpa principale,
realmente imperdonabile dei migranti è di rappresentare delle «walking dystopias».
La percezione delle opinioni pubbliche nazionali sulla portata e l’impatto delle migrazioni
costituisce un vincolo imprescindibile di cui i governi e gli attori politici devono tener conto per
definire le politiche d’intervento. Gli attori politici e istituzionali nazionali si trovano a intervenire
nel processo negoziale tra di loro e con le istituzioni europee con la costante attenzione alle
esigenze di consenso dei propri elettorati, con il rischio che tra ripiegamenti nazionalistici, paure e
insicurezze dei cittadini, crescita dei partiti e dei movimenti nazional-populistici le politiche e gli
interventi finiscano per essere divergenti rispetto al sistema dei principi e dei diritti definiti dalla
Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e dal trattato di Lisbona.
Il clima di paura e incertezza erode la credibilità dei rifugiati. Se era facile essere solidali
verso i dissidenti dei regimi oppressivi del recente passato, lo stesso sostegno non è riservato a chi
fugge dalla guerra in Siria: «chi chiede protezione è una persona sospetta, colpevole fino a prova
contraria di cercare di entrare nel Nord globale per la porta di servizio della protezione umanitaria.
Anche quando prevalgono le ragioni dell’apertura, non si accolgono più eroici oppositori politici di
regimi oppressivi, bensì persone considerate vittime traumatizzate. La vittimizzazione erode i diritti
delle persone accolte (…) Il trattamento dei profughi da parte delle società che aspirano a un certo
standard di democrazia oscilla tra repressione e compassione» (Ambrosini, 2015).
La marginalità rappresentata: il caso italiano
Le ricerche compiute in Italia non lasciano dubbi circa il ritratto fornito dell’immigrazione
(Belluati, Grossi, Viglongo, 1995; Faso, 2008; Ghirelli, 2005, Brighenti, 2006; Maneri, 2012). Lo
sguardo dei migranti è quasi totalmente assente, schiacciato da una tematizzazione ricollegabile ai
concetti di legalità, devianza, sicurezza, criminalità, clandestinità.
[…] termini come emergenza, invasione, sbarchi, criminalità, disperazione e terrorismo si ritrovano costantemente in
relazione all’immigrazione. I vocaboli usati fanno riferimento sia al linguaggio militare e “poliziesco” (blitz, lotta,
intervento, sgomberi, perquisizioni) che a un’immagine “idraulica” delle migrazioni (flusso, ondata). Questi variano
anche a seconda delle tematiche trattate: se quando si parla di arrivi e sbarchi ricorre il termine clandestino, sul “fronte
interno” molti sono i richiami alla devianza e alla marginalità sociale (droga, prostituzione, sicurezza, sovraffollamento,
ghetto, degrado) (Solano, 2014: 112).
Toni apocalittici da cui derivano ingiustificate ansie e un clima politico e sociale che si
traduce in insofferenza per lo straniero. Maneri (2001), ad esempio, sviscera nelle sue ricerche le
attivazioni mediatiche che assumono il carattere di panico morale, ovvero di ondate emotive nelle
quali un episodio o un gruppo di persone – gli immigrati, in questo caso - viene definito come
minaccia per i valori di una società. Le cosiddette tragedie del Mediterraneo e gli sbarchi sulle coste
italiane hanno catalizzato l’attenzione dei media, dell’opinione pubblica alimentando un’immagine
distorta dei nuovi arrivi.
Il monitoraggio di Solano (2014) sulle notizie riguardanti l’immigrazione pubblicate sul sito
dell’Ansa - la principale agenzia di stampa italiana - nel 2010, mostra che l’argomento che ricorre
maggiormente è “arrivi e sbarchi” (20,8% del totale), seguito da “crimini immigrati” (18,2%).
I temi che possono essere recepiti dall’opinione pubblica in senso negativo (“arrivi e sbarchi”,
“rivolte immigrati”, “crimini immigrati soggetti attivi” ed “espulsioni e clandestinità”), nei quali
viene cioè suggerita in maniera implicita una visione dell’immigrazione come pericolosa e
problematica sono pari al 51,7% delle notizie totali, senza contare le dichiarazioni e le notizie che
trattano di argomenti politici e che spesso danno una visione allarmistica del fenomeno. Per quanto
riguarda ciò che accade quando gli stranieri sono già dentro i confini nazionali, la dimensione
dell’emergenza viene declinata nei termini della problematicità (criminalità, marginalità sociale,
degrado).
La problematicità dell’interazione tra media e immigrazione emerge in Italia con tutta la sua
forza nella primavera del 1997: per la prima volta l’“emergenza albanesi” si sente risuonare di
medium in medium come una eco che si auto-alimenta. I media nazionali iniziano a descrivere
un’“invasione” che mette a serio rischio l’ordine pubblico; si alimenta l’emotività nei confronti dei
reati e dei problemi connessi alla presenza albanese (Carzo e Centorrino, 2009). Il ruolo di tv, radio
e stampa diviene decisivo nell’organizzare una percezione negativa del fenomeno. La violenza e la
miseria rappresentate generano angoscia, paura e il timore di vedere il proprio mondo sconvolto. E
allora svanisce la pietas lasciando il posto all’indifferenza e al rifiuto nei confronti degli immigrati
(Cava, 2011) .
Da quel lontano 1997 poco è cambiato. Gariglio, Pogliano e Zanini (2010) ricostruiscono
trent’anni di storia del nostro immaginario attraverso l’analisi della rappresentazione fotogiornalistica dell’immigrazione. Ne emerge un quadro sconfortante: negli anni Ottanta si raccontava
con compassione la vita di lavoratori poverissimi; negli anni Novanta si passa ai spettacolari arrivi
di massa descritti con i toni della disperazione e della minaccia; il nuovo millennio, poi, dovrebbe
iniziare a narrare percorsi di integrazione, ma la “normalità” dell’immigrazione non fa notizia e si
continuano a preferire icone estreme che associno all’immigrato l’etichetta di vittima o di
delinquente ed il processo di stereotipizzazione continua a nutrirsi di repertori di immagini sempre
uguali a se stesse. Anzi, la crescita di persone di religioni diverse o l’aumento di minori di origine
straniera nelle scuole sembra aver amplificato paure, pericoli e problemi da risolvere. Agli stessi
risultati giunge la ricerca nazionale su immigrazione e asilo nei media italiani diretta da Morcellini
(2009): l’immagine dell’immigrazione fornita dai mezzi di informazione appare come congelata ed
immobile, ancorata sempre agli stessi stili narrativi.
La disperazione e la miseria assoluta sembrano essere, pertanto, l’icona dell’immigrazione
(Binotto e Martino, 2004) e questo tipo di retorica visiva fatta di uomini e donne sempre al margine,
cui sembra essere continuamente negato il riconoscimento di ogni tipo di diritto umano, rischia di
produrre scorciatoie cognitive che danneggiano le vite migranti (Pogliano e Solaroli, 2012).
Si sa che i discorsi dei media possiedono la capacità di creare fascinazione, attese e credenze
rispetto ai temi cui decidono di dedicarsi.
Rispetto all’immigrazione, linguaggi e contenuti inadeguati definiscono in Italia uno scenario
piuttosto controverso. I media, del resto, non spingono ad assegnare giudizi di valore su determinati
argomenti, ma forniscono l’agenda dei temi sui quali verranno poi espresse valutazioni dei
contenuti (Shaw, 1979).
L’Istituto Nazionale di Statistica nel 2012 in un rapporto sui migranti nel vissuto degli italiani
rileva come il 60% degli intervistati pensi che l’atteggiamento degli italiani verso gli immigrati sia
diffidente, quando non apertamente ostile (7%) o indifferente (16%). Non stupisce, dunque, che la
maggior parte degli intervistati ritenga effettivamente difficile per un immigrato l’inserimento nella
nostra società (80,8%), addirittura il 2,4% lo ritiene impossibile e solo il 16,8% facile. La tendenza
ad essere sospettosi e maldisposti non è però unilaterale, dal momento che anche l’atteggiamento
degli immigrati nei confronti degli italiani è prevalentemente descritto come diffidente (53,2%),
indifferente (20,9%) o apertamente ostile (9,6%).
Sono molti gli italiani che associano alla presenza di immigrati in Italia un peggioramento di
alcuni aspetti della qualità della vita, come il degrado del proprio quartiere di residenza (79%),
l’incremento di attività illegali/criminali (72,3%) e dei problemi di ordine pubblico e violenza
(48,4%). Il 65,2% degli intervistati ritiene che gli immigrati che vivono oggi in Italia sono troppi,
oltre il 40% ritiene che distolgano l’attenzione dei politici dai problemi degli italiani e valuta
negativamente l’impatto che l’arrivo di sempre nuovi immigrati ha sugli equilibri demografici del
nostro paese. Per quanto riguarda gli aspetti religiosi circa il 40% si dichiara molto (17,8%) o
abbastanza d’accordo (22,9%) nel ritenere un pericolo la convivenza nel nostro Paese di credi
religiosi diversi. All’incirca una stessa percentuale (41,1%) si dichiara contrario all’apertura di una
moschea vicino casa. Le conseguenze che preoccupano di più gli italiani che esprimono una
posizione contraria riguardano soprattutto i problemi di sicurezza e di ordine pubblico che ne
conseguirebbero (28,3%): inoltre, tale opinione riflette una sorta di rivalsa nei confronti dei
“musulmani che sono intolleranti e non consentirebbero la costruzione di una chiesa cattolica nel
loro Paese” (26,6%). Al terzo e al quarto posto si collocano il possibile incremento di immigrati
nella zona (18,3%) a seguito dell’apertura della moschea e, più in generale, la perdita di identità del
nostro Paese che è un paese cattolico, cosicché “gli immigrati devono uniformarsi alla nostra
religione” (16,3%), seguiti da una generica insofferenza per culture diverse, espressa
dall’affermazione “la loro religione e cultura sono diverse dalla nostra” (7,8%). Infine, è stata
rilevata anche l’opinione degli intervistati in merito all’usanza delle donne musulmane di usare abiti
che coprono il volto per motivi religiosi: una grande maggioranza di rispondenti ritiene che in Italia
non debba essere loro permesso di farlo (80,7%). Un non trascurabile 19,2%, tuttavia, ritiene che
debba essere permesso l’uso del velo anche in Italia.
Questi dati raccontano come troppo spesso quando si parla d’immigrazione si perdono di vista
la storia e le reali dinamiche di un fenomeno così strutturale per l’economia e la costruzione politica
europea, preferendo una ricostruzione dal forte impatto emotivo. L’immigrazione non è più così un
dato geo-politico su cui riflettere ma solo un problema da contrastare puntando quindi sulle paure
dell’invasione e del degrado.
Questo aspetto è oggi determinante più che mai alla luce della sempre più stretta associazione
simbolica tra immigrazione ed insicurezza rispetto all’attenzione che i media danno al
fondamentalismo islamico.
Tali pratiche discorsive finiscono per influenzare le prassi con cui i pubblici si relazionano
alla sofferenza, altro aspetto che come abbiamo visto connota l’identikit dell’ “immigrato
mediatico” ritratto in maniera pietistica. Una disperazione fatta di violazioni dei diritti umani, di
povertà estrema. La marginalizzazione di questi reietti trova nei centri di accoglienza,
d’identificazione o di espulsione lo spazio di rappresentazione prediletto dai media italiani.
Questa costruzione emotiva definisce l’interazione tra migranti e società ospiti. Un bel saggio
di Musarò (2014) indagando il naufragio della notte tra il 2 ed il 3 ottobre del 2013 al largo di
Lampedusa in cui più di 360 persone hanno perso la vita, s’interroga proprio sulle leve cognitive ed
emotive che hanno indotto in quell’occasione l’opinione pubblica, i media e le istituzioni come la
UE o il Governo italiano ad invocare il rispetto dei diritti umani e contemporaneamente
l’inasprimento della legislazione sull’immigrazione sino a criminalizzare gli “irregolari”. Un
cortocircuito, insomma, tra compassione e pulsione securitaria. Proprio su questi temi Cuttitta
evidenzia le narrative prevalenti che oscillano tra la retorica securitaria e quella umanitaria
descrivendo come un’isola – Lampedusa – possa essere trasformata in confine e questo confine in
ribalta: s’interfacciano in questo caso due processi: la frontierizzazione e la spettacolarizzazione. In
effetti, l’isola di Lampedusa appare da tempo nell’immaginario tanto italiano quanto europeo
proprio l’incarnazione dell’idea di confine.
[…] se solo si prova a elencare le questioni principali che, negli ultimi decenni, hanno animato il dibattito in materia di
controllo dell’immigrazione e delle frontiere (sia sul fronte accademico, sia su quello politico), appare evidente che
Lampedusa è un osservatorio più che privilegiato dei fenomeni in questione. Che si tratti di valutare il volume effettivo
dell’immigrazione irregolare via mare o il numero di persone morte nel tentativo di attraversare le frontiere europee;
che si tratti di studiare le mutevoli rotte dei viaggi clandestini o gli sviluppi della collaborazione tra paesi di
destinazione, paesi di origine e paesi di transito nel controllo dei movimenti migratori; che si tratti di verificare la
rispondenza delle politiche di controllo agli obblighi in materia di diritti umani o di mettere in luce la soggettività dei
migranti; che si voglia analizzare le pratiche in materia di asilo e protezione umanitaria o la natura e le funzioni dei
centri di detenzione; che si affronti il tema della criminalizzazione dell’immigrazione clandestina o quello della multilevel governance delle migrazioni: qualunque prospettiva si adotti, Lampedusa appare come un campo di ricerca ideale
per osservare l’incrocio (e le dinamiche che da tale incrocio scaturiscono) tra quei due fenomeni speculari che sono le
migrazioni, da un lato, e il controllo delle frontiere territoriali, dall’altro (Cuttitta, 2012 : 187).
Negli ultimi anni il “frame emergenziale” si è spostato quindi dalla criminalità comune alla
spettacolarizzazione delle politiche di controllo alle frontiere e alla drammatizzazione del
terrorismo islamico.
I caratteri dell’eccezionalità che fino a questo momento hanno caratterizzato il racconto delle
vite degli immigrati diventano la quotidianità della rappresentazione generando quella che
potremmo definire un’estetica della pietà (Chouliaraki, 2006). Ed un’estetica della pietà non può
che produrre pubblici sentimentali ormai abituati a questa “iper-visibilità del dolore”. Dal Lago
(2012) ci invita a contestualizzare il comportamento di chi assiste allo spettacolo del dolore.
Tracciando un percorso che mette ordine nelle modulazioni subite dallo sguardo di fronte alle
atrocità nel corso della storia, giunge a definire l’indifferenza dei pubblici contemporanei verso la
crudeltà.
Deontologia dei media
Alla luce di quanto finora descritto i termini che ricorrono con insistente frequenza nella
definizione del frame sull’immigrazione sono ancora: emergenza, crisi umanitaria, criminalità,
terrorismo. Tutti questi elementi sono tasselli che entrano nella identificazione di un frame che ha
preso il sopravvento nella percezione del pubblico europeo, la paura. In tale contesto il recupero del
ruolo centrale del sistema informativo, del suo esercizio di mediazione e interpretazione del fatto è
divenuta un’urgente necessità.
L’avvento del Web e la radicale trasformazione dei flussi comunicativi da lineari a reticolari è
ciò che ha messo in crisi il sistema dell’informazione istituzionale, che cerca costantemente di
rincorrere l’audience, di costruire la notizia sempre più marketing oriented piuttosto che factual
oriented. Così la crisi valoriale che ha investito la società nel suo complesso, sembra aver
contribuito a fragilizzare enormemente quell’identità collettiva europea alla quale si fa riferimento
nella prima parte di questo lavoro, ed è ciò che ha fatto emergere la connotazione fortemente
individualista e auto rappresentativa della società. Le istanze da collettive si trasformano in
individuali e pseudo corporative, dove con questo termine si intende richiamare alla visione di
Bauman del proprio “giardino sicuro” (Bauman, 2015: 86). L’imperativo di non essere esclusi
genera come conseguenza che la coscienza critica viene spesso sovrastata dal bisogno di essere
accettati e di poter vivere in uno stato di apparente sicurezza. Per questo la questione deontologica
deve avere un ruolo centrale nel racconto dell’immigrazione e del terrorismo.
Nel sistema italiano dei media – come abbiamo visto - la narrazione oscilla tra la contabilità
degli sbarchi e la rappresentazione di una società che affronta da anni una crisi economica che non
accenna a recedere e mostra le migliaia di migranti come potenziali concorrenti nell’accesso alle
poche risorse e servizi di un sistema di assistenza sociale sempre più debole.
Ora il compito primario del sistema d’informazione è quello di raccontare la realtà e non di
rendere reale ciò che appare verosimile, perché è proprio dal modo in cui la realtà viene interpretata
che dipende la capacità di ciascuno di comprendere gli eventi. A tale proposito Lippmann
sottolineava come la conoscenza sia frutto della ricerca individuale e della volontà di acquisire
informazioni.
La conoscenza non deve venire dalla coscienza, ma dall’ambiente con cui la coscienza ha che fare. Quando gli uomini
agiscono in base al principio della ricerca e della documentazione, vanno a cercare i fatti e a formarsi una loro saggezza.
Quando lo trascurano, rientrano in se stessi e trovano soltanto ciò che hanno dentro. E così elaborano i loro pregiudizi
invece di accrescere le loro conoscenze (Lippmann, 1922, tr.it. 1999: 395).
Nel momento in cui viene meno questo principio, il rischio manipolatorio diventa più
evidente, come sostiene Gili i media influenzano gli individui, il loro modo di interpretare la realtà e
di formarsi un’opinione: «La complessità dell’influenza dei media sta nel fatto che essi presentano
sempre – spesso in modo inestricabile – le due dimensioni della credibilità informativa e normativa:
da un lato ci informano sul mondo, dall’altra ci propongono sempre “visioni del mondo”, dei modi
di presentare e giudicare avvenimenti, persone, problemi» (Gili, 2001: 77-78).
E le possibilità di manipolare l’informazione sono diventate più sottili e difficili da
individuare perché basate spesso sull’immagine piuttosto che sulla parola, convinti che l’obiettivo
non menta si tende ad attribuire all’immagine una forza di veridicità che a volte non ha, perché la
stessa tecnologia che ci consente di accedere a migliaia di informazioni allo stesso modo permette
di manipolare l’immagine, di costruire una narrazione basata su di un immaginario realistico.
La migrazione ci mostra molteplici aspetti critici, un livello di complessità elevato della sua
narrazione, la sua stessa cronaca se non accurata e approfondita può generare visioni del mondo
alterate o parziali. Definire il quadro geopolitico, culturale, sociale è fondamentale così come l’uso
di una terminologia appropriata e corretta nei riguardi di individui e situazioni di evidente
drammaticità. Il sistema giornalistico italiano che è regolamentato da un Ordine che autorizza
all’esercizio della professione, nell’arco degli ultimi venti anni si è dotato di numerosi strumenti di
autoregolamentazione tesi a fornire un quadro di norme etiche a cui fare riferimento nella
costruzione dell’informazione. Uno degli ultimi codici sottoscritti in ordine temporale è la Carta di
Roma approvata nel 2007 con la quale si invita i giornalisti italiani a:
osservare la massima attenzione nel trattamento delle informazioni concernenti i richiedenti asilo, i rifugiati, le vittime
della tratta ed i migranti nel territorio della Repubblica Italiana ed altrove e in particolare a: a) adottare termini
giuridicamente appropriati sempre al fine di restituire al lettore ed all’utente la massima aderenza alla realtà dei fatti,
evitando l’uso di termini impropri; b) evitare la diffusione di informazioni imprecise […]; tutelare i richiedenti asilo, i
rifugiati, le vittime della tratta ed i migranti che scelgono di parlare con i giornalisti, adottando quelle accortezze in
merito all’identità ed all’immagine che non consentano l’identificazione della persona, onde evitare di esporla a
ritorsioni contro la stessa e i familiari […]; d) interpellare, quando ciò sia possibile, esperti ed organizzazioni
specializzate in materia, per poter fornire al pubblico l’informazione in un contesto chiaro e completo, che guardi anche
alle cause dei fenomeni.
La stesura di codici deontologici rappresenta, nell’intenzione dei promotori, una necessità
d’intervento per rispondere all’evoluzione del quadro sociale e culturale, oltre che normativo e
fornire ai professionisti strumenti e regole che consentano loro di gestire in modo corretto il
processo organizzativo, newsmaking, che sta alla base della produzione di informazione, al fine di
evitare distorsioni involontarie o manipolazioni. Proprio il carattere di notiziabilità, che tiene conto
di alcuni fattori come: la negatività e drammaticità dell’evento; la sua dimensione e il numero di
persone che coinvolge, sono alla base del modo in cui la notizia viene costruita e distribuita
attraverso i media. Questo processo che tende sempre di più alla spettacolarizzazione è ciò che ha
condotto tra gli altri ad una personalizzazione dei processi politici e sociali e ad una crescente
frammentazione della realtà rappresentata.
Nel processo produttivo dell’informazione il mondo deve essere trasformato per essere
adattato alla logica dei media e per rispondere al tempo stesso alle aspettative del pubblico. Così gli
eventi vengono de-contestualizzati, cioè rimossi dal contesto in cui sono accaduti, isolati dai loro
significati e dalle loro cause, per essere ri-contestualizzati arbitrariamente in un nuovo frame – il
formato dei media – sulla base di associazioni e relazioni ad essi del tutto estrinseche (Altheide,
1976, tr. it.: 24-28). Questa particolare struttura dell’informazione non solo non consente di
comprendere gli sviluppi degli avvenimenti, i loro antecedenti, i contesti, gli scenari che aprono, ma
impedisce anche di capirne la logica e la direzione (Gili, 2001: 191).
Il tema immigrazione innesta perfettamente nella tesi di Gili tanto che la stessa Associazione
Carta di Roma verifica con sistematicità i livelli dei applicazione delle regole in essa contenute e,
con il terzo Rapporto3 pubblicato nell’ottobre del 2015, delinea un quadro puntuale del modo in cui
la questione migratoria trova rappresentazione attraverso tv e carta stampata.
Un primo dato mostra il netto incremento delle notizie sul tema: i titoli dei quotidiani
subiscono un incremento dal 70 al 180%, del 250% nei telegiornali. Il dettaglio della ricerca
propone quindi un’analisi di dettaglio della carta stampata e dei telegiornali in prime time. In
particolare emerge come:
 Il 2015 rappresenta un anno significativo per la visibilità del tema dell’immigrazione: ben
1.452 titoli sulle prime pagine nei primi 10 mesi, e 3.437 notizie nei tg.
 Si è parlato del fenomeno migratorio con continuità durante tutto l’anno.
 In alcuni mesi è un tema mainstream, intorno al quale si sviluppa anche l’agenda politica,
interna e internazionale. Così come le voci della politica sono presenti nel 31% dei servizi
televisivi.
 È l’accoglienza il tema attorno al quale ruota la maggior parte della comunicazione
sull’immigrazione: oltre la metà dei titoli (55%) contiene un riferimento alla gestione (e
all’emergenza) degli arrivi di migranti e profughi sia per quanto riguarda la carta stampata che la
televisione.
 Nel corso del 2015 si segnala una diminuzione della visibilità della criminalità comune
associata all’immigrazione (presente nel 6% dei casi); si segnala invece un incremento di visibilità
del binomio terrorismo-immigrazione, binomio che peraltro rimanda a paure ancora più totalizzanti.
Mentre nei notiziari sono i rom che intervengono nel 65% dei casi in relazione a fatti di criminalità
e di ordine pubblico.
 L’enfasi narrativa in chiave emergenziale è correlata principalmente ai flussi migratori,
all’accoglienza nelle città italiane, agli eventuali rischi sanitari e al timore di attentati terroristici.
Stesso tono allarmistico e sensazionalistico viene proposto nelle immagini di degrado delle città.
3
Il rapporto è stato curato dall’Osservatorio di Pavia. L’Osservatorio fa parte dal 2010 - insieme a Demos&Pi e Fondazione Unipolis
- dell’Osservatorio europeo sulla Sicurezza.
 Il tono nei titoli è allarmistico nel 47% dei casi; in molti casi si tratta di evocazioni negative
(“l’invasione dei migranti”, il timore di attentati terroristici, i migranti nelle stazioni, i centri di
accoglienza al collasso), in altri, invece, si tematizza la preoccupazione per le tragedie e le
sofferenze di profughi e migranti (i naufragi nel racconto dei sopravvissuti, le fughe dalla guerra, lo
sfruttamento lavorativo in Italia, i soprusi e le violenze subite durante le traversate).
 È una comunicazione di “confine” in cui entrano in modo significativo - a differenza degli
anni precedenti - l’Unione europea e gli altri paesi europei: il muro in Ungheria, le “interminabili”
file alle frontiere, Calais, l’euro-tunnel e ancora i vertici politici e tutte le questioni legate alle
quote4.
Un aspetto particolarmente interessante dell’indagine ha riguardato l’analisi delle modalità di
applicazione dei principi deontologici che hanno portato all’individuazione di alcune aree di
«criticità – cattive pratiche – in ragione del riferimento esplicito (o implicito ma comprensibile)
all’alterità come minaccia, o alla chiusura/ rifiuto nei confronti della diversità.
Sono principalmente tre i frame critici emersi con maggiore intensità nei primi 10 mesi del
2015 in cui si sostanziano gli esempi di cattive pratiche del racconto giornalistico: i
migranti/profughi come minaccia alla sicurezza e all’ordine pubblico; i migranti/profughi come
minaccia al lavoro e all’economia; i migranti/profughi come minaccia alla cultura, all’identità e alla
religione. Sono cattive pratiche non (sol)tanto quando violano principi etici e normativi, ma anche
quando veicolano o rafforzano stereotipi nella rappresentazione dello “straniero” come diverso, non
integrabile e dunque pericoloso5».
Proprio l’identificazione di queste aree di criticità è ciò che fa emergere come alla quantità
d’informazione confluita attraverso i media italiani non abbia corrisposto un uguale livello
qualititativo. Un elemento particolarmente negativo, che a sua volta ha generato delle conseguenze
dirette sulla capacità di comprensione da parte del pubblico e del livello medio di conoscenza
all’interno della società italiana. Un dato che si evidenzia nell’indagine condotta da Ipsos –MORI
sulla percezione dei pericoli in 33 paesi nel mondo e che vede gli italiani nella top ten dei cittadini
più ignoranti, con percezioni falsate o inesatte su alcuni temi chiave6.
Il ritratto dei media che scaturisce dalle indagini e l’impatto che essi hanno sul pubblico ci
mostra un forte indebolimento della capacità d’informare e fornire strumenti d’interpretazione della
realtà. Questo si riverbera naturalmente sui social che diventano cassa di risonanza di paure ed
emozioni piuttosto che di riflessioni e proposte.
4
Fonte: Terzo Rapporto Carta di Roma: 12-30.
Ibidem: 34.
6
Ipsos MORI, Perils of Perception 2015, December 2015.
5
I social network
Nel precedente paragrafo si è fatto riferimento al ruolo primario dell’immaginario nel vissuto
quotidiano e collettivo. Ebbene proprio l’immaginario veicolato attraverso i media rappresenta
l’elemento più critico affinché Internet si concretizzi come una risorsa per la comprensione del
fenomeno migratorio. Le connessioni hanno trasformato gli individui da semplici fruitori di
contenuti in generatori di contenuti, seppure questo avviene nella maggior parte dei casi non
avviene attraverso un atto di creazione originale, quanto piuttosto attraverso un’azione di commento,
condivisione che certamente aggiunge e trasforma il contenuto, che mantiene inalterato il senso del
messaggio. Ciò avviene proprio in virtù di quella dimensione di ambiente protetto, il “giardino
sicuro”, a cui si è già fatto riferimento, nel quale ciascuno crea dei legami con pubblici connessi
diretti (gli amici, i followers ecc.) e con i pubblici indiretti ( gli amici degli amici ecc.) che
contribuiscono a definire l’identità sociale di ciascuno attraverso lo strumento del gradimento
virtuale. Viene meno in questo senso la dimensione relazionale, di dialogo e confronto, per dare
spazio ad una dimensione performativa nella quale ciascuno costruisce una rappresentazione come
un prodotto che deve trovare un pubblico. Prevale l’aspetto consumistico che come ci ricorda
Bauman induce una sorta di “feticismo tecnologico” in funzione del quale riteniamo che la
tecnologia ci sollevi dalla responsabilità della scelta offrendo vie di fuga dagli impulsi morali
«mettendo a tacere la loro coscienza morale, rendendoli insensibili all’effetto completo delle sfide
morali e complessivamente disarmandoli sul piano morale quando trovano a dover fare scelte che
richiedano una certa dose di negazione o di sacrificio di sé» (Bauman, 2006: 112 -114).
Questa sorta di disarmo morale è ciò che spinge le persone a stringersi intorno alle proprie
paure piuttosto che fare scelte che richiedano sacrificio non tanto in termini materiali, quanto
piuttosto lo sforzo di comprendere e accettare persone che provengono da altre culture.
Spettacolarizzazione, paura ed emozione
Temiamo ciò che non sappiamo gestire. Chiamiamo «incomprensione» tale incapacità: «comprendere»
qualcosa è infatti il saper fare che consente di affrontare quella stessa cosa. La conoscenza di come trattare qualcosa,
quella comprensione, è un «omaggio» offerto insieme agli strumenti con cui si può eseguire quel trattamento, anzi
incorporato in essi. Di regola, tale conoscenza giunge a posteriori: essa richiede, si può dire, prima di tutto degli
strumenti, e solo successivamente si stabilisce nella mente attraverso la riflessione sugli effetti del loro utilizzo. In
assenza degli strumenti e delle prassi che essi rendono possibili, difficilmente compare tale conoscenza o
«comprensione». La comprensione nasce dalla capacità di gestire. Ciò che non siamo in grado di gestire ci è «ignoto»;
e l’«ignoto» fa paura. La paura è un altro nome che diamo al nostro essere senza difese (Bauman, 2006: 119).
Per combattere la paura è necessaria la capacità di gestire, gestire le informazioni, avere gli
strumenti culturali che fanno comprendere. Il Rapporto Carta di Roma ci mostra come
l’informazione parziale prevalga, così la rappresentazione della migrazione rimane qualcosa altro da
noi che colpisce l’immaginario, suscita pietas, paure, timori, ma non promuove interrogativi, non ci
fa superare la barriera costituita dall’immaginario dell’immigrato e ce lo rende persona reale.
Soprattutto non ci mostra le interdipendenze che ci legano a loro, non ci spiega che l’aumentare del
divario economico tra nord e sud del mondo è il fattore scatenante dei flussi migratori, che lo
sfruttamento economico di cui la nostra società occidentale beneficia ne è causa, che la stessa
tecnologia che ci ha aperto a possibilità quasi infinite è la stessa che mostra il divario e che motiva
gli esclusi a cercare di non esserlo più. Eppure la spettacolarizzazione delle centinaia di migliaia di
persone in marcia, che affrontano il mare su imbarcazioni improbabili genera timore di
“un’invasione” che cambi il paesaggio delle nostre città, che mini la nostra sicurezza sotto il rischio
degli attentati e dell’islam integralista. L’insicurezza è contrassegnata dalla paura, alimentata
dall’ignoranza e dal prevalere dell’aggregarsi contro piuttosto che a favore di. La fenomenologia del
migrante come rappresentazione attraverso i media è ciò che, nella visione di Castells, determina un
eccesso di ansia nell’ambiente che compromette le capacità di apprendimento, «le situazioni che
risvegliano la paura sono quelle che richiamano il pubblico più vasto (Graber, 2007: 267). Si tratta
di reazioni a eventi che minacciano la sopravvivenza, e queste reazioni mobilitano risorse cognitive
che attivano l’attenzione. […] Le notizie (e in particolare le immagini) possono operare come fonti
di stimoli equivalenti all’esperienza vissuta» (Castells, 2009: 193). Così immagini ad alto tasso di
drammaticità, decontestualizzate, suscitano emozioni nel pubblico e ne influenzano le decisioni.
La componente emozionale tende a prevalere nell’elaborazione delle informazioni, è parte di
uno specifico modello di framing come sostiene ancora Castells che «deriva da struttura e forma
della narrazione, e dall’uso selettivo di suoni e immagini» (Castells, 2009: 194). La ripetizione del
messaggio, lo spazio continuativo che la notizia ha è ciò che permette maggiori stimoli e aumenta
l’efficacia del frame (Ibidem), questo ci riporta ai dati del Rapporto, dove l’incremento
esponenziale della copertura giornalistica e delle sue parole chiave è ciò che ha reso così efficace il
frame della paura che sembra attraversare la società italiana nel suo insieme, combattuta tra
l’urgenza dell’accoglienza e il bisogno di sicurezza.
Ora se «la violenza, trasmessa dalle reti di comunicazione, diventa il medium per la cultura
della paura» è altresì vero «che il medium non è il messaggio, anche se il messaggio, e il mittente
del messaggio è la fonte della costruzione del significato. Per la precisione, è uno dei termini di
questa costruzione. L’altro è la mente, individuale e collettiva, del destinatario» (Castells, 2009: 526
-550).
In tal senso le reti sociali connesse possono rappresentare l’opportunità per una costruzione
autonoma di significato dove si ripristini la capacità di esercizio della propria responsabilità
oggettiva che ci fa accettare l’interdipendenza con gli altri, ristabilendo così un senso di fiducia e
apertura.
Conclusioni
Abbiamo descritto la spettacolarizzazione dell’immigrazione ricostruendo le dinamiche dello
storytelling italiano sulle vicende che hanno come protagonisti gli immigrati. Ne deriva un
mediascape fatto di sofferenza, disperazione, povertà e paura. Questa costruzione narrativa così
emotiva non può che favorire la presa di distanza dall’Altro-Straniero, alimentando pulsioni
securitarie o, nella migliore delle ipotesi, generando una compassione che s’innesta in quella che
abbiamo definito come “estetica della pietà”.
Se i media mainstream nutrono l’immaginario di pubblici sentimentali ormai abituati a questa
“iper-visibilità del dolore”, lo spazio dei social network potenzia tali criticità poiché ci troviamo di
fronte ad un’audience reticolare.
Ma spostiamo ora l’attenzione dai pubblici che assistono a questa particolare costruzione
dell’Altro-Immigrato agli immigrati come pubblici dei media.
Proviamo allora a riflettere su quella normalità dell’immigrazione che sembra non interessare
affatto le pratiche discorsive sull’immigrazione.
Ribaltiamo quindi la prospettiva e pensiamo invece al ruolo che l’industria culturale può
giocare nella definizione d’itinerari d’integrazione. Crediamo che l’invisibilità di cui tanto si è
scritto come tratto connotante l’identità degli immigrati trovi nella loro negazione anche come
fruitori mediali uno spazio da cui sono ancora una volta respinti. Non si pensa mai agli immigrati
come consumatori culturali, al loro tempo libero, ai loro desideri d’intrattenimento. Questa
particolare tipologia di consumo, infatti, può definire i contesti in cui si genera una cultura meticcia
e integrata: conferenze, mostre e musei, readings, siti web, i luoghi delle città dedicati ad incontri di
socialità (Giusti, 2015). Si tratta di spazi di rappresentazione di storie universali. Il web di cui sono
emerse le criticità nel paragrafo precedente, per esempio, potrebbe avere un ruolo molto forte nella
trasmissione dell’identità tramandata, le pagine in rete rappresentano un’offerta culturale che è allo
stesso tempo ricerca delle radici ma anche progettazione del futuro. Crediamo sia essenziale
riabilitare il patrimonio culturale ed esperienziale di chi è protagonista di percorsi migratori.
Internet potrebbe essere una delle più immediate chance di socializzazione, uno strumento capace di
generare una conoscenza condivisa con altri.
Nella ristrutturazione delle proprie relazioni sociali e soprattutto nella ridefinizione della
propria identità in una diversa cornice culturale, lo spazio dei consumi mediali è uno dei luoghi
centrali per l’edificazione dei nuovi percorsi biografici per gli immigrati.
In questo senso
l’immaginario veicolato dai media - contenitore polivalente di simboli, immagini e significati orienta all’interno di una realtà sociale fatta di rappresentazioni condivise. L’immaginario, si sa,
gioca un ruolo prioritario nel vissuto quotidiano e collettivo, opera, infatti, come elemento
fondamentale che prende parte alla costruzione sociale della realtà (Berger e Luckmann, 1997). Per
tale ragione considerare l’invisibilità degli immigrati come consumatori culturali ci appare rilevante
per progettare reali percorsi d’integrazione.
Un tale approccio consentirebbe di abbandonare così la retorica del terrore e l’estetica della
pietà su cui abbiamo ragionato in questo contributo.
Nel momento in cui s’inizia a vivere davvero il trasferimento e si prende contatto con un
nuovo spazio culturale, la prova da superare è anche quella di cogliere i significati di quella vita
urbana confrontandoli, mescolandoli, ibridandoli insomma con i tratti culturali della terra d’origine.
I consumi culturali sono, pertanto, determinanti nel progetto esistenziale del migrante,
costituiscono una dimensione imprescindibile nella costruzione del Sé. Fanno parte di un
processo di personalizzazione del proprio stile di vita. La scelta nelle pratiche di consumo è,
infatti, funzionale agli scopi da raggiungere, quotidianamente, nell’edificazione del proprio Io.
I consumi mediali si correlano alle pratiche relazionali. I media consentono di mantenere
vivo il contatto all’interno della “tribù migrante” e allo stesso tempo di interagire con la società
meta delle scelte migratorie.
L’Italia sembra ancora non rispondere a questa “urgenza comunicativa”.
L’immigrato - come fruitore mediale - deve essere indagato come consumatore di un prodotto
culturale che si traduce in un certo sguardo sul mondo, in interazioni quotidiane fatte anche di
immagini mediali. Condividere medesimi spazi mediali significa, in fondo, stringersi in una vita
culturale comune, condividere storie, memorie e anche sentimenti.
Non è più possibile ignorare le esigenze e le motivazioni degli immigrati come soggetti del
mercato multimediale. Si parla, infatti, di soggetti sociali/consumatori che selezionano e
sintetizzano modelli di cultura materiale ed immateriale originaria con pratiche di fruizione
introiettate nei territori ospitanti (Simeon e Stazio, 2007).
I media, in questa prospettiva, riescono a far guadagnare potere alle audiences rappresentando
e promuovendo nuovi modelli identitari. Qui ampliamo i confini del nesso tra cittadinanza e
immigrazione come tradizionalmente intesi; non ci riferiamo, infatti, alla mera adeguatezza della
categoria di cittadinanza nell’esaurire il rapporto tra individui, istituzioni e diritti (Marchetti, 2009).
Piuttosto facciamo riferimento ad una cittadinanza formulata attraverso una “grammatica
mediatica” in grado di rendere gli immigrati protagonisti dell’arena pubblica ed in questo senso
l’informazione diviene quasi diritto umano fondamentale per formulare il concetto di cittadinanza.
Perché non porre fine, solo per fare un esempio, all’etnicizzazione delle notizie?
Pensiamo ad una cittadinanza sociale prima che giuridica: la dimensione formale della
cittadinanza non può prescindere da significati partecipativi ed identificativi che si possono
conquistare proprio attraverso i media.
I media dovrebbero essere risorse insostituibili nei processi che creano forme di coesione
all’interno di società sempre più multiculturali e multietniche.
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