Paura del ghetto e politiche antisegregative: cosa
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Paura del ghetto e politiche antisegregative: cosa
Paura del ghetto e politiche antisegregative: cosa possiamo imparare dal Canada? Il caso di Toronto di Roberta Cucca Paper for the Espanet Conference “Innovare il welfare. Percorsi di trasformazione in Italia e in Europa” Milano, 29 Settembre — 1 Ottobre 2011 Roberta Cucca, Laboratorio di politiche sociali, DiaP, Politecnico di Milano Via Bonardi 3, Milano: [email protected] 1 Introduzione Da almeno un decennio, l’eterogeneo panorama delle politiche urbane Europee è attraversato da un filo conduttore: la ricerca di strumenti per rispondere a una dilagante paura del ghetto e della segregazione, soprattutto nella sua declinazione “etnica”. Ne sono esempio (CLIP, 2007) le politiche orientate a ridurre o prevenire la segregazione; gli interventi volti a mitigarne gli effetti negativi; i più recenti (e rari) programmi tesi a rafforzare il capitale sociale positivo presente nelle aree in cui si registra maggiore concentrazione di popolazione immigrata. La contagiosa paura del ghetto rende però complessa e poco serena la promozione di iniziative e programmi orientati ad attrezzare le arrival cities europee ad accogliere i nuovi immigrati e promuoverne le opportunità di mobilità sociale (Saunders, 2010). In questo contributo si propone l’analisi delle politiche area-based orientate a intervenire sulla segregazione spaziale recentemente promosse a Toronto, una città che solo negli ultimi 5 anni ha accolto 450.000 nuovi residenti, provenienti principalmente dall’Asia e dall’Europa dell’est (Statitics Canada, 2010). Benchè l’allarme sociale associato alla concentrazione di minoranze etniche sia contenuto in un paese costituzionalmente fondato sul multiculturalismo e, soprattutto, in una città che ha fatto dell’accoglienza dell’immigrazione il suo brand (“Diversity our Strength”), il vivace dibattito pubblico suscitato dal veloce processo di sub-urbanizzazione della povertà ha recentemente portato alla promozione di due principali programmi: -“Priority neighbourhoods”, che ha coinvolto 13 “inner suburbs” caratterizzati da una scarsa infrastrutturazione fisica e sociale e da una forte concentrazione di residenti sotto la soglia di povertà e di recente immigrazione; il programma è basato sulla delocalizzazione di servizi e infrastrutture attraverso l’istituzione di hubs multifunzionali (servizi sociali, culturali, presidi sanitari, spazi per l’associazionismo); -la riqualificazione di Regent Park, la più antica area di edilizia residenziale pubblica costruita negli anni ’50 a pochi chilometri da downtown, attraverso logiche di densificazione e diversificazione abitativa per promuovere un maggiore mix sociale. Si tratta di due programmi che, pur attivati dalla stessa amministrazione comunale, hanno coinvolto diverse coalizioni di attori e hanno seguito due problematiche legate alla segregazione: differenti orientamenti nei confronti delle disperdere la concentrazione l’infrastrutturazione delle aree e promuoverne il capitale sociale esistente? 2 o migliorare Attraverso la realizzazione di interviste a testimoni privilegiati, l’analisi etnografica dei luoghi, la raccolta e interpretazione di dati, questo contributo analizza i meccanismi che hanno portato, negli ultimi anni, a un’accentuazione della segregazione spaziale a Toronto, il contesto istituzionale e di governance in cui sono maturati i due programmi, nonché i primi impatti di tali politiche. L’obiettivo è quello di cogliere punti di forza e di debolezza dei diversi programmi area-based, in un contesto non eccessivamente segnato dal panico per la segregazione etnica, per comprendere se, quanto e a quali condizioni tali interventi possono agire efficacemente a favore dei cittadini coinvolti, oppure rivelarsi controproducenti innescando nuove traiettorie di disuguaglianza. Nel primo paragrafo, una breve contestualizzazione nel quadro della letteratura precede l’analisi del case study sviluppata nei paragrafi seguenti. 1. La paura del ghetto come minaccia alla coesione: discorso pubblico e politiche in Europa Nel corso degli ultimi due decenni, gli studi urbani sono stati contraddistinti da una attenzione crescente nei confronti delle tematiche legate alla segregazione spaziale dei migranti nelle città; per varie motivazioni e in differenti forme, questo fenomeno è divenuto centrale nell’ambito del dibattito pubblico così come nei processi di definizione delle politiche urbane orientate a governare i processi di migrazione e il loro insediamento in ambito urbano. Questa tematica non rappresenta però un focus di analisi nuovo per le scienze sociali: negli Stati Uniti, la segregazione residenziale su base etnica ha rappresentato uno dei fenomeni maggiormente investigati fin dall’origine della sociologia urbana (Park, Burgess, and McKenzie 1925) e, in particolare, dopo la pubblicazione di “The Truly Disadvantaged” di Wilson (1987) ha conosciuto un nuovo protagonismo. E’ da sottolineare come, in generale, gli studi americani abbiano comunemente raffigurato la concentrazione delle minoranze etniche in determinate aree urbane come un fattore di marginalizzazione, un fenomeno fortemente inibente processi di mobilità ascendente per le popolazioni coinvolte, a causa di un deficit di risorse locali, opportunità lavorative e capitale sociale limitante le opportunità di sfuggire dal circuito della povertà, dell’esclusione e dell’isolamento (Musterd, Andersson, 2005; Bolt, Phillips, Van Kempen, 2010). Allo stesso tempo l’esistenza della segregazione è stata anche rappresentata come una strategia “dall’alto” di chiusura sociale dei gruppi sociali privilegiati, al fine di rafforzare l’esclusione delle popolazioni più svantaggiate. Negli ultimi anni l’attenzione al tema della segregazione residenziale, in particolare su base etnica, ha conquistato un notevole protagonismo anche nella letteratura europea e, ancor di più, ha 3 rappresentato un focus di attenzione di alcune politiche territoriali adottate a livello urbano. Soprattutto nei contesti di nuova immigrazione, dopo un primo periodo di stordimento, la concentrazione residenziale di immigrati e minoranze etniche ha iniziato a essere rappresentata come una “emergenza pubblica” e a riecheggiare come una minaccia (forse la peggiore) alla coesione sociale urbana. La stessa Commissione Europea in un documento sulle linee di azione per lo sviluppo urbano sostenibile partendo da questi assunti di fondo sottolinea come una speciale sfida è quella di prevenire la segregazione spaziale e le concentrazioni di esclusione nelle città (cit. in Musterd, 2003: 625). E’ interessante quindi sottolineare come in Europa la concentrazione residenziale di minoranze etniche e di nuovi immigrati è stata definita non solo come un possibile elemento di svantaggio per le popolazioni “segregate”, ma anche come un fattore potenzialmente inibente la possibilità, per le popolazioni “autoctone”, di sentirsi “a casa propria”. Questa percezione ha presto contaminato anche alcune politiche urbane promosse in contesti nazionali fino a pochi anni fa piuttosto predisposti al multiculturalismo, quale ad esempio quello olandese. Infatti, dopo gli attentati di New York del 2001, la linea di intervento si è rivolta sempre più esplicitamente al contrasto alla segregazione su base etnica come strumento per evitare “fenomeni di radicalizzazione”. In particolare, nel 2007 è stato promosso dal governo nazionale olandese un programma per promuovere “Coesione sociale e mix abitativo” in 40 distretti urbani, denominati “aree di azione”. Poiché il termine coesione sociale è nella sua essenza piuttosto ambiguo (Ranci, 2007; Alietti, 2009) è interessante evidenziare come la definizione data al concetto all’interno di questo programma sia stata appunto quella di “sensazione di vivere in un’area che è casa propria e di avere controllo sull’ambiente” (van Kempfen, Bolt, 2009). Per contrastare quindi sia il possibile svantaggio generato dal vivere in un’area connotata da una forte concentrazione di minoranze etniche, sia il declino di un senso di appartenenza al territorio di insediamento da parte delle popolazioni autoctone (spesso correlato a un declino nel senso di sicurezza percepita dai cittadini fomentato da campagne mass-mediatiche) anche in Europa negli ultimi anni sono state promosse diverse politiche “area based” (Clip, 2007; Pologruto, Cucca, 2011). Gli interventi più numerosi sono stati rivolti a ridurre o a prevenire la segregazione spaziale, incentivando il cosiddetto social mix, attraverso la riqualificazione urbanistica, l’introduzione del tenure mix o con incentivi per attrarre residenti di classe media o nuove popolazioni. Un interessante caso di studio è Amburgo, dove nel 2004 l’amministrazione comunale ha promosso interventi tesi a favorire la mobilità di studenti verso quartieri a rischio segregazione, attraverso un piano di sussidi all’affitto. Più spesso, questo stesso obiettivo è stato perseguito attraverso la 4 definizione di “quote” o procedure di allocazione specifiche nell’housing sociale. Sempre in Germania, ad esempio, già nel 1975 si era cercato di introdurre un limite all’insediamento urbano degli immigrati attraverso il sistema delle quote al 12% della popolazione locale, un limite per la verità mai rispettato per una serie di regolamenti europei che ne rendevano difficile l’applicazione. In Svezia, invece, dal 1985 è attiva la regola Sweden-wide, che prevede una sistemazione non concentrata territorialmente dei rifugiati, per evitare segregazione e anche sollevare le municipalità da un peso eccessivo per interventi e sussidi a loro favore (Ekberg, 2006). Un’altra tipologia di politiche abbastanza diffusa in Europa è orientata a ridurre i possibili effetti negativi della segregazione spaziale, attraverso progetti integrati di riqualificazione sociale ed infrastrutturale nei quartieri socialmente deprivati. Spesso questi progetti agiscono sulle dinamiche d’inclusione sociale promuovendo iniziative formative e occupazionali, e implementando arene decisionali partecipative per gli abitanti. Infine, si segnalano le meno diffuse politiche che cercano di valorizzare le risorse presenti nelle aree connotate da una forte concentrazione di minoranze o neo-arrivati, ad esempio promuovendo lo sviluppo delle economie etniche e valorizzando il ruolo dell’associazionismo dei migranti (Alietti, 2011). Non di rado questi diversi approcci trovano un’applicazione combinata. Ad esempio, a Copenhagen, (Penninx, 2007) nelle aree considerate vulnerabili, (ovvero in cui almeno 7 perone su 10 sono immigrate), “ad alto rischio”( in cui 5 abitanti su 10 sono immigrati) e “a rischio” (in cui 3 abitanti su 10 sono immigrati), dal 2006 è attivo un programma che mirava, entro il 2010, a ridurre la condizione di disoccupazione in tali aree al 10%, rivitalizzando l’imprenditoria etnica e, laddove possibile, utilizzando criteri di assegnazione che limitano l’ulteriore concentrazione nelle stesse aree di cittadini che usufruiscono di supporti sociali. In questo contesto caratterizzato dalla crescente diffusione di politiche urbane orientate a contrastare in vario modo la segregazione, è però interessante notare come i risultati di ricerche empiriche condotte sui quartieri ad alta concentrazione non convergono nell’identificare tale fenomeno come uno svantaggio. Ad esempio, alcune ricerche realizzate sui networks degli immigrati di prima generazione segnalano come queste reti rappresentino una risorsa fondamentale sia per trovare un alloggio e un lavoro, così come per familiarizzare con il sistema di welfare o ricevere supporto di cura all’interno dei circuiti familiari o amicali (Bolt et al. 1998; Phillips 2010; Murdie, Ghosh, 2011). Altre ricerche mettono in dubbio che il mix sociale possa davvero rappresentare una risorsa per le popolazioni più svantaggiate, mentre ipotizzano che una maggiore omogeneità del background socio-culturale, così 5 come la similarità degli stili di vita e degli interessi può sviluppare più facilmente relazioni sociali significative (Gans, 1961; Elias, Scotson, 2004). Inoltre, alcuni studi evidenziano che una vicinanza “forzata” può invece esacerbare i conflitti e rendere più difficile la coabitazione (Blanc, 2010). Infine, prendendo una certa distanza da questa discussione, diversi studi hanno iniziato a sottolineare la maggiore rilevanza di altri meccanismi sociali e istituzionali operanti a livello urbano e che sembrano influenzare il processo di integrazione socio-economica degli immigrati, oltre il fenomeno della segregazione residenziale di per sè (Arbaci, 2007; Bolt, Ozuekren, Phillis, 2010). In questa prospettiva, l’attenzione viene rivolta al fenomeno della segregazione come risultato di processi di discriminazione operanti a scala più ampia e, in particolare, nel mercato del lavoro e nell’accesso ad abitazioni a prezzi e canoni sostenibili (Cucca, 2011), che di fatto promuovono contesti urbani sempre più divisi socialmente (Blanc, 2010) e, di conseguenza, spazialmente. Per questo motivo, senza un’adeguata macro politica di inclusione socio-economica che accompagni lo sviluppo delle azioni de-segregative, a prescindere dagli strumenti utilizzati e dalle finalità espresse, il risultato appare debole e inefficace (Alietti, 2011). Sulla base di questa ultima prospettiva interpretativa, il presente paper propone un caso di studio particolarmente interessante per alimentare il discorso sulla realtà e sulle politiche europee, ovvero l’analisi delle più importanti politiche area-based orientate a intervenire sulla segregazione spaziale recentemente promosse a Toronto. In questa area metropolitana il vivace dibattito pubblico suscitato dal veloce processo di sub-urbanizzazione della povertà ha recentemente portato alla promozione di due principali programmi: i “Priority neighbourhoods” e la riqualificazione dell’area di social housing di “Regent Park”. Il primo intervento è orientato a ridurre i possibili effetti negativi della segregazione spaziale e valorizzare le risorse locali attraverso un rafforzamento dell’infrastrutturazione fisica e sociale di 13 aree urbane considerate particolarmente svantaggiate; il secondo, è basato su logiche di densificazione e diversificazione abitativa per promuovere un maggiore mix sociale, attraendo nuovi residenti di classe media nell’area. 2. “Diversity our strenght”. Immigrazione a Toronto, tra brand e realtà multiculturale Il Canada oggi rappresenta uno dei “paesi occidentali” più aperto ai flussi di immigrazione provenienti da ogni parte del mondo e, per ragioni geografiche ed economiche, particolarmente dal continente asiatico (50% circa dei flussi migratori nel 2009). Le ragioni che hanno portato questo Paese a rappresentare una destinazione migratoria particolarmente ambita sono molteplici: innanzitutto, un contesto legislativo favorevole al multiculturalismo, concetto fondamentale 6 nell’ordine costituzionale del Paese; in secondo luogo, una politica migratoria concepita come risposta a un pesante crollo demografico seguito al baby boom degli anni 60-70; infine, più recentemente, l’introduzione di procedure più severe disciplinanti i flussi migratori nei vicini Stati Uniti, dopo gli attentati del 2001, hanno portato il Canada a rappresentare la via più fruibile al sogno nord-americano per una parte cospicua della popolazione mondiale. Eppure, fino all’inizio degli anni 60, le politiche migratorie canadesi si sono caratterizzate per una forte matrice “razzista” che ha privilegiato apertamente i flussi provenienti dai paesi anglossassoni e nord-europei, con l’esplicito scopo di non trasformare “il carattere originario” della popolazione canadese, giustificate anche dalla convizione che quelle popolazioni apparivano “più propense ad adattarsi alle rigide temperature” che caratterizzano l’inverno canadese . Solo nel 1962 il Canada ha abbandonato la sua politica migratoria “all white”, per spostare progressivamente i criteri di ammissione verso caratteristiche personali e non in riferimento al gruppo etnico di origine, fino ad arrivare all’introduzione del “Sistema a punti” del 1967 elaborato per favorire l’ingresso di high skilled workers. Come risultato, oggi in Canada esistono quindi tre diverse categorie di ammissione: immigrazione economica, riunificazione familiare, richiesta di asilo politico. Solo nel 2005 il Canada, un Paese di circa 30 milioni di abitanti, ha accolto circa 260.000 immigrati, di cui il 56% è stato ammesso per ragioni economiche. In particolare, più del 50% degli immigrati si è insediato nella provincia dell’Ontario con una forte concentrazione a Toronto (circa il 40% su base nazionale), città che nel solo primo quinquennio degli anni 2000 ha accolto quasi mezzo milione di migranti. Dopo l’inclusione nella municipalità di Toronto di 4 comuni limitrofi, avvenuta nel 1998 su decisione del governo provinciale, Toronto conta oggi circa 2.500.000 di abitanti (circa 6.000.000 se si considerano anche i residenti dell’area metropolitana Great Toronto Area – GTA), rappresenta una delle città a più rapida crescita all’interno delle metropoli comprese nell’OECD ed è caratterizzata da una popolazione decisamente più giovane della media (OECD, 2009), grazie in primo luogo ai flussi migratori di high skilled workers e richiedenti asilo. La città canadese rappresenta il secondo contesto urbano più multiculturale al mondo dopo Miami, e sicuramente il più diverso: circa il 53% della popolazione non parla inglese come prima lingua e si contano almeno 216 diverse minoranze etniche (Chui, Tran and Maheux, 2007). Queste caratteristiche hanno portato a coniare, proprio in concomitanza con la “fondazione” della “Nuova Toronto” nel 1998, il motto “diversity our strenght”, dove appunto il termine diversità è riferito alle varie anime della città in termini culturali, demografici, territoriali (Toronto è anche definita come una “città di quartieri”) ed economici. 7 Questi aspetti demografici e di cultura politica rendono molto accattivante l’analisi di una realtà urbana, almeno a prima vista, così poco permeata da timori e tensioni correlate alla continua trasformazione della sua composizione sociale, ma che, anzi, ha fatto di questa dinamicità “la sua forza” o, almeno, il suo “brand”. Nonostante il fascino esercitato da un modello quasi provocatorio per gli standard europei, è però interessante valutare la concreta realtà di integrazione delle popolazioni migranti al suo interno, iniziando dalla collocazione delle “visible minorities”1 e dei “new comers” all’interno della geografia socio-economica urbana. Innanzitutto, è interessante chiedersi come vengono valorizzate le competenze di cui sono portatori gli immigrati di prima generazione, “selezionati”, come abbiamo visto, sulla base degli skills professionali (titolo di studio, competenze linguistiche, esperienze lavorative). Le motivazioni generalmente indotte a supporto di procedure di selezione basate su tali competenze sono, infatti, riconducibili a un progetto di promozione di un’economia nazionale basata sulla creatività, l’innovazione e la qualità, che è particolarmente radicato a Toronto, città di recente adozione del noto studioso e sostenitore dell’economia creativa Richard Florida. Secondo le rilevazioni del Martin Prosperity Institute dell’Università di Toronto (2009), nel 2006 la città canadese poteva vantare una percentuale di popolazione rientrante nella classe creativa (ovvero le persone che sono pagate per svolgere un’attività intellettuale) di circa il 34%, con valori inferiori solo a New York e Boston nell’ambito del contesto nord americano (Graf. 1). Graf. 1 – Presenza della “classe creativa” nelle città americane Fonte: Martin Prosperity Institute, 2009 1 Con il termine “visible minority” nella letteratura e nelle statistiche canadesi vengono definite principalmente le minoranze non caucasiche; con “newcomers” i residenti temporanei o permanenti che sono arrivati in Canada da meno di un anno 8 Nel corso degli ultimi venti anni, Toronto ha infatti sperimentato una transizione a un sistema produttivo post-fordista caratterizzato da un forte protagonismo dei settori della finanza e dei servizi avanzati, ma, allo stesso tempo, anche di quelli non avanzati, in una prospettiva di forte polarizzazione della struttura occupazionale urbana, tipica fra l’altro dei contesti urbani nordamericani (OECD, 2009). In questo quadro, quello che è interessante valutare è la forte discrepanza fra i criteri di selezione regolanti i flussi migratori a livello federale e il reale inserimento dei migranti all’interno dell’economia urbana. Sempre come rilevato dal Martiny Prosperity Institute (Bednar, Davidson, Stief, 2011), più del 40% degli immigrati non è stato in grado di mantenere la stessa posizione occupazionale nella classe creativa rivestita nel proprio paese di origine. Le ragioni alla base di questa diffusa sottoccupazione sono innanzitutto legate al processo di riconoscimento dei titoli e delle esperienze professionali maturate fuori dal Canada, nonché le minori abilità linguistiche rispetto ai concorrenti madrelingua. Le difficoltà di riconoscimento dei titoli sono particolarmente evidenti per quanto riguarda le categorie professionali disciplinate da albi, che hanno adottato questi meccanismi come strategia di chiusura rispetto al rischio di aumento di concorrenza intraprofessionale. Inoltre, anche a fronte di un inserimento lavorativo coerente con le proprie competenze, risulta un gap stipendiale almeno del 15% fra quanto percepito dai professionisti nati in Canada o al di fuori del Paese (Bednar, Davidson, Stief, 2011) In generale, le minoranze etniche sono più frequentemente occupate in settori economici e mansioni caratterizzati da salari più bassi e, rispetto al passato, questa situazione sembra sempre più caratterizzare anche le seconde generazioni (Reitz and Zhang, 2011). Inoltre, in particolare le minoranze caratterizzate da un percorso migratorio forzato dalla necessità della ricerca di asilo politico, risultano più esposte al rischio di disoccupazione di lunga durata. Questi processi hanno portato diversi studiosi a parlare di una progressiva “razializzazione della povertà” anche a Toronto (Walks, 2011) in un contesto sociale ormai avviato lungo la traiettoria della polarizzazione sociale, in cui le minoranze etniche sono confinate nei gradini più bassi della stratificazione. 3. Traiettorie di segregazione e le differenze con il passato. Un mosaico a rischio? I processi di insediamento delle minoranze etniche e dei newcomers a Toronto hanno risentito di alcune trasformazioni del mercato e delle politiche abitative piuttosto diffuse nelle città contemporanee (Torri, 2011) e, in particolare, nelle città nordamericane, seppur con alcuni 9 interessanti specificità. Innanzitutto, negli ultimi dieci anni la crescita demografica registrata a Toronto si è concentrata soprattutto nell’area centrale della città piuttosto che in quelle suburbane, generando una forte richiesta di abitazioni in downtown. Tale richiesta ha promosso strategie di densificazione abitativa sia attraverso la costruzione di grattacieli a uso residenziale nelle aree di exindustrializzazione, ma anche tramite alcuni processi di gentrification che hanno interessato aree fino a pochi anni fa territorio di primo insediamento per gli immigrati (Walks, 2011). Un secondo elemento importante è stata la battuta di arresto, registrata fin da metà degli anni Novanta, dei finanziamenti pubblici (federali e provinciali) destinati a sovvenzionare l’housing sociale, a fronte di un progressivo processo di delega delle politiche abitative dal governo provinciale dell’Ontario verso i livelli politici e amministrativi municipali. A questo proposito è interessante segnalare come storicamente il centro di Toronto (fino al 1998 municipalità autonoma) sia stato caratterizzato da una presenza sostenuta di housing sociale rispetto alle altre municipalità e, soprattutto, alle aree suburbane (Hulchanski, 2011). L’esempio più emblematico è rappresentato dall’area di social housing “Regent Park”, progettata alla fine degli anni Quaranta con l’intento di sostituire un deprivato quartiere di classe operaia localizzato nelle prossimità del quartiere finanziario, con un moderno complesso abitativo di condomini all’interno di un’area verde piuttosto estesa. Quando nel 1957 il progetto fu ultimato, Regent Park assorbì circa 10.000 ex residenti del vecchio quartiere operaio di Cabbagetown, costituito in gran parte da immigrati irlandesi (Meagher, Boston, 2003). La buona disponibilità di social housing e di soluzioni abitative economiche ha quindi rappresentato in quegli anni un importante fattore di concentrazione delle popolazioni immigrate nell’area di downtown. In quelle aree centrali, ben collegate dalla rete di mezzi pubblici e dalla metropolitana, dalla fine della guerra fino agli anni Settanta, affollate comunità di italiani, greci e portoghesi si sono insediate e hanno dato vita a economie etniche vivaci e centrali anche nella geografia economica urbana, rappresentando un importante strumento di mobilità sociale ascendente per queste comunità (Murdie, Ghosh, 2011). Questo processo di arricchimento si è innanzitutto manifestato in un progressivo orientamento di queste popolazioni verso l’acquisto dell’abitazione in cui vivevano, che in alcuni casi ha significato spostarsi nelle aree suburbane della città (spesso attraverso processi auto-segregativi, come ad esempio il caso degli italiani a Woodbridge), mentre per altri gruppi la scelta è stata di rimanere nelle zone urbane più centrali per non allontanarsi dai legami costruiti all’interno delle comunità originarie (Murdie, Ghosh, 2011). 10 Rispetto ai percorsi sopra descritti, nei periodi più recenti i processi insediativi degli immigrati a Toronto si sono caratterizzati in modo profondamente differente, con l’emergere di significativi elementi di marginalizzazione, non solo economica ma anche spaziale. L’area di downtown, a causa di una richiesta abitativa sempre più pressante da parte della “nuova classe creativa”, ha registrato un rialzo del costo del patrimonio immobiliare che ha reso per lo più inaccessibile ai nuovi immigrati le aree urbane centrali e, in genere, le poche zone ben collegate al trasporto pubblico attraverso la rete metropolitana. Per queste ragioni, a partire dagli anni Novanta, molti newcomers hanno iniziato a insediarsi direttamente nelle aree suburbane meno pregiate e, soprattutto, negli “inner subburbs”, ovvero nelle aree più periferiche della città di Toronto dopo l’annessione del 1998. In particolare, gli immigrati hanno iniziato ad affollare le “torri”, condomini di altezza superiore ai 20 piani di scarso pregio abitativo, costruiti a partire dagli anni Sessanta per aumentare la densità abitativa e compattare la città, per la maggior parte adibiti a uso locativo (Center for Urban Growth and Renewal, 2010) e, in epoca fordista, principalmente occupati dalla classe operaia urbana, considerata la vicinanza ad alcune aree industriali. Tale fenomeno è stato reso possibile dalla scarsa attrattività di questa scelta residenziale per le classi medie e più agiate, che ha consentito il mantenimento di costi abitativi contenuti che hanno però innescato processi di “segregazione verticale” in strutture fondamentalmente deprivate a causa di scarsa manutenzione. (Center for Urban Growth and Renewal, 2010 ) Un altro settore particolarmente attrattivo per le minoranze etniche continua ad essere, ovviamente, quello del social housing, con un aumento della concentrazione di visible minorities, ma al contempo un aumento esponenziale delle liste di attesa (+4,2% fra il 2008 e 2009 in Ontario, Wellesley Institute, 2010) e una decrescente capacità di accogliere newcomers. A Regent Park, ad esempio, nel 2006 circa l’80% della popolazione residente era di “visible minority”, il 60% immigrata di prima generazione, ma in cinque anni la percentuale di newcomers era decresciuta di quasi due punti percentuali, nonostante il progressivo aumento dei flussi migratori. A complessificare la distribuzione spaziale degli immigrati si è anche aggiunto un nuovo fenomeno promosso sia dalle trasformazioni nel quadro regolativo dell’immigrazione che da alcuni cambiamenti politici e socio-economici a livello più globale. In particolare, si fa riferimento all’arrivo di flussi migratori di gruppi sociali molto agiati (in particolare gli abitanti di Hong Kong, prima della riannessione del protettorato inglese alla Cina2) che si sono insediati in alcune aree 2 Questo fenomeno è stato ancor più evidente a Vancouver, dove questi investimenti hanno contribuito a trasformare il mercato alloggiativo della città e a renderlo uno fra i più costosi del mondo 11 suburbane e condomini di pregio nel centro città e hanno investito notevoli capitali nel mercato abitativo locale. Come risultato di tutti i cambiamenti descritti finora, Toronto sembra avviata lungo una progressiva traiettoria di divisione sociale e, quindi, spaziale, fra la parte della popolazione più benestante (fondamentalmente “white canadian” o di recente ricca immigrazione) e quella più disagiata (in cui le visible minorities e i newcomers sono fortemente rappresentati), in un quadro (Map. 1) che è ricomponibile nell’esistenza di “tre città” (Hulchanski, 2011): - La “città n. 1”, caratterizzata da una particolare concentrazione di percettori di reddito più alti della media a livello urbano e che ha visto aumentare fortemente i redditi dei suoi abitanti negli ultimi 40 anni. In questa area la percentuale di abitanti nati all’estero dal 1971 al 2006 è diminuita del 7% (dal 35% al 28% ). Le aree della “città n.1” sono localizzate nella downtown e in alcune zone di pregio collocate vicino alla linea metropolitana; -In aperto contrasto alla prima “città”, la “città n. 3” è popolata da una popolazione con un reddito più basso rispetto alla media e che è afflitta da una perdita sostanziale della ricchezza pro-capite rispetto agli anni Settanta. In questa “città” solo il 34% della popolazione è white canadian e il numero degli abitanti nati all’estero è aumentato di 30 punti percentuali rispetto al 1970, passando dal 31% al 61% nel 2006. Queste aree sono per la maggior parte “innercity suburbs” ovvero zone periferiche della città, scarsamente collegate alle linee della metropolitana. -Infine, vi è la “Città n. 2”, composta da aree in cui il reddito medio e la percentuale di immigrazione (50%) è vicino a quello della città in generale e non ha subito particolari modificazioni sia in termini economici che di composizione sociale. Si tratta però di una parte della città che si sta ridimensionando molto velocemente, “a tutto vantaggio” sia delle aree più ricche che di quelle più deprivate della città. 12 Fonte: Hulchanski 2011 Purtroppo, quindi, anche Toronto sta cambiando. Nonostante un basso livello di allarme sociale rispetto al problema della segregazione e un contesto politico e culturale aperto alla diversità, i dati raccontano di una città che si sta scoprendo sempre più divisa, innanzitutto fra classi sociali e, quindi, fra white canadian e visibile minorities. Da un punto di vista sociale, questo fenomeno è determinato dal processo di marginalizzazione socio-economica delle popolazioni recentemente immigrate e della minoranza nera e aborigena, e un arricchimento e chiusura sociale di diverse figure che popolano la “classe creativa”, in cui gli immigrati, pur in possesso delle credenziali, non riescono a penetrare (Picot, Feng, 2003). Si tratta di una chiusura che si concretizza anche nella divisione spaziale, attraverso processi auto-segregativi delle classi più agiate e l’insediamento della componente immigrata nelle aree meno pregiate. Un fenomeno che non rappresenterebbe nessuna novità nella storia dei processi insediativi delle popolazioni straniere nella città, se non fosse che, a differenza dei vecchi ghetti nella downtown, ora queste zone sono localizzate in aree remote, non 13 servite dai trasporti pubblici, scarsamente dotate di infrastrutture fisiche e sociali, in cui anche le economie etniche sono di fatto marginalizzate. 4. La nuova stagione delle politiche area-based a Toronto. Negli ultimi cinque anni la municipalità di Toronto ha promosso alcuni programmi area-based (Horak, 2010) per contrastare gli effetti dei processi segregativi delineati nelle pagine precedenti. Bisogna specificare, però, che. a differenza della maggioranza delle politiche promosse in Europa, l’approccio che ha guidato questi interventi è stato innanzitutto orientato ad agire sulla segregazione spaziale di popolazioni vulnerabili sotto il profilo della condizione occupazionale e del reddito, nonché concentrate in aree urbane fortemente deprivate da un punto di vista infrastrutturale. Ciò significa che il tema della segregazione su base etnica, o più in generale degli immigrati e delle visible minorities, non è stato l’elemento scatenante l’azione istituzionale, in quanto di per sé non concepito né come una problematica sociale né come un rischio per la coesione sociale a livello urbano. In una città in cui più del 50% della popolazione è nata all’estero, d’altronde, livelli di concentrazione di popolazione straniera anche molto alti sono considerati un effetto naturale delle dinamiche migratorie che caratterizzano la sua crescita demografica. E’ da porre in rilievo come, però, nel corso degli ultimi anni, alcuni processi auto-segregativi stiano conquistando spazio nel dibattito pubblico: in particolare, l’apertura di una scuola primaria per la sola popolazione scolastica nera, sostenuta e voluta da una parte stessa della comunità come uno strumento per arginare gli insuccessi e la dispersione scolastica dei giovani, ha fatto recentemente molto discutere in una città in cui la scuola ha rappresentato, per intere generazioni, uno strumento di costruzione del mosaico culturale su cui il Canada, anche costituzionalmente, si basa. In generale, però, le politiche che qui si discutono sono maturate in un contesto ancora poco attraversato da queste tensioni sui temi della segregazione o auto segregazione su base etnica, sebbene , comunque, è indubbio che Toronto viva una fase di profondo mutamento. Dal 2003, anno di pubblicazione del report “Enough Talk: An Action Plan for the Toronto Region” da parte della City Summit Alliance (TCSA), una organizzazione composta dai rappresentanti di diverse realtà della società civile locale, le condizioni di particolare deprivazione di certi quartieri, alcuni dei quali annessi alla città di Toronto nel 1998, avevano iniziato a conquistare una certa visibilità all’interno del dibattito pubblico cittadino; allo stesso tempo, un’altra questione critica riemergeva come problema pressante, ovvero il dibattito ormai decennale sulla riqualificazione di Regent Park, caldamente auspicato anche da parte degli stessi residenti e atteso ormai da anni (TCHC, 2004). 14 A partire dal 2002, iIn una situazione connotata da una pressione mass-mediatica fortissima, sia riguardo a certi fatti di cronaca nera che avevano coinvolto alcune gang di teenagers di origine africana, sia rispetto allo stato di deprivazione e di stigma ormai associato all’area di Regent Park, la nuova amministrazione comunale guidata dal sindaco progressista David Miller ha prima discusso e poi introdotto nella programmazione delle politiche urbane l’approccio area-based, attraverso due principali programmi: - i “Priority neighbourhoods” (City of Toronto, 2005) che hanno avuto come target 13 “inner suburbs” caratterizzati da una scarsa infrastrutturazione fisica e sociale, da una forte concentrazione di residenti sotto la soglia di povertà e di recente immigrazione, nonché da un particolare protagonismo sulle prime pagine dei giornali locali per le questioni già esposte; -la riqualificazione di Regent Park, attraverso logiche di densificazione e diversificazione abitativa, con l’obiettivo dichiarato di promuovere un maggiore mix sociale e cancellare il forte stigma associato all’area. Prima di procedere con la descrizione dei programmi e proporre una serie di riflessioni sui loro primi impatti, è bene specificare che questi due interventi hanno rappresentato una rottura e una nuova sperimentazione per le politiche urbane non solo municipali, ma anche canadesi. Infatti il Canada, al contrario degli Stati Uniti, non ha mai applicato questo approccio alle politiche pubbliche, considerati i livelli minimi di segregazione residenziale riscontrati nel passato, soprattutto a confronto con le città del vicino nord americano (Murdie, Ghosh, 2010). In secondo luogo, l’amministrazione comunale si è dovuta confrontare con margini di finanziamenti pubblici ridottissimi, a causa dei tagli operati a livello federale sulle politiche di housing sociale e dell’impossibilità di introdurre strumenti fiscali autonomi da destinare ad aree di politica di cui, comunque, dal 1998 detiene responsabilità (Horak, 2010). La riqualificazione di Regent Park, gestita dall’ente partecipato Toronto Community Housing Corporation, dopo anni di discussione pubblica e progettazione mancata, è iniziata nel 2006 ed è, oggi, nel pieno della sua realizzazione e il termine è previsto per il 2021. Il programma prevede l’abbattimento e la ricostruzione del patrimonio abitativo pubblico, con una conseguente densificazione e diversificazione abitativa operata attraverso una partnership con un operatore immobiliare privato che ha rilevato una parte dell’area a tariffa agevolata per costruire 2400 unità abitative di pregio medio-alto da collocare sul mercato privato, 2/3 in vendita e 1/3 in locazione a canone calmierato. Con i proventi della vendita sono stati finanziati quasi interamente i lavori di abbattimento e ricostruzione del patrimonio abitativo pubblico (2087 unità residenziali), che per 3/4 verrà localizzato sulla sua area originaria e per 1/4 su aree limitrofe. 15 Quello che è in particolare interessante sottolineare, è che fin dalle prime fasi di progettazione è stata posta un’enfasi molto rilevante sulle potenzialità di questo progetto in termini di promozione di una condizione di mix sociale (Meagher, Boston, 2003) come strumento per combattere il fortissimo stigma sociale, in gran parte fomentato da una forte pressione massmediatica ormai più che ventennale, che ha descritto l’area come il quartiere ghetto per eccellenza di Toronto, Nell’elaborazione del piano di riqualificazione sociale, una parte amplissima è stata infatti destinata alla progettazione di iniziative e infrastrutture per stimolare contatti e relazioni fra i residenti, nella consapevolezza che la semplice vicinanza fisica fra gruppi sociali eterogenei non possa di per sé generare scambi significativi. Per questa ragione il progetto ha previsto la riqualificazione di luoghi di ritrovo quali impianti sportivi, aree verdi, spazi attrezzati per l’associazionismo, ma anche la ristrutturazione delle sedi scolastiche locali (considerate luogo privilegiato di interazione) attraverso la dotazione di tutta una serie di servizi potenzialmente attrattivi per i nuovi residenti all’interno dell’area. Un’attenzione particolare è stata dedicata anche alla promozione dell’occupazione a livello locale attraverso due interventi specifici: la collocazione di uno sportello di orientamento al lavoro; il conseguimento di accordi per l’inserimento preferenziale di “manodopera locale” con i soggetti privati interessati a insediarsi nell’area per soddisfare le esigenze delle nuove popolazioni (quali un supermercato e una caffetteria-ristorante) e soprattutto con la società di imprenditoria edilizia responsabile della ricostruzione del patrimonio abitativo pubblico, generando circa 150 posti di lavoro. All’inizio del 2011, quando è stata realizzata questa indagine, il progetto di riqualificazione era nel pieno della sua seconda-terza fase (su 9 previste) edera già possibile osservare alcuni effetti sulle realizzazioni previste dalla fase 1: due condomini (uno occupato da residenti di housing sociale e uno da acquirenti privati), la caffetteria, il supermercato. Le questioni emerse durante le interviste realizzate con i testimoni privilegiati sono state molteplici e hanno evidenziato alcuni punti di forza e di debolezza del progetto già evidenziabili . Il progetto ha comportato, innanzitutto, il “classico” problema del trasferimento temporaneo degli ex-residenti in varie e disperse aree delle città (Curley, 2010). Da questo punto di vista l’aspetto più drammatico ha riguardato l’impatto di questo processo sulle popolazioni più vulnerabili che a Regent Park avevano costruito la propria comunità e i propri rapporti con i servizi, favoriti anche dalla centralità geografica dell’area. L’impatto è stato particolarmente difficile per i residenti più anziani e le persone colpite da varie disabilità, prima di tutte quelle mentali, nonché per i bambini in età scolastica. Alcuni di questi residenti, dopo 5 anni di permanenza in un altro quartiere, hanno 16 deciso di non ritornare, a causa delle reti ormai perse e di quelle costruite in un altro luogo, decisamente più marginale all’interno della geografia urbana. Come effetto contrapposto, si segnala la gioia e l’eccitazione, enfatizzata a lungo sui mass media locali, dei residenti dopo il trasloco nei nuovi condomini di housing sociale, dotati di numerosi servizi e infrastrutture: locali per la socializzazione, spazi attrezzati per le biciclette, un decoro delle strutture e delle abitazioni private incomparabilmente migliore rispetto al passato. Un altro elemento cardine del programma è stata la promozione dell’inserimento lavorativo dei residenti locali, che ha dato risultati positivi, ma riproducente un modello occupazionale duale: la collocazione delle visible minorities nei settori economici, come la ristorazione e la grande distribuzione, più soggetti ai bassi salari e al lavoro temporaneo, nonché spesso incubatori di dinamiche di sottoccupazione. Inoltre, i servizi commerciali dove sono impiegati i vecchi residenti locali sono mirati soprattutto alle esigenze delle nuove popolazioni che hanno deciso di stabilirsi in quello che era, appunto, considerato fino a pochi anni fa il “ghetto” di Toronto: principalmente coppie di giovani professionisti o anziani white canadians, di ritorno dalle aree suburbane, che hanno scelto questa soluzione residenziale dai prezzi contenuti per stabilirsi o ristabilirsi nel centro della città. Come sottolineano molti testimoni privilegiati intervistati, considerate le caratteristiche di queste nuove popolazioni, benché spesso di cultura “progressista”, il meccanismo del social mix sembra incepparsi: se, come descritto in letteratura (Musterd, 2003), gli effetti della segregazione residenziale sembrano generalmente più intensi sui soggetti che hanno meno possibilità di spostarsi e costruirsi altre reti sociali (le donne non lavoratrici, i bambini, i giovani), le caratteristiche demografiche e socio-economiche dei nuovi residenti non aiutano. E’ significativo che, al momento, le scuole di quartiere non hanno sperimentato un aumento degli iscritti e bisognerà attendere il completamento delle ulteriori fasi di ristrutturazione e l’insediamento di nuovi residenti per comprendere se e quali saranno gli effetti di lunga durata. Ancor di più, bisognerà attendere per comprendere se l’auspicato mix sociale si rivelerà uno strumento utile per favorire la mobilità sociale delle popolazioni più svantaggiate, e attraverso quali meccanismi. Ciò che appare chiaro, invece, è che questa operazione immobiliare sta agendo su quello spazio urbano integrandolo nella downtown di Toronto, riempiendo quelle aree in cui si manifestava apertamente il disagio di una popolazione ai margini della struttura sociale urbana. Questo processo rischia però di caratterizzarsi come una sorta di “azione di nascondimento” del disagio, piuttosto che che come una risposta ad esso. L’opinione di diversi osservatori e testimoni privilegiati è infatti che il progetto sia troppo vulnerabile a processi di progressivi gentrification, a partire dalla 17 decisione (contestata dalla società civile locale) di de- localizzare parte del patrimonio abitativo pubblico al di fuori dell’area originale per rendere il mercato abitativo privato “più attrattivo” ( TCHC, 2004). In generale, se la partnership con il privato è stata giustificata come un passaggio funzionale a recuperare le risorse per la ricostruzione di uno stock abitativo deprivato, il risultato principale è stato quello della perdita di aree edificabili (e quindi anche di elementi patrimoniali pubblici) e potenzialmente impiegabili per aumentare la disponibilità abitativa dell’housing sociale proprio nel cuore della città, vicino a quei servizi e infrastrutture che altre politiche, come quelle descritte di seguito, stanno faticosamente cercando di inserire in differenti aree marginali dove si sta ora materializzando una severa segregazione. Il secondo programma al centro dell’agenda politica locale riguarda i Priority Neighbourhoods, un progetto iniziato nel 2005 il cui scopo principale è quello di migliorare l’infrastrutturazione sociale e fisica di 13 aree che, sulla base di alcuni particolari indicatori, sono state indicate come particolarmente vulnerabili. Il focus di questo programma non è quindi relativo alla promozione di un maggiore mix sociale, ma soprattutto quello di agire sui servizi che possono potenzialmente migliorare l’inserimento sociale soprattutto della popolazione più giovane. L’interesse per questo approccio area based alla problematiche sociali è andato maturando subito dopo la pubblicazione del report “Enough talk” nel 2003, quando una serie di attori rilevanti nella società politica locale, tra i quali “United Way” che è la più grande ONG finanziatrice di interventi sociali a Toronto, hanno deciso di formare una task force temporanea per agire efficacemente sulle problematiche ormai evidenti all’interno di alcuni quartieri e particolarmente risonanti nell’attenzione massmediatica. Questa coalizione di attori, la Strong Neighbourhoods Task Force, formata non solo da ONG locali, ma anche fortemente sostenuta dall’amministrazione municipale (e in parte anche dal Governo Provinciale dell’Ontario e da quello Federale) nel giro di pochi mesi ha innanzitutto recuperato un budget di circa 65 milioni di dollari canadesi da investire in servizi sociali e infrastrutture all’interno delle 13 aree (Horak, 2006), concedendo però una forte autonomia delle comunità locali nella definizione delle strategie, degli obiettivi e delle azioni. I percorsi attivati nelle varie aree sono stati molto partecipati, con un forte protagonismo dell’associazionismo e dei rappresentanti delle varie visible minorities a livello locale. Rispetto alle infrastrutture, sono stati finora inaugurati 3 hubs multifunzionali, in cui il Comune ha delocalizzato alcuni servizi per l’orientamento al lavoro, mentre la Provincia dell’Ontario ha istituito alcuni presidi medici di base (Cowen, Parlette 2011). 18 In questo momento sono in corso le prime attività di valutazione di questo programma, “sperimentale” per Toronto, e le considerazioni più importanti riguardano almeno due questioni: l’efficacia del programma e l’equità territoriale nella distribuzione dei servizi. Il primo punto è di difficile interpretazione: al di là di risultati più o meno apprezzabili sotto il profilo della partecipazione alla progettazione e alle iniziative, per quanto riguarda alcuni aspetti nevralgici dell’integrazione sociale nei quartieri, l’analisi dei dati disponibili mette in luce diverse traiettorie, in termini demografici e socio-economici, su cui difficilmente un programma con queste prerogative sembra in grado di agire, nonostante l’enfasi mediatica con cui è stato accolto (Cowen, Parlette 2011). Secondo l’opinione di diversi osservatori e testimoni intervistati, il programma sembra aver supportato le reti già esistenti in quei contesti sociali caratterizzati da una forte coesione, mentre è stato piuttosto fallimentare nelle aree dove l’associazionismo era più debole o inesistente. E’ indicativo che, paradossalmente, fra le aree che hanno sperimentato un processo di graduale miglioramento, ad esempio della condizione occupazionale, soprattutto giovanile, alcune sono interessate da sempre più evidenti processi auto-segregativi in termini di background etnico: il caso della comunità Bengalese di Crescent Town (Grap. 1), fortemente concentrata in alcune torri collocate in un’area ben servita dalla rete metropolitana, ne è forse l’esempio più interessante (Murdie, Ghosh, 2011 ). Molti osservatori segnalano invece che quando le iniziative di Priority neighbourhoods hanno cercato di agire su territori caratterizzati, ad esempio, da una forte concentrazione della visible minority che, anche in Canada, risulta storicamente più svantaggiata - la comunità nera, l’accoglienza e i risultati sono stati molto più marginali. Il caso della comunità di Scarborough, con i dati disastrosi relativi ai trend occupazionali, ne è un chiaro indicatore (Graf. 2) 19 Graf. 2-Trend occupazione e disoccupazione giovanile nei Priority Neighbourhoods Fonte: Nostra elaborazione su dati Canadian Statistics, 2009 Un altro aspetto che ha suscitato un ampio dibattito pubblico, e che inizia essere oggetto di valutazioni più specifiche, è relativo alle disuguaglianze territoriali in termini di risorse e servizi che questi programmi area-based sono stati accusati, paradossalmente, di poter innescare (Horak, 2006). Di fatto, negli ultimi 6 anni tutti gli sforzi sperimentali e innovativi in termini di politica sociale sono stati concentrati in aree che sono state selezionate sia sulla base di indicatori socio-economici i cui valori non si discostano molto da quelli riscontrabili nelle rimanenti parti della “Città n. 3” (Hulchanski, 2011), ma anche sull’onda di una particolare attenzione mass-mediatica. Una paradossale diseconomia esterna risultato di questo progetto sembra quindi materializzarsi nella implementazione di diseguaglianze indotte tra diverse aree (oggetto/non oggetto del programma) della “Città n. 3”. Infine, la critica più sostanziale rivolta verso questi programmi (Cowen, Parlette, 2011) è relativa alla loro capacità di poter positivamente influire sui reali meccanismi strutturali (economici, politici e sociali) che stanno promuovendo quella indiscutibile traiettoria di polarizzazione sociale, e quindi 20 spaziale, che sta progressivamente cambiando la composizione e geografia sociale di Toronto. In sintesi, i progetti “Priority neigbourhoods” non alterando i trend nei modelli di definizione spaziale e di polarizazione sociale della realtà metropolitana, se hanno effetti positivi per le aree interessate, non sembrano modificare i processi in atto e a volte rischiano di introdurre ulteriori effetti distorsivi. 5. Riflessioni conclusive Toronto rappresenta un caso di studio di straordinario interesse di per sé, ma anche come esempio paradigmatico in una prospettiva comparativa utile per comprendere alcune tensioni che stanno attraversando le realtà metropolitane europee, legate alla paura dei possibili effetti della segregazione spaziale su base etnica rispetto alla coesione sociale urbana. La città canadese è infatti uno dei contesti urbani più multiculturali del mondo, esempio di un processo di crescita non solo demografica , ma anche economica, fortemente debitrice al contributo dei flussi migratori, e che ha fatto della diversità il suo brand. Nonostante questo clima disteso da un punto di vista politico e culturale, il caso di Toronto ben si presta a comprendere i reali meccanismi alla base di fenomeni segregativi su base spaziale, legati alle traiettorie di disuguaglianza o polarizzazione sociale che, con diversa intensità e velocità, le città occidentali stanno percorrendo. Anche a Toronto vari processi di chiusura sociale delle popolazioni meglio collocate all’interno della struttura sociale urbana promuovono un posizionamento dei gruppi sociali più vulnerabili negli spazi fisici e sociali meno desiderati e marginali, attraverso meccanismi di discriminazione. Allo stesso tempo, il declino nei finanziamenti pubblici destinati alle politiche di housing sociale non permette una adeguata risposta istituzionale alle problematiche abitative poste da un mercato immobiliare che ha reso estremamente problematico l’insediamento del mezzo milione di nuovi migranti che Toronto ha accolto negli ultimi cinque anni. Anche in questa città, l’azione istituzionale, nell’impossibilità/incapacità di agire sull’essenziale, ovvero promuovere politiche di sviluppo economico e sociale orientate a ridurre le disuguaglianze nella distribuzione della ricchezza (Blanc, 2010), si è quindi indirizzata verso strumenti di governo che hanno cercato di intervenire su alcune specifiche aree, introducendo una nuova stagione di politiche area-based, salutate positivamente dai mass-media locali. I risultati di questi interventi andranno valutati nel tempo, ma per il momento sembrano aprire margini di miglioramento piuttosto limitati, e a volte temporanei, per le popolazioni residenti, quali la riqualificazione delle 21 abitazioni e degli spazi pubblici, o il supporto all’associazionismo locale che dà risultati solo laddove le reti sono già piuttosto consolidate. Inoltre, tali programmi, letti in una scala più ampia, oltre a non intaccare gli equilibri urbani più complessivi, rischiano anche di promuovere effetti indesiderati. Ciò avviene nell’esperienza di Regent Park, destinando al mercato privato aree potenzialmente utili a un rafforzamento dello stock abitativo pubblico in posizione centrale, e nel caso dei Priority neighbourhoods, generando delle disparità territoriali nella distribuzione dei servizi. In sostanza, “nel nome del social mix”, il rischio è quello di intraprendere azioni istituzionali che, in una prospettiva strategica, possono paradossalmente rafforzare processi di divisione spaziale già in corso anche in una città tra le più diverse, aperte e multiculturali del mondo. Bibliografia Agustoni A., Alietti A. (2009), Società urbane e convivenza interetnica, Vita quotidiana e rappresentazioni degli immigrati in un quartiere di Milano, FrancoAngeli, Milano Agustoni A., Alietti A. 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