Mons. Gianantonio Borgonovo - Il Sacro Chiodo

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Mons. Gianantonio Borgonovo - Il Sacro Chiodo
GIANANTONIO BORGONOVO
IL SANTO CHIODO DEL DUOMO DI MILANO
La tradizione riguardante il ritrovamento della Croce di Cristo risale al IV secolo, ma la
sua precisa ricostruzione non è semplice. Eusebio di Cesarea (265-340) conosce bene i lavori
compiuti al tempo di Costantino sul Calvario, gli anni seguenti al Concilio di Nicea del 325.
Tuttavia, egli non parla del ritrovamento della croce. 1 Nessun accenno alla reliquia della croce
è presente nell’Itinerarium del Pellegrino anonimo di Bordeaux (del 333). Ne parlano invece
tutti i diari dei pellegrini in Terrasanta, a partire da Egeria (o Eteria), ovvero dal 380 in poi. 2
Egeria riferisce che il 14 Settembre, giorno in cui si commemorava la dedicazione
del Santo Sepolcro, coincideva con quello del ritrovamento della Croce: «Le dediche
di queste due sante chiese vengono celebrate con sommo onore, perché la Croce del Signore
fu trovata in quello stesso giorno». Le due chiese alle quali alludeva la pellegrina sono
il Martyrion, struttura basilicale eretta vicino al Golgota, e l’Anastasis (Resurrezione), una costruzione rotonda che custodiva i resti della grotta identificata come
il luogo della sepoltura di Gesù. Con grande partecipazione di clero e popolo dei
fedeli, la liturgia del 14 Settembre prevedeva l’ostensione della reliquia del legno
della Croce, pratica che, con il trascorrere dei decenni, divenne fulcro di devozione
e oggetto principale della solennità. Nel VI secolo la celebrazione liturgica è già
ricordata con il nome di Exaltatio Crucis, dove il termine Exaltatio è da intendersi
come «elevazione» e, al contempo, «ostensione». Il titolo si riferisce al rito, che
prevedeva l’innalzamento del legno e la sua ostensione ai fedeli, a ricordo dell’innalzamento di Cristo sulla Croce e dell’ostensione del suo corpo sacrificale. Ben
presto si persero i riferimenti alla dedicazione del Santo Sepolcro: intorno al 520 il
pellegrino Teodosio citava la festa del ritrovamento della Croce, senza accennare
alla dedicazione delle chiese del Martyrion e dell’Anastasis.
Si deve quindi ragionevolmente concludere che la tradizione letteraria dell’inventio crucis
abbia avuto inizio tra il 333 e il 380, con sufficiente precisione cronologica.
1. LA TRADIZIONE LETTERARIA
SULL’INVENTIO CRUCIS E SUI CHIODI DELLA CROCE
Il primo a parlare dell’inventio crucis è Cirillo (ca 315-387), vescovo di Gerusalemme. Egli
ne parla in una lettera scritta nel 351 all’imperatore Costanzo come di un fatto avvenuto sotto
Costantino. Secondo Cirillo, la grazia divina concesse il ritrovamento “a colui che cercava la
pietà”. 3 Il breve resoconto sembra però escludere che la scoperta fosse da attribuire a Elena,
perché si parla al maschile di un ignoto convertito, “cercatore della pietà”. Per di più, Cirillo
Cf EUSEBIUS, De vita Constantini, I, XII-XVII, ed. F. WINKELMANN, in Eusebius Werke, Akademie-Verlag, Berlin
19912 (GCS), 21-25.
2
EGERIA, Diario di viaggio, introduzione, traduzione e note di E. GIANNARELLI (Letture Cristiane del Primo
Millennio 13), Ed. Paoline, Torino 1992.
3
τῆς θείας χάριτος τῷ καλῶς ζητοῦντι τὴν εὐσέβειαν τῶν ἀποκεκρυμμένων ἁγίων τόπων παρασχούσης τὴν
εὕρεσιν «quando la grazia divina a un uomo che rettamente cercava la pietà diede in cambio di ritrovare i luoghi
santi che stavano nascosti» (PG XXXIII, 352, p. 1168).
1
1
dice solo che la scoperta avvenne per un caso fortuito, durante i lavori per la realizzazione
della Basilica del Santo Sepolcro e non in seguito a un pianificato progetto di ricerca. A
conferma, Cirillo informa Costanzo di un fenomeno miracoloso avvenuto all’inizio del suo
episcopato: la comparsa nel cielo di Gerusalemme di una croce luminosissima. Ciò non
esclude che il ritrovamento fosse avvenuto durante gli scavi organizzati da Elena.
Alla madre di Costantino, invece, attribuiscono il ritrovamento sia della croce sia dei chiodi
Ambrogio nel 395, Paolino (forse nel 403) e Rufino d’Aquileia nel 402, oltre alle successive
tradizioni che da questi dipendono. Si noti che tutti e tre collegano l’inventio Crucis con gli
scavi imperiali per la costruzione dell’Anastasi a Gerusalemme, dopo il Concilio di Nicea. I
tre però si dividono su diversi punti, come adesso analizzeremo.
1.1 La testimonianza di Ambrogio (De obitu Thedosii, 39-51)
Partiamo dall’orazione funebre di Ambrogio proclamata in occasione della morte
dell’imperatore Teodosio. A dire il vero, prima del De obitu Theodosii ambrosiano, ovvero
prima del 25 febbraio 395, si deve ipotizzare che circolasse una proto-versione del racconto,
archetipo della tradizione storiografica successiva, che sarebbe stata tramandata da Gelasio di
Cesarea (morto nel 395), nella sua Storia Ecclesiastica, prosecuzione della storia di Eusebio di
Cesarea, che s’interrompeva nel 325. Purtroppo ci è giunta in modo molto frammentario,
benché ricostruibile, almeno parzialmente, dalla filologia moderna. Sarebbe stato Gelasio il
primo a collegare il ritrovamento della croce con il Concilio di Nicea.
Ricordo schematicamente la dispositio retorica del discorso De obitu Theodosii: 4
– exordium (parr. 1-2)
– expositio (I sezione: parr. 3-16; II sezione: parr. 17-38)
– excursus de inventione crucis (parr. 39-51)
– peroratio (parr. 52-56).
L’excursus (parr. 39-51), che alcuni critici considerano a torto un’aggiunta fatta al momento
della redazione definitiva dell’opuscolo sulla base della mancanza di vincoli dinastici tra
Costantino e Teodosio, è il più antico resoconto e per la prima volta l’inventio crucis è attribuita
alla madre di Costantino, Elena, la locandiera, concubina di Costanzo Cloro, che la ripudiò
nel 289 per sposare l’aristocratica Teodora, figliastra di Augusto Massimiano.
Dopo l’assassinio nel giro di pochi mesi di Crispo e della moglie Fausta, sposati da quasi
venti anni, un duplice omicidio che gli autori di parte pagana, come Zosimo, attribuiscono a
Costantino e alla di lui madre, Elena restò l’unica donna influente a corte. Eusebio di Cesarea,
che sottolinea l’aspetto religioso e l’importanza politica del ben noto pellegrinaggio in
Terrasanta di Elena negli anni 327-328, non dice nulla dell’inventio crucis.
Nella versione ambrosiana dell’inventio Crucis, si narra che Elena abbia riutilizzato due
chiodi trovati sotto la cava dismessa nei pressi del Golgota: uno per forgiare un morso per il
cavallo e uno per la corona-diadema. È vero che è possibile trovare in Ambrogio un’allusione
a morso ed elmo, quando egli afferma che Elena cercò le sante reliquie della Passione quale
sicuro auxilium per il figlio, «quo inter proelia quoque tutus assisteret, et periculum non timeret»
(ibidem, 41). Ma il riferimento ambrosiano sposta l’attenzione principale dalla protezione in
battaglia alla maestà imperiale e all’abituale esercizio dell’autorità ad essa legata. In questo
Per il testo latino e la versione italiana si veda AMBROSIUS, «De obitu Theodosii», in Discorsi e Lettere. 1/ Le
orazioni funebri, Introduzione, traduzione, note e indici di G. BANTERLE (Opera Omnia di Sant’Ambrogio 18),
Biblioteca Ambrosiana – Città Nuova Editrice, Milano – Roma 1985, 211-251.
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modo, i chiodi trovati presso la croce non sono più connessi al solo Costantino e alla sua
dinastia, ma a tutti i successori cristiani.
Si ricordi, en passant, che in questo discorso Ambrogio cita per tre volte il passo di Zc 14,20:
in die illo erit quod super frenum equi est sanctum Domino «In quel giorno anche sopra il freno del
cavallo starà scritto “sacro al Signore”». Una volta è citato per esteso e due altre volte in modo
brachilogico: sanctum super frenum. E il versetto non è più citato da Ambrogio in altre opere.
L’interpretazione ambrosiana di Zaccaria è rifiutata da Girolamo in modo sprezzante: «Ho
sentito da qualche parte infatti un’interpretazione [di Zaccaria 14,20] detta in senso pio, ma
ridicola. I chiodi della croce del Signore, da cui l’imperatore Costantino aveva tratto dei freni
per il suo cavallo, sarebbero identificati con il “santo per il Signore”. Lascio alla prudenza del
lettore se ciò sia da intendere in entrambi i sensi». 5
Ancora Ambrogio: «Sul capo la corona, nelle mani il freno: la corona è fatta con la croce,
affinché la fede risplenda; pure il freno è fatto con la croce, perché moderi il potere: ci sia la
giusta moderatio, non l’ingiusta praeceptio». 6 L’antitesi è costruita tra la moderatio, che conserva
l’originaria nozione di temperamentum, ovvero il giusto equilibrio che caratterizza il buon
governo; e la praeceptio, ovvero la prevaricazione che caratterizza il governo tirannico.
L’excursus sulla inventio crucis termina con l’augurio che siano applicabili all’imperatore
romano cristiano le parole del Sal 20,4: «Posuisti in capite eius coronam de lapide pretioso».
L’assimilazione tra l’imperatore cristiano romano e Cristo è convalidata dalla citazione del
salmo, che esalta la protezione concessa da Dio al virtuoso re Davide, simbolo del re giusto e
figura di Cristo (con tutte le allegorie dell’esegesi patristica!).
A conclusione di quanto Ambrogio afferma nell’orazione funebre in onore dell’imperatore
Teodosio, va sottolineato che le successive fonti storiografiche e patristiche della prima metà
del V secolo, pur non essendo sempre tra loro corrispondenti, sono diverse dalla versione di
Ambrogio, poiché inseriscono nel racconto un evento miracoloso, per condurre al riconoscimento della vera croce.
Sette sono i testi che tramandano la versione dei fatti e possono essere divisi in due gruppi:
1) la storia ecclesiastica di Rufino, seguito da Socrate, Sozomeno, Teodoreto;
2) i racconti citati nella cornice di forme narrative differenti, quali discorsi oratorî di vario
tenore e lettere: citeremo una lettera di Paolino di Nola, da cui dipende la Chronica di Sulpicio
Severo (II, 33-34).
1.2 La testimonianza di Rufino d’Aquileia
(Epistola 31: Lettera a Sulpicio Severo)
La prima di queste Storie a comparire in ordine cronologico, se si esclude l’incompleto testo
di Gelasio di cui abbiamo ricordato almeno il nome, prima di addentrarci nell’analisi del
discorso di Ambrogio, è di Rufino, vescovo di Aquileia (345-411), databile intorno al 402. Ne
proponiamo un sunto, al quale seguiranno le varianti presenti nelle tre fonti storiografiche
successive.
«Audivi a quodam rem sensu quidem pio dictam, sed ridiculam. Clavos dominicæ crucis, e quibus Constantinus
augustus frenos equo suo fecerat, sanctum domini appellari. Hoc utrumque ita accipiendum sit, lectoris
prudentiae relinquo» (CSEL 76A, 898).
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«In vertice corona in manibus habena. Corona de cruce, ut fides luceat; habena quoque de cruce, ut potestas
regat: sitque justa moderatio, non injusta praeceptio» (ibidem, 48).
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Nella Storia Ecclesiastica di Rufino, Elena, ispirata da visioni divine, affronta un
pellegrinaggio a Gerusalemme alla ricerca della vera croce. Ivi giunta, chiede ai suoi abitanti
dove sia la Croce di Cristo, ma questa è difficile da ritrovare, poiché il luogo della crocifissione
è stato dimenticato e al suo posto è stata eretta una statua di Venere. È un segno del cielo ad
indicarle il luogo. L’imperatrice ordina così di demolire le vestigia pagane e di scavare nel
terreno. Scopre tre croci somiglianti tra loro e il Titulus, ritrovato separatamente dalla Croce
di Cristo, non offre «garanzie sufficienti». Per riconoscere quale delle tre sia la vera croce, Elena
attende un segno divino.
A Gerusalemme una nobildonna è gravemente malata e Macario, il vescovo della Città
Santa, si inginocchia al suo capezzale e prega Dio di mostrargli quale sia la Croce di Cristo.
Allora il vescovo pone, una ad una, le croci sopra il corpo della donna morente. Al contatto
con la terza, ella guarisce.
In seguito, Elena fa costruire una chiesa nel luogo del ritrovamento della vera croce; spedisce
a Costatino un frammento della reliquia e i chiodi, perché li inserisca nell’elmo imperiale e
nelle briglie del suo cavallo. Lascia, infine, il pezzo restante di croce a Gerusalemme,
depositato in un astuccio d’argento. Ancora in Terrasanta, Elena invita le sante vergini
consacrate a Dio a un banchetto e le serve umilmente a tavola.
A differenza di Ambrogio, Elena non fa forgiare con i chiodi un morso e una corona.
Secondo Rufino, ella spedisce i chiodi al figlio imperatore il quale ne trae un morso e un elmo.
Questa tradizione è riportata nel 409 da Rufino d’Aquileia, che muore una quindicina di anni
dopo Ambrogio. Egli è poi seguito da Socrate, Sozomeno e Teodoreto.
In Ambrogio come in Rufino vi è un forte sentimento anti-giudaico, persino nel momento
in cui si tratta di trovare l’esatta localizzazione del Golgota evangelico. Rufino però non
dipende del tutto da Ambrogio. Egli riferisce di un miracolo al quale Ambrogio allude
soltanto, per poter riconoscere quale fosse la croce di Cristo tra tutti i resti trovati presso il
Golgota. Rufino riferisce la sua versione nel contesto di una narrazione storica e sembra più
attendibile di Ambrogio nei riguardi della versione originaria: quando dunque Rufino dice
che Elena inviò i chiodi della croce ritrovata a Costantino perché ne facesse un morso per il suo
cavallo e un elmo che lo proteggesse in guerra, possiamo concludere che questi erano doni della
madre a Costantino nella versione originaria, che va però considerata posteriore al 351, ovvero
dopo la lettera di Cirillo. La sostituzione dell’elmo con la corona sarebbe invece una variante
di Ambrogio.
Tuttavia, è difficile che Ambrogio sia il responsabile della variazione di un dato ormai
tradizionale: è invece variatio di una leggenda di recente formazione o in via di formazione. Si
può spiegare così la duplice tradizione dei doni di Elena a Costantino: la versione secondo cui
uno dei chiodi era stato utilizzato per l’elmo dell’imperatore sembra nata all’interno della
dinastia di Costantino, probabilmente sotto Costanzo, dopo il 351, e ne riflette l’ideologia: il
significato simbolico dell’elmo, da usare in guerra, come il morso del cavallo, riflette la
mentalità di Costantino, che aveva posto il monogramma della croce sull’elmo nelle sue
monete e nel quale appare connaturata l’idea di alleanza con la divinità.
Nella versione di Ambrogio, invece, con la trasformazione dell’elmo in corona, il motivo
della croce ritrovata non è più collegato con Costantino e la sua dinastia, ma – nonostante
l’apostasia dell’ultimo Costantinide, Giuliano (361-363) – con tutti i successori cristiani di
Costantino. Il racconto dell’inventio crucis rappresenta, nel pensiero di Ambrogio, la
legittimazione dell’imperatore cristiano e costituisce il vero argomento dell’intero discorso,
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che è una sintesi della teologia politica del IV secolo: la redenzione dell’impero, ottenuta da
Elena col dono divino dei chiodi trasformati l’uno in morso, l’altro in corona.
Forte di quei doni, Costantino fidem transmisit ad posteros reges (De obitu Theodosii, 41).
Ambrogio sviluppa nei paragrafi successivi il principio che sta alla base della grande svolta:
Sapienter Helena quae crucem in capite regum locavit ut Christi crux in regibus adoretur
«Sapientemente Elena pose la croce sulla testa dei re, perché la croce di Cristo fosse adorata
nei re» (ibidem, 48). Ricordo che corona-diadema e morso, già nell’antica Grecia, erano
simboli del potere. In Ambrogio, la trasformazione dei chiodi in corona e in morso fonda un
nuovo rapporto del potere con Dio e con i sudditi. Il motivo del potere come servizio, caro
alla miglior tradizione romana, anche se spesso tradito nella prassi, riemerge con un significato
nuovo: il potere, in quanto tale, coronato e nello stesso tempo frenato dai simboli della
Passione di Cristo, riceve la sua autentica legittimazione nell’atto stesso in cui accetta di
rimanere nei limiti impostigli da Dio e non diventa arbitrio.
Nelle fonti successive, il racconto si ripete con alcune varianti. Nella Storia Ecclesiastica di Socrate
(439), Elena, alla ricerca della vera croce, considera il luogo della sepoltura di Cristo e non quello
della sua crocifissione. La storia di Socrate contempla l’aggiunta di un elemento originale, ignorato
dalle altre fonti: Costantino colloca all’interno della sua statua di bronzo, posta sopra l’alta colonna
di porfido a Costantinopoli, il frammento di Croce inviatogli da Elena.
Anche Teodoreto include il ritrovamento della Croce nella sua Storia Ecclesiastica (449). In esso,
vi è una sostanziale differenza nell’intenzionalità che conduce Elena ad affrontare il viaggio in Terra
Santa, non legata alla volontà di trovare le reliquie della Passione, ma alla necessità di portare a
Macario una lettera indirizzatagli da Costantino. Il testo di Teodoreto sottolinea la superiorità di
Elena rispetto al figlio: l’imperatrice imprime un’educazione cristiana a Costantino e, in punto di
morte lo benedice e lo istruisce con «molti precetti intorno al modo di vivere pio».
Nella Storia Ecclesiastica di Sozomeno (440-443) si fa riferimento per la prima volta, anche se non
esplicitamente, alla leggenda di Giuda Ciriaco. Sozomeno, infatti, dichiara che il luogo dov’era
sepolta la Croce venne riconosciuto da Elena grazie a sogni e segni divini e non per mezzo dell’aiuto
di un ebreo, erede di uno scritto che ne rivelava il luogo. La leggenda di Giuda Ciriaco era,
evidentemente, già in circolazione, almeno nella tradizione orale. Secondo l’autore greco, per
ordine dell’imperatore Costatino il luogo della crocifissione e della sepoltura viene interamente
ripulito dalle memorie pagane e fatto scavare fino alla comparsa della grotta della Resurrezione,
nella quale sono scoperte le tre croci, con a fianco il Titulus. La Storia di Sozomeno riporta due
versioni del miracolo della vera croce: la prima coincide con le precedenti di Rufino e di Socrate; la
seconda racconta di un uomo morto, resuscitato al contatto con la vera croce e non specifica la
presenza di Macario. La versione è rintracciabile in Paolino di Nola e in Sulpicio Severo (prima
metà del V secolo), oltre che nella già citata leggenda di Giuda Ciriaco. Il testo cita la profezia di
Zaccaria in relazione ai chiodi inviati da Elena a Costantino, presente anche nel De Obitu Theodosi
di Ambrogio, e una rivelazione sibillina desunta dagli Oracoli Sibillini, che predice la devozione del
legno di Croce: «O legno felicissimo sul quale Dio fu appeso» (Oracoli Sibillini 6,26).
1.3 La testimonianza di Paolino di Nola (Hist. Eccl., XVIIss)
Accanto alle due diverse versioni – se pure molto simili – sin qui ricordate, quella di
Ambrogio e quella di Rufino, dobbiamo ricordare anche la versione di Paolino di Nola (354431), seguita da Sulpicio Severo.
All’amico Sulpicio Severo, che chiedeva qualche reliquia per l’ormai prossima consacrazione della basilica di Primuliacum (oggi Primillac?), Paolino invia, nel 403, una particella di
un frammento della croce di Cristo, che Melania gli ha portato da Gerusalemme. La ripone
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in un astuccio d’oro e risponde con una lunga lettera di accompagnamento del dono, in cui
descrive all’asceta aquitano le circostanze del rinvenimento e l’attiva opera di Elena, madre di
Costantino.
Il dettagliato racconto dell’inventio sta in un ampio excursus, che si sviluppa in tre paragrafi
dei sei di cui è composta la lettera. Sin dall’inizio è messo in risalto l’aspetto devozionale,
elemento caratterizzante tutto il racconto. La sua versione differisce in molti punti rispetto
alle altre.
Sul luogo della Passione si trovava una statua di Giove e il motivo che avrebbe spinto Elena
ad intraprendere il pellegrinaggio, una volta ottenuto il permesso dal figlio Costantino, sta
nella volontà di distruggere i templi e gli idoli eretti nei luoghi calcati dal Signore e di
purificarli attraverso l’erezione di edifici di culto cristiani. Alcuni elementi sono aggiunti, altri
tolti. Ispirata dallo Spirito Santo, Elena cerca di essere informata sul luogo della crocifissione
e lo fa ricercare domandando non soltanto tra i cristiani, ma anche tra i giudei sapienti:
«Allora la regina fu rassicurata dall’unanime testimonianza di tutti riguardo al luogo della
Crocifissione, e certamente sotto l’impulso di una rivelazione interiore, immediatamente ordinò
che si disponessero le operazioni di scavo proprio in quel luogo e, apprestata senza perder tempo
una schiera di cittadini e di soldati, in breve portò a termine questo lavoro di scavo. Contro
l’aspettativa di tutti, ma proprio come soltanto la regina aveva creduto, lo scavo in profondità
dischiuse le cavità della terra e svelò il mistero della Croce nascosta».
Anche il racconto del miracolo della vera croce differisce rispetto alle altre versioni: non è il
vescovo Macario, del quale non c’è traccia, ma l’imperatrice stessa ad ordinare la prova, che
avviene attraverso la resurrezione di un cadavere recentemente morto («recens mortuum») e non
la guarigione di una donna malata:
«Il Signore volse lo sguardo alle pie preoccupazioni di coloro che erano in ansia per la loro fede e,
in modo particolare, a colei che era la prima ad essere turbata nella grande devozione del suo cuore
infuse l’ispirazione di questo consiglio, di ordinare cioè che fosse ricercato e portato colà un uomo
morto di recente. […] Al contatto col legno della salvezza, mentre la morte si dava alla fuga, il
cadavere si scosse, il corpo si eresse e l’uomo morto stette in piedi, tra lo sgomento dei vivi e,
liberato, come già Lazzaro, dalle bende funebri, ritornato in vita, subito si mise a camminare in
mezzo ai presenti che stavano a guardarlo».
Vengono taciuti sia il ritrovamento del Titulus sia il rinvenimento dei chiodi e il dono
fattone a Costantino. La parte finale della lettera descrive il culto rivolto alla reliquia
conservata a Gerusalemme e le sue prodigiose proprietà. La centralità della reliquia come
oggetto contraddistingue la lettera di Paolino di Nola, il cui scopo era quello di accompagnare
la missiva di un pezzetto della Croce. Il destinatario del dono e della lettera, Sulpicio Severo,
nella sua Chronica attinse certamente la versione del proprio racconto dall’amico Paolino.
Il Nolano sembra far capo a un filone di tradizione diverso da quello che accomuna
Ambrogio e Rufino. Le sue fonti sono probabilmente legate alla testimonianza di Melania e
di derivazione palestinese. La versione di Ambrogio-Rufino, nel corso del medioevo, si
afferma a scapito di quella di Paolino, destinata all’oblio perché meno funzionale alla polemica
antiebraica. Il topos della “tortura dell’ebreo” diviene canonico a partire dalla Legenda aurea
di Jacopo da Varazze (o Varagine, 1228-1298), un testo redatto nella seconda metà del XIII
secolo da cui dipendono i cicli pittorici dedicati all’inventio crucis dei secoli successivi.
Il testo di Paolino si conclude con l’augurio che il frammento inviato a Sulpicio sia «non
solum benedictionis monimento, sed et incorruptionis seminario futurum» (6,34-35). Esso si inserisce
all’interno di una complessa serie di testimonianze rintracciabili nel corpus paoliniano, che
consentono di ricostruire la sua concezione della croce.
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2. DALLA TRADIZIONE LETTERARIA AL PROBLEMA STORICO
Ma allora che ne è del “Santo chiodo” che veneriamo nel Duomo di Milano?
E l’interpretazione che lo ritiene il morso donato da Elena a Costantino come uno dei
chiodi di cui parla Ambrogio?
Più radicalmente: la tradizione letteraria della fine del IV secolo e dell’inizio del V secolo
ha qualcosa a che vedere con questo Santo chiodo?
Oltre ad aver mostrato la tradizione letteraria del tardo antico e le sue diverse ramificazioni,
dobbiamo prima ricordare altre ipotesi storiografiche tra le più diffuse per sostenere
l’identificazione dei chiodi di cui si parla nel IV-V secolo con questo Santo chiodo; in seconda
istanza, cercheremo di avanzare la tesi, pur sempre ipotetica, ma almeno più accreditabile.
1) Milano è la capitale scelta da Valentiniano I nel 364, dopo la parentesi di Giuliano
l’Apostata e il breve regno di Gioviano, come potior Augustus. Con la scelta di Milano
quale capitale dell’impero va collegato, a parere di molti (tra cui Marta Sordi), l’arrivo
a Milano dei chiodi della croce: l’imperatore poteva facilmente ottenere la preziosa
reliquia. La tradizione costantinopolitana poneva fra i riti di fondazione della città da
parte di Costantino l’inserimento di frammenti della croce nella statua posta sulla
corona di porfido nel foro della città, perché ne assicurassero la protezione, come narra
Sozomeno. È dunque probabile che la decisione di utilizzare due dei chiodi della croce
vada strettamente collegata con la decisione di Valentiniano I di fare di Milano la
capitale della sua dinastia e dell’impero romano-cristiano. Ma sarebbe davvero strano
quel lungo periodo di eclissamento della reliquia, almeno sino al XIII o XIV secolo!
2) L’erudito storico Giuseppe Antonio Sassi (1672-1751), prefetto dell’Ambrosiana dal
1713 al 1751, formula tre ipotesi per spiegare questo vuoto e come sia potuto giungere
a Milano il Santo chiodo proprio durante questo lungo periodo di silenzio:
a) Durante le persecuzioni iconoclaste di Leone III Isaurico (imperatore a
Costantinopoli dal 717 al 741), per metterlo in salvo da sicura distruzione;
b) Parte del ricco bottino sacro di cui facevano parte anche i corpi dei Magi, poi
venerati a Sant’Eustorgio; Federico Barbarossa le portò da Milano a Köln, per
la nuova cattedrale nel 1164, consegnandole all’allora arcivescovo Rainald von
Dassel; solo in parte (due fibule, una tibia e una vertebra) furono riconsegnate
al beato card. Andrea Carlo Ferrari il 3 gennaio 1904 dall’arcivescovo di Köln
Fischer;
c) Arnolfo II da Arsago (morto il 25 febbraio 1018), arcivescovo di Milano dal 998
al 1018, le avrebbe portate da Gerusalemme nel 997, dove era stato inviato come
legato di Ottone III (morto nel 1002), insieme ad altre reliquie.
Tuttavia a mettere in crisi le tre ipotesi, imponendo di posticipare l’arrivo a Milano del
Santo chiodo, è la mancanza di ogni riferimento ad esso nelle rubriche liturgiche del
Beroldo (prima metà del XII secolo), «custos et cicendelarius» della Chiesa milanese. Nel
suo testo, Ordo et cærimoniæ Ecclesiæ Ambrosianæ Mediolanensis, apparso poco dopo la
morte dell’arcivescovo Olrico (1126), pur avendo memorie sempre molto precise degli
usi liturgici delle cattedrali milanesi allora attive, Beroldo non fa alcun accenno al Santo
chiodo e nemmeno a particolari celebrazioni connesse con il suo culto. Proprio sulla
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base del suo silenzio, già il beato card. Alfredo Ildefonso Schuster aveva avanzato
l’ipotesi che fa risalire alle Crociate l’arrivo del Chiodo a Milano. Questa ipotesi era già
stata formulata alla fine del Settecento dallo storico Angelo Fumagalli, 7 monaco
cistercense e anche abate di S. Ambrogio dal 1786 al 1796. A tale ipotesi, con qualche
ulteriore precisazione, approderò anch’io.
3) La presenza del Santo chiodo a Milano è sicuramente comprovata da due documenti
del XIV secolo, che hanno a che fare con la basilica Cattedrale di Santa Tecla, la
cattedrale estiva, quella più ampia, che occupava la parte nord-orientale dell’area
attuale di piazza Duomo.
a) Il documento più antico risale al 18 gennaio 1389 ed è contenuto nel Registro di
Provvigione che raccoglie gli atti amministrativi del Comune di Milano dall’anno
1389 al 1397, ed è conservato presso l’Archivio storico civico di Milano. In tale
registro, è presente una risposta di Paolo de Arzonibus, luogotenente del Vicario, e
dei XII Deputati di Provvigione a Gian Galeazzo Visconti (allora Signore e dal 1395
primo Duca di Milano). Costui aveva stabilito che fossero dichiarati festivi:
i. il 5 di agosto, festa della Madonna della Neve, cui erano dedicati una
confraternita e un altare in Santa Tecla;
ii. e il 16 ottobre, festa di San Gallo, titolare di un altare in Santa Maria Maggiore,
la piccola cattedrale invernale, che era posizionata nell’area del presbiterio e
dell’abside del Duomo attuale. Nell’occasione si suggeriva al Signore di Milano
l’opportunità di stabilire, a carico del Comune, distinte offerte soprattutto per la
festa di Santa Tecla, titolare della basilica “estiva”, meritevole di uno speciale
riguardo, perché – così sta scritto – vi era riposto ab antiquo uno dei Santi Chiodi
con cui fu crocifisso il Salvatore. L’affermazione ab antiquo è abbastanza generica
e non dice nulla di preciso circa l’epoca in cui il chiodo fu portato a Milano: si
poteva trattare di una tradizione plurisecolare oppure di un secolo e mezzo circa.
Comunque, la presenza del Santo chiodo era un titolo che ingiungeva un
particolare riguardo per la considerazione dovuta alla basilica “estiva” di Santa
Tecla.
b) Un altro documento di poco posteriore (4 novembre 1392), sempre a firma di Gian
Galeazzo Visconti ordina che si restauri la basilica di Santa Tecla perché una nutrita
folla di fedeli si recava sovente in Santa Tecla a venerare il Santo chiodo. Dallo
stesso documento si evince che il reliquiario in cui era custodito il Santo chiodo
aveva forma di Croce e la preziosa reliquia era collocata sopra l’altare maggiore su
una tribuna di fronte alla quale per devozione si accendevano molti lumi. Si sa anche
che nel 1444 il cardinale Enrico Scotto aveva concesso particolare indulgenza a chi
contribuiva all’illuminazione della reliquia del Santo chiodo.
Intercorrono quasi mille anni di silenzio tra le parole di sant’Ambrogio (e la tradizione
riguardante Elena, la madre di Costantino) prima di arrivare a queste date!
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Delle antichità longobardico-milanesi, III, Monastero di S. Ambrogio Maggiore, Milano 1793, 203-204
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3. IPOTESI SULL’ORIGINE DEL SANTO CHIODO DEL DUOMO DI MILANO
Il problema è di determinare con più precisione quell’ab antiquo di cui parla il Registro di
Provvigione del 1389. Una volta spiegato come il Santo chiodo sia arrivato in Santa Tecla, le
vicende seguenti sembrano sufficientemente dipanate.
Infatti, quando fu necessario demolire completamente la vecchia basilica estiva di S. Tecla
ci fu il trasferimento del Santo chiodo, di tutte le suppellettili e le altre reliquie che vi si
trovavano nel nuovo Duomo. Questo avvenne il 20 marzo 1461 per mano dell’Arcivescovo
Carlo da Forlì con una processione sontuosa che vide largo concorso di clero e di popolo.
Ma la nuova – lontanissima – collocazione nella volta dell’abside sopra l’altare maggiore,
dove ancor oggi la reliquia è custodita, provocò un progressivo affievolimento della devozione
verso il Santo chiodo.
Fu san Carlo Borromeo che, mentre infieriva la peste del 1576-77, ne fece ripristinare il
culto. Ma questo riguarda ormai il discorso che sarà analizzato dal contributo di mons.
Navoni. Ricordo soltanto che in Duomo esiste anche un ciclo di 22 grandi tele con la
rappresentazione di episodi della storia della Croce e del Santo chiodo, fatte eseguire nel
secolo XVIII e in parte restaurate. Dieci di queste tele sono tuttora esposte in occasione della
festa dell’Esaltazione della Croce. 8
Arrivo finalmente a trattare l’ipotesi che tra tutte preferisco e che reputo la più plausibile,
almeno in base alla documentazione da noi posseduta.
Il momento storico migliore in cui collocare l’arrivo della reliquia del Santo chiodo a
Milano da Costantinopoli furono gli anni successivi alla quarta crociata e al Sacco di
Costantinopoli del 1204. La capitale dell’Impero d’Oriente fu presa il 12 aprile 1204: il giorno
dopo ebbe inizio il grande saccheggio che, come tramandano i cronisti, non aveva avuto simile
in tutta la storia umana. La violenza dei crociati, che non risparmiarono neppure i bambini,
voleva essere la vendetta per il terribile massacro dei Latini del 1182, quando erano stati
eliminati tutti i 60.000 abitanti latini di Costantinopoli, donne e bambini compresi. I 4.000
superstiti furono venduti ai turchi come schiavi.
Mentre Bonifacio di Monserrat occupava il palazzo imperiale che, secondo Roberto di
Chiari, aveva ben 500 stanze tutte riccamente addobbate e ben trenta cappelle, gli scatenati
crociati entravano nelle case ed asportavano qualsiasi cosa di valore che avessero trovato, dopo
aver ucciso chiunque incontrassero. Tutte le chiese furono spogliate dei vasi sacri, delle
immagini, dei candelabri e quanto non si poteva asportare veniva semplicemente distrutto.
Anche la basilica di S. Sofia fu completamente saccheggiata, l’altare fu spezzato, gli arazzi
fatti a pezzi. Un cronista dell’epoca, testimone oculare, tramanda che una prostituta, seduta
sul trono del patriarca, cantava strofe oscene in lingua francese. Mentre i veneziani si
concentravano su quelle cose che avevano un grande valore, i francesi arraffavano tutto quello
che luccicava e si fermavano solo per ammazzare e violentare. Le cantine furono depredate e
la città era piena di soldataglia avvinazzata che trucidava chiunque trovasse per strada.
I cittadini erano torturati perché rivelassero dove avevano nascosto i loro valori. I conventi
furono presi d’assalto, le monache stuprate, le donne violentate e subito dopo uccise; i
bambini giacevano in pozze di sangue per le strade, nudi, già morti o morenti. E quest’inferno
durò per tre giorni interi.
Sino alla riforma liturgica del Concilio Vaticano II, si esponevano in cattedrale durante la solennità della
inventio crucis che si celebrava il 3 maggio.
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Infine i comandanti degli assalitori intervennero, dettero ordine di cessare il saccheggio
(tanto ben poco era rimasto da depredare) ed ordinarono che qualsiasi bottino doveva essere
portato in tre chiese e sorvegliato da fidati crociati e veneziani. Questo perché il contratto
prevedeva la spartizione dei beni saccheggiati: tre ottavi ai veneziani, tre ottavi ai crociati; il
restante quarto era destinato al futuro imperatore. Fra l’altro i veneziani portarono a casa i
quattro cavalli di bronzo che ornano (attualmente in copia) la Basilica di San Marco, l’icona
della Madonna Nicopeia e molte preziose reliquie che ancora sono conservate nel tesoro di
San Marco. I 4.000 sopravvissuti erano principalmente donne, che vennero consegnate nude
ai Turchi, e bambini poi venduti come schiavi. Così ebbe fine la quarta crociata che, istituita
con l’intenzione di combattere i saraceni, aggredì e saccheggiò unicamente paesi cristiani.
Da quel saccheggio furono portate in Occidente tantissime reliquie di inestimabile valore,
tra cui – con altissima probabilità – anche la Sindone di Torino e il Santo chiodo di Milano.
4. INDAGINE FENOMENOLOGICA DEL SANTO CHIODO DI MILANO
Il Santo chiodo custodito in Duomo ha fatto parlare molto per la strana forma e ha indotto
gli storici a considerare varie ipotesi sulla sua origine e funzione: non ci si spiega il perché di
quella forma a punteruolo, con il groviglio di ferri più sottili e nella sommità un anello che lo
sostiene. La tradizione che in modo improprio collega questo Santo chiodo con il racconto di
Ambrogio lo interpreta come un morso per cavalli, da accostare alla Corona ferrea di Monza,
secondo la tradizione leggendaria dell’intervento di Elena, madre di Costantino.
Chiunque si disponga a osservare l’oggetto da vicino constata che poco assomiglia a ciò
che comunemente intendiamo per chiodo. Si tratta in realtà di una punta metallica, lunga
circa 23-24 centimetri, su una delle cui estremità si trova non una “testa”, ma un anello in cui
è inserito un altro anello più grande. Insieme a un robusto filo di ferro è unito anche un altro
oggetto, un cavallotto, che presenta due ulteriori anelli alle estremità.
Questo non ha proprio nulla a che vedere con un morso di cavallo…
Una convincente interpretazione, che dà anche valore storico più profondo alla reliquia
custodita in Duomo, è stata espressa dall’ingegner Ernesto Brunati in due studi di una ventina
di anni or sono. 9
E. BRUNATI, Pensando alla crocifissione, in Collegamento pro Sindone, 1996, May/June, pp. 24-35; ID., Il Santo
Chiodo del Duomo di Milano, in Collegamento pro Sindone, 1999, May/June, pp. 13-34.
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Fotografia recente del Santo chiodo
Il chiodo vero e proprio (A) termina da un lato con la punta (C), dall’altro con un anello (B); a
questo anello se ne trova agganciato un altro (D). Insieme al chiodo si conserva un cavallotto (G)
con le e-stremità ad anello (E), e un filo di ferro (H).
(Disegni originali di Ernesto Brunati)
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A parere dell’ing. Brunati, l’interpretazione tradizionale (del freno) va abbandonata, dal
momento che proprio quella strana forma può al contrario spiegare molte delle difficoltà che
si presentano circa la pratica della crocifissione nel mondo romano. Quel chiodo pare
effettivamente essere stato utilizzato per lo stesso genere di supplizio inflitto anche a Gesù.
L’apparente stranezza che colpisce l’osservatore deriva dal fatto che il nostro immaginario
su questo tema è stato deformato dalle rappresentazioni iconografiche tradizionali, fatte da
gente che non ha mai visto praticare le crocifissioni, come confermato anche dalle classiche
ferite nel palmo delle mani, in contraddizione con le impronte sulla Sindone.
I Romani, alla pari dei Persiani e di molti altri popoli orientali, crocifiggevano non poche
persone e cercavano anche di risparmiare sui chiodi, non solo con il reimpiego dei patibula.
Recuperare questi chiodi era più difficile se picchiati fino in fondo nel legno del “patibulum”,
cioè nella sbarra trasversale che il condannato si portava sulle spalle fino al luogo
dell’esecuzione, dove erano già fissati in permanenza i pali verticali (stipites).
I condannati erano trafitti nel metacarpo con il chiodo a forma di punteruolo quando erano
ancora a terra e venivano legati al chiodo attorcigliando il filo di ferro al cavallotto. Era poi il
chiodo stesso ad essere agganciato al palo trasversale della croce con il suo anello. Soltanto
dopo, eventualmente, si inchiodavano anche i piedi del condannato a un’asticella di legno,
perché il peso del corpo appeso non lacerasse il braccio.
Dunque, il Chiodo che vediamo oggi non è un pezzo di ferro rimodellato per ricavarne un
“morso” di cavallo, ma è effettivamente l’attestazione di un chiodo particolare impiegato per
appendere i condannati a morire asfissiati sulla croce.
Ma è proprio il chiodo che ha trafitto il polso di Gesù?
Tutto quanto si è detto fin qui non è sufficiente a risolvere il problema dell’autenticità del
Santo Chiodo custodito nel Duomo di Milano. Tuttavia, non toglie neanche autorevolezza al
culto che la Chiesa ha riservato e riserva a tale reliquia. Sappiamo infatti che il culto delle reliquie
(e delle sante icone) è sempre un culto «mediato», in cui la venerazione non va direttamente alle
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immagini o alle reliquie esposte per sé stesse, ma esclusivamente a ciò che esse rappresentano e a cui
esse rimandano.
Il Santo Chiodo custodito nel Duomo di Milano fa pensare in modo più preciso a come i
Romani eseguissero la crocifissione di un condannato e ci rimanda alla contemplazione della
morte in croce di Gesù di Nazaret, il Figlio di Dio: Egli è morto per l’ingiustizia umana ed è
risorto per la potenza del Padre. È l’unico ad aver sconfitto l’ultimo Nemico, la Morte: non
una morte naturale, ma subendo la più orribile e infamante pena capitale, la croce.
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