3.6 SEXTING, LA NUOVA FRONTIERA DEL

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3.6 SEXTING, LA NUOVA FRONTIERA DEL
3.6 SEXTING, LA NUOVA FRONTIERA DEL SESSO
Paolo e Federica raccontano le loro esperienze di “sexting”, una moda sempre più diffusa tra i giovani
adolescenti (e non solo) in Italia e all’estero.
«Ho iniziato per gioco, navigando su internet e cliccando per curiosità sui siti che promettono di trovarti una
ragazza nella tua città. Sono timido, ma soprattutto curioso. E così ho conosciuto Sarah L. 13 anni. Prima
qualche sms, poi delle foto, ma senza la faccia. Poi dettagli sempre più intimi. E l’eccitazione aumentava
sempre di più. Così tanto che ora non riesco a fare a meno del sexting. A raccontare la sua storia è Paolo, 14
anni, di Genova. Frequenta la terza media, non gli piace studiare, ma come tanti coetanei ha un passatempo a
cui si dedica anima e corpo (soprattutto corpo): il “sexting”, ovvero il sesso attraverso foto, video, sms.
Paolo ha deciso di raccontarci la sua storia per telefono, anzi attraverso il cellulare (guarda caso), perché
appunto è un ragazzo riservato. «Non solo il solo ad essere timido, nella mia classe sono in molti a non avere
il coraggio di “abbordare” una ragazza tra i banchi di scuola o nei corridoi. Lo smartphone aiuta, che male
c’è?» Già, che male c’è? Devono essere davvero in molti a pensarla come questo adolescente genovese, se è
vero che il sesso online è praticato dal 74% degli adolescenti maschi e dal 37% delle femmine. Una
percentuale altissima, ma soprattutto in continua crescita. A fornire i dati è Maurizio Bini, sessuologo e
direttore del Centro riproduzione e dell’Osservatorio nazionale sull’identità di genere all’ospedale Niguarda
di Milano. Ma se per Paolo e per molti come lui il “sexting” è una cosa assolutamente normale, il guaio,
secondo Bini, è che dietro al sesso al telefono, anzi per immagini tramite telefono, c’è altro: «L’anticipo dei
tempi di maturazione e il ritardo dell’acquisizione del senso di autonomia e responsabilità hanno prolungato
l’adolescenza». Insomma, anche gli over 15 non disdegnano la pratica di eccitarsi nell’inviare e ricevere foto
erotiche a conoscenti o anche a perfetti sconosciuti.
È il caso di Federica. Lei, vicentina, ha superato l’adolescenza da un bel po’. Ha soffiato su 35 candeline di
recente, è sposata, ha un lavoro che le piace e la gratifica, ma il suo sguardo finisce troppo spesso sullo
schermo del cellulare. Il suo è un istinto irrefrenabile. «Mi dà carica, mi dà adrenalina trovare messaggi e
foto del mio uomo.» Peccato che il suo “uomo” in questione non sia il marito, bensì l’amante, con il quale ha
ormai una relazione da diversi anni, all’insaputa del coniuge. Tutto è iniziato con un incontro casuale una
sera tra conoscenti. Prima lo scambio dei numeri di telefono, poi gli sms, sempre più frequenti e “hot”. Il
passo dagli sms alle foto è stato breve. Come quello dal sesso virtuale a quello reale. Ma siccome lei è
sposata e lui anche, non sempre è possibile trovare il tempo per incontri clandestini. Da qui il ricorso al
“sexting”. Senza vincoli di luogo né di tempo, è possibile avere emozioni “forti” 24 ore al giorno: bastano un
click, una foto nudi, una frase appena accennata e dettagli che lasciano correre la fantasia e aumentano
l’eccitazione.
Ma se da adulti c’è una maggiore consapevolezza e il “sexting” non rappresenta altro che una forma di
“tradimento” (per chi ha la fede al dito) o di “sesso alternativo”, quando a praticarlo sono i ragazzi le cose si
complicano. Secondo uno studio recente, il 20% degli adolescenti invia immagini erotiche, il 40% le riceve,
mentre il 25% scatta foto e invia allegati in modo totalmente incosciente a più persone. Le conseguenze
possono essere anche molto gravi, ma di questo i ragazzi non si curano.
Il “gioco” è bello e pienamente appagante soprattutto perché “clandestino”. «Io fidanzato? Ma neanche per
sogno. E anche se lo fossi, non lo direi certo né a voi né ai miei genitori.» È sempre Paolo a rispondere,
spiegando che il “sexting” è un rituale da seguire di nascosto da mamma e papà. Resta da chiedersi: ma loro,
mamma e papà, lo sanno cosa fa il loro figliolo chiuso in camera per ore o appiccicato costantemente al
cellulare?
Da Panorama, 22 settembre 2012, di E. Lorusso
3.7 CYBERSESSO PER 800MILA “UNDER 18”: 7 ORE AL MESE SUI SITI PORNO
Il facile accesso al computer e alla Rete rappresenta un fenomeno endemico della nostra epoca, che è stata
definita l’era del “pocket porno”, ossia del porno tascabile e di facile fruizione, in riferimento a tutto ciò
che in materia circola su Internet, ma anche sui telefonini, ormai comunemente usati dai giovani per
produzioni porno “amatoriali”. Si è calcolato che la comunità giovanile che spende in media 7 ore al mese
di fronte ai siti pornografici, esponendosi al rischio di imbattersi nei pedofili. La “porno-dipendenza”,
inoltre, può dar luogo a quella che gli esperti chiamano “anoressia sessuale” che si esprime nel disinteresse
per alcuni aspetti della vita reale.
Roma, 24 gen. (Adnkronos Salute) - Un piccolo esercito di giovanissimi capaci di passare anche più di 7 ore
ogni mese navigando tra siti porno. «Sono circa 800mila i minori italiani appassionati di siti web
pornografici, il 6% ha tra i 14 e i 18 anni e il 4% addirittura meno di 13 anni.» Lo spiega Carlo Foresta,
endocrinologo andrologo ordinario di Patologia clinica all’Università di Padova, anticipando all’Adnkronos
Salute alcuni dei temi del convegno “La sessualità multimediale nei giovani: nuove forme e nuove
patologie”, in programma a Padova il 27 gennaio. Per “censire” i giovani appassionati di spazi web a luci
rosse «abbiamo condotto un’analisi commissionata all’Audiweb della Nielsen. A novembre 2011 erano 27
milioni gli italiani che navigano sul web, e di questi 8 milioni sono appassionati di siti porno. Il 10% ha
meno di 18 anni», dice Foresta. L’indagine svela inoltre che sotto i 13 anni si passano in media 3 ore sui siti
hot ogni mese, che diventano 7 ore e mezzo tra i 14 e i 18 anni. «Si tratta nel 75% dei casi di maschi, che
assicurano di non temere le molestie online, ma si dicono più preoccupati dalla precocità dei primi rapporti e
dal pericolo di contrarre malattie sessualmente trasmesse», prosegue l’andrologo, che sottolinea come i dati
siano stati confrontati con un’altra metodologia di analisi (Ispsos). «Abbiamo ottenuto lo stesso risultato, con
un incremento del tempo passato online. Si tratta di un fenomeno preoccupante, anche perché dalle risposte
dei ragazzi a una serie di quesiti emerge anche come si sottovalutino i rischi legati alla rete.» I giovanissimi
non temono, infatti, eventuali molestie su Internet. «Piuttosto si dicono allarmati dalle possibili conseguenze
reali di questo comportamento, come la precocità del sesso e il pericolo di malattie sessualmente trasmesse»,
aggiunge Foresta. Che traccia un quadro in cui i giovanissimi cybernauti sembrano tutto sommato gestire
senza troppi pensieri la trasmissione di conversazioni e immagini intime attraverso pc e telefonino. «In
generale sappiamo che il 35% dei ragazzi italiani dice di ricevere o inviare messaggi hot via cellulare anche a
perfetti sconosciuti.» Non solo: «Il 17% racconta di aver avuto rapporti intimi con persone conosciute
online». Insomma, il vecchio consiglio di non parlare con gli sconosciuti sembra decisamente superato,
almeno online. «Emerge un quadro preoccupante, una realtà che spesso sfugge all’immaginario degli adulti»,
sottolinea Foresta. E le possibili insidie sembrano molto lontane ai giovanissimi cybernauti. Ma perché i
ragazzini italiani sono così tentati dagli spazi hot sul web? «Spiegano di divertirsi, ma dicono anche che
Internet li aiuta a superare la timidezza e a conoscere altre persone. C’è anche chi cerca relazioni extra
rispetto al rapporto che sta vivendo, e chi un tipo di sesso originale», conclude Foresta, che nell’incontro di
Padova traccerà l’identikit dei giovanissimi alle prese con il cybersex.
Fonte: Libero quotidiano.it
3.13 L’ABORTO CHE NON PASSA
La testimonianza di Benedetta Foà, consulente familiare al “Centro di aiuto alla vita” Mangiagalli: il
dolore delle donne arriva dopo che l’interruzione volontaria di gravidanza (Ivg) ha fatto “il loro bene”.
Oggi come non mai nella storia clinica, la maternità è monitorata, controllata, fatta oggetto di prognosi e,
illusoriamente, si può pensare che sia più protetta di un tempo. Appena entrata in ospedale una donna in
attesa del “proprio figlio”, diventa una paziente che porta in grembo un potenziale “problema” di cui
prendersi “cura”. Non si parla più di “figlio”, ci si distanzia affettivamente e si comincia a parlare di “feto”.
Il feto per la legge 194 non ha alcun diritto e la donna inizia così tutta una serie di esami altamente invasivi
per verificarne lo stato di salute. Esami mai fatti prima nella storia vengono oggi fatti a scapito del feto il
quale ne può morire, per “tutelare i diritti della madre”, cioè in rapporto a un solo diritto, quello di poter
abortire il figlio in caso di non perfetto stato di salute. Qualunque altro diritto è annullato. Così, una volta
entrata come mamma felice di essere in attesa di un figlio, esci dall’ospedale, come una madre sgomenta
perché il bambino ha una prognosi di “trisomia libera”1, e ti suggeriscono, per “il tuo bene” di abortire il tuo
bambino, in nome di una morte comunque annunciata.
Ed ecco che arrivano da me al Cav2 Mangiagalli a elaborare il loro lutto: madri maltrattate, addirittura
insultate se avevano deciso di non togliere la vita al loro figlio, oppure madri che hanno abortito perché
terrorizzate da ciò che i medici hanno loro prospettato: una vita infernale con un bambino con trisomia 21,
sindrome di Down, o affetti da altre patologie. L’aspetto psicologico non è per nulla preso in considerazione,
a nessuna di queste mamme che ho incontrato sono stati spiegati i sintomi dello stress post-aborto, anzi
sembra che il paragone che i medici fanno sia: “Tolto il dente tolto il dolore”. Ma stiamo parlando di
bambini, e qui il dolore non passa. Come consulente vedo molte donne che piangono il loro figlio, anche per
anni dopo l’evento aborto, e nessuna di loro ha pensato che, una volta morto il figlio, un altro potesse
rimpiazzarlo, anzi. Pochi giorni fa una mamma è venuta da me per capire cosa fosse meglio per lei, se fare
un aborto terapeutico o portare a termine la gravidanza, attendendo il corso naturale degli eventi con la
probabile morte del bambino. Sono stata obbligata ad analizzare con lei pro e contro. La questione cruciale
era come vivere quei mesi di gravidanza, quale sia il bene per lei e per il resto della famiglia, la paura che il
bimbo muoia nel suo grembo. Il tutto era molto “ego-riferito”: lei e la sua famiglia. Il bambino era
scomparso.
Le esperienze delle mamme che ascolto dopo un aborto sono: pianto sconsolato, depressione, tristezza,
difficoltà lavorative, un gran senso di vuoto, solitudine infinita, un gran desiderio di tornare indietro e di
avere di nuovo il bambino in grembo, un gran senso di colpa per avere partecipato insieme a un medico a
togliere anticipatamente la vita del figlio. Certo non sapevano che il forcipe3 avrebbe fatto a pezzi il
bambino, e aborto significa proprio questo. Così, nella speranza che tutto finisca presto, non si guarda il
bambino e lo si lascia in balia di altri che se ne “sbarazzano” come se fosse un rifiuto organico, non l’amato
e tanto desiderato bambino di una coppia di sposi. Se non si interviene tempestivamente i feti vengono gettati
o cremati senza nessuna funzione religiosa, neanche una benedizione. Ma senza un cadavere come si può
elaborare il lutto? Noi uomini abbiamo bisogno di poter piangere i nostri defunti, se non siamo messi nella
condizione di farlo rischiamo la psicopatologia.
Ecco perché ritengo ancora più importante lasciare che la gravidanza segua il suo corso naturale, anche
quando un bambino è destinato a morte prematura. In questo modo le mamme e i papà hanno la possibilità di
amare il bambino fino al suo ultimo respiro, dargli un nome, far celebrare un funerale circondati dal sostegno
e affetto parentale, seppellirlo. Il libro Aspettando Gabriel (San Paolo) racconta di una coppia che viene a
sapere della patologia del figlio e decide di accoglierlo nonostante la morte imminente. È e resta, nonostante
la malattia, il loro bambino tanto amato e quei mesi nel grembo materno saranno il suo “tempo migliore”,
dove riceverà calore, amore, protezione materna. Così, il giorno della sua nascita coincide con quello della
1
La trisomia è una condizione caratterizzata da uno squilibrio cromosomico che può portare ad anomalie o addirittura
alla morte.
2
3
Centro di aiuto alla vita, fondato a Milano nel 1984.
Strumento ostetrico mediante il quale, secondo precise indicazioni scrupolosamente osservate, si procede
all’estrazione del feto.
morte, ma ha fatto in tempo a essere battezzato, a essere baciato e lasciato teneramente andare al suo destino,
la vita eterna. L’attuale società pensa di poter allontanare da sé la morte facendola diventare medicalizzata.
Questo comporta che milioni di donne “ingannate” dall’aborto come “soluzione migliore” vaghino per le
strade del mondo senza nessun supporto morale e psicologico, sapendo in cuor loro una cosa sola: di aver
rinnegato il compito innato di ogni madre, proteggere la vita del proprio figlio a ogni costo.
Da Il Foglio, 6 luglio 2012, di Benedetta Foà, consulente familiare al Cav Mangiagalli di Milano
3.14 ABORTI IN CALO MA AUMENTANO I MEDICI OBIETTORI DI COSCIENZA
L’aborto mette in gioco questioni come la morale, la sensibilità personale, le scelte etiche (elimina e non
solo). I medici obiettori in Italia vedono favoriti carriera e guadagni. Dall’ultima relazione del Ministero
della Salute emerge come il loro numero sia in crescita, fino a raggiungere il 71 per cento dei ginecologi
italiani. In Basilicata 9 su 10 sono obiettori, l’84 per cento in Campania, più dell’80 in Lazio e nell’Alto
Adige-Sud Tirolo.
«È successo a Napoli, a marzo: un ginecologo del Policlinico Federico II è morto, investito sulle strisce, e
per due settimane non si sono fatte interruzioni di gravidanza», racconta Giovanna Scassellati. A stare ai
numeri dell’obiezione di coscienza, l’Italia è più rigorosa della Ginevra di Calvino. Purché si tratti
dell’obiezione all’interruzione di gravidanza regolata da una legge dello Stato.
Lungi dall’affrontare la persecuzione, i medici obiettori vedono favoriti carriera e guadagni. Sono obiettori il
71 per cento dei ginecologi italiani. In Basilicata 9 su 10, l’84 per cento in Campania, più dell’80 in Lazio e
nell’Alto Adige-Sud Tirolo. All’ospedale di Fano tutti i medici sono obiettori. A Treviglio, Bergamo, sono
obiettori 24 anestesisti su 25. Una dose modica di ipocrisia è essenziale alla convivenza civile. L’eccesso di
ipocrisia la degrada. Giovanna Scassellati dirige dal 2000 il Day Hospital-Day Surgery della legge 194 al
San Camillo di Roma, che dal 2010 fa da centro regionale per chi non trovi accoglienza in altri ospedali,
dove i reparti sono stati chiusi. Su 316 ginecologi nel Lazio 46 non sono obiettori, e in 9 ospedali pubblici
non si fanno interruzioni di gravidanza, come imporrebbe la legge a tutti gli ospedali non religiosi.
«Siamo come panda, al San Camillo su 21 i non obiettori sono 3, io, che vinsi il concorso, e 2 a contratto
biennale. E gli aborti coprono il 40 per cento delle operazioni di ostetricia».
«Io sono specializzata in ginecologia, ostetricia e oncologia medica e faccio quello che pressoché nessuno
vuole fare: manovalanza. Nelle coscienze non si entra, ma nelle predilezioni per le ecografie, per gli
ambulatori privati, per l’intramoenia4, quello sì. E le cose peggiorano. Avevamo un progetto che, da
Veltroni5 sindaco in qua, diede risultati importanti: finanziava l’opera di mediatrici culturali, rumena,
marocchina, albanese, che incontravano le donne, ne conoscevano istruzione, condizioni di famiglia, se
avessero o no un medico cui rivolgersi, la prevenzione delle interruzioni di gravidanza. C’era una cinese
bravissima, agopuntrice, pubblicavamo articoli sui loro giornaletti. Una cooperativa, scelta con un bando,
4
Intra moenia è una locuzione latina che significa “tra le mura”. Nell’ambito del Servizio sanitario nazionale, l’attività
di intramoenia si riferisce alle prestazioni erogate al di fuori del normale orario di lavoro dai medici di un ospedale, i
quali utilizzano le strutture ambulatoriali e diagnostiche dell’ospedale stesso a fronte del pagamento da parte del
paziente di una tariffa.
5
Walter Veltroni, ex segretario nazionale del Partito Democratico, è stato sindaco di Roma dal 2001 al 2008.
dava la copertura assicurativa. I fondi dei progetti sociali sono stati tagliati dalla giunta Alemanno6. Abbiamo
raccolto 120mila firme contro la proposta di legge di una consigliera regionale che di fatto abolisce i
consultori. I movimenti contro la 194 ricevono sovvenzioni ingenti, mentre il nostro lavoro, pubblico e, per
quanto mi riguarda, attento a non derogare mai alla legge, viene così ostacolato. Di serie politiche sulla
famiglia, come quelle francesi o anche inglesi, non si vede l’ombra. La 194 è una legge giusta, passò per la
caduta di tre governi, la firmò Andreotti, certo che fu un compromesso, il vero compromesso storico. Al San
Camillo mi raccontarono che nel 1977 (la legge è del 22 maggio 1978) morirono di setticemia tre donne,
senza dire chi aveva procurato l’aborto».
Le avranno chiesto quanti aborti ha assistito. Ha un gesto di impazienza. «Non lo so, e non so nemmeno
quanti bambini ho aiutato a far venire al mondo. Mia madre era di Savigliano, nel cuneese, è stata una delle
prime ginecologhe. Seguì i corsi di preparazione al parto a Parigi, a Roma fu assistente ospedaliera al
Sant’Anna. Le mie scelte sono state legate a lei, e al primo figlio che ebbi quando ero ancora al terzo anno di
università. Mi trasferii a Chieti, ci restai 4 anni. C’erano bravi professori, dal Gemelli o da Bologna, ero
interna all’ospedale, avrei potuto fare lì la mia carriera. Ero femminista, partecipavo degli impegni di allora, i
viaggi a Londra, i radicali. Mia madre ha sempre fatto le interruzioni di gravidanza. Mio padre era molto
cattolico e contrario, ma sapeva che l’aborto è un enorme problema personale e sociale e culturale, che non
basta esorcizzarlo. Ho lavorato tanto con mia madre. Non c’era solo un rapporto madre-figlia fra noi, né una
competizione: volevamo far andare le cose nel modo migliore. Lei è morta nel 1996, di uno dei più
aggressivi tumori all’utero. A San Camillo c’era la vasca, l’avevano sovvenzionata le elette del Comune di
Roma, vi sono avvenuti 300 parti, ora è in soffitta. C’è la parte sporca dell’ostetricia, il lavoro sociale, quello
che coinvolge le emozioni. La maternità ti fa diventare amica della donna che assisti, per sempre. Con
l’aborto non ti fai clienti: succede che non abbiano più voglia di vederti, dopo. E la gente per lo più sceglie
questo mestiere per fare i soldi. Prova a dare un incentivo materiale a chi non obietta, e vedrai.»
Lei non è diventata primario. «Non ci sono primari non obiettori. Poi sono donna. Poi forse non ci tenevo. Io
faccio le guardie, regolarmente, cinque o sei notti al mese, e vado ancora a fare i parti a casa. Ho ereditato la
direzione del reparto da uno che aveva avuto guai con la giustizia. Accettava pochissime donne e faceva gli
aborti privatamente, a Villa Gina, nel 2000 scoppiò lo scandalo. Ero l’unica non obiettrice, fui nominata con
un’ordinanza. Fino ad allora, per dieci anni, avevo lavorato anche volontariamente in un ambulatorio nella ex
centrale del latte, con le donne straniere, venivano a decine, specialmente il giovedì, che è il giorno libero
delle badanti. Il reparto al San Camillo è squallido, nel sotterraneo, ma è bello che abbia accessi
indipendenti, l’ambulatorio di contraccezione ecc. I pavimenti sono rattoppati, ci ho messo tre anni a
ridipingere le pareti.»
«Una questione cruciale è l’aborto farmacologico, la Ru486. Siamo l’unico ospedale nel Lazio che lo fa.
L’Agenzia del farmaco suggeriva che andasse fatto col ricovero. Dunque si fa in regime di ricovero – i tre
giorni prescritti – dopo di che le donne firmano e vanno a casa, dopo 48 ore tornano per il secondo farmaco e
restano fino all’espulsione, poi a casa. Le donne sono responsabili, tornano tutte. Si è fatta una campagna sui
rischi micidiali di questo metodo. Si è poi accertato che le morti (7 certificate in tutto il mondo) derivavano
dalla somministrazione per via vaginale nelle prime settimane, invece che per via orale. Così le donne
devono subire questi ricoveri impropri. La firma è un escamotage ultra-ipocrita, e significa apertura e
chiusura di cartelle, per noi che abbiamo due letti e facciamo ruotare le donne, 30-35 al mese, e le richieste
sono più numerose, perché nessun altro lo fa, né l’università né gli ospedali. In tutta l’Umbria non una sola
struttura. Le straniere la chiedono meno, perché bisogna che conoscano bene la lingua e capiscano a fondo le
istruzioni, e poi preferiscono l’aborto chirurgico per non perdere 3 o 4 giorni di lavoro. Le donne ricche
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Gianni Alemanno è un politico italiano (di area PDL), dal 2008 sindaco di Roma. La Giunta comunale è l’organo di
governo del Comune ( che è un ente territoriale dotato di un proprio Statuto).
vanno a Marsiglia, e amen. Come per la legge sull’eterologa, tornata d’attualità oggi. E pensare che uno dei
fondatori era italiano, il prof. Lauricella, primario di mia madre. Ogni tanto penso che vorrei andare via. Ho
diretto per tre mesi, da volontaria, un ospedale dei comboniani a Moroto, Uganda, 60 posti letto di ostetricia
e ginecologia, e ho lavorato in Etiopia e in Eritrea per la prevenzione dei tumori del collo dell’utero. Le
donne povere del mondo povero muoiono di aborto proibito.»
Da La Repubblica, 24 maggio 2012, di A. Sofri
3.16 «HO 18 ANNI E VOGLIO UN FIGLIO»
STORIE DI BABY-MAMME
Nell’Italia dove le gravidanze sono sempre più tardive, si fa strada un’inversione di tendenza. A raccontare
il fenomeno c’è persino una vasta letteratura cinematografico-televisiva: dalla teenager Juno - sguardo
disincantato, codini, e pancione infagottato in enormi felpe - alle protagoniste di 16 anni e incinta, telefilm
americano (trasmesso in Italia da Mtv), che racconta le storie di chi, fra piercing, concerti e compiti in
classe, ha scelto di diventare una mamma-bambina sfidando i pregiudizi.
Nel linguaggio medico si parla di gravidanze precoci. Altri, invece, la chiamano generazione Juno, dal nome
appunto della giovanissima protagonista dell’omonimo film. Fatto sta che quello delle ragazze che decidono
di mettere al mondo un bambino prima dei 18 anni - o poco dopo - è un fenomeno in aumento con picchi
vertiginosi che si registra a livello globale. Ma mentre in Inghilterra e negli Stati Uniti sono corsi ai ripari
con seminari di educazione sessuale nelle scuole, volantini informativi diffusi da consultori e studi medici, e
trasmissioni televisive ad hoc, in Italia i livelli non sono ancora così massicci.
Eppure, i numeri, per parlare di vero e proprio “caso”, ci sono. Con una leggera differenza. Se fino a tre anni
fa, infatti, si era verificato un preoccupante boom di gravidanze fra le adolescenti in età ancora scolare (dai
16 ai 18 anni), e Giorgio Vittori, presidente della Società Italiana di Ginecologia e Ostetricia (Sigo), invitava
la società a prenderne atto «per evitare che le conseguenze degli errori di una mamma-bambina si
moltiplichino nel tempo», ora il fenomeno riguarda soprattutto ragazze che sono sì giovanissime, ma che
hanno almeno compiuto la maggiore età. Ogni anno le donne sotto i 20 anni (teenager comprese) che
rimangono incinte sono infatti oltre diecimila. E così, in un’Italia dove in media il primo figlio arriva ben
oltre i 30 anni, si registra una timida e ribelle inversione di tendenza. Perché dare alla luce un bambino, per
queste mamme, non è il frutto di un errore, ma di una scelta.
«Gravidanze cercate, sì, ma non sempre consapevoli», mette però in guardia Alessandro Albizzati,
neuropsichiatra infantile responsabile del progetto “Madri adolescenti: due minori a rischio”, promosso
dall’Ospedale San Paolo di Milano che, ogni giorno, assiste con aiuto pratico e psicologico decine di babymamme milanesi. Più o meno quello che fanno i diciannove consultori pubblici diffusi nel capoluogo
lombardo. Dove le storie di mamme adolescenti, o appena ventenni, sono tantissime. E ognuna è diversa.
Come quella di Jennifer, 18 anni compiuti a giugno, un appartamento da quaranta metri quadrati in
condivisione con il compagno di due anni più grande, nella periferia est di Milano. «Manuel è nato il giorno
dopo il mio compleanno: il regalo più bello che la vita potesse farmi», racconta a bassa voce dopo averlo
fatto addormentare. «Quando ho visto le due linee sul test di gravidanza per un attimo mi si è appannata la
vista, e tutto il mondo si è fermato. Mi sono detta: ora tutto cambia.» Ed è cambiato. «Il prossimo anno
sosterrò l’esame di maturità compatibilmente con la maternità, e spero che i professori siano comprensivi –
racconta – Certo: so benissimo che non andrò mai all’Università, che non diventerò mai una donna in
carriera e che dovrò dire addio a feste e serate in discoteca. Ma non mi importa. Io, Fabio e Manuel siamo
una famiglia, loro sono il mio mondo. E questa è l’unica cosa che conta.» Anche a 18 anni.
E se la maternità «è come sentirsi colpire in petto da una fucilata», scriveva Oriana Fallaci nella sua Lettera
a un bambino mai nato, difendendo il diritto alla vita, Christian, che oggi compie un anno, non è stato una
pallottola vagante per Francesca. La “fucilata”, lei, 20 anni, l’ha cercata con determinazione e precisione. E
oggi è felice. Nonostante i sacrifici che lei e il padre del bambino, con il quale si sposerà fra qualche mese,
devono sostenere. «Lo so che può sembrare strano che una ragazza così giovane voglia diventare mamma –
racconta con voce dolce e profonda – ma del resto è quello che facevano le nostre nonne: un matrimonio in
età giovanissima e poi subito un figlio. E chi dice che fosse così sbagliato?»
Non c’è traccia di “incoscienza in fondo al basso ventre”, come cantava Francesco Guccini, neppure secondo
Alessia, 22 anni, mamma di una bimba di sedici mesi. Per lei questa gravidanza era un sogno accarezzato da
più di tre anni. Per un motivo di cui non fa mistero e che anzi rivendica: «I miei genitori hanno divorziato
quando avevo dodici anni. Non ho avuto un’infanzia felice. Ho sempre pensato che sarei guarita da questo
dolore solo con una famiglia tutta mia, che colmasse il vuoto d’affetto che avvertivo. Lorenzo, il mio
compagno, mi ha capita in pieno. Ed eccoci qua».
Quella «goccia di vita scappata dal nulla», sempre per descriverla con le parole della Fallaci, ha travolto
come un’onda, invece, Laura, 19 anni: «Non è stata una gravidanza programmata. Ci conoscevamo da poco e
non sapevano se la nostra sarebbe stata una di quelle storie destinate a bruciarsi in pochi mesi o a durare tutta
la vita. Di sicuro, comunque andrà a finire fra noi due, non mi sono mai pentita per un attimo di aver messo
al mondo Lucilla, che oggi ha un anno e tre mesi». Le difficoltà? Ci sono eccome. A cominciare dai colloqui
di lavoro. «Quando dico che sono già mamma a vent’anni, tutti sgranano gli occhi. E allora mi verrebbe da
dire: ebbene sì, ho fatto un figlio. Mica ho rapinato una banca.»
Da Panorama, 3 settembre 2012, di A. Giunti