Rappresentazione della guerra nella`Arte e sui Media

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Rappresentazione della guerra nella`Arte e sui Media
Carla Donati
RAPPRESENTAZIONE DELLA GUERRA NELL’ARTE e SUI MEDIA
PERCORSO PROPOSTO NELLA CLASSE QUARTA
OBIETTIVI:
•
•
•
creare spazi per l’oralità diversi dall’interrogazione
sviluppare autonomia nella ricerca di dati e documenti; sviluppare autonomia nella
costruzione di percorsi tematici
attualizzare temi e problemi trattati nel percorso storico-letterario
Prerequisiti: nell’ambito dello studio della letteratura si erano trattati autori (Machiavelli,
Guicciardini, Ariosto, Tasso) che trattavano il tema proposto, pur senza dare particolare risalto
all’argomento.
Descrizione dell’esperienza
1) Ho richiesto agli studenti di cercare materiale (libri, film, altre opere d’arte contemporanee)
che trattassero il tema della guerra
2) Discussione e analisi in classe( 2 ore): i ragazzi hanno fatto riferimento soprattutto a film
visti, da film “classici” sulla seconda guerra mondiale, a film storici. L’analisi,
necessariamente molto sommaria, ha preso in considerazione alcuni film di qualità
(Apoclipse Now, La battaglia di Algeri, Il dottor Stranamore).
Punti di criticità: i ragazzi leggono poco! Non sono riuscita a far partecipare tutti
3) Riflessione sull’assenza di opere d’arte che trattano le guerre in corso (1 ora)
4) Ricerca di materiale sui giornali e altri media e successiva discussione: come i media
trattano la guerra contemporanea? (1 ora).
5) Indicazione di percorsi di approfondimento sull’antologia e invito a fare riferimento agli
autori letti, isolando le informazioni relative al tema
6) Sono stati forniti i due articoli di riflessione sull’argomento e una lista di siti internet su cui
potersi documentare
7) Discussione in classe sul materiale fornito dall’insegnante e su altre informazioni reperite su
internet (2 ore)
Verifica:
Saggio documentato con lista “aperta” di documenti ( a scelta con una analisi del testo)
I documenti inerenti al Cinquecento sono stati forniti dall’insegnante, ma era esplicita la richiesta di
fare riferimento ad altri documenti contemporanei (anche tramite allegati)
Risultati
La partecipazione alle discussioni è stata più nutrita del consueto (si tratta di una classe poco incline
alla partecipazione attiva), pur non riuscendo a coinvolgere la totalità degli studenti.
Coloro che hanno scelto di cimentarsi nella prova del saggio hanno sempre integrato con
informazioni proprie, molti hanno fatto riferimento a film visti, ma ci sono state anche integrazioni
con documenti relativi ad opere d’arte (Guernica).
I risultati sono stati ovviamente diversificati, ma in generale gli scritti risultano più personali.
SITOGRAFIA SUL TEMA “GUERRA E CINEMA”:
www.primissima.it/primissima/scuola scegliere il percorso: cinema e guerra;
www.cinemazip.it/SArticolo.asp?sarticoloID=275
www.storia900bivc.it/pagine/articoli/ceola299.htm
SITOGRAFIA SUL TEMA “LETTERATURA E GUERRA”
www.digilander.libero.it/guerratotale/index-5.htm
www.centri.univr.it/iperstoria/testi.htm (articoli di spessore, ma di difficile lettura)
DOCUMENTI:
La guerra e la letteratura
[Claudio Magris, Guerra. L'epopea impossibile, Il Corriere della Sera 12 luglio 1999]
Francesco Giuseppe, scrive Roth nella Marcia di Radetzky, non amava le guerre, perché sapeva che
"si perdono", ossia che, comunque vada a finire, tutte le parti in causa si trovano ad essere sconfitte,
tanto alto è il costo e tanto imprevedibili sono le conseguenze di un conflitto. Francesco Giuseppe
amava invece le parate militari, perché quelle sfilate di reggimenti perfettamente allineati, fra il
rullo di tamburi, lo sventolio di bandiere e il trascolorare delle divise, gli sembrava la rassicurante
immagine dell'ordine, di quella simmetria e regolarità che danno alla vita la certezza di una casa
familiare e che la vera guerra sconvolge, sporca e distrugge in un caos e in una melma di sangue.
Nel suo recente articolo apparso sul "Corriere", Giorgio Pressburger osserva che uno degli
argomenti principali della letteratura, da tremila anni, è stata la guerra, e si chiede se e come la
letteratura - che oggi gli sembra tacere al riguardo - reagirà alla guerra che, mai sopita e anzi spesso
furibonda in diversi Paesi della terra, è tornata a mutilare l'Europa.
Sino a poche settimane fa, si riluttava in generale - perfino davanti all'evidenza più vistosa - a usare
la parola "guerra". Era ad esempio grottesco leggere i giornali che annunciavano il ritiro
dell'ambasciatore italiano da Belgrado: da settimane la Nato bombardava Belgrado e la Serbia,
distruggendo e uccidendo, mentre avvenivano le stragi nel Kosovo, e i quotidiani esprimevano la
preoccupazione che tale misura diplomatica potesse pregiudicare gravemente i rapporti fra Italia e
Serbia, deteriorare le relazioni fra i due Paesi, come se si trattasse di un contenzioso
sull'esportazione o importazione di arance. Per anni si è finto di credere che la guerra appartenesse
al passato, sorvolando sui conflitti che insanguinavano la terra; oggi essa è presente, costituisce una
minaccia reale del prossimo futuro. Che essa trovi o no una adeguata espressione letteraria è poco
rilevante perché dinanzi a sofferenze e a morti atroci la differenza tra un capolavoro poetico e un
compito in classe non conta certo molto. Comunque, come ogni esperienza, anche la guerra diviene
inevitabilmente racconto; quella in Bosnia, tanto per fare un solo esempio, ha trovato una sua
intensa rappresentazione nelle Marlboro di Sarajevo di Jergovich. La letteratura sulla guerra, come
hanno ricordato Giorgio Pressburger e Giovanni Raboni facendone un vasto catalogo, è
incredibilmente ricca di grandi opere. Ma da quasi due secoli gli scrittori si chiedono come
rappresentare la guerra; per parafrasare un titolo di Kafka, "La descrizione di una battaglia", è un
grande capitolo della letteratura moderna, che si è fatto progressivamente sempre più problematico.
In uno splendido saggio, Stefano Jacomuzzi ha affrontato a fondo questo tema analizzando e
confrontando il racconto della battaglia di Waterloo in diversi testi letterari, dai Miserabili di Victor
Hugo alla Certosa di Parma di Stendhal alla Fiera delle vanità di Thackeray (ricordato in questo
contesto pure da Giovanni Raboni) ai Cento giorni di Joseph Roth. Il saggio di Jacomuzzi si intitola
Waterloo: l'epopea impossibile? La guerra è epica per eccellenza; non perché narri di gesta eroiche,
ma perché, almeno nelle sue rappresentazioni classiche, si basa sul senso di una totalità che
comprende e trascende l'individuo e suggerisce il senso della vita quale unità in cui le lacerazioni
individuali si compongono, come i naufragi e le tempeste nella totalità del mare. Anche in rotta, le
schiere achee o troiane, nell'Iliade, non distruggono l'ordine e il senso del mondo.
Nella pagina di Hugo - e, in tutt'altra chiave, pure in quella di Roth - il narratore può scorgere nel
brulichio della battaglia, nonostante tutto, un ordine e un disegno, può dominare con lo sguardo le
cariche e le ritirate, cogliendone, magari nell'insensatezza e negli errori, una direzione e una
razionalità; l'individuo può morire nella desolazione e nella disfatta, ma non senza grandezza e vive,
talora senza saperlo, epicamente all'unisono col fluire della vita e della storia. Nel romanzo di
Stendhal la battaglia non sembra invece obbedire a piani strategici giusti o sballati, non sembra
conoscere ordine o razionalità; tutto è caotico, sbandato, casuale, i soldati corrono in una direzione
ma potrebbero correre in quella opposta, non c'è una prospettiva dall'alto che colga il quadro
generale e si innalzi al di sopra della prospettiva del soldato che, disteso a terra per sfuggire alle
pallottole, vede solo il fango davanti alla sua faccia e le colonne di fumo. Nell'opera di Thackeray il
caos è ancora più accentuato, per la confusione anche temporale con cui le notizie arrivano e si
sfilacciano dal fronte alle retrovie.
Anche se Joseph Roth scrive il suo libro nel 1936 e se Agosto 1914 di Solzenicyn rivela grande
forza epica e monumentale, la descrizione della battaglia che dal secolo scorso è vincente o appare
quasi l'unica letterariamente possibile, è quella di Stendhal; l'epopea, scrive Jacomuzzi, è
impossibile. La guerra non è più il volto di una totalità articolata secondo una sua logica, come nel
grande libro di von Clausewitz, che ne fa lo specchio di un mondo razionalmente afferrabile. Il
bell'ordine delle parate si sconvolge nella battaglia e si ricompone, scrive Rezzori, nella simmetria
delle tombe e delle croci allineate nei cimiteri. La guerra diviene l'immagine più radicale della vita
intesa quale disordine, accidentalità fortuita, casualità. Nei tolstojani Racconti di Sebastopoli o nel
mirabile Segno rosso del coraggio di Stephen Crane non si capisce nulla dei movimenti delle truppe
e dei piani cui questi dovrebbero obbedire; soldati e ufficiali vanno e vengono, si fermano per
strada, interrompono il combattimento per mangiare, avanzano o fuggono senza sapere dove e
perché e la stessa cosa avviene nel magistrale racconto della battaglia di Little Big Horn, in cui morì
il generale Custer, fatto da Alce Nero.
In questi testi - e in molti altri simili - la battaglia assomiglia a un corteo, in cui ci si inserisce, da
cui si esce per bere un caffè o per tornare a casa, o che si abbandona per raggiungerlo da un'altra
parte attraverso una scorciatoia, così come capita. La guerra non è più dominabile nella sua
completezza, si frantuma in un polverio. Anche gli scrittori che ne analizzano le cause sociali e le
manipolazioni ideologiche, ossia che afferrano razionalmente la sua origine e il suo meccanismo,
non possono rappresentarla se non come un indecifrabile sconquasso indistinto, perché offrirne un
compatto e unitario quadro epico e monumentale sarebbe una falsità, non renderebbe giustizia al
disorientamento e allo smarrimento con cui gli uomini oggi vivono - e non possono non vivere - la
guerra. Una delle immagini più forti e veritiere di quest'ultima l'ha data il cinema, con le scene degli
allucinati scontri sul fiume vietnamita in Apocalypse Now. Della guerra non sembra dunque
possibile mostrare il volto intero, ma solo qualche frammento. Anche gli scrittori che l'hanno
affrontata con fermo e pensoso impegno morale, come Gadda o Stuparich, ne ritraggono, per
onestà, dei singoli particolari; chi la vive come una iniziazione mistica, come un'ebbrezza
dionisiaco-tecnologica, come Jünger, non ne raffigura la totalità, bensì schegge lancinanti. In certi
stupendi racconti e versi di Kipling la battaglia esiste a lampi e frammenti, in echi e dettagli. Il
sergente nella neve di Mario Rigoni Stern è una delle poche opere epiche - capace, in questo grande
respiro, di condannare l'orribile male della guerra rendendo insieme omaggio alle virtù di coraggio e
solidarietà che pur vivono in essa - ma non a caso è più un'Odissea che un'Iliade. La difficoltà di
rappresentare la guerra è divenuta quasi impossibilità con la seconda guerra mondiale, di cui manca,
nonostante molti notevolissimi tentativi - ad esempio Thomas Pynchon - una narrazione adeguata
alla sua realtà. Per molti scrittori questo scoglio è stato un autentico tormento creativo, vissuto come
fallimento. Dagli scrittori ci si attende una condanna e una demistificazione della guerra; attesa
sacrosanta ma talora illusa, perché ci sono stati scrittori, anche di grande rilievo - ad esempio
Jünger, ma non è il solo - che hanno celebrato e amato la guerra, per quanto incomprensibile o
mostruoso ciò possa apparire.
Per sfatare e combattere la guerra, la letteratura non ha da fare prediche ideologiche, perché i
sermoni ancorché nobili non sono il suo mestiere; deve mostrare e raccontare i fatti, farli toccare
con mano facendone così sentire l'orrore. Sottovalutare la tremenda forza della guerra e di ciò che
spinge a farla, credendo che per impedirla bastino un po' di buoni sentimenti e qualche canzone
accompagnata dalla chitarra, significa spianarle la strada, non bloccare in tempo il suo meccanismo.
Nel capolavoro cinematografico di Renoir, La grande illusione, la guerra appare ineludibile e
irresistibile come la vita, quasi inseparabile da essa. Solo chi, come Renoir, sa mostrare questo suo
insinuante potere di farsi scambiare per una necessità vitale, aiuta a dissolvere la sua seduzione e a
non renderci inconsapevolemente suoi complici. Durante il conflitto nel Vietnam, un anziano leader
nordvietnamita, parlando una volta con ferma e affabile malinconia alla televisione francese, disse
che per gli uomini della sua età, in quelle regioni, la vita si era quasi identificata con la guerra,
combattuta per tanti decenni; è questo, aggiungeva, il pericolo più insidioso da cui dobbiamo
guardarci, l'abitudine a considerare la guerra necessaria e inevitabile come la vita, come il respiro.
Paolo Ceola
La guerra al cinema
Ovvero perché i film di guerra sono spesso insoddisfacenti...
"l'impegno",
a.
XIX,
n.
2,
agosto
1999
© Istituto per la storia della Resistenza e della società contemporanea nelle province di Biella e Vercelli.
È consentito l'utilizzo solo citando la fonte.
Bisogna ovviamente chiedersi da quale punto di vista siano da considerarsi insoddisfacenti.
Ebbene, sono del parere che un pubblico maturo dovrebbe chiedere a un film di argomento
bellico di aumentare la conoscenza e la consapevolezza o di un singolo episodio o della
guerra in generale. Invece, nella grande maggioranza dei casi, la cinematografia bellica
svolge una funzione meramente catartica, cerca cioè di risvegliare, esaltare e infine soddisfare
emozioni, sia positive che negative. Vale a dire che la grande maggioranza dei film di guerra
mira o a condannare la guerra o, viceversa, ad esaltarla. Con l'unico risultato che in entrambi i
casi il pubblico può uscire dalla sala sostanzialmente rassicurato. Nel primo caso potrà
consolarsi della propria indignazione e potrà cullarsi nell'illusione che mai e poi mai potrebbe
commettere gli atti nefandi visti sullo schermo; nel secondo caso, speculare al primo, potrà
invece essere confermato nell'idea che anche la violenza più estrema può essere rivestita di
gloria, di onore, di spettacolarità estetica e, in ogni caso, risultare efficace ai fini del
raggiungimento di un qualsiasi scopo politico o ideologico.
Questa fissità sul tasto emozionale della guerra al cinema deriva, a mio parere, da due fatti
concomitanti e insieme opposti. L'uno è dato dalla quasi totale inconoscibilità della guerra
come fatto reale; l'altro dal fatto che gli uomini non possono permettere che esista qualcosa di
inconoscibile e quindi dalla necessità di raccontare comunque anche ciò che, per il suo carico
di orrori, dovrebbe pretendere semmai il silenzio; da ciò la scelta, per raccontare la guerra, del
registro epico, in modi più o meno raffinati.
Quello che voglio dire insomma è questo: la guerra non è altro, in fondo, che morte non più
come atto, come ultimo istante o estremo limite, ma come infinita dilatazione spaziotemporale dell'evento del morire; se normalmente (nella condizione di pace, diciamo) accade
di morire, in guerra invece la morte non viene a turbare l'ordine della vita, è essa stessa
l'ordine e semmai può accadere di sopravvivere. Se a ciò si aggiunge il fatto che sono proprio
gli uomini, con i loro atti, a rovesciare e spargere nel mondo ciò che normalmente vogliono
tenere fuori dal mondo (la morte, appunto) si ricava che la guerra ha dentro di sé qualcosa di
inesplicabile, di non narrabile: forse quel Nulla che gli uomini da sempre sanno di non poter
padroneggiare. Ma, d'altra parte, abbiamo detto che gli uomini non sopportano questa
condizione. Essi devono poter parlare di qualsiasi cosa, fosse anche il Nulla concretizzato in
violenza. Di qui la scelta, da tempi immemorabili, di travestire la realtà annichilente della
guerra con un fiume di parole e immagini la cui qualità intrinseca ha variato dalla sublimità
dei poemi omerici alla retorica più miserabile.
Il problema si è complicato con l'avvento della guerra industriale, tecnologicizzata e basata su
armi di distruzione di massa. Questo tipo di guerra ha sostanzialmente smascherato il potere
della parola bellica e ciò per una ragione molto semplice: non è più possibile farsi illusioni
sugli effetti dell'uso delle armi. Quello che in passato la maggior parte degli uomini capiva
della guerra solo a posteriori oppure, per mancanza di informazioni, poteva addirittura non
pre-immaginare affatto (per cui le guerre potevano essere narrate e mitizzate) oggi risulta
chiaro, prefigurato e lampante fin da subito, con le armi ancora chiuse nei depositi. Insomma,
ciò che si sa ha completamente soppiantato ciò che si può immaginare.
Siamo dunque sostanzialmente circondati da contraddizioni. La guerra moderna è una guerra
che, per i suoi effetti e per la facilità con cui viene "vista" attraverso i media, non può più
essere "raccontata", perché qualsiasi racconto contiene invenzione, e quindi mistificazione;
ma d'altra parte, possono gli uomini fare a meno di immaginare e raccontare? La pletora dei
film bellici presenti sul mercato sono dunque in gran parte opere mistificatorie, illusioni,
fantasmi multimediali che ci spingono non alla consapevolezza ma al suo contrario,
all'autoinganno o, se preferite, all'idea che la guerra si possa raccontare direttamente. In realtà,
come si è detto all'inizio, la grande maggioranza delle pellicole di argomento bellico si limita
a mostrarci gli effetti della guerra, con intenti perlopiù di condanna; raramente, ormai, di
esaltazione. Operazione del tutto inutile, in quanto meramente catartica; sono cento anni che
il cinema ci mostra morti, feriti, distruzioni e sono stati, malgrado ciò, i cento anni più
sanguinosi della storia.
Quel nuovo tipo di consapevolezza che la guerra moderna richiederebbe non sarebbe dunque
favorita dal cinema contemporaneo. Questa conclusione apparentemente pessimistica può
essere però corretta se, facendo riferimento ad alcune pellicole abbastanza note, cerchiamo di
individuare una possibilità di uscire dalla retorica, dalla mistificazione e dal mero tasto
emozionale. Per esempio, per quanto riguarda la guerra nella sua espressione più terrificante
(quella nucleare) potremmo ricordare che la stragrande maggioranza dei film usciti, citiamo
"Testament"1 o "The Day after - Il giorno dopo"2, si accontentano di battere il tasto
emozionale mostrando i lacrimosi effetti sulla popolazione civile di un attacco atomico;
d'altra parte Kubrick, con il suo "Dottor Stranamore"3, preferì mettere in scena l'apparente
follia della situazione atomica, insistendo sul lato grottesco e paradossale di tutta la faccenda.
Un solo film, a nostro parere, ha centrato esattamente il problema della guerra nucleare; si
tratta di un film uscito nel 1964, intitolato "A prova di errore"4. Perché questo film è stato il
più intelligente mai uscito sulla situazione atomica? Perché ne individua l'aspetto essenziale
che consiste nell'equilibrio della reciproca paura, cioè in uno scambio non di armi e
distruzione ma nella possibilità di tale scambio: è quindi un rapporto virtuale, intellettuale.
Qui sta l'essenza della situazione atomica, non nei suoi effetti tragici, che devono essere solo
immaginati. Fare dunque film sugli effetti di uno scontro nucleare significa solo fare bassa
macelleria o "scherzarci sopra" non conduce a capire realmente la realtà delle cose. Dunque,
una direzione per uscire dall'impossibilità/inadeguatezza a raccontare la guerra è, forse,
puntare l'occhio sull'essenza del rapporto di scambio che sta alla base di qualsiasi conflitto;
esaminare e raccontare dunque il conflitto armato come forma di comunicazione, come
procedimento intellettuale.
Speculare e complementare a questo approccio, e costituente una seconda via di uscita dalla
retorica bellica, è il modus narrandi utilizzato da Steven Spielberg nel suo "Salvate il soldato
Ryan"5. Qui la guerra non è vista, come in "A prova di errore", attraverso un telescopio, cioè
in una chiave di astratta (ma pur tuttavia il film di Lumet è un vero thriller!) e sofisticata
analisi, ma attraverso un microscopio. Spielberg tuffa letteralmente lo spettatore dentro la
guerra, lo obbliga a non mollare mai la presa della sua attenzione da quel che vede. Il risultato
è, a mio modo di vedere, completamente anti-retorico perché non è possibile quel tanto o
poco di mistificazione che occorre per costruire il discorso magniloquente, strappalacrime e a
base di facili sentimenti proprio della retorica bellica. Visti così da vicino, gli uomini non
riescono, agli occhi dello spettatore, a diventare guerrieri secondo lo stereotipo consueto del
film di guerra più mediocre, cioè baldi e valorosi superman che oppongono i fieri petti alle
pallottole del cattivissimo nemico; ma neppure (e qui sta la grandezza del film e del regista) è
possibile travestirli dell'iconografia stantìa del film pacifista più lacrimevole; i soldati del film
non sono vittime designate o bestie da macello. Sono, più semplicemente, uomini o meglio
cittadini in uniforme che vivono, in parte subendola in parte essendone protagonisti (proprio
come accade nella realtà), una tragedia più grande di loro, cioè semplicemente la Storia nel
suo aspetto sanguinoso.
Si potrebbe dunque fare l'ipotesi che per uscire dalla retorica bellica dei film di guerra (pro o
contro la guerra stessa non ha nessuna importanza in questo contesto), occorra fare, a scelta,
una sofisticata operazione intellettuale: o il massimo avvicinamento o la massima astrazione.
È chiaro comunque che, in entrambi i casi, occorre, prima di dare il primo ciak al film,
"pensare la guerra" cioè decidere attraverso quale ottica, quale filtro osservarla. Ciò è tanto
più vero perché i film di guerra mediocri (esaltatori o denigratori che siano) si illudono, e
vogliono illudere lo spettatore, di essere oggettivi: "mostrando" gli effetti dei combattimenti o
l'eroismo dei soldati compiono in realtà un'autentica truffa ideologica.
E non è un caso che, da un po' di anni a questa parte, stia risultando evidente che anche i
media giornalistici, soprattutto la televisione, stiano clamorosamente fallendo nella loro
pretesa oggettività di rappresentatori della guerra.
Quello che vediamo scorrere sui nostri schermi televisivi è una guerra altrettanto falsa di
quella che vediamo su tanti schermi cinematografici; a nessuno ormai dovrebbe sfuggire che
non tanto per essere oggettivi (cosa impossibile) ma per poter raccontare efficacemente la
guerra (efficacemente, cioè in modo che aumenti la consapevolezza di chi è chiamato a
guardare) occorre prima di tutto andare alla sua essenza, al suo nocciolo di prova esistenziale
e scambio sociale collettivo.
documento senza nome autore, né data!!!!!
Letteratura e Relazioni Internazionali
Romanzi e teoria pura
Il campo di ricerca delle RI viene spesso considerato a totale uso e consumo di studiosi, professori
universitari o tutt’al più giornalisti. Errore quanto mai comune per confinare un settore troppo
spesso considerato di nicchia, in realtà le cose sono molte diverse, basta pensare che i primi lavori
di politica internazionale erano opere che si possono considerare soprattutto di letteratura. La
guerra del Peloponneso di Tucidide è prima di tutto un’opera di importanza letteraria notevole, ma
è anche testo fondamentale da cui partire per poter studiare in un corso universitario le relazioni
internazionali; non a caso molti dei teorici, che in questi ultimi vent’anni hanno fatto scuola (da
Waltz a Gilpin), si dichiarano o sono stati etichettati come tucididei. Questo è solo un piccolo
esempio per mostrare come la letteratura e la teoria delle relazioni internazionali siano state spesso
molto vicine, esempi ancora più clamorosi sono Guerra e Pace di Tolstoj (tanto che Raymond Aron
intitolò la sua più importante opera Pace e Guerra tra le nazioni ). Se con i greci le opere,
riportando fatti politici, presentavano la visione ellenica della pace e della guerra, la cosa aumenta
con l’Impero Romano quando la cosa più comune era riportare le campagne militari o prendere
spunto da diari di guerra per presentare uno spaccato dell’Impero al tempo di questa o quella
campagna (il De Bello Gallico è uno tra più fortunati esempi, forse perché a scriverlo è stato Giulio
Cesare).
Ma di cosa parlano in generale le opere letterarie che sono vicine alle relazioni internazionali?
Molto spesso, anzi sempre il problema della guerra e della pace, accadimenti umani in periodo di
guerra o all’ombra di essa. Ma ogni epoca ha i suoi racconta storia, e a complicare le cose direi che
ogni sistema politico-sociale ha il suo modo di raccontare. Tempora mutantur, et nos mutamur in
illis. Il campo è vastissimo più per la letteratura che per opere di teoria quindi bisognerà fare una
scelta sugli autori da presentare.
1 - Le Carré e il mondo fuori controllo
Un esempio di quanto detto è sicuramente John Le Carré, certo i più storceranno il naso perché non
è il grande intellettuale alla Sartre o alla Tolstoj, ma il buon John si applica molto e le sue opere
sono sempre molto ben fatte, ricche di particolari e spesso molto verosimili per l’accuratezza delle
ricerche fatte sull’argomento. Prima di tutto bisogna dire che Le Carré ha spesso scelto di
ambientare i propri romanzi ognuno in un teatro diverso ed alcuni sono particolarmente
paradigmatici e quasi profetici. Certo la storia ha un suo sviluppo con una spia, sempre inglese, che
deve risolvere un caso e spesso ci lascia le penne non per Sua Maestà ma per motivi quasi sempre
interiori. Gli eroi di Le Carré stanno assumendo sempre più le caratteristiche di martiri di un mondo
fuori controllo in cui le guerre si susseguono nei posti più disparati ( per saperne di più in modo
chiaro e ultra-marxista si può leggere l’ultimo libro di Ignacio Ramonet, direttore di Le Monde
Diplomatique, Geopolitica del Caos). Ma torniamo ai martiri di John che si trovano volenti o
nolenti nei posti “caldi” del momento: Laos, Inguscezia, Paesi Baltici, Georgia, Panama, Medio
Oriente o Berlino durante la Guerra Fredda. La cosa che colpisce è la precisione con cui Le Carré
presenta il problema politico che questi personaggi si trovano ad affrontare; il libro meglio riuscito
di questi romanzi è forse La spia che venne dal freddo nel quale si parla di Berlino durante i primi
anni del Muro (sull’argomento esiste un altro libro molto bello di McEwan, Lettera a Berlino). Nel
’94 è uscito un libro dal titolo La passione del suo tempo che tratta i problema delle guerre
scoppiate nelle ex- Repubbliche sovietiche dopo il ’91, ma John non parla del Caucaso in generale
ma in specifico di una guerra dimenticata , quella tra ingusci e ossetini. Il fatto che dal suo libro
preveda un Caucaso insanguinato negli anni a venire è quasi profetico per ciò che sarebbe successo
da li a poco in Cecenia, in Nagorno-Karabach, in Daghestan e Abkhazia. Ma il Caucaso ha sempre
dato problemi! Ed infatti Tolstoj ha scritto un racconto lungo dal titolo Il prigioniero del Caucaso
(a cui Bodrov nel ’96 si è ampiamente ispirato per fare un bellissimo film dal titolo identico sulla
prima guerra cecena) che parla dell’esercito zarista alle prese con rozzi e terribili montanari ceceni.
Insomma argomenti di cui si legge quotidianamente sui giornali ma a totale appannaggio di esperti
sovietologi e di questioni medio-orientali. Ma torniamo a Le Carré, la capacità con cui si muove da
una parte all’altra del mondo è sorprendente, un bel libro di poco successo L’onorevole scolaro
scritto negli anni ’70 parla della mafia cinesi tra Hong Kong e il triangolo d'oro, con descrizioni
affascinanti di Vientiane e Hong Kong appunto, ma anche delle triadi cinesi. La tamburina tratta
invece il problema della questione medio-orientale tra palestinesi e israeliani. Insomma io credo che
il merito di questo scrittore inglese sia stato quello di cercare, rispetto a molte opere “impegnate”
ma spesso faziose, imprecise e spesso un po’ noiosette, di presentare il mondo fuori controllo che in
questi anni con notevole tempismo stanno studiando anche gli analisti di politica internazionale.
2 – Le teorie del mondo fuori controllo
Ci sono due tipi di libri per le analisi della politica internazionale quelli giornalistici e quelli scritti
da veri e propri teorici (più difficili da leggere e quindi più rari nelle librerie). Ormai della prima
categoria ne escono tantissimi quasi ogni giorno c’è un titolo nuovo, per ciò che riguarda la seconda
categoria le apparizioni sono più sparute soprattutto se si tratta di libri veramente teorici e non casestudy su un argomento preciso. L’ultimo libro di grande divulgazione di politica internazionale è
stato sicuramente il famigerato Lo scontro delle civiltà di Samuel P. Huntington (che tutti citano
malamente ma pochi hanno letto) in compagnia di un’opera precedente che è stata letta ancora
meno di Francis Fukuyama, La Fine della Storia e dell’ultimo uomo. Soprattutto l’opera di
Huntington è molto interessante ma pecca di eccessivo giornalismo e si lancia in previsioni di
medio-lungo raggio che, come sa anche uno studente al primo anno di Scienze Politiche, nelle
scienze sociali e soprattutto negli studi di RI sono spesso sfondoni pazzeschi. Per quanto riguarda,
invece, l’ultimo libro che ha fatto parlare i politologi e basta, si tratta di un lavoro di Glenn H.
Snyder del 1997, non tradotto in italiano, Alliance Politics, Cornell University Press. Si tratta di un
libro che sviluppa l’analisi waltziana delle tre immagini e soprattutto si concentra con precisione
sugli attori del sistema precisandone ruoli e funzioni e sul sistema internazionale ed i suoi processi
interni (per molti il libro è un esempio di fatale riduzionismo). Fortunatamente per chi fosse
interessato a Kenneth N. Waltz, il più tucidideo di tutti i neo-realisti, esistono in italiano le sue due
opere fondamentali (L’uomo, lo Stato e la Guerra e Teoria della politica internazionale). Un altro
libro uscito l’anno scorso ma, che a causa del veloce susseguirsi degli eventi, sarà ripubblicato e
revisionato, merita l’attenzione dei più temerari è un opera curata da Paul Kennedy (famoso per un
libro alla moda qualche anno fa Verso il XXI secolo), il titolo è The Pivotal States, editore Norton. Il
libro, dicevo, è particolarmente interessante perché individua quali potrebbero essere gli stati
cardine per la politica americana nei 5 continenti in questa fase caotica della politica internazionale.
Nonostante già nell’introduzione gli autori chiariscono l’intento di dare nuove linee per la politica
estera americana, l’opera è molto interessante nonché stimolante e riporta 9 case-studies di rispettivi
paesi. La lista di libri teorici potrebbe allungarsi ma passiamo a opere più giornalistiche e le cose si
complicano un po’ perché non sempre ci si trova con opere di valore, il trucco sarebbe avere
qualche riferimento dalla bibliografia. E’ bene diffidare di opere che non citano mai riviste
internazionali (per fare alcuni nomi Foreign Affairs, International Organisation, Le monde
Diplomatique) o quotidiani esteri (Le Monde, International Herald Tribune, Die Zeit etc.),
soprattutto se poi questi libri parlano di conflitti o paesi in crisi è bene guardare se sono citate fonti
di organizzazioni internazionali (le risoluzioni dell’Onu o dell’Osce). Queste sono solo indicazioni
generali ma che permettono spesso di risparmiare soldi; esistono anche eccezioni e la prima che mi
viene in mente è Giulietto Chiesa, inviato de La Stampa a Mosca, che nei suoi libri pur non
avvalendosi quasi mai di fonti bibliografiche fa libri molto ricchi e precisi. In questi anni siamo poi
stati invasi da libri sui Balcani ma quali saranno veramente interessanti e decenti? Sempre per gli
anglofoni sono uscite le memorie di Richard Holbrooke, inviato di Bill Clinton a Sarajevo e poi a
Belgrado, ma forse è meglio, se volete cose in italiano, leggersi qualche numero di LiMes (Rivista
italiana di Geopolitica) sull’argomento piuttosto che brancolare nel buio. Esiste anche un’opera di
Stefano Bianchini, forse più difficile e storica, Sarajevo e le radici dell’odio : questo è veramente
una bibbia. Per tornare alla letteratura il libro paradigmatico sui Balcani è sicuramente quello del
premio Nobel Ivo Andic che si intitola Il ponte sulla Drina, si tratta di un vero e proprio capolavoro
della letteratura del Novecento. Per tornare a libri più giornalistici ma di alto livello sempre in
inglese è apparso un libro più legato alle Nazioni Unite scritto da un giornalista del Guardian, lui si
chiama Richard Bellamy e il libro si intitola Knights in white armour: questa opera oltre ad essere
sviluppata su più piani d’analisi spiega fondo, dopo un excursus storico, come funziona sul campo il
peace-keeping. Dopo questa serie di libri soprattutto in inglese ne consiglio alcuni in italiano: Gino
Strada Pappagalli Verdi, Ettore Mo Guerre Sporche e a cura di Roy Gutman e David Rieff Crimini
di Guerra.
Per concludere…
So di non essere stato esaustivo (ma chi può esserlo) avendo tralasciato molte parti del mondo spero
di non avere fatto torti a nessuno. Lo so che esistono anche l’Africa, il Medio Oriente e le
Americhe, ma a mia parziale discolpa voglio ricordare Harold Mackinder che sosteneva che la
scacchiera su cui si gioca la partita per l’egemonia è l’Heartland, cioè l’Eurasia. Al riguardo potrei
anche dire che in Italia si soffre fin troppo della sindrome sudamericana per cui tutti informati sul
Chiapas e solo qualche bizzarro sul Caucaso, ma questo è un altro discorso! Siccome qui si
dovrebbe parlare di letteratura ecco gli ultimi consigli tra guerra e pace. I Duellanti di Joseph
Conrad (Ridley Scott ne ha fatto un film) romanzo breve che è ambientato durante le guerre
napoleoniche e in cui i due personaggi sono soldati dell’esercito napoleonico. Per chi invece volesse
andare un po’ più a fondo sulle origini del dramma armeno (e quindi anche del Nagorno-Karabach)
il libro che consiglio è Viaggio in Armenia di Osip Mandelstam, poeta russo amico di Majakovskij
morto durante le purghe staliniane e le cui opere sono state per anni proibite. Per rimanere negli
anni trenta esiste un libro di Sartre, L’età della ragione, non è molto conosciuto ma parla in maniera
abbastanza autobiografica dell’atmosfera dei circoli intellettuali a Parigi immediatamente prima del
secondo conflitto mondiale. L’ultimo libro che segnalo è molto particolare, ma incredibilmente
bello per chi fosse interessato alle guerre di religione e al periodo a cavallo tra Riforma e
Controriforma, l’opera si intitola Q di Luther Blisset (ovviamente lo pseudonimo). Per il momento
passo e chiudo …ma prima anche le relazioni internazionali hanno diritto al loro ultimo spaziettino.
Fu chiesto ad un noto studioso americano, Stanley Hoffman direttore del dipartimento di politica di
Harvard, quali 3 libri di politica internazionale si sarebbe portato su di un’isola deserta. L’uomo, lo
stato, la guerra di Waltz , Pace e guerra tra le nazioni di Aron e le Storie di Tucidide. Io
aggiungerei nella valigia Politica tra le nazioni di H.J. Morgenthau e Guerra e mutamento nella
politica internazionale di Robert Gilpin.
c.m.
Carla Donati
La guerra nell’immaginario del Cinquecento, nella realtà e nell’immaginario contemporaneo.
Verifica scritta di italiano
SAGGIO BREVE DOCUMENTATO
Argomento: la guerra nell’immaginario del Cinquecento, nella realtà e nell’immaginario
contemporaneo.
I DOCUMENTI PROPOSTI SONO RELATIVI AL CINQUECENTO, PER LA
CONTEMPORANEITA’ PUOI FARE RIFERIMENTO AD ALTRO MATERIALE A TUA
SCELTA
Documenti:
Ariosto, Orlando Furioso, I, 1
Le donne, i cavalier, l’arme, gli amori
Le cortesie, l’audaci imprese io canto
Che furo al tempo che passaro i Mori
D’Africa il mare, e in Francia nocquer tanto
Seguendo l’ire e i giovenil furor
Ariosto, Orlando Furioso, XI, 26
Come trovasti o scellerata e brutta
Invenzion(1),mai loco in uman core
Per te la militar gloria è distrutta,
per te il mestier dell’arme è senza onore;
per te è il valore e la virtù ridutta(2),
che spesso par del buono il rio migliore(3):
non più la gagliardia, non più l’ardire
per te può in campo al paragon venire
Machiavelli, Il Principe, IV
E’ profeti armati vinsono, e li disarmati ruinorono.
Tasso, Gerusalemme liberata, I, 1
Canto l’arme pietose e ‘l capitano
che ‘l gran sepolcro liberò di Cristo.
Molto egli oprò co’l senno e con la mano,
molto soffrì nel glorioso acquisto;
.
Tasso, Gerusalemme liberata, XX, 50 – 52
Così si combatteva, e ‘n dubbia lance
col timor le speranze eran sospese.
Pien tutto il campo è di spezzate lance,
di rotti scudi e di troncato arnese,
di spade ai petti, a le squarciate pance
altre confitte, altre per terra stese,
di corpi, altri supini, altri co’ volti,
quasi mordendo il suolo, al suol rivolti.
D’Agramante lor re, che si diè vanto
Di vendicar la morte di Troiano (1)
Sopra re Carlo imperator romano
Note: 1) Troiano è il padre di Agramante
Note:
1)Ariosto parla dell’archibugio, e più in
generale delle armi da fuoco
2) ridotta;
3) che spesso il malvagio appare migliore del
buono
e invan l’Inferno gli si oppose, e invano
s’armò d’Asia e di Libia il popol misto.
Il Ciel gli diè favore, e sotto a i santi
segni ridusse i suoi compagni erranti
Giace il cavallo al suo signore appresso,
giace il compagno appo il compagno estinto,
giace il nemico appo il nemico, e spesso
su’l morto il vivo, il vincitor sul vinto.
Non v’è silenzio, non v’è grido espresso,
ma odi un non so che roco e indistinto:
fremiti di furor, mormori d’ira,
gemiti di chi langue e di chi spira.
Erasmo da Rotterdam, Adagia 3001, 6
[...]tutta la nostra vita è dominata dalla guerra. Non c’è tregua. La guerra imperversa a livello di
nazioni, a livello di regni, di città, di principi, di popoli. Non rispetta rapporti di parentela, non
conosce vincoli di sangue, mette fratello contro fratello, arma il figlio contro il padre. Con questo,
siamo già arrivati a uno stadio che appariva riprovevole anche ai pagani. Ma c’è uno stadio
ulteriore, un’ignominia – almeno mi pare – ancora più grave: la guerra mette il cristiano contro
l’uomo. E mette – esito a dirlo – cristiano contro cristiano. Con questo siamo al vertice
dell’ignominia. Eppure nessuno fa domande, nessuno si leva a dire una parola di riprovazione:
cecità della mente umana! C’è chi plaude, chi esalta, chi chiama santa una iniziativa
superdiabolica e aizza principi già per conto proprio farneticanti, dando, come si dice, esca al
fuoco. Uno promette dal pulpito la remissione di tutti i peccati a chi combatte sotto le insegne di
quel principe. Un altro predica: “Principe invincibile, mantieniti così ben disposto verso la
religione, e Dio combatterà per te”. Un terzo dà per sicura la vittoria e distorce in senso blasfemo
le parole dei profeti, interpretando i versi dei Salmi: “Tu non temerai di spavento notturno, né di
saetta volante di giorno, né il demonio che distrugga in pien mezzodì;” e “Mille te ne cadranno al
lato manco e diecimila al destro”[...] In una parola, quel salmo mistico subiva un distorcimento in
senso profano, veniva forzato in riferimento a questo o a quel principe. A nessuna delle due parti in
lotta faceva difetto questa razza di profeti, né ai profeti facevano difetto gli applausi. Abbiamo
sentito di tali sermoni ispirati alla guerra
risuonare in bocca a monaci, in bocca a teologi, in
bocca a vescovi. Ed ecco le conseguenze: si vedono combattere vegliardi, combattere sacerdoti,
combattere monaci. Cristo vien coinvolto in un’impresa demoniaca. Eserciti nemici si scontrano
portando l’uno e l’altro l’insegna della croce: quella croce che varrebbe da sola a rammentare che
genere di vittoria convenga ai cristiani. Quel segno celeste, simbolo del vincolo perfetto e ineffabile
che congiunge i cristiani, diventa punto di partenza in una corsa allo sterminio reciproco: e di tale
nefandezza facciamo Cristo spettatore e promotore. Se il regno di Satana esiste, non può essere
altro che la guerra. Perchè allora coinvolgervi Cristo? Meglio starebbe in un postribolo.