Paura del ghetto e politiche antisegregative: cosa

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Paura del ghetto e politiche antisegregative: cosa
Paura del ghetto e politiche antisegregative:
cosa possiamo imparare dal Canada?
Il caso di Toronto
di
Roberta Cucca
Paper for the Espanet Conference
“Innovare il welfare. Percorsi di trasformazione in Italia e in Europa”
Milano, 29 Settembre — 1 Ottobre 2011
Roberta Cucca, Laboratorio di politiche sociali, DiaP, Politecnico di Milano
Via Bonardi 3, Milano: [email protected]
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Introduzione
Da almeno un decennio, l’eterogeneo panorama delle politiche urbane Europee è attraversato da un
filo conduttore: la ricerca di strumenti per rispondere a una dilagante paura del ghetto e della
segregazione, soprattutto nella sua declinazione “etnica”. Ne sono esempio (CLIP, 2007) le
politiche orientate a ridurre o prevenire la segregazione; gli interventi volti a mitigarne gli effetti
negativi; i più recenti (e rari) programmi tesi a rafforzare il capitale sociale positivo presente nelle
aree in cui si registra maggiore concentrazione di popolazione immigrata. La contagiosa paura del
ghetto rende però complessa e poco serena la promozione di iniziative e programmi orientati ad
attrezzare le arrival cities europee ad accogliere i nuovi immigrati e promuoverne le opportunità di
mobilità sociale (Saunders, 2010).
In questo contributo si propone l’analisi delle politiche area-based orientate a intervenire sulla
segregazione spaziale recentemente promosse a Toronto, una città che solo negli ultimi 5 anni ha
accolto 450.000
nuovi residenti, provenienti principalmente dall’Asia e dall’Europa dell’est
(Statitics Canada, 2010).
Benchè l’allarme sociale associato alla concentrazione di minoranze etniche sia contenuto in un
paese costituzionalmente fondato sul multiculturalismo e, soprattutto, in una città che ha fatto
dell’accoglienza dell’immigrazione il suo brand (“Diversity our Strength”), il vivace dibattito
pubblico suscitato dal veloce processo di sub-urbanizzazione della povertà ha recentemente portato
alla promozione di due principali programmi:
-“Priority neighbourhoods”, che ha coinvolto 13 “inner suburbs” caratterizzati da una scarsa
infrastrutturazione fisica e sociale e da una forte concentrazione di residenti sotto la soglia di
povertà e di recente immigrazione; il programma è basato sulla delocalizzazione di servizi e
infrastrutture attraverso l’istituzione di hubs multifunzionali (servizi sociali, culturali, presidi
sanitari, spazi per l’associazionismo);
-la riqualificazione di Regent Park, la più antica area di edilizia residenziale pubblica costruita
negli anni ’50 a pochi chilometri da downtown,
attraverso logiche di densificazione e
diversificazione abitativa per promuovere un maggiore mix sociale.
Si tratta di due programmi che, pur attivati dalla stessa amministrazione comunale, hanno coinvolto
diverse coalizioni di attori e hanno seguito due
problematiche
legate
alla
segregazione:
differenti orientamenti nei confronti delle
disperdere
la
concentrazione
l’infrastrutturazione delle aree e promuoverne il capitale sociale esistente?
2
o
migliorare
Attraverso la realizzazione di interviste a testimoni privilegiati, l’analisi etnografica dei luoghi, la
raccolta e interpretazione di dati, questo contributo analizza i meccanismi che hanno portato, negli
ultimi anni, a un’accentuazione della segregazione spaziale a Toronto, il contesto istituzionale e di
governance in cui sono maturati i due programmi, nonché i primi impatti di tali
politiche.
L’obiettivo è quello di cogliere punti di forza e di debolezza dei diversi programmi area-based, in
un contesto non eccessivamente segnato dal panico per la segregazione etnica, per comprendere se,
quanto e a quali condizioni tali interventi possono agire efficacemente a favore dei cittadini
coinvolti, oppure rivelarsi controproducenti innescando nuove traiettorie di disuguaglianza.
Nel primo paragrafo, una breve contestualizzazione nel quadro della letteratura precede l’analisi del
case study sviluppata nei paragrafi seguenti.
1. La paura del ghetto come minaccia alla coesione: discorso pubblico e politiche in
Europa
Nel corso degli ultimi due decenni, gli studi urbani sono stati contraddistinti da una attenzione
crescente nei confronti delle tematiche legate alla segregazione spaziale dei migranti nelle città; per
varie motivazioni e in differenti forme, questo fenomeno è divenuto centrale nell’ambito del
dibattito pubblico così come nei processi di definizione delle politiche urbane orientate a governare
i processi di migrazione e il loro insediamento in ambito urbano. Questa tematica non rappresenta
però un focus di analisi nuovo per le scienze sociali: negli Stati Uniti, la segregazione residenziale
su base etnica ha rappresentato uno dei fenomeni maggiormente investigati fin dall’origine della
sociologia urbana (Park, Burgess, and McKenzie 1925) e, in particolare, dopo la pubblicazione di
“The Truly Disadvantaged” di Wilson (1987) ha conosciuto un nuovo protagonismo. E’ da
sottolineare come, in generale, gli studi americani abbiano comunemente raffigurato la
concentrazione delle minoranze etniche in determinate aree urbane come un fattore di
marginalizzazione, un fenomeno fortemente inibente processi di mobilità ascendente per le
popolazioni coinvolte, a causa di un deficit di risorse locali, opportunità lavorative e capitale sociale
limitante le opportunità di sfuggire dal circuito della povertà, dell’esclusione e dell’isolamento
(Musterd, Andersson, 2005; Bolt, Phillips, Van Kempen, 2010). Allo stesso tempo l’esistenza della
segregazione è stata anche rappresentata come una strategia “dall’alto” di chiusura sociale dei
gruppi sociali privilegiati, al fine di rafforzare l’esclusione delle popolazioni più svantaggiate.
Negli ultimi anni l’attenzione al tema della segregazione residenziale, in particolare su base
etnica, ha conquistato un notevole protagonismo anche nella letteratura europea e, ancor di più, ha
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rappresentato un focus di attenzione di alcune politiche territoriali adottate a livello urbano.
Soprattutto nei contesti di nuova immigrazione, dopo un primo periodo di stordimento, la
concentrazione residenziale di immigrati e minoranze etniche ha iniziato a essere rappresentata
come una “emergenza pubblica” e a riecheggiare come una minaccia (forse la peggiore) alla
coesione sociale urbana. La stessa Commissione Europea in un documento sulle linee di azione per
lo sviluppo urbano sostenibile partendo da questi assunti di fondo sottolinea come una speciale
sfida è quella di prevenire la segregazione spaziale e le concentrazioni di esclusione nelle città (cit.
in Musterd, 2003: 625). E’ interessante quindi sottolineare come in Europa la concentrazione
residenziale di minoranze etniche e di nuovi immigrati è stata definita non solo come un possibile
elemento di svantaggio per le popolazioni “segregate”, ma anche come un fattore potenzialmente
inibente la possibilità, per le popolazioni “autoctone”, di sentirsi “a casa propria”. Questa
percezione ha presto contaminato anche alcune politiche urbane promosse in contesti nazionali fino
a pochi anni fa piuttosto predisposti al multiculturalismo, quale ad esempio quello olandese. Infatti,
dopo gli attentati di New York del 2001, la linea di intervento si è rivolta sempre più esplicitamente
al contrasto alla segregazione su base etnica come strumento per evitare “fenomeni di
radicalizzazione”. In particolare, nel 2007 è stato promosso dal governo nazionale olandese un
programma per promuovere “Coesione sociale e mix abitativo” in 40 distretti urbani, denominati
“aree di azione”. Poiché il termine coesione sociale è nella sua essenza piuttosto ambiguo (Ranci,
2007; Alietti, 2009) è interessante evidenziare come la definizione data al concetto all’interno di
questo programma sia stata appunto quella di “sensazione di vivere in un’area che è casa propria e
di avere controllo sull’ambiente” (van Kempfen, Bolt, 2009).
Per contrastare quindi sia il possibile svantaggio generato dal vivere in un’area connotata da una
forte concentrazione di minoranze etniche, sia il declino di un senso di appartenenza al territorio di
insediamento da parte delle popolazioni autoctone (spesso correlato a un declino nel senso di
sicurezza percepita dai cittadini fomentato da campagne mass-mediatiche) anche in Europa negli
ultimi anni sono state promosse diverse politiche “area based” (Clip, 2007; Pologruto, Cucca,
2011).
Gli interventi più numerosi sono stati rivolti a ridurre o a prevenire la segregazione spaziale,
incentivando il cosiddetto social mix, attraverso la riqualificazione urbanistica, l’introduzione del
tenure mix o con incentivi per attrarre residenti di classe media o nuove popolazioni. Un
interessante caso di studio è Amburgo, dove nel 2004 l’amministrazione comunale ha promosso
interventi tesi a favorire la mobilità di studenti verso quartieri a rischio segregazione, attraverso un
piano di sussidi all’affitto. Più spesso, questo stesso obiettivo è stato perseguito attraverso la
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definizione di “quote” o procedure di allocazione specifiche nell’housing sociale. Sempre in
Germania, ad esempio, già nel 1975 si era cercato di introdurre un limite all’insediamento urbano
degli immigrati attraverso il sistema delle quote al 12% della popolazione locale, un limite per la
verità mai rispettato per una serie di regolamenti europei che ne rendevano difficile l’applicazione.
In Svezia, invece, dal 1985 è attiva la regola Sweden-wide, che prevede una sistemazione non
concentrata territorialmente dei rifugiati, per evitare segregazione e anche sollevare le municipalità
da un peso eccessivo per interventi e sussidi a loro favore (Ekberg, 2006).
Un’altra tipologia di politiche abbastanza diffusa in Europa è orientata a ridurre i possibili effetti
negativi della segregazione spaziale, attraverso progetti integrati di riqualificazione sociale ed
infrastrutturale nei quartieri socialmente deprivati. Spesso questi progetti agiscono sulle dinamiche
d’inclusione sociale promuovendo iniziative formative e occupazionali, e implementando arene
decisionali partecipative per gli abitanti.
Infine, si segnalano le meno diffuse politiche che cercano di valorizzare le risorse presenti nelle
aree connotate da una forte concentrazione di minoranze o neo-arrivati, ad esempio promuovendo
lo sviluppo delle economie etniche e valorizzando il ruolo dell’associazionismo dei migranti
(Alietti, 2011).
Non di rado questi diversi approcci trovano un’applicazione combinata. Ad esempio, a
Copenhagen, (Penninx, 2007) nelle aree considerate vulnerabili, (ovvero in cui almeno 7 perone su
10 sono immigrate), “ad alto rischio”( in cui 5 abitanti su 10 sono immigrati) e “a rischio” (in cui
3 abitanti su 10 sono immigrati), dal 2006 è attivo un programma che mirava, entro il 2010, a
ridurre la condizione di disoccupazione in tali aree al 10%, rivitalizzando l’imprenditoria etnica e,
laddove possibile, utilizzando criteri di assegnazione che limitano l’ulteriore concentrazione nelle
stesse aree di cittadini che usufruiscono di supporti sociali.
In questo contesto caratterizzato
dalla crescente diffusione di
politiche urbane orientate a
contrastare in vario modo la segregazione, è però interessante notare come i risultati di ricerche
empiriche condotte sui quartieri ad alta concentrazione non convergono nell’identificare tale
fenomeno come uno svantaggio.
Ad esempio, alcune ricerche realizzate sui networks degli immigrati di prima generazione
segnalano come queste reti rappresentino una risorsa fondamentale sia per trovare un alloggio e un
lavoro, così come per familiarizzare con il sistema di welfare o ricevere supporto di cura all’interno
dei circuiti familiari o amicali (Bolt et al. 1998; Phillips 2010; Murdie, Ghosh, 2011). Altre ricerche
mettono in dubbio che il mix sociale possa davvero rappresentare una risorsa per le popolazioni più
svantaggiate, mentre ipotizzano che una maggiore omogeneità del background socio-culturale, così
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come la similarità degli stili di vita e degli interessi può sviluppare più facilmente relazioni sociali
significative (Gans, 1961; Elias, Scotson, 2004). Inoltre, alcuni studi evidenziano che una vicinanza
“forzata” può invece esacerbare i conflitti e rendere più difficile la coabitazione (Blanc, 2010).
Infine, prendendo una certa distanza da questa discussione, diversi studi hanno iniziato a
sottolineare la maggiore rilevanza di altri meccanismi sociali e istituzionali operanti a livello urbano
e che sembrano influenzare il processo di integrazione socio-economica degli immigrati, oltre il
fenomeno della segregazione residenziale di per sè (Arbaci, 2007; Bolt, Ozuekren, Phillis, 2010). In
questa prospettiva, l’attenzione viene rivolta al fenomeno della segregazione come risultato di
processi di discriminazione operanti a scala più ampia e, in particolare, nel mercato del lavoro e
nell’accesso ad abitazioni a prezzi e canoni sostenibili (Cucca, 2011), che di fatto promuovono
contesti urbani sempre più divisi socialmente (Blanc, 2010) e, di conseguenza, spazialmente. Per
questo motivo, senza un’adeguata macro politica di inclusione socio-economica che accompagni lo
sviluppo delle azioni de-segregative, a prescindere dagli strumenti utilizzati e dalle finalità espresse,
il risultato appare debole e inefficace (Alietti, 2011).
Sulla base di questa ultima prospettiva interpretativa, il presente paper propone un caso di studio
particolarmente interessante per alimentare il discorso sulla realtà e sulle politiche europee, ovvero
l’analisi delle più importanti politiche area-based orientate a intervenire sulla segregazione spaziale
recentemente promosse a Toronto. In questa area metropolitana il vivace dibattito pubblico
suscitato dal veloce processo di sub-urbanizzazione della povertà ha recentemente portato alla
promozione di due principali programmi: i “Priority neighbourhoods” e la riqualificazione dell’area
di social housing di “Regent Park”. Il primo intervento è orientato a ridurre i possibili effetti
negativi della segregazione spaziale e valorizzare le risorse locali attraverso un rafforzamento
dell’infrastrutturazione fisica e sociale di 13 aree urbane considerate particolarmente svantaggiate;
il secondo, è basato su logiche di densificazione e diversificazione abitativa per promuovere un
maggiore mix sociale, attraendo nuovi residenti di classe media nell’area.
2. “Diversity our strenght”. Immigrazione a Toronto, tra brand e realtà multiculturale
Il Canada oggi rappresenta uno dei “paesi occidentali” più aperto ai flussi di immigrazione
provenienti da ogni parte del mondo e, per ragioni geografiche ed economiche, particolarmente dal
continente asiatico (50% circa dei flussi migratori nel 2009). Le ragioni che hanno portato questo
Paese a rappresentare una destinazione migratoria particolarmente ambita sono molteplici:
innanzitutto, un contesto legislativo favorevole al multiculturalismo, concetto fondamentale
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nell’ordine costituzionale del Paese; in secondo luogo, una politica migratoria concepita come
risposta a un pesante crollo demografico seguito al baby boom degli anni 60-70; infine, più
recentemente, l’introduzione di procedure più severe disciplinanti i flussi migratori nei vicini Stati
Uniti, dopo gli attentati del 2001, hanno portato il Canada a rappresentare la via più fruibile al
sogno nord-americano per una parte cospicua della popolazione mondiale.
Eppure, fino all’inizio degli anni 60, le politiche migratorie canadesi si sono caratterizzate per una
forte matrice “razzista” che ha privilegiato apertamente i flussi provenienti dai paesi anglossassoni e
nord-europei, con l’esplicito scopo di non trasformare “il carattere originario” della popolazione
canadese, giustificate anche dalla convizione che quelle popolazioni apparivano “più propense ad
adattarsi alle rigide temperature” che caratterizzano l’inverno canadese . Solo nel 1962 il Canada ha
abbandonato la sua politica migratoria “all white”, per spostare progressivamente i criteri di
ammissione verso caratteristiche personali e non in riferimento al gruppo etnico di origine, fino ad
arrivare all’introduzione del “Sistema a punti” del 1967 elaborato per favorire l’ingresso di high
skilled workers. Come risultato, oggi in Canada esistono quindi tre diverse categorie di ammissione:
immigrazione economica, riunificazione familiare, richiesta di asilo politico. Solo nel 2005 il
Canada, un Paese di circa 30 milioni di abitanti, ha accolto circa 260.000 immigrati, di cui il 56% è
stato ammesso per ragioni economiche. In particolare, più del 50% degli immigrati si è insediato
nella provincia dell’Ontario con una forte concentrazione a Toronto (circa il 40% su base
nazionale), città che nel solo primo quinquennio degli anni 2000 ha accolto quasi mezzo milione di
migranti.
Dopo l’inclusione nella municipalità di Toronto di 4 comuni limitrofi, avvenuta nel 1998 su
decisione del governo provinciale, Toronto conta oggi circa 2.500.000 di abitanti (circa 6.000.000
se si considerano anche i residenti dell’area metropolitana Great Toronto Area – GTA), rappresenta
una delle città a più rapida crescita all’interno delle metropoli comprese nell’OECD ed è
caratterizzata da una popolazione decisamente più giovane della media (OECD, 2009), grazie in
primo luogo ai flussi migratori di high skilled workers e richiedenti asilo. La città canadese
rappresenta il secondo contesto urbano più multiculturale al mondo dopo Miami, e sicuramente il
più diverso: circa il 53% della popolazione non parla inglese come prima lingua e si contano
almeno 216 diverse minoranze etniche (Chui, Tran and Maheux, 2007). Queste caratteristiche
hanno portato a coniare, proprio in concomitanza con la “fondazione” della “Nuova Toronto” nel
1998, il motto “diversity our strenght”, dove appunto il termine diversità è riferito alle varie anime
della città in termini culturali, demografici, territoriali (Toronto è anche definita come una “città di
quartieri”) ed economici.
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Questi aspetti demografici e di cultura politica rendono molto accattivante l’analisi di una realtà
urbana, almeno a prima vista, così poco permeata da timori e tensioni correlate alla continua
trasformazione della sua composizione sociale, ma che, anzi, ha fatto di questa dinamicità “la sua
forza” o, almeno, il suo “brand”. Nonostante il fascino esercitato da un modello quasi provocatorio
per gli standard europei, è però interessante valutare la concreta realtà di integrazione delle
popolazioni migranti al suo interno, iniziando dalla collocazione delle “visible minorities”1 e dei
“new comers” all’interno della geografia socio-economica urbana.
Innanzitutto, è interessante chiedersi come vengono valorizzate le competenze di cui sono portatori
gli immigrati di prima generazione, “selezionati”, come abbiamo visto, sulla base degli skills
professionali (titolo di studio, competenze linguistiche, esperienze lavorative). Le motivazioni
generalmente indotte a supporto di procedure di selezione basate su tali competenze sono, infatti,
riconducibili a un progetto di promozione di un’economia nazionale basata sulla creatività,
l’innovazione e la qualità, che è particolarmente radicato a Toronto, città di recente adozione del
noto studioso e sostenitore dell’economia creativa Richard Florida. Secondo le rilevazioni del
Martin Prosperity Institute dell’Università di Toronto (2009), nel 2006 la città canadese poteva
vantare una percentuale di popolazione rientrante nella classe creativa (ovvero le persone che sono
pagate per svolgere un’attività intellettuale) di circa il 34%, con valori inferiori solo a New York e
Boston nell’ambito del contesto nord americano (Graf. 1).
Graf. 1 – Presenza della “classe creativa” nelle città americane
Fonte: Martin Prosperity Institute, 2009
1
Con il termine “visible minority” nella letteratura e nelle statistiche canadesi vengono definite principalmente le
minoranze non caucasiche; con “newcomers” i residenti temporanei o permanenti che sono arrivati in Canada da
meno di un anno
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Nel corso degli ultimi venti anni, Toronto ha infatti sperimentato una transizione a un sistema
produttivo post-fordista caratterizzato da un forte protagonismo dei settori della finanza e dei servizi
avanzati, ma, allo stesso tempo, anche di quelli non avanzati, in una prospettiva di forte
polarizzazione della struttura occupazionale urbana, tipica fra l’altro dei contesti urbani nordamericani (OECD, 2009).
In questo quadro, quello che è interessante valutare è la forte discrepanza fra i criteri di selezione
regolanti i flussi migratori a livello federale e il reale inserimento dei migranti all’interno
dell’economia urbana. Sempre come rilevato dal Martiny Prosperity Institute (Bednar, Davidson,
Stief, 2011), più del 40% degli immigrati non è stato in grado di mantenere la stessa posizione
occupazionale nella classe creativa rivestita nel proprio paese di origine. Le ragioni alla base di
questa diffusa sottoccupazione sono innanzitutto legate al processo di riconoscimento dei titoli e
delle esperienze professionali maturate fuori dal Canada, nonché le minori abilità linguistiche
rispetto ai concorrenti madrelingua. Le difficoltà di riconoscimento dei titoli sono particolarmente
evidenti per quanto riguarda le categorie professionali disciplinate da albi, che hanno adottato questi
meccanismi come strategia di chiusura rispetto al rischio di aumento di concorrenza intraprofessionale. Inoltre, anche a fronte di un inserimento lavorativo coerente con le proprie
competenze, risulta un gap stipendiale almeno del 15% fra quanto percepito dai professionisti nati
in Canada o al di fuori del Paese (Bednar, Davidson, Stief, 2011)
In generale, le minoranze etniche sono più frequentemente occupate in settori economici e mansioni
caratterizzati da salari più bassi e, rispetto al passato, questa situazione sembra sempre più
caratterizzare anche le seconde generazioni (Reitz and Zhang, 2011). Inoltre, in particolare le
minoranze caratterizzate da un percorso migratorio forzato dalla necessità della ricerca di asilo
politico, risultano più esposte al rischio di disoccupazione di lunga durata.
Questi processi hanno portato diversi studiosi a parlare di una progressiva “razializzazione della
povertà” anche a Toronto (Walks, 2011) in un contesto sociale ormai avviato lungo la traiettoria
della polarizzazione sociale, in cui le minoranze etniche sono confinate nei gradini più bassi della
stratificazione.
3. Traiettorie di segregazione e le differenze con il passato. Un mosaico a rischio?
I processi di insediamento delle minoranze etniche e dei newcomers a Toronto hanno risentito di
alcune trasformazioni del mercato e delle politiche abitative piuttosto diffuse nelle città
contemporanee (Torri, 2011) e, in particolare, nelle città nordamericane, seppur con alcuni
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interessanti specificità. Innanzitutto, negli ultimi dieci anni la crescita demografica registrata a
Toronto si è concentrata soprattutto nell’area centrale della città piuttosto che in quelle suburbane,
generando una forte richiesta di abitazioni in downtown. Tale richiesta ha promosso strategie di
densificazione abitativa sia attraverso la costruzione di grattacieli a uso residenziale nelle aree di exindustrializzazione, ma anche tramite alcuni processi di gentrification che hanno interessato aree
fino a pochi anni fa territorio di primo insediamento per gli immigrati (Walks, 2011).
Un secondo elemento importante è stata la battuta di arresto, registrata fin da metà degli anni
Novanta, dei finanziamenti pubblici (federali e provinciali) destinati a sovvenzionare l’housing
sociale, a fronte di un progressivo processo di delega delle politiche abitative dal
governo
provinciale dell’Ontario verso i livelli politici e amministrativi municipali. A questo proposito è
interessante segnalare come storicamente il centro di Toronto (fino al 1998 municipalità autonoma)
sia stato caratterizzato da una presenza sostenuta di housing sociale rispetto alle altre municipalità e,
soprattutto, alle aree suburbane (Hulchanski, 2011). L’esempio più emblematico è rappresentato
dall’area di social housing “Regent Park”, progettata alla fine degli anni Quaranta con l’intento di
sostituire un deprivato quartiere di classe operaia localizzato nelle prossimità del quartiere
finanziario, con un moderno complesso abitativo di condomini all’interno di un’area verde piuttosto
estesa. Quando nel 1957 il progetto fu ultimato, Regent Park assorbì circa 10.000 ex residenti del
vecchio quartiere operaio di Cabbagetown, costituito in gran parte da immigrati irlandesi (Meagher,
Boston, 2003).
La buona disponibilità di social housing e di soluzioni abitative economiche ha quindi rappresentato
in quegli anni un importante fattore di concentrazione delle popolazioni immigrate nell’area di
downtown. In quelle aree centrali, ben collegate dalla rete di mezzi pubblici e dalla metropolitana,
dalla fine della guerra fino agli anni Settanta, affollate comunità di italiani, greci e portoghesi si
sono insediate e hanno dato vita a economie etniche vivaci e centrali anche nella geografia
economica urbana, rappresentando un importante strumento di mobilità sociale ascendente per
queste comunità (Murdie, Ghosh, 2011). Questo processo di arricchimento si è innanzitutto
manifestato in un progressivo orientamento di queste popolazioni verso l’acquisto dell’abitazione in
cui vivevano, che in alcuni casi ha significato spostarsi nelle aree suburbane della città (spesso
attraverso processi auto-segregativi, come ad esempio il caso degli italiani a Woodbridge), mentre
per altri gruppi la scelta è stata di rimanere nelle zone urbane più centrali per non allontanarsi dai
legami costruiti all’interno delle comunità originarie (Murdie, Ghosh, 2011).
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Rispetto ai percorsi sopra descritti, nei periodi più recenti i processi insediativi degli immigrati a
Toronto si sono caratterizzati in modo profondamente differente, con l’emergere di significativi
elementi di marginalizzazione, non solo economica ma anche spaziale.
L’area di downtown, a causa di una richiesta abitativa sempre più pressante da parte della “nuova
classe creativa”, ha registrato un rialzo del costo del patrimonio immobiliare che ha reso per lo più
inaccessibile ai nuovi immigrati le aree urbane centrali e, in genere, le poche zone ben collegate al
trasporto pubblico attraverso la rete metropolitana. Per queste ragioni, a partire dagli anni Novanta,
molti newcomers hanno iniziato a insediarsi direttamente nelle aree suburbane meno pregiate e,
soprattutto, negli “inner subburbs”, ovvero nelle aree più periferiche della città di Toronto dopo
l’annessione del 1998. In particolare, gli immigrati hanno iniziato ad affollare le “torri”, condomini
di altezza superiore ai 20 piani di scarso pregio abitativo, costruiti a partire dagli anni Sessanta per
aumentare la densità abitativa e compattare la città, per la maggior parte adibiti a uso locativo
(Center for Urban Growth and Renewal, 2010) e, in epoca fordista, principalmente occupati dalla
classe operaia urbana, considerata la vicinanza ad alcune aree industriali. Tale fenomeno è stato
reso possibile dalla scarsa attrattività di questa scelta residenziale per le classi medie e più agiate,
che ha consentito il mantenimento di costi abitativi contenuti che hanno però innescato processi di
“segregazione verticale” in strutture fondamentalmente deprivate a causa di scarsa manutenzione.
(Center for Urban Growth and Renewal, 2010 )
Un altro settore particolarmente attrattivo per le minoranze etniche continua ad essere, ovviamente,
quello del social housing, con un aumento della concentrazione di visible minorities, ma al
contempo un aumento esponenziale delle liste di attesa (+4,2% fra il 2008 e 2009 in Ontario,
Wellesley Institute, 2010) e una decrescente capacità di accogliere newcomers. A Regent Park, ad
esempio, nel 2006 circa l’80% della popolazione residente era di “visible minority”, il 60%
immigrata di prima generazione, ma in cinque anni la percentuale di newcomers era decresciuta di
quasi due punti percentuali, nonostante il progressivo aumento dei flussi migratori.
A complessificare la distribuzione spaziale degli immigrati si è anche aggiunto un nuovo fenomeno
promosso sia dalle trasformazioni nel quadro regolativo dell’immigrazione che da alcuni
cambiamenti politici e socio-economici a livello più globale. In particolare, si fa riferimento
all’arrivo di flussi migratori di gruppi sociali molto agiati (in particolare gli abitanti di Hong Kong,
prima della riannessione del protettorato inglese alla Cina2) che si sono insediati in alcune aree
2
Questo fenomeno è stato ancor più evidente a Vancouver, dove questi investimenti hanno contribuito a trasformare
il mercato alloggiativo della città e a renderlo uno fra i più costosi del mondo
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suburbane e condomini di pregio nel centro città e hanno investito notevoli capitali nel mercato
abitativo locale.
Come risultato di tutti i cambiamenti descritti finora, Toronto sembra avviata lungo una progressiva
traiettoria di divisione sociale e, quindi, spaziale, fra la parte della popolazione più benestante
(fondamentalmente “white canadian” o di recente ricca immigrazione) e quella più disagiata (in cui
le visible minorities e i newcomers sono fortemente rappresentati), in un quadro (Map. 1) che è
ricomponibile nell’esistenza di “tre città” (Hulchanski, 2011):
- La “città n. 1”, caratterizzata da una particolare concentrazione di percettori di reddito più alti
della media a livello urbano e che ha visto aumentare fortemente i redditi dei suoi abitanti negli
ultimi 40 anni. In questa area la percentuale di abitanti nati all’estero dal 1971 al 2006 è diminuita
del 7% (dal 35% al 28% ). Le aree della “città n.1” sono localizzate nella downtown e in alcune
zone di pregio collocate vicino alla linea metropolitana;
-In aperto contrasto alla prima “città”, la “città n. 3” è popolata da una popolazione con un reddito
più basso rispetto alla media e che è afflitta da una perdita sostanziale della ricchezza pro-capite
rispetto agli anni Settanta. In questa “città” solo il 34% della popolazione è white canadian e il
numero degli abitanti nati all’estero è aumentato di 30 punti percentuali rispetto al 1970, passando
dal 31% al 61% nel 2006. Queste aree sono per la maggior parte “innercity suburbs” ovvero zone
periferiche della città, scarsamente collegate alle linee della metropolitana.
-Infine, vi è la “Città n. 2”, composta da aree in cui il reddito medio e la percentuale di
immigrazione (50%) è vicino a quello della città in generale e non ha subito particolari
modificazioni sia in termini economici che di composizione sociale. Si tratta però di una parte della
città che si sta ridimensionando molto velocemente, “a tutto vantaggio” sia delle aree più ricche che
di quelle più deprivate della città.
12
Fonte: Hulchanski 2011
Purtroppo, quindi, anche Toronto sta cambiando. Nonostante un basso livello di allarme sociale
rispetto al problema della segregazione e un contesto politico e culturale aperto alla diversità, i dati
raccontano di una città che si sta scoprendo sempre più divisa, innanzitutto fra classi sociali e,
quindi, fra white canadian e visibile minorities. Da un punto di vista sociale, questo fenomeno è
determinato dal processo di marginalizzazione socio-economica delle popolazioni recentemente
immigrate e della minoranza nera e aborigena, e un arricchimento e chiusura sociale di diverse
figure che popolano la “classe creativa”, in cui gli immigrati, pur in possesso delle credenziali, non
riescono a penetrare (Picot, Feng, 2003). Si tratta di una chiusura che si concretizza anche nella
divisione spaziale, attraverso processi auto-segregativi delle classi più agiate e l’insediamento della
componente immigrata nelle aree meno pregiate. Un fenomeno che non rappresenterebbe nessuna
novità nella storia dei processi insediativi delle popolazioni straniere nella città, se non fosse che, a
differenza dei vecchi ghetti nella downtown, ora queste zone sono localizzate in aree remote, non
13
servite dai trasporti pubblici, scarsamente dotate di infrastrutture fisiche e sociali, in cui anche le
economie etniche sono di fatto marginalizzate.
4. La nuova stagione delle politiche area-based a Toronto.
Negli ultimi cinque anni la municipalità di Toronto ha promosso alcuni programmi area-based
(Horak, 2010) per contrastare gli effetti dei processi segregativi delineati nelle pagine precedenti.
Bisogna specificare, però, che. a differenza della maggioranza delle politiche promosse in Europa,
l’approccio che ha guidato questi interventi è stato innanzitutto orientato ad agire sulla segregazione
spaziale di popolazioni vulnerabili sotto il profilo della condizione occupazionale e del reddito,
nonché concentrate in aree urbane fortemente deprivate da un punto di vista infrastrutturale. Ciò
significa che il tema della segregazione su base etnica, o più in generale degli immigrati e delle
visible minorities, non è stato l’elemento scatenante l’azione istituzionale, in quanto di per sé non
concepito né come una problematica sociale né come un rischio per la coesione sociale a livello
urbano. In una città in cui più del 50% della popolazione è nata all’estero, d’altronde, livelli di
concentrazione di popolazione straniera anche molto alti sono considerati un effetto naturale delle
dinamiche migratorie che caratterizzano la sua crescita demografica. E’ da porre in rilievo come,
però, nel corso degli ultimi anni, alcuni processi auto-segregativi stiano conquistando spazio nel
dibattito pubblico: in particolare, l’apertura di una scuola primaria per la sola popolazione scolastica
nera, sostenuta e voluta da una parte stessa della comunità come uno strumento per arginare gli
insuccessi e la dispersione scolastica dei giovani, ha fatto recentemente molto discutere in una città
in cui la scuola ha rappresentato, per intere generazioni, uno strumento di costruzione del mosaico
culturale su cui il Canada, anche costituzionalmente, si basa. In generale, però, le politiche che qui
si discutono sono maturate in un contesto ancora poco attraversato da queste tensioni sui temi della
segregazione o auto segregazione su base etnica, sebbene , comunque, è indubbio che Toronto viva
una fase di profondo mutamento. Dal 2003, anno di pubblicazione del report “Enough Talk: An
Action Plan for the Toronto Region” da parte della City Summit Alliance (TCSA), una
organizzazione composta dai rappresentanti di diverse realtà della società civile locale, le
condizioni di particolare deprivazione di certi quartieri, alcuni dei quali annessi alla città di Toronto
nel 1998, avevano iniziato a conquistare una certa visibilità all’interno del dibattito pubblico
cittadino; allo stesso tempo, un’altra questione critica riemergeva come problema pressante, ovvero
il dibattito ormai decennale sulla riqualificazione di Regent Park, caldamente auspicato anche da
parte degli stessi residenti e atteso ormai da anni (TCHC, 2004).
14
A partire dal 2002, iIn una situazione connotata da una pressione mass-mediatica fortissima, sia
riguardo a certi fatti di cronaca nera che avevano coinvolto alcune gang di teenagers di origine
africana, sia rispetto allo stato di deprivazione e di stigma ormai associato all’area di Regent Park,
la nuova amministrazione comunale guidata dal sindaco progressista David Miller ha prima
discusso e poi introdotto nella programmazione delle politiche urbane l’approccio area-based,
attraverso due principali programmi:
- i “Priority neighbourhoods” (City of Toronto, 2005) che hanno avuto come target 13 “inner
suburbs” caratterizzati da una scarsa infrastrutturazione fisica e sociale, da una forte concentrazione
di residenti sotto la soglia di povertà e di recente immigrazione, nonché da un particolare
protagonismo sulle prime pagine dei giornali locali per le questioni già esposte;
-la riqualificazione di Regent Park, attraverso logiche di densificazione e diversificazione abitativa,
con l’obiettivo dichiarato di promuovere un maggiore mix sociale e cancellare il forte stigma
associato all’area.
Prima di procedere con la descrizione dei programmi e proporre una serie di riflessioni sui loro
primi impatti, è bene specificare che questi due interventi hanno rappresentato una rottura e una
nuova sperimentazione per le politiche urbane non solo municipali, ma anche canadesi. Infatti il
Canada, al contrario degli Stati Uniti, non ha mai applicato questo approccio alle politiche
pubbliche, considerati i livelli minimi di segregazione residenziale riscontrati nel passato,
soprattutto a confronto con le città del vicino nord americano (Murdie, Ghosh, 2010). In secondo
luogo, l’amministrazione comunale si è dovuta confrontare con margini di finanziamenti pubblici
ridottissimi, a causa dei tagli operati a livello federale sulle politiche di housing sociale e
dell’impossibilità di introdurre strumenti fiscali autonomi da destinare ad aree di politica di cui,
comunque, dal 1998 detiene responsabilità (Horak, 2010).
La riqualificazione di Regent Park, gestita dall’ente partecipato Toronto Community Housing
Corporation, dopo anni di discussione pubblica e progettazione mancata, è iniziata nel 2006 ed è,
oggi, nel pieno della sua realizzazione e il termine è previsto per il 2021. Il programma prevede
l’abbattimento e la ricostruzione del patrimonio abitativo pubblico, con una conseguente
densificazione e diversificazione abitativa operata attraverso una partnership con un operatore
immobiliare privato che ha rilevato una parte dell’area a tariffa agevolata per costruire 2400 unità
abitative di pregio medio-alto da collocare sul mercato privato, 2/3 in vendita e 1/3 in locazione a
canone calmierato. Con i proventi della vendita sono stati finanziati quasi interamente i lavori di
abbattimento e ricostruzione del patrimonio abitativo pubblico (2087 unità residenziali), che per 3/4
verrà localizzato sulla sua area originaria e per 1/4 su aree limitrofe.
15
Quello che è in particolare interessante sottolineare, è che fin dalle prime fasi di progettazione è
stata posta un’enfasi molto rilevante sulle potenzialità di questo progetto in termini di promozione
di una condizione di mix sociale (Meagher, Boston, 2003) come strumento per combattere il
fortissimo stigma sociale, in gran parte fomentato da una forte pressione massmediatica ormai più
che ventennale, che ha descritto
l’area come il quartiere ghetto per eccellenza di Toronto,
Nell’elaborazione del piano di riqualificazione sociale, una parte amplissima è stata infatti destinata
alla progettazione di iniziative e infrastrutture per stimolare contatti e relazioni fra i residenti, nella
consapevolezza che la semplice vicinanza fisica fra gruppi sociali eterogenei non possa di per sé
generare scambi significativi. Per questa ragione il progetto ha previsto la riqualificazione di luoghi
di ritrovo quali impianti sportivi, aree verdi, spazi attrezzati per l’associazionismo, ma anche la
ristrutturazione delle sedi scolastiche locali (considerate luogo privilegiato di interazione) attraverso
la dotazione di tutta una serie di servizi potenzialmente attrattivi per i nuovi residenti all’interno
dell’area.
Un’attenzione particolare è stata dedicata anche alla promozione dell’occupazione a livello locale
attraverso due interventi specifici: la collocazione di uno sportello di orientamento al lavoro; il
conseguimento di accordi per l’inserimento preferenziale di “manodopera locale” con i soggetti
privati interessati a insediarsi nell’area per soddisfare le esigenze delle nuove popolazioni (quali un
supermercato e una caffetteria-ristorante) e soprattutto con la società di imprenditoria edilizia
responsabile della ricostruzione del patrimonio abitativo pubblico, generando circa 150 posti di
lavoro.
All’inizio del 2011, quando è stata realizzata questa indagine, il progetto di riqualificazione era nel
pieno della sua seconda-terza fase (su 9 previste) edera già possibile osservare alcuni effetti sulle
realizzazioni previste dalla fase 1: due condomini (uno occupato da residenti di housing sociale e
uno da acquirenti privati), la caffetteria, il supermercato. Le questioni emerse durante le interviste
realizzate con i testimoni privilegiati sono state molteplici e hanno evidenziato alcuni punti di forza
e di debolezza del progetto già evidenziabili .
Il progetto ha comportato, innanzitutto, il “classico” problema del trasferimento temporaneo degli
ex-residenti in varie e disperse aree delle città (Curley, 2010). Da questo punto di vista l’aspetto più
drammatico ha riguardato l’impatto di questo processo sulle popolazioni più vulnerabili che a
Regent Park avevano costruito la propria comunità e i propri rapporti con i servizi, favoriti anche
dalla centralità geografica dell’area. L’impatto è stato particolarmente difficile per i residenti più
anziani e le persone colpite da varie disabilità, prima di tutte quelle mentali, nonché per i bambini in
età scolastica. Alcuni di questi residenti, dopo 5 anni di permanenza in un altro quartiere, hanno
16
deciso di non ritornare, a causa delle reti ormai perse e di quelle costruite in un altro luogo,
decisamente più marginale all’interno della geografia urbana. Come effetto contrapposto, si segnala
la gioia e l’eccitazione, enfatizzata a lungo sui mass media locali, dei residenti dopo il trasloco nei
nuovi condomini di housing sociale, dotati di
numerosi servizi e infrastrutture: locali per la
socializzazione, spazi attrezzati per le biciclette, un decoro delle strutture e delle abitazioni private
incomparabilmente migliore rispetto al passato.
Un altro elemento cardine del programma è stata la promozione dell’inserimento lavorativo dei
residenti locali, che ha dato risultati positivi, ma riproducente un modello occupazionale duale: la
collocazione delle visible minorities nei settori economici, come la ristorazione e la grande
distribuzione, più soggetti ai bassi salari e al lavoro temporaneo, nonché spesso incubatori di
dinamiche di sottoccupazione.
Inoltre, i servizi commerciali dove sono impiegati i vecchi residenti locali sono mirati soprattutto
alle esigenze delle nuove popolazioni che hanno deciso di stabilirsi in quello che era, appunto,
considerato fino a pochi anni fa il “ghetto” di Toronto: principalmente coppie di giovani
professionisti o anziani white canadians, di ritorno dalle aree suburbane, che hanno scelto questa
soluzione residenziale dai prezzi contenuti per stabilirsi o ristabilirsi nel centro della città. Come
sottolineano molti testimoni privilegiati intervistati, considerate le caratteristiche di queste nuove
popolazioni, benché spesso di cultura “progressista”, il meccanismo del social mix sembra
incepparsi: se, come descritto in letteratura (Musterd, 2003), gli effetti della segregazione
residenziale sembrano generalmente più intensi sui soggetti che hanno meno possibilità di spostarsi
e costruirsi altre reti sociali (le donne non lavoratrici, i bambini, i giovani), le caratteristiche
demografiche e socio-economiche dei nuovi residenti non aiutano. E’ significativo che, al
momento, le scuole di quartiere non hanno sperimentato un aumento degli iscritti e bisognerà
attendere il completamento delle ulteriori fasi di ristrutturazione e l’insediamento di nuovi residenti
per comprendere se e quali saranno gli effetti di lunga durata. Ancor di più, bisognerà attendere per
comprendere se l’auspicato mix sociale si rivelerà uno strumento utile per favorire la mobilità
sociale delle popolazioni più svantaggiate, e attraverso quali meccanismi.
Ciò che appare chiaro, invece, è che questa operazione immobiliare sta agendo su quello spazio
urbano integrandolo nella downtown di Toronto, riempiendo quelle aree in cui si manifestava
apertamente il disagio di una popolazione ai margini della struttura sociale urbana. Questo processo
rischia però di caratterizzarsi come una sorta di “azione di nascondimento” del disagio, piuttosto
che che come una risposta ad esso. L’opinione di diversi osservatori e testimoni privilegiati è infatti
che il progetto sia troppo vulnerabile a processi di progressivi gentrification, a partire dalla
17
decisione (contestata dalla società civile locale) di de- localizzare parte del patrimonio abitativo
pubblico al di fuori dell’area originale per rendere il mercato abitativo privato “più attrattivo” (
TCHC, 2004).
In generale, se la partnership con il privato è stata giustificata come un passaggio funzionale a
recuperare le risorse per la ricostruzione di uno stock abitativo deprivato, il risultato principale è
stato quello della perdita di aree edificabili (e quindi anche di elementi patrimoniali pubblici) e
potenzialmente impiegabili per aumentare la disponibilità abitativa dell’housing sociale proprio nel
cuore della città, vicino a quei servizi e infrastrutture che altre politiche, come quelle descritte di
seguito, stanno faticosamente cercando di inserire in differenti aree marginali dove si sta ora
materializzando una severa segregazione.
Il secondo programma al centro dell’agenda politica locale riguarda i Priority Neighbourhoods, un
progetto iniziato nel 2005 il cui scopo principale è quello di migliorare l’infrastrutturazione sociale
e fisica di 13 aree che, sulla base di alcuni particolari indicatori, sono state indicate come
particolarmente vulnerabili. Il focus di questo programma non è quindi relativo alla promozione di
un maggiore mix sociale, ma soprattutto quello di agire sui servizi che possono potenzialmente
migliorare l’inserimento sociale soprattutto della popolazione più giovane.
L’interesse per questo approccio area based alla problematiche sociali è andato maturando subito
dopo la pubblicazione del report “Enough talk” nel 2003, quando una serie di attori rilevanti nella
società politica locale, tra i quali “United Way” che è la più grande ONG finanziatrice di interventi
sociali a Toronto, hanno deciso di formare una task force temporanea per agire efficacemente sulle
problematiche ormai evidenti all’interno di alcuni quartieri e particolarmente risonanti
nell’attenzione massmediatica.
Questa coalizione di attori, la Strong Neighbourhoods Task Force, formata non solo da ONG locali,
ma anche fortemente sostenuta dall’amministrazione municipale (e in parte anche dal Governo
Provinciale dell’Ontario e da quello Federale) nel giro di pochi mesi ha innanzitutto recuperato un
budget di circa 65 milioni di dollari canadesi da investire in servizi sociali e infrastrutture
all’interno delle 13 aree (Horak, 2006), concedendo però una forte autonomia delle comunità locali
nella definizione delle strategie, degli obiettivi e delle azioni. I percorsi attivati nelle varie aree sono
stati molto partecipati, con un forte protagonismo dell’associazionismo e dei rappresentanti delle
varie visible minorities a livello locale. Rispetto alle infrastrutture, sono stati finora inaugurati 3
hubs multifunzionali, in cui il Comune ha delocalizzato alcuni servizi per l’orientamento al lavoro,
mentre la Provincia dell’Ontario ha istituito alcuni presidi medici di base (Cowen, Parlette 2011).
18
In questo momento sono in corso le prime attività di valutazione di questo programma,
“sperimentale” per Toronto, e le considerazioni più importanti riguardano almeno due questioni:
l’efficacia del programma e l’equità territoriale nella distribuzione dei servizi.
Il primo punto è di difficile interpretazione: al di là di risultati più o meno apprezzabili sotto il
profilo della partecipazione alla progettazione e alle iniziative, per quanto riguarda alcuni aspetti
nevralgici dell’integrazione sociale nei quartieri, l’analisi dei dati disponibili mette in luce diverse
traiettorie, in termini demografici e socio-economici, su cui difficilmente un programma con queste
prerogative sembra in grado di agire, nonostante l’enfasi mediatica con cui è stato accolto (Cowen,
Parlette 2011).
Secondo l’opinione di diversi osservatori e testimoni intervistati, il programma sembra aver
supportato le reti già esistenti in quei contesti sociali caratterizzati da una forte coesione, mentre è
stato piuttosto fallimentare nelle aree dove l’associazionismo era più debole o inesistente. E’
indicativo che, paradossalmente, fra le aree che hanno sperimentato un processo di graduale
miglioramento, ad esempio della condizione occupazionale, soprattutto giovanile, alcune sono
interessate da sempre più evidenti processi auto-segregativi in termini di background etnico: il caso
della comunità Bengalese di Crescent Town (Grap. 1), fortemente concentrata in alcune torri
collocate in un’area ben servita dalla rete metropolitana, ne è forse l’esempio più interessante
(Murdie, Ghosh, 2011 ).
Molti osservatori segnalano invece che quando le iniziative di Priority neighbourhoods hanno
cercato di agire su territori caratterizzati, ad esempio, da una forte concentrazione della visible
minority che, anche in Canada, risulta storicamente più svantaggiata - la comunità nera,
l’accoglienza e i risultati sono stati molto più marginali. Il caso della comunità di Scarborough, con
i dati disastrosi relativi ai trend occupazionali, ne è un chiaro indicatore (Graf. 2)
19
Graf. 2-Trend occupazione e disoccupazione giovanile nei Priority Neighbourhoods
Fonte: Nostra elaborazione su dati Canadian Statistics, 2009
Un altro aspetto che ha suscitato un ampio dibattito pubblico, e che inizia essere oggetto di
valutazioni più specifiche, è relativo alle disuguaglianze territoriali in termini di risorse e servizi che
questi programmi area-based sono stati accusati, paradossalmente, di poter innescare (Horak, 2006).
Di fatto, negli ultimi 6 anni tutti gli sforzi sperimentali e innovativi in termini di politica sociale
sono stati concentrati in aree che sono state selezionate sia sulla base di indicatori socio-economici i
cui valori non si discostano molto da quelli riscontrabili nelle rimanenti parti della “Città n. 3”
(Hulchanski, 2011), ma anche sull’onda di una particolare attenzione mass-mediatica. Una
paradossale diseconomia esterna risultato di questo progetto sembra quindi materializzarsi nella
implementazione di diseguaglianze indotte tra diverse aree (oggetto/non oggetto del programma)
della “Città n. 3”.
Infine, la critica più sostanziale rivolta verso questi programmi (Cowen, Parlette, 2011) è relativa
alla loro capacità di poter positivamente influire sui reali meccanismi strutturali (economici, politici
e sociali) che stanno promuovendo quella indiscutibile traiettoria di polarizzazione sociale, e quindi
20
spaziale, che sta progressivamente cambiando la composizione e geografia sociale di Toronto. In
sintesi, i progetti “Priority neigbourhoods” non alterando i trend nei modelli di definizione spaziale
e di polarizazione sociale della realtà metropolitana, se hanno effetti positivi per le aree interessate,
non sembrano modificare i processi in atto e a volte rischiano di introdurre ulteriori effetti
distorsivi.
5.
Riflessioni conclusive
Toronto rappresenta un caso di studio di straordinario interesse di per sé, ma anche come esempio
paradigmatico in una prospettiva comparativa utile per comprendere alcune tensioni che stanno
attraversando le realtà metropolitane europee, legate alla paura dei possibili effetti della
segregazione spaziale su base etnica rispetto alla coesione sociale urbana. La città canadese è infatti
uno dei contesti urbani più multiculturali del mondo, esempio di un processo di crescita non solo
demografica , ma anche economica, fortemente debitrice al contributo dei flussi migratori, e che ha
fatto della diversità il suo brand.
Nonostante questo clima disteso da un punto di vista politico e culturale, il caso di Toronto ben si
presta a comprendere i reali meccanismi alla base di fenomeni segregativi su base spaziale, legati
alle traiettorie di disuguaglianza o polarizzazione sociale che, con diversa intensità e velocità, le
città occidentali stanno percorrendo. Anche a Toronto vari processi di chiusura sociale delle
popolazioni meglio collocate all’interno della struttura sociale urbana promuovono un
posizionamento dei gruppi sociali più vulnerabili negli spazi fisici e sociali meno desiderati e
marginali, attraverso meccanismi di discriminazione. Allo stesso tempo, il declino nei finanziamenti
pubblici destinati alle politiche di housing sociale non permette una adeguata risposta istituzionale
alle problematiche abitative poste da un mercato immobiliare che ha reso estremamente
problematico l’insediamento del mezzo milione di nuovi migranti che Toronto ha accolto negli
ultimi cinque anni.
Anche in questa città, l’azione istituzionale, nell’impossibilità/incapacità di agire sull’essenziale,
ovvero promuovere politiche di sviluppo economico e sociale orientate a ridurre le disuguaglianze
nella distribuzione della ricchezza (Blanc, 2010), si è quindi indirizzata verso strumenti di governo
che hanno cercato di intervenire su alcune specifiche aree, introducendo una nuova stagione di
politiche area-based, salutate positivamente dai mass-media locali. I risultati di questi interventi
andranno valutati nel tempo, ma per il momento sembrano aprire margini di miglioramento
piuttosto limitati, e a volte temporanei, per le popolazioni residenti, quali la riqualificazione delle
21
abitazioni e degli spazi pubblici, o il supporto all’associazionismo locale che dà risultati solo
laddove le reti sono già piuttosto consolidate.
Inoltre, tali programmi, letti in una scala più ampia, oltre a non intaccare gli equilibri urbani più
complessivi, rischiano anche di promuovere effetti indesiderati. Ciò avviene nell’esperienza di
Regent Park, destinando al mercato privato aree potenzialmente utili a un rafforzamento dello stock
abitativo pubblico in posizione centrale, e nel caso dei Priority neighbourhoods, generando delle
disparità territoriali nella distribuzione dei servizi. In sostanza, “nel nome del social mix”, il rischio
è quello di intraprendere azioni istituzionali che, in una prospettiva strategica, possono
paradossalmente rafforzare processi di divisione spaziale già in corso anche in una città tra le più
diverse, aperte e multiculturali del mondo.
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