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La consulenza psicologica nel Disturbo dell’identità di genere
secondo il modello umanistico-esistenziale e la Gestalt Therapy.
Anna Rita Ravenna* , Simona Iacoella**
"INformazione Psicologia Psicoterapia Psichiatria", n° 40, maggio agosto 2000, pagg. 78-91, Roma"
http://www.in-psicoterapia.com
Modelli di riferimento e terminologia
Percepire una profonda incoerenza tra la propria identità corporea
e il proprio vissuto di genere crea molto spesso una sofferenza
"inenarrabile": la persona non riesce a dare un "senso" né al
proprio sconforto né alla propria vita, sente di esistere e, allo stesso
tempo, sente negato dagli altri il suo diritto ad "esserci" così come
è, non comprende cosa accade né nella sua anima né nelle sue
relazioni, non ha a disposizione coordinate mentali con le quali
categorizzare i propri accadimenti esistenziali e non ha neppure le
parole per narrarsi a se stessa e tanto meno all’altro. Rimane allora
isolata quasi come "spettatore" del mondo fino al momento in cui
inizia a cercare dei contatti con persone che immagina vivano una
realtà analoga.
La visione del mondo fenomenologico-esistenziale sulla quale si
basa la Gestalt Therapy, nel riproporre il valore assoluto della
soggettività dell’uomo nel suo essere nel mondo, restituisce valore
individuale al processo evolutivo di ciascuna persona che, a partire
dalle proprie caratteristiche e risorse biologiche ed attraverso un
continuo susseguirsi di scelte in costante ed inscindibile relazione
con l’ambiente, costruisce il proprio percorso evolutivo e la propria
vita.
Ogni essere umano attraversa momenti di maggiore o minore
soddisfazione, a volte così profondi e pervasivi da richiedere un
sostegno specifico, nel tentativo di dare sollievo all’angoscia che
nasce dall’incapacità di rispondere all’interrogativo "Io chi sono?".
Anche nel caso delle persone con Disturbo dell’Identità di Genere
(DIG) quindi l’operatore si trova di fronte la specificità del disagio di
ciascuna persona, piuttosto che ad "oggettive sicurezze" derivanti
dalla nosografia psicopatologica. La Gestalt Therapy per le sue
stesse radici non può né ritiene utile "cristallizzare" le persone in
diagnosi ma, focalizzandosi sull’attuale dinamica psicofisiologica e
relazionale del singolo individuo, evidenzia le risorse utili per quei
cambiamenti che la persona sente fondamentali per il proprio
benessere, approfondendo la conoscenza della realtà specifica di
ciascuno in relazione con i suoi contesti di appartenenza.
Nel trattare la tematica esistenziale delle persone con DIG
intendiamo soffermarci brevemente sui termini dei quali appare
essenziale specificare il senso dato loro in questo lavoro.
Identità. Questa parola indica la possibilità e la capacità della
persona di sentire che è e rimane se stessa malgrado tutti i
cambiamenti che possono verificarsi nel corso della sua vita. I
mutamenti non impediscono all’individuo di sentirsi e di
riconoscersi persona costantemente uguale a se stessa nel corso
del tempo.
L’embrione al momento della fecondazione e il bambino di pochi
mesi non hanno ancora la coscienza autoriflessiva e quindi
neppure questo vissuto personale di essere se stessi, di
riconoscersi e di poter riportare a sé come unità tutte le esperienze
vissute nel tempo. E’ intorno ai due-tre anni che sembra
stabilizzarsi l’identità, la cui strutturazione ha inizio in un periodo
ben più precoce. L’evoluzione del bambino soprattutto nella
primissima infanzia passa attraverso alcuni momenti fondamentali
di ri-conoscimento della propria immagine: quando si guarda allo
specchio le prime volte non si riconosce, viene poi la fase in cui si
studia allo specchio (Stern, 1987), fino al momento in cui impara a
dire "Io" e a fare riferimento a se stesso in prima persona.
La costruzione dell’identità è dunque un processo complesso che si
sviluppa gradualmente e che ha origine nelle primissime capacità
del bambino di sentire, percepire e sperimentare sino alla capacità
di ricondurre costantemente a sé dapprima gli elementi che vanno
a costituire la sua struttura corporea e la sua esistenza fisica come
primo fondamento dell’esserci, poi le diverse esperienze, in modo
da costruire a livello nervoso centrale rappresentazioni mentali e
quell’immagine corporea che gli dà conto della sua esistenza. Le
informazioni vengono rimandate dal centro alla periferia e
viceversa, in un feedback continuo e circolare. Ha luogo così un
processo di graduale costruzione della identità il cui nucleo
fondamentale è appunto la primitiva esperienza corporea.
L’identità è intesa come il prodotto della corrispondenza tra
rappresentazioni del Sé, inteso in senso corporeo e psicologico, ed
esperienza di sé (Ruggieri, 1988; 1997).
Genere. Negli ultimi decenni il termine ha assunto un significato
specifico e differente dal termine sesso; infatti, con il primo si
indica il vissuto della persona, mentre con il secondo si fa
riferimento all’aspetto più strettamente biologico, strutturale e
funzionale, o alle modalità di comportamento sessuale.
Nel linguaggio corrente si è soliti utilizzare prevalentemente la
parola sesso; al riguardo, in Italia pure la legge 164 del 1982
"Norme in materia di rettificazione di attribuzione di sesso" utilizza
questo vocabolo anche per quel che riguarda i documenti
anagrafici.
Il sesso maschile e quello femminile sono attribuiti alla nascita: un
neonato viene registrato come maschio o come femmina in quanto,
a supporto di quanto emerso dalle ecografie effettuate durante la
gravidanza, l’équipe sanitaria presente al parto effettua
l’osservazione degli organi genitali esterni ed uno dei genitori fa la
dichiarazione all'Ufficiale di Stato Civile, che lo iscrive nei registri
anagrafici.
Dalla nascita in poi ogni persona sviluppa una modalità ed uno
stile personale di vita ed in questo ha un ruolo fondamentale la
dimensione "appartenenza al genere" maschile o femminile.
L’identità di genere è dunque il vissuto di sé come maschio o
femmina stabilmente nel tempo, aderendo o rifiutando stereotipi
tradizionali senza mettere in discussione l’appartenenza di genere.
Riteniamo utile ragionare sull’identità di genere in termini di un
asse ai cui estremi siano collocate la struttura biologica femminile
e la struttura biologica maschile, determinate rispettivamente dalla
presenza dei cromosomi XX e XY e da un corredo biologicamente
coerente sia a livello strutturale che funzionale. Tra i due estremi,
collegati tra loro, vi è un continuum tra maschile e femminile
all’interno del quale ogni persona, con una identità cromosomica
data, sviluppa modi di essere e di stare nel mondo che, sia a livello
biologico che comportamentale, possono variare da persona a
persona e da momento a momento. Dalla antica "certezza" secondo
cui si riteneva che l’umanità fosse divisa in due sole categorie
specifiche, maschile e femminile, si è giunti oggi ad ipotizzare che
essa sia formata di individui con infinite variabili soggettive che
hanno il diritto di vivere in condizioni scelte e decise
personalmente.
Infine, utilizziamo l’espressione ruolo di genere per indicare la
modalità con cui, attraverso i comportamenti verbali e non verbali,
la persona esprime a se stessa e agli altri il genere, maschile e/o
femminile, cui sente di appartenere (Delle Grotti, Todino, 1999).
Diagnosi differenziale
Specifichiamo innanzitutto che preferiamo parlare dipercorso
diagnostico piuttosto che di diagnosi, termine che peraltro
etimologicamente rimanda al "riconoscere attraverso" i segni una realtà
più ampia e significativa, una Gestalt.
La finalità del percorso diagnostico è per noi il riconoscimento della
complessa realtà esistenziale della persona che si rivolge al
professionista, perché quest’ultimo possa aiutarla a scegliere in funzione
del suo benessere integrando i cambiamenti che ciò comporta.
La scelta di utilizzare come strumento conoscitivo gli indici di
riferimento internazionale forniti dal Manuale Diagnostico e Statistico
delle Malattie Mentali deriva dalla necessità di raccogliere delle
informazioni circa il percorso evolutivo individuale e di descrivere alcune
variabili, codificandole in modo da consentire un confronto tra l’équipe
di riferimento e gli altri professionisti che operano nell’ambito
dell’identità di genere, e che dia alle osservazioni effettuate dagli
operatori, ed in particolare a quelli che si occupano dell’area "psi", quel
supporto per così dire "più oggettivo" che viene richiesto in un ambito
"scientifico".
E’ necessario considerare che per lavorare nell’ambito del disturbo
dell’identità di genere è necessaria una conoscenza specifica della
tematica ed è importante a tal fine un confronto a livello sia nazionale
che internazionale tra operatori e Centri che si interessano al tema in
modo specialistico ed operano effettivamente nel campo.
Si tratta infatti di una realtà studiata "scientificamente" solo negli ultimi
decenni e le osservazioni riportate in letteratura si riferiscono ad un
numero limitato di casi.
Nonostante questa realtà sia stata descritta fin dai tempi antichi, ad
esempio nella mitologia, la scienza ha ignorato per lungo tempo
l'esistenza di persone transessuali ed ha continuato a considerare il
Disturbo dell’Identità di Genere (DIG) come un sintomo marginale di una
sindrome psichiatrica più ampia. Basti pensare che il transessualismo
non è stato neanche menzionato nella seconda edizione del Diagnostic
and Statistical Manual of Mental Disorders (DSM II, 1968), punto di
riferimento per gli psichiatri dell'intero mondo occidentale.
Negli ultimi decenni, però, l’aumentare del numero di persone
transessuali che richiedevano l'adeguamento dell’identità fisica
all’identità psichica tramite interventi chirurgici ha costretto gli operatori
della salute a prendere in considerazione questa realtà e a riconoscere
quello che Harry Benjamin nel 1966 aveva definito "il fenomeno
transessuale", includendolo nel DSM III (1980) nell'ambito dei "Disturbi
che insorgono nell’Infanzia, nella Fanciullezza o nell’Adolescenza". La
scelta dell’ambito in cui inserirlo era motivata dal fatto che
l'incongruenza tra il sesso assegnato alla nascita e l'identità di genere
che si va sviluppando nel corso del processo evolutivo a partire dalla
primissima infanzia (0-3 anni).
Nella versione successiva del Manuale (DSM III R, 1987), viene utilizzato
il termine transessualismo e tale realtà esistenziale è inserita nell'ambito
delle disforie di genere, espressione coniata da Norman Fisk nel 1973
per indicare un soggetto caratterizzato da un senso di inappropriatezza
rispetto al proprio sesso biologico, dal desiderio di possedere il corpo del
sesso opposto e di essere considerato dagli altri come tale (Blanchard
1988). Il vocabolo "transessualismo" ha un'accezione globale ed indica
anche la situazione di un soggetto che percepisce una dissonanza tra il
proprio vissuto e quanto è previsto socialmente per le persone con la sua
stessa identità fisica.
Un ulteriore cambiamento è stato introdotto dalla versione più recente
del Manuale, il DSM IV, che nel 1994 ha sostituito il termine
"transessualismo" con l’espressione "Disturbo dell’Identità di Genere" e
lo ha incluso tra i "Disturbi Sessuali e dell’Identità di Genere". I criteri
diagnostici sono i seguenti:
a. Una forte e persistente identificazione col sesso opposto (non solo
un desiderio di qualche presunto vantaggio culturale derivante
dall’appartenenza al sesso opposto).
b. Persistente malessere riguardo al proprio sesso o senso di
estraneità riguardo al ruolo sessuale del proprio sesso.
c. Il disagio non è concomitante con una condizione fisica
intersessuale.
d. Questa problematica causa un disagio clinicamente significativo o
una compromissione dell’area sociale, lavorativa o di altre aree
importanti del funzionamento.
Per inciso rileviamo che nel nostro lavoro, in relazione a quanto sopra
espresso rispetto alla molteplicità delle espressioni di "genere",
preferiamo non utilizzare l’espressione "sesso opposto" ma parlare di
identità fisica che le persone con DIG vivono come discrepante rispetto
all’identità psichica.
Uno dei compiti più rilevanti per lo psicologo è effettuare
una diagnosi differenziale fra Disturbo dell’Identità di Genere da una
parte e travestitismo, intersessualità, ermafroditismo, omosessualità,
transgenderismo dall’altra, realtà esistenziali profondamente diverse sia
tra loro che rispetto al DIG.
Il travestitismo è stato descritto per la prima volta da Hirschfeld all'inizio
del XX secolo, ma è una realtà umana conosciuta in tutti i tempi. E'
diffuso soprattutto tra gli individui di sesso maschile ed è riferito ad
uomini che provano un intenso piacere erotico nell'indossare
saltuariamente abiti femminili. Al travestitismo si può associare a volte
un comportamento feticistico in cui un oggetto inanimato, un abito o
una parte del corpo è sovrainvestita di interesse, acquista valore erogeno
e si rende necessaria per vivere il piacere sessuale.
Quando nel travestito è presente una componente feticistica, l'indossare
abiti femminili è stimolante dal punto di vista sessuale e può essere
accompagnato da fantasie sessuali e/o da masturbazione (Hertoft,
1982). I travestiti si identificano con il proprio sesso anatomico, non
dubitano della propria identità di genere e sono interessati ad effettuare
l'intervento chirurgico di adeguamento dei caratteri sessuali solo in
pochi casi e in periodi di particolare stress.
La persona transessuale al contrario indossa determinati abiti non per
travestirsi ma come naturale manifestazione della propria identità
psichica e l’abbigliamento è vissuto come l’elemento che agevola
l’"apparire" congruo con questa. Tale modalità non ha carattere
feticistico né procura eccitazione sessuale, come accade invece nel
travestitismo, tanto che il DSM IV definisce quest’ultimo come
"Feticismo di Travestimento".
Il DIG va poi distinto dalle diverse forme di intersessualità biologica; in
questi casi gli individui sono portatori di una variabile biologica che
comporta lo sviluppo di caratteristiche maschili e femminili ad un
tempo.
E’ noto che ogni cellula del corpo umano comprende il corredo
cromosomico in cui è iscritto, tra l’altro, il sesso della persona; durante
lo sviluppo embrionale si va strutturando uno dei possibili percorsi per i
quali l’organismo è biologicamente predisposto. Diverse variazioni
possono essere dovute alla struttura dei geni portatori della
caratteristica biologica di "mascolinità" e "femminilità"; questi geni
coesistono in ogni individuo ma sono generalmente equilibrati in modo
tale che prevalgano gli uni o gli altri, così che lo sviluppo organico e
funzionale si orienti o in senso maschile (XY) o in senso femminile (XX).
Nel caso di persone intersessuali, invece, rimangono attivi geni che
determinano lo sviluppo di caratteristiche di entrambi i sessi (esempio:
XXY). Malformazioni strutturali e/o funzionali possono derivare anche
dalla somministrazione erronea di ormoni in dosi elevate e per tempi
prolungati in diversi momenti dello sviluppo embrionale o neonatale o
anche in fasi successive.
Tra le forme di intersessualità ricordiamo la sindrome di Klinefelter
(quadro clinico caratterizzato da piccolo volume dei testicoli,
azoospermia, talora ginecomastia ed alterazioni cromosomiche per la
presenza di uno o due cromosomi anomali) e la sindrome di Turner
(quadro clinico connesso con aplasia o marcata ipoplasia delle ovaie,
frequentemente associata ad una particolare struttura genica e
caratterizzata da bassa statura, immaturità genitale, malformazioni sia
esterne che interne ed alterazioni ormonali).
Un'altra condizione da cui il DIG va distinta è l'ermafroditismo,
condizione in cui sono presenti in una stessa persona le ghiandole
genitali, e perciò i gameti, dei due sessi. Nell'individuo compaiono
pertanto contemporaneamente i testicoli e le ovaie oppure un organo
costituito da tessuto ovarico e testicolare ad un tempo.
Elemento fondamentale che differenzia il DIG dalle diverse forme di
intersessualità è la presenza in questi ultimi di caratteristiche genetiche,
quindi strutturali e funzionali, tra loro non congruenti, mentre negli
studi sperimentali svolti finora non è stata mai accertata la presenza di
caratteristiche genetiche né di disturbi endocrini né strutturali né
funzionali che possano spiegare o collegarsi all'insorgenza del DIG;
questo si evidenzia infatti esclusivamente attraverso il vissuto della
persona di appartenere ad un genere diverso da quello individuato alla
nascita.
Realtà completamente altra rispetto alle precedenti è l’omosessualità. Le
persone omosessuali hanno un chiaro vissuto di appartenenza al
proprio sesso biologico e ne sono soddisfatte, ottengono piacere dai
propri organi genitali ed hanno piena coscienza del fatto che il loro
oggetto d'amore è del loro stesso sesso.
L’individuo transessuale, invece, ha come oggetto d'amore una persona
dello stesso sesso anatomico, ma percepisce questa relazione come
eterosessuale, in quanto sente di appartenere ad un genere diverso
rispetto a quello del/la partner. La persona a volte, nella ricerca di
definire la propria realtà, può fare esperienza nel mondo omosessuale
ma lo sente estraneo e finisce per negare in modo assoluto l'attribuzione
a sé di omosessualità, al punto da rifiutare a volte qualsiasi rapporto
sessuale fino alla riattribuzione chirurgica di sesso.
Una differenza che accomuna travestitismo ed omosessualità maschile e
li distingue dal transessualismo da maschio a femmina (d’ora in poi
indicato con la sigla MtF) consiste nel fatto che gli organi genitali per i
primi sono una fonte di piacere erotico da cui non provano né il bisogno
né quasi mai il desiderio di separarsi, mentre per molte persone
transessuali sono un "errore della natura" dal quale liberarsi al più
presto, anche sopportando intense e profonde sofferenze.
E’ necessario infine evidenziare la distinzione rispetto al
transgenderismo; tale termine, diffusamente utilizzato in America ma in
Italia ancora poco conosciuto, indica le persone che vogliono vivere
secondo la propria identità di genere "al di là" del loro sesso, basandosi
sull'idea di non restare chiusi nel limite che la cultura "impone" rispetto
a ciò che la coppia di cromosomi indica e di voler scegliere di mantenere
la propria integrità corporea pur conservando il proprio vissuto
psicologico e spesso un aspetto "altro" rispetto al sesso biologico.
Il "riconoscimento" del DIG
Le persone che si rivolgono ad un Centro per il DIG desiderano nella
maggior parte dei casi riportare ad una situazione di armonia il vissuto
di incoerenza tra identità fisica e identità psichica per poter vivere la
propria esistenza a partire da un "minimo livello di benessere". Molte
vivono o hanno vissuto lunghi periodi della loro vita isolate, con notevoli
difficoltà nello sviluppo e nell’espressione di sé.
Il riconoscimento in termini di "genere" della propria realtà esistenziale
da parte dell’altro, di qualsivoglia interlocutore, sembra essere stato per
le persone transessuali l’"anello sensibile" del processo di costruzione
dell’identità; occorre dunque procedere con cautela nell’individuare una
condizione esistenziale definibile come Disturbo dell’Identità di Genere
secondo i criteri proposti dal DSM IV.
Quanto viene riferito dalla persona in sede di colloqui con lo psicologo è
in parte frutto di ricordi, in parte ricostruzione a posteriori del senso di
alcuni eventi della vita effettuata sulla base del desiderio di poter
integrare la propria esperienza individuale e al contempo di essere
riconosciuta dagli altri; la persona può dunque effettuare un "autoetichettamento" sulla base della sua necessità di definirsi e del suo
bisogno di riconoscersi.
White (1992) ritiene che siano le storie che le persone forniscono della
propria esistenza a determinare sia l’attribuzione di significato sia la
selezione degli aspetti dell’esperienza cui dare espressione. Infatti, per
dare significato all’esperienza bisogna organizzarla e sistematizzarla e,
nel tentativo di dare senso alla vita, gli individui organizzano in
sequenze le proprie esperienze dei fatti, per arrivare a una descrizione
coerente di se stessi. Il successo di questo compito conferisce un senso
di continuità e di significato alla vita, su cui si fondano il poter dare
senso alla vita quotidiana e l’interpretazione delle nuove esperienze.
Secondo Bruner (1987), le strutture narrative organizzano e danno
senso all’esperienza.
La rappresentazione di sé diventa dunque il modo per "dare forma" ad
un’esperienza molto profonda di incongruenza tra identità fisica ed
identità psichica e, quando la persona racconta la propria storia, diviene
particolarmente evidente che la strutturazione del racconto richiede un
processo selettivo, per cui si eliminano gli eventi che, non risultando
congrui tra loro e alla storia nel suo complesso, non consentono di
raggiungere un sentimento di unità con tutto quello che ha costituito la
propria storia.
Il soggetto seleziona consciamente ed inconsciamente il modo di
presentarsi in base all’effetto che vuole produrre, ed assume gli
atteggiamenti che ritiene più adeguati alle circostanze. E’ necessario che
lo psicologo sappia cogliere la complessità, anche quando la persona si
presenta attraverso un’etichetta, che risulta per lei rassicurante e le
consente di riconoscersi, così come è importante che sappia sospendere
giudizio e valutazione e non viva l’urgenza di far rientrare la complessa
realtà esistenziale dell’altro in una categoria specifica.
Noi utilizziamo strumenti conoscitivi di tipo testologico sempre integrati
in una relazione interpersonale di sostegno clinico, in quanto è
esperienza ben nota che la persona nel raccontarsi entra in contatto con
parti sofferenti del sé. Anche in questa fase iniziale, dunque, è
necessaria una relazione capace di dare spazio ed eventualmente di
contenere e favorire l’elaborazione delle intense emozioni che la persona
può esprimere nel corso degli incontri.
Per poter accompagnare in modo opportuno gli individui in tutte le fasi
del percorso di adeguamento, è fondamentale che il professionista
sappia stabilire un rapporto in cui la persona senta di collaborare
attivamente e consapevolmente nella progettazione e nello svolgimento
del percorso che ha intrapreso e allo stesso tempo possa sentirsi
compresa e possa esprimersi senza sentirsi giudicata.
E’ necessario quindi basare la relazione sul rispetto della persona nella
sua totalità, nel suo modo di vedere le cose e di esprimerle, e trasmettere
all’altro che si è coscienti della complessità della sua realtà esistenziale
(Lis et al., 1995).
Si tratta di un percorso diagnostico che prevede il lavoro integrato di
diversi professionisti per approfondimenti conoscitivi (indagini genetiche,
ormonali, psichiatriche, psicologiche, ecc.) al fine di confrontare la
descrizione cosiddetta "manualistica" e l’autodefinizione della persona.
Stabilire che si tratta di un individuo con DIG vuol dire ritenere che la
persona possa trarre effettivamente giovamento dall’iter di adeguamento
tra identità fisica ed identità psichica. Nel processo diagnostico è
importante non effettuare indagini inutili che porterebbero ad eccessi
lesivi della dignità della persona, ma anche occorre evitare
"riconoscimenti" prematuri.
Il punto di partenza è l’indagine cromosomica che, evidenziando la
presenza di un cariotipo XX o XY, esclude la presenza di alterazioni a
questo livello.
Una seconda indagine è relativa alla funzionalità endocrinologica di base
per accertare se vi siano alterazioni o se l’assetto ormonale risulta invece
conforme al sesso biologico della persona. A queste si aggiunge poi
un’ecografia pelvica.
Viene effettuata poi l’indagine psichiatrica, che consente di stabilire se la
persona è "in grado di intendere e di volere", ossia in grado di formare ed
esprimere la propria volontà e di mantenerla nel tempo assumendosi la
responsabilità delle proprie scelte. Le problematiche psichiatriche
maggiori infatti non consentono alla persona relazioni con il proprio
mondo interno e con il mondo relazionale adeguate per effettuare delle
scelte fondamentali per giungere ad una buona qualità di vita.
La persona che avverte una profonda discrepanza tra identità fisica e
identità psichica si sente ostacolata nella vita sociale e lavorativa, che
pure in molti casi porta avanti, tra difficoltà e sofferenze, con
competenza e autonomia; vive un forte stato di sofferenza e di disagio; è
consapevole della struttura del proprio corpo. In questi casi si può
escludere con elevata probabilità che il vissuto di genere sia il risultato
di un delirio.
Nel corso di colloqui clinici, effettuiamo quindi un’anamnesi
approfondita volta a raccogliere la storia passata ed a considerare come
questa si presenta nella realtà attuale della persona, nonché le sue
aspettative e motivazioni rispetto all’iter di riattribuzione chirurgica di
sesso (RCS). Ne deriva un profilo psicologico che risulta di importanza
fondamentale per la strutturazione dell’iter di RCS.
4. Ambiti e contesti in cui è richiesta la consulenza psicologica
Differenti e complessi sono gli aspetti relati con il processo di
adeguamento dell’identità fisica all’identità psichica, e lo psicologo può
trovarsi ad operare in situazioni e su richieste diverse:
1. del cliente e/o della sua famiglia;
2. di una équipe medica;
3. di una scuola o di altri centri per l’età evolutiva;
4. di colleghi per supervisione;
5. del Giudice (consulenza tecnica d’ufficio);
6. del cliente attraverso il proprio avvocato (consulenza tecnica
di parte).
In ognuno di questi casi è fondamentale instaurare un rapporto diretto
con la persona e saper raccogliere la storia di vita con informazioni
specifiche sulla sua attuale condizione esistenziale e su aree specifiche
del suo percorso evolutivo, nonché effettuare un’adeguata analisi della
domanda che, tenendo conto del contesto in cui si colloca la richiesta,
approfondisca la conoscenza della motivazione dell’utente agli incontri
con lo psicologo.
Ad eccezione del primo caso, la relazione con il cliente è mediata da una
richiesta fatta da altre persone e si deve tener conto dei diversi elementi
che entrano in gioco nei singoli contesti e che influenzano in modo
rilevante le finalità dell’approfondimento e le modalità con cui lo stesso
si svolge.
1. Nella prima situazione la persona che ha raggiunto la
consapevolezza di un disagio profondo e non più eludibile può
rivolgersi a un professionista nella speranza che sia in grado di
aiutarlo ad affrontare le proprie problematiche e a "dare un nome"
al proprio disagio; la richiesta implicita sembra quella di essere
inclusi in una categoria diagnostica che, per quanto limitante,
possa rivelarsi comunque rassicurante rispetto ad un malessere
profondo e confuso cui non si riesce a dare né senso né nome.
Quando il primo contatto avviene con uno psicologo, spesso la richiesta
evolve in una psicoterapia, affinché la persona possa chiarire a se stessa
il senso del proprio disagio esistenziale e delle limitazioni ad esso
connesse. Nel percorso terapeutico è fondamentale dare spazio alla
persona perché possa sostenere il dubbio per il periodo necessario per
potersi identificare in maniera unica ed individuale come essere umano
con le sue caratteristiche personali prima ancora che con il suo genere.
Qualora invece l’individuo si rivolga allo psicologo avendo già intrapreso
l’iter di RCS, si può iniziare un percorso di sostegno psicologico che
accompagni la persona durante l’iter stesso.
Per questo lavoro sono fondamentali sia un modello teorico di
riferimento che una conoscenza approfondita e specialistica sul DIG che
un’esperienza clinica pregressa con persone che vivono questa realtà.
Utile risulta inoltre la psicoterapia di gruppo, che consente ai
partecipanti il confronto e l’elaborazione delle esperienze.
La consulenza può essere inoltre richiesta da una famiglia un cui
membro presenti delle problematiche di genere. Si tratta a volte di
soggetti in età evolutiva e altre di persone in età adulta. In tali casi si
effettuano dei colloqui con l’intero nucleo familiare per favorire
l’elaborazione delle problematiche relazionali eventualmente presenti e
per fornire un sostegno adeguato rispetto alla situazione attuale.
Al riguardo, condividiamo quanto riportato da Pietrantoni (1995) circa il
fatto che in una famiglia la "scoperta" dell’omosessualità di un suo
componente può costituire un evento percepito come "critico" e
problematico all’interno dell’equilibrio familiare. Tenendo conto che un
evento risulta critico solo se è percepito come tale dalla famiglia,
l’intensità e la portata della crisi che può derivarne è funzionale al
significato che la famiglia attribuisce all’evento, che è legato ai valori
sociali e alla tradizione familiare. Il momento di crisi sfida le abituali
modalità di funzionamento familiari e richiede l’attivazione di processi di
adattamento che coinvolgono la sfera sia cognitiva che emotiva ed il cui
esito dipende da tre fattori: la capacità di riconoscere ed utilizzare le
risorse disponibili; gli scenari simbolici attivati dallo "svelamento"; la
relazione con l’ambiente sociale che, se da una parte giudica, dall’altra è
l’unico spazio relazionale in cui possono emergere nuovi significati.
Come indica l’autore, la consulenza ha lo scopo ultimo di accompagnare
i genitori nell’elaborazione della perdita del figlio sperato" e sostituire
l’immagine fantasticata del figlio con una nuova immagine più
congruente alla realtà.
Tornando agli ambiti in cui lo psicologo può operare, se lavora in un
Ospedale dove si effettuano interventi di RCS, può svolgere anche
un’attività di counseling in reparto durante la degenza per gli interventi
chirurgici. E’ importante che nei reparti ospedalieri si giunga alla
creazione di modalità relazionali specifiche con cui gli operatori possano
rapportarsi agli utenti, che forniscano quel supporto che spesso i
sanitari sentono necessario nel confrontarsi con persone con DIG.
Bisogna tener presente d’altro canto che gli operatori sanitari hanno,
nella fase del ricovero, un ruolo fondamentale, in quanto sono in
contatto con le persone durante un momento estremamente delicato
relativo alla loro situazione esistenziale e relazionale.
Nel caso della persona che effettua l’iter di riattribuzione, lo psicologo
lavora anche a più stretto contatto con l’endocrinologo che somministra
le cure ormonali, per aiutare l’individuo, ancor prima degli interventi
chirurgici, ad elaborare i vissuti che emergono nel corso degli evidenti
cambiamenti che si verificano durante l’assunzione di ormoni.
2. Abbiamo visto inoltre che la richiesta di consulenza può essere
effettuata da un’équipe medica che opera nella struttura alla quale la
persona si rivolge per effettuare la RCS. L’intervento dello psicologo può
essere finalizzato ad una diagnosi differenziale di DIG, qualora il
Tribunale competente non abbia ancora emesso la sentenza che
autorizza la RCS, o ad una attenta conoscenza della situazione
dell’individuo se egli vive una fase in cui l’équipe ritiene che la RCS non
costituisca la soluzione più adeguata per quella persona per un maggior
benessere.
Quando un individuo ha ottenuto una sentenza, il chirurgo che riceve la
richiesta di RCS, operando in una struttura pubblica che effettua
interventi di questo tipo, sarebbe obbligato ad eseguire l’adeguamento
chirurgico dei caratteri sessuali. Se esistono motivi relativi alla salute
della persona in contrasto con quanto disposto dalla sentenza, il
chirurgo o l’équipe di riferimento dovrà inviare alla Procura della
Repubblica una dichiarazione che chiarisca i motivi per cui non intende
attuare quanto disposto dalla sentenza; in mancanza di tale procedura,
il diniego dell’intervento configurerebbe il reato di omissioni di atti di
ufficio.
Bisogna aggiungere che la sentenza del Tribunale sembra porre il
medico al riparo da problemi giudiziari (salvo quelli collegati ad errori
tecnici), ma rimane pur sempre il richiamo al codice deontologico, che
disciplina l'operato dei professionisti che non sono coercitivamente
tenuti ad eseguire, neppure dopo sentenza che autorizza interventi che
al momento in cui vengono richiesti non siano reputati dal chirurgo o
dall’équipe idonei a migliorare la qualità della vita della persona nelle
condizioni in cui attualmente questa si trova.
Rileviamo infine che il lavoro in équipe impone ai diversi professionisti
(medici, infermieri, avvocati, assistenti sociali, psicologi e così via) un
approfondimento dell’importanza della relazione operatore/utente.
Riteniamo infatti che sia importante creare una relazione adeguata sin
dai primi contatti con la struttura in cui viene effettuato l’iter, in quanto
si tratta di un percorso che richiede dei cambiamenti psicofisiologici
significativi, che hanno significato solo se la persona può mantenere il
senso di continuità della propria esistenza attraverso la costruzione di
un percorso di scelta consapevole e basata su un adeguato esame di
realtà.
3. Allo psicologo può essere inoltre richiesto un intervento per soggetti in
età evolutiva da parte dei familiari o di strutture, siano esse scuole o
centri pubblici o privati.
Per quanto riguarda i bambini, è interessante il lavoro che si svolge da
oltre 30 anni in osservatori psichiatrici (i.e. Londra), in cui vengono
portati bambini dai tre ai sei anni con problematiche relative all’identità
di genere.
Dalle osservazioni svolte risulta che la problematica, che si esprime nei
comportamenti infantili, solo in un terzo dei casi esita in una vera e
propria realtà transessuale (Di Ceglie, 1997). La presenza di tali vissuti
in una fase molto precoce avvalora l’ipotesi che questa realtà si strutturi
a due/tre anni. D’altro canto, durante l’età puberale tutto si rimette in
gioco: nella crisi di identità dell’adolescente l’interrogativo "Chi sono?"
cui il bambino di tre/quattro anni aveva trovato risposta si ripropone
con elevata intensità.
Le persone che chiedono la rettificazione chirurgica di sesso (RCS)
riportano spesso che fino ai sette/otto anni speravano di svegliarsi una
mattina e trovare il proprio corpo modificato e che l’età puberale ha
comportato la conferma definitiva e ineludibile del proprio sesso
biologico. Durante l’adolescenza inoltre si attualizza la pulsione sessuale
verso il/la partner sessuale, pulsione che, come sappiamo, tra i dieci e i
quattordici anni è consapevolmente o inconsapevolmente orientata in
senso omosessuale per volgersi in breve nella maggior parte dei casi
verso l’eterosessualità. L’adolescenza è quindi un momento in cui la
persona rimette in discussione tutta la propria realtà.
Occorre inoltre effettuare delle riflessioni circa la possibilità di lavorare
con gli adolescenti in modo tale da garantire l’elaborazione
dell’esperienza di incontro con lo psicologo e la capacità di darle un
senso e di integrarla. Appare opportuno in questa fase evolutiva evitare
cure ormonali e chirurgiche ed effettuare gli incontri in setting che non
siano specificamente volti ad effettuare l’adeguamento chirurgico dei
caratteri sessuali ma piuttosto caratterizzati da un lavoro specialistico
sul genere, per evitare sia il rischio di un "auto-etichettamento"
derivante dalla necessità di definirsi, sia l’influenza che un gruppo può
avere su degli adolescenti, che trovano in esso un forte supporto al
riconoscimento. E` fondamentale poter dare all’adolescente spazio
sufficiente perché possa restare nel dubbio tutto il tempo che occorre
per potersi identificare nella condizione di adolescente, nuova,
problematica, turbolenta, complessa rispetto a quella di bambino,
condizione nella quale oramai si muoveva a proprio agio.
L’intreccio originario della condizione di transessualità va letto poi nel
contesto relazionale d’origine: dal concepimento in poi si è susseguito un
complesso insieme di eventi, tale che la persona non ha potuto portare
avanti in altro modo il proprio sviluppo e la propria condizione.
La Coats (1995), che si è occupata in particolare di bambini di sesso
maschile, riporta che molto spesso la problematica dell’identità di genere
si realizza nel contesto di un disturbo dell’attaccamento: la maggior
parte delle madri avrebbero abitudini e pratiche educative che
interferiscono con lo sviluppi dell’autonomia dei figli, e difficoltà a
separarsi da loro. Molti padri avrebbero cercato in un primo momento di
stabilire un legame con i figli ma, sentendosi esclusi dal rapporto madrefiglio, non avrebbero avuto successo nel tentativo di creare una relazione
personale e separata con i figli. Inoltre, vi sarebbero alcune
caratteristiche temperamentali presenti nel bambino, quali un senso di
fragilità corporea, un’estrema sensibilità sensoriale ed affettiva ed una
vulnerabilità alle separazioni e alle perdite, che vengono accentuate dal
frequente verificarsi in queste famiglie di traumi durante i primi tre anni
di vita del bambino.
In tale fase, il bambino non ha ancora sviluppato la capacità di
astrazione e concettualizzazione, il suo è ancora un pensiero concreto
che consente il radicarsi profondo della convinzione che se si veste da
maschio può comportarsi da maschio ed essere "realmente" maschio.
Ipotizziamo quindi che se nei primissimi anni la famiglia permette e/o
agevola la libera attuazione di comportamenti tramite i quali il bambino
si sperimenta e che sono espressione dei suoi vissuti, egli stesso vive
piacevolmente e senza traumi la sua identificazione nel genere opposto.
E’ generalmente l’ingresso nella scuola, e soprattutto nella scuola
elementare, dove i generi sono più definiti rispetto all’asilo, che evidenzia
un primo momento di crisi.
Abbiamo avuto modo comunque di rilevare che spesso richieste di
intervento per comportamenti "sessocrociati" in questa fase dello
sviluppo derivano più dall’ansia di uno o più adulti che, di fronte alla
complessa realtà evolutiva del soggetto di cui si occupano, hanno
bisogno di chiarire in primo luogo a se stessi "di cosa si tratti"; si è
infatti abituati a pensare per categorie di tipo dicotomico, per cui
l’individuo può essere o maschio o femmina, e non sono tollerate
situazioni di indefinizione o di compresenza di elementi dell’uno e
dell’altro genere.
Se la richiesta viene effettuata da parte di operatori che lavorano in una
scuola o in un Centro per l’età evolutiva, di volta in volta sarà necessario
comprendere se occorre un intervento con l’operatore o con il gruppo
che si occupa del singolo bambino o ragazzo. A volte sono stati
organizzati da professionisti specializzati dei corsi per tutti gli operatori
dei Centri, i quali hanno mostrato un notevole interesse verso la
tematica più generale dell’identità di genere che, essendo estremamente
complessa e in continua evoluzione, può sollevare molti dubbi ed ansie.
Questi corsi possono avere anche un valore di tipo preventivo:
l’operatore, quale ad esempio l’insegnante, può cogliere precocemente
dei segnali di malessere del bambino rispetto al genere ed effettuare
eventualmente, dopo un adeguato periodo di osservazione, un invio ad
un Centro specializzato.
4. Lo psicologo può effettuare inoltre un lavoro di supervisione per i
colleghi che si occupano di persone con DIG; la supervisione può avere
diverse finalità e svolgersi in setting individuale o gruppale, in strutture
pubbliche o private.
Gli incontri di supervisione possono avere come obiettivo
l’organizzazione o la riorganizzazione di un Servizio interdisciplinare per
la diagnosi e la strutturazione di percorsi integrati di adeguamento tra
identità fisica e identità psichica o l’elaborazione dei vissuti di singoli
operatori o di équipe che lavorano in questo ambito.
La tematica dell’Identità di Genere si intreccia con vissuti complessi ed
ancestrali non solo dell’utente ma anche dello stesso operatore della
salute che è soggetto ad un rapido burn-out se non ha effettuato o non
viene aiutato ad effettuare un percorso di integrazione rispetto alla
propria identità di genere, che gli consenta di confrontarsi con le
situazioni di dissonanza profonda che le situazioni con cui è a contatto
possono creare. Ad esempio, di fronte ad un FtM con un aspetto molto
maschile, cosa prova nel chiamare la persona che ha di fronte con il
nome anagrafico (femminile) o nel chiederle a che età ha avuto il
menarca? Quali sono le risonanze in se stesso? Cosa sente? E cosa
trasmette all’interlocutore?
5. Un’altra situazione in cui lo psicologo può lavorare come consulente è
quella prevista dall’art. 2 della L. 164/82, che stabilisce che il giudice
può disporre una consulenza intesa ad accertare le condizioni
"psicosessuali" dell’interessato; il giudice può dunque farsi assistere da
uno o più consulenti di particolare competenza tecnica che sceglie
normalmente tra le persone iscritte in albi speciali o tra professionisti
specializzati nel settore.
Il consulente tecnico d’ufficio (CTU) compie le indagini e fornisce i
chiarimenti che gli sono stati richiesti dal giudice e ha l’obbligo di
prestare il suo ufficio, tranne che il giudice stabilisca un giusto motivo di
astensione; può essere ricusato dalle parti solo per specifici motivi, ad
esempio interesse personale nella causa o in altra vertente su identica
questione di diritto.
All’udienza di comparizione il giudice riceve il giuramento di adempiere
le funzioni affidategli; il CTU compie dunque le proprie indagini e può al
riguardo essere autorizzato ad assumere informazioni da terzi.
Il C.T.U. ha notevoli responsabilità e risponde penalmente qualora
affermi cose non conformi alla realtà; il giudice rimane comunque il
peritus peritorum, unico artefice e responsabile della decisione (Quadrio,
1995). La consulenza tecnica d’ufficio è per il giudice uno strumento per
formarsi un parere personale; egli ne fa poi l’uso che ritiene opportuno
in quanto la responsabilità di quello che decide è soltanto sua. Il
consulente tecnico d’ufficio, quindi, ha come referente primario il
Giudice e in seconda istanza il ricorrente, attraverso il quale può avere
anche una relazione con il consulente tecnico di parte.
Infatti, nel corso delle indagini le parti possono intervenire alle
operazioni in persona o a mezzo dei propri difensori e dei consulenti
tecnici di parte (C.T.P.): il giudice assegna loro un termine entro il quale
nominare un proprio consulente tecnico che, oltre ad assistere alle
operazioni del consulente del giudice, partecipa all’udienza in camera di
consiglio ogni volta che interviene il consulente del giudice, per chiarire
e svolgere sue osservazioni sui risultati delle indagini tecniche.
Una volta depositate in Tribunale le relazioni, il Giudice emette una
prima sentenza che, presentata in copia autentica, consente alla
persona di chiedere l’asportazione chirurgica degli organi genitali e, se lo
desidera, la costruzione di un neo-pene (FtM) o di una neo-vagina (MtF).
Effettuata l’asportazione degli organi genitali, la persona presenta poi
una nuova istanza allegando la cartella clinica perché il Giudice possa
emanare una sentenza che ordina all’Ufficiale di Stato Civile i
cambiamenti anagrafici relativi al nome e al sesso. Il giudice anche in
questa fase può nominare un nuovo CTU per accertare che l’intervento
sia stato effettuato, qualora non ritenga adeguata, sufficiente o chiara la
certificazione presentata.
I CTU hanno l’obbligo di formarsi un loro parere; a tal fine, possono
avvalersi anche di elementi tratti dalla lettura di relazioni stilate da
colleghi in consulenze precedenti e possono chiedere di prendere visione
dei protocolli di test a cui la persona è stata sottoposta. In alcuni casi,
dopo averli studiati attentamente, il CTU può ritenere il materiale a sua
disposizione sia adeguato per rispondere ai quesiti del giudice e può
evitare di sottoporre il cliente ad ulteriori accertamenti, necessari solo
qualora la documentazione non risulti sufficiente.
Uno dei quesiti che il giudice spesso pone al CTU è "Ritiene il consulente
tecnico che questi interventi possano migliorare la qualità di vita ed
operare in funzione del benessere della persona?".
Un altro quesito diffuso è il seguente: "Dica il CTU quali sono le condizioni
psicosessuali del ricorrente, la possibilità di porre la diagnosi di disturbo
dell’identità di genere, se gli interventi richiesti sono effettivamente
necessari per il benessere del ricorrente, se possono essere eseguiti senza
essere particolarmente pericolosi e causare danni alla salute del
ricorrente".
La risposta ai suddetti quesiti e ad altri che in questi casi possono
essere posti risulta estremamente complessa e richiede una buona
conoscenza teorica, esperienza clinica e rispetto della deontologia
professionale.
Bisogna infatti tener conto che non necessariamente l’intervento
chirurgico opera in funzione del benessere dell’individuo, anzi, talvolta
può risultare disadattativo; è importante quindi valutare se la persona
può effettivamente giovarsi dell’intervento per integrare i cambiamenti in
una personalità più ricca e più flessibile e rendersi conto di qual è il
contesto personale, relazionale ed ambientale in cui si colloca la
richiesta.
Possono essere nominati come consulenti tecnici d’ufficio le figure
professionali più svariate: spesso viene nominato l’urologo perché la
costruzione dei genitali soprattutto nel caso delle perone FtM è molto
delicata e la chirurgia è in continua evoluzione, a volte un medico legale,
altre un ginecologo, altre ancora lo psichiatra o lo psicologo.
La relazione scritta è effettuata generalmente seguendo uno schema; tra
i molteplici presenti in letteratura, ne abbiamo sintetizzato uno che
riteniamo utile così strutturato: descrizione delle premesse (data
dell’ordinanza, autorità che l’ha disposta, ecc.); incarico e quesiti;
calendario delle operazioni e verbali delle stesse; analisi della
documentazione utile tra quella presentata al magistrato e allegata agli
atti; dati anamnestici; esame degli elementi emersi nel corso dei colloqui
e dei test psicodiagnostici; discussione; risposta ai quesiti (Fornari,
1989; Bruno, 1996).
I risultati delle indagini del CTU sono presentati, a seconda che il
giudice sia presente o meno, come processo verbale o relazione scritta,
che deve essere depositata in cancelleria nel termine che il giudice ha
fissato.
Uno degli elementi importanti da tenere in considerazione nella stesura
della relazione è che la psicologia, come ogni disciplina, ha una
terminologia specifica ed usa delle espressioni verbali che sintetizzano in
poche parole concetti complessi; se il CTU si rivolge al giudice, senza
venir meno al rigore scientifico, avrà cura di spiegare il significato dei
termini utilizzati, di chiarire il concetti, di fornire ogni necessaria
esplicitazione (Ponti, 1987). Tale modalità favorisce inoltre una maggiore
comprensione da parte delle persone sottoposte a consulenza, che
risultano così coinvolte in prima persona e sono in grado di capire
quanto viene riferito al loro riguardo.
Durante la consulenza, si creano delle dinamiche relazionali particolari
per cui la persona, che ha un suo scopo, può mettere in atto delle
modalità relazionali di tipo manipolativo atte a conseguirlo; la
consulenza rappresenta inoltre un setting di lavoro in cui si accentuano
l’ansia e le difese in quanto il CTU è vissuto come un ausiliario del
giudice, capace di influenzare il destino individuale o di decidere per
l’altra persona (Ponti, 1987). Inoltre, l’iter mediamente dura due anni e
per queste persone, che hanno già fatto sovente un lungo percorso,
l’attesa è una dimensione molto importante nell’accrescere le aspettative
rispetto alla consulenza, che viene vissuta a volte come l’unica
possibilità per risolvere le proprie problematiche.
6. L’ultima condizione da noi considerata in questo lavoro è quella del
consulente di parte (CTP) che, una volta nominato, dovrà essere
convocato dal CTU a tutti gli incontri che farà con il cliente, salvo che
non si effettuino accordi diversi tra le parti. Ad esempio il CTU può
chiedere al CTP il consenso per fare alcuni colloqui con il cliente senza
la sua presenza, perché i colloqui di tipo psicologico sono ben diversi se
è presente una terza persona, che in questo caso ha il ruolo di
"testimone"; se il cliente non ha nulla in contrario, il consulente di parte
può accettare.
E’ utile sottolineare la differenza a livello di immaginario tra consulenza
tecnica d’ufficio (C.T.U.) disposta dal Tribunale e consulenza tecnica di
parte (C.T.P.). In queste ultime di fatto vi è spesso un rapporto continuo
con l’avvocato e poco frequente con il cliente e si determina una
situazione nella quale si ha l'obbligo fondamentale di portare avanti la
problematica e gli interessi del cliente in stretta collaborazione con
l’avvocato. Si tratta di una situazione complessa in quanto bisogna da
una parte compiere degli accertamenti sulla realtà dei fatti e dall’altra
agire in modo consono all’incarico ricevuto. La scelta da noi effettuata è
quella di stabilire un rapporto diretto con il cliente, anche se spesso il
ruolo dell’avvocato è comunque significativo, e di riportare le proprie
convinzioni sulla realtà personale dell’altro indipendentemente dagli
interessi della parte stessa.
Esiste infatti una deontologia per il C.T.P.: è evidente che egli opera per
tutelare l’interesse di una parte che paga l’onorario, come l’avvocato con
il quale del resto agisce d’intesa, concordando la linea di condotta;
entrambi non sono vincolati dal dire la verità, il che non autorizza
comunque il C.T.P. a dire il falso: egli può verificare che il C.T.U. esegua
il proprio mandato correttamente ma non cercherà di alterare dati né
notizie e rifiuterà operazioni che l’etica professionale vieta (Ponti, 1987).
*Psicologa, psicoterapeuta - Istituto Gestalt Firenze sede di
Roma (torna su)
** Psicologa Ministero della Giustizia (torna su)
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