A. Vannini, Note di lettura al papiro di Telefo (P. Oxy. LXIX 4708 fr. 1)

Transcript

A. Vannini, Note di lettura al papiro di Telefo (P. Oxy. LXIX 4708 fr. 1)
Note di lettura al papiro di Telefo (P.Oxy. LXIX 4708 fr. 1)*
1. Una esegesi semantico-ritmica del v. 2
Al v. 2 del frammento,
. . . θεοῦ κρατερῆ[ς ὑπʼ ἀνάγκης
l’integrazione, proposta da W.B. Henry, è stata accolta dagli studiosi. D. Obbink la
mette a testo già nell’editio princeps1, fornendo nel commento alcuni riscontri2 per
tale espressione e indicando la possibile relazione tra essa e μοῖρα θεῶν del v. 7.
Nella princeps la sequenza θεου non viene interpretata: nel testo è priva di accento e
nella traduzione non compare («... because of mighty necessity...», p. 32); è solo nella editio altera3 che Obbink la intende esplicitamente come genitivo singolare della
parola θεός, e nella nuova traduzione si legge (p. 5): «(to suffer) under the compulsion of a god». Si noti come θεοῦ in questa resa sia fatto dipendere da ἀνάγκης4.
Nelle sue note testuali G.B. D’Alessio5 ravvisa tracce di ben tre lettere prima della
sequenza θεου; in base alla interpretazione di esse e al contesto metrico propone di
leggere: ] π̣ᾶ̣ν̣ θεοῦ, che comporterebbe scansione monosillabica di θεοῦ, come lo
stesso D’Alessio non manca di notare. Tale lettura prospetterebbe anche una fine di
parola dopo il terzo metron (realizzandone πᾶν il biceps), una posizione delicata, in
quanto la dottrina antica ci informa che alla versificazione esametrica era vietata la
δίχα τομή, cioè la divisione dell’esametro in due parti eguali attraverso dieresi mediana6. A questo punto una precisazione: con cesura o dieresi qui si intenderà soltanto la pausa ritmica fondamentale7, o meglio l’ipotesi di essa; è una nomenclatura che
pertiene al piano ritmico, non a quello verbale. Altrimenti parlerò semplicemente di
‘fine di parola’.
Può essere utile richiamare alla mente la cosiddetta legge di Bulloch (che se è valida quale precisa norma per l’esamentro callimacheo, lo è come tendenza per la poesia arcaica8): qualora vi sia fine di parola al terzo metron è sempre presente una del-
*
1
2
3
4
5
6
7
8
Le note che seguono sono ricavate dalla mia tesi di laurea triennale dal titolo Il papiro di Telefo
(P.Oxy. LXIX 4708). Stato degli studi e note di lettura (rel. Liana Lomiento), discussa presso
l’Università degli Studi di Urbino nell’anno accademico 2007-08.
Obbink 2005.
Tra cui Il. 6.458; Od. 10.273, Thgn. 195, 387.
Obbink 2006.
Medesima intelligenza del verso ha West 2006, 12: «… the force of divine [compulsion …»; egli
riesce a leggere qualcosa di più, cioè uno iota dinanzi a θεου che interpreta come l’ultima lettera
della parola che precedeva, rendendo inequivocabile la lettura di θεου come gen. sg. di θεός.
D’Alessio 2006.
Cf. Ps.-Heph. p. 353, 11 ss. Consbruch; e Gentili – Lomiento 2008, 255.
Quella che determina l’articolazione del verso in cola dalla fisionomia precisa, coincidenti con
quelli delle formule che Parry aveva individuato alla base della dizione epica; da non confondere
con i ‘cola’ individuati da Fränkel, che non hanno pertinenza ritmica ma semantica. Cf. Fränkel
1968; Cantilena 1995; Gentili – Lomiento 2008, 253 s. e 262-6.
Cf. Bulloch 1970 e Gentili – Lomiento 2008, 262 n. 4.
Lexis 29.2011
Angelo Vannini
le pause ritmiche principali, spesso rinforzata da pausa sintattica. La ratio che soggiace a detta norma è delle più comprensibili: una forte pausa ritmica principale avrebbe smussato agli orecchi di un greco l’effetto sgradito della fine di parola a metà
del verso, armonizzandolo. Sicché, se D’Alessio avesse ragione nel proporre la lettura di πᾶν, il v. 2 potrebbe trattarsi come un esametro a cesura eftemimere (con πᾶν
θεοῦ appartenente al primo emistichio) o pentemimere (con πᾶν θεοῦ appartenente
al secondo). Tornando ora all’integrazione di Henry, D’Alessio propone di intenderla: «<Ma bisogna accettare/soffrire> tutto (π̣ᾶ̣ν)̣ sotto la violenta costrizione del dio» (p. 19). Si noti come anche in questo caso, nell’interpretazione del verso, θεοῦ
sia strettamente connesso ad ἀνάγκης, mentre πᾶν va a legarsi con la prima, e perduta, parte del rigo.
Credo convenga però soffermarsi sul valore semantico delle parole che sono in
gioco, e sulle loro possibilità associative. L’aggettivo κρατερός è di impiego piuttosto largo nell’epica arcaica9. Esso in genere qualifica un potere rispetto a cui non si
può – oppure è difficile – lottare o soltanto stabilire un confronto. Spesso attribuito
agli eroi o agli dei, in alcuni casi può connotare il sentimento di scorata impotenza
verso qualcosa di più forte10. Nell’uso epico il sostantivo ἀνάγκη indica un obbligo,
una costrizione avvertita come superiore e oggettiva rispetto all’attività mentale,
emotiva e volitiva, del soggetto. Spesso riguarda qualcosa fatto οὐκ ἐθέλων11. Si
tratta di una costrizione che risulta determinata o da particolari circostanze presenti –
ad esempio, la necessità per i soldati di fuggire di fronte alla superiore potenza degli
avversari, come in Il. 11.150 –, o dal sistema di valori condivisi sentito come oggettività data e indiscutibile12. Per gli esseri umani spesso l’ἀνάγκη coincide con le
ἀθανάτων βουλαί (cf. Hes. Op. 15-16), ma anche gli dèi sono ad essa soggetti: è in
questo caso un μέγας δεσμός, una μοῖρα assegnata loro da Zeus (cf. Hes. Th. 517 e
617). Quanto alle relazioni, è interessante notare come θεός, κρατερός e ἀνάγκη
non compaiano mai in prossimità nella tradizione poetica greca, se non in Cypria 9.3
Bernabè, dove però θεός non ha collegamento alcuno con gli altri due termini.
Κρατερός e ἀνάγκη quando appaiati costituiscono sempre un sintagma autonomo, o
meglio una formula, che quando va a situarsi nel secondo emistichio esametrico lo
fa conformemente a due fondamentali tipologie:
a) κρατερῆς ὑπʼ ἀνάγκης dopo cesura eftemimere (es. Thgn. 387);
b) κρατερὴ + verbo + ἀνάγκη dopo cesura pentemimere (es. Il. 6.458, Od.
10.273).
Invero la tipologia a) è suscettibile di essere adattata per occupare il segmento di
verso dopo la cesura trocaica, facendo precedere la formula da parola giambica13.
Altrettanto interessante è notare l’impiego specifico di ἀνάγκη nel corpus epico ed
9
10
11
12
13
Ricorre, se non ho commesso sviste, 139 volte nell’Iliade, 35 nell’Odissea; in Esiodo conto 49
occorrenze. Non particolarmente amato dagli alessandrini: 15 occorrenze in Apollonio Rodio, 3
sole in Teocrito (sempre quale mero epiteto di divinità), 1 sola in Callimaco (TLG).
Come ad esempio Ade (Od. 11.277), o le pene (Od. 15.232), o la paura del giudizio divino (Od.
14.88).
Cf., ad es., Il. 4.300; 18.113; 19.66-8.
Come la necessità di difendere la patria e le donne (Il. 8.57; 10.418), o di incoraggiare gli altri alla
guerra (Il. 14.128).
Cf. ad es. Thgn. 195, con lieve alterazione linguistica.
- 72 -
Note di lettura al papiro di Telefo
elegiaco di età arcaica, classica ed ellenistica. Il sostantivo non risulta mai determinato da un genitivo soggettivo. Al contrario, è sempre impiegato autonomamente,
lasciando che sia il contesto a chiarire quale situazione o quale entità numinosa abbia prodotto la costrizione in oggetto. Invero l’azione del ‘costringere’ adombrata
dalla parola ἀνάγκη non è mai evocata in modo da rendere oggettivamente esplicito
l’intero processo che coinvolge chi compie e chi subisce l’azione, ma si limita a cogliere il punto di vista di quest’ultimo. Così, si trova frequentissimo l’uso della parola in dativo, ‘per costrizione’, a chiosare la descrizione di un’azione che il soggetto è
costretto a compiere contro la sua volontà14. Analogo è l’impiego del termine nella
poesia lirica. Il primo esempio di un uso diverso è in Pind. Ol. 3.28, in cui si legge il
sintagma ἀνάγκα πατρόθεν, ‘la costrizione che viene dal padre’, scil. Zeus (si sta
parlando di Eracle e del suo obbligo di compiere le fatiche). A parte l’unicismo pindarico, l’utilizzo di ἀνάγκη determinato da un soggetto che agisce si afferma nel teatro attico, o tramite l’espressione di provenienza ἐκ + nome al genitivo, affine al citato esempio pindarico (cf. ad es. Eur. Pho. 1763), o con il semplice genitivo come
in Eur. Andr. 132, δεσποτᾶν ἀνάγκαις15.
È ora evidente che accettando l’integrazione di Henry si aprono due possibilità di
lettura del verso in questione:
1) verso a cesura eftemimere, di struttura affine a quello di Hes. Th. 517, in cui la
parola che precede la formula – nella fattispecie θεοῦ – appartiene al primo emistichio (in questo caso essa andrebbe connessa anche sintatticamente alla parte perduta
del verso, a meno di non ipotizzare un enjambement in cesura, ma su questo ved.
punto 2);
2) verso a cesura trocaica (o pentemimere se si vuole, con D’Alessio, leggere
πᾶν), del quale la parte tramandata e quella ricostruita per congettura costituiscono
il secondo emistichio. In questo caso, o si pensa che θεοῦ dipenda, sintatticamente e
secondo la consuetudine poetica arcaica, dal primo e perduto emistichio, oppure la si
considera un’espressione di piena unità semantica, traducibile nel modo in cui è stata
finora unanimemente intesa (‘sotto la possente costrizione del dio’). Ma sarebbe altresì un’espressione inedita, che non ha precedenti nel corpus epico ed elegiaco, e
che poggia su un uso di ἀνάγκη che sembra attestarsi per la prima volta nel teatro
(con il solo precedente pindarico succitato dell’Olimpica terza, 476 a.C.).
2. L’epifania di Eracle al v. 22
Nella più recente edizione critica del fr. 1 (Nicolosi 2007) a partire dal v. 22 si legge
(vv. 22-5):
‘Ηρακλ]έ̣η̣ς . . . τη . [.] βοῶν̣ ταλ̣[α]κάρδιον [υἱόν
. . ]ρον . . [. (.)]. . . [. . . (.)] δηΐωι ἐν [πολ]έ̣μ[̣ ωι
Τ]ήλεφον, ὁς Δ̣α[̣ ν]α̣οῖσι κακὴν̣ [τ]ό̣[τε φύζαν ἐόρσας
.] . ειδ̣ε[. . .] . . . ο . πατρὶ χαριζό̣μ[̣ ενος
14
15
Cf. Il. 9.429; 11.150; 12.178; 14.128; 15.199, 655; 16.305; 18.113.
Alcuni saggi eschilei: Ag. 726, 1042; Pers. 587 è affine, ma con aggettivo di appartenenza in luogo del genitivo.
- 73 -
Angelo Vannini
Dopo avere narrato l’arrivo degli Achei in Misia anziché a Troia, l’autore avrebbe
introdotto Eracle che leva un grido al figlio Telefo. Invero la lettura a principio del
v. 22 è estremamente ardua, in luogo di lettere si scorgono appena labili tracce16; e la
presenza di Eracle è frutto di congettura. Nel commento la Nicolosi ha modo di precisare che, tra le ipotesi avanzate da Obbink circa l’identità del personaggio che grida, quella di Eracle è la più probabile, per il fatto che l’eroe è padre di Telefo ed a
lui verisimilmente si riferisce πατρί a v. 2517.
Nel suo interessante contributo all’esegesi del fr. 1 West accetta l’integrazione,
ricostruendo i vv. 22-5 in maniera sostanzialmente analoga18. Tuttavia avverte nelle
note al testo che lo spazio a margine sinistro del v. 22 è troppo stretto per ‘Ηρακλ;
ma, aggiunge, «Telephos’ father must be named here» (p. 15). Tale visione del passo è stata suggerita da Obbink nel commento alla editio princeps; di lì si evince come l’idea della presenza di Eracle derivi da una interpretazione organica dei sememi
superstiti, la quale tuttavia poggia su alcuni assunti che è bene vengano enucleati.
In primo luogo, la sequenza del v. 22 . βοω . (così nell’edizione diplomatica) è
letta come participio presente del verbo βοάω (βοῶν quindi), né sono contemplate
altre possibilità19. Di qui deriva la necessità di un soggetto: doveva esservi un nome,
scrive Obbink, tra le parti mancanti. Quale? In teoria a gridare poteva essere chiunque degli eroi, precisa l’editore; ma qui viene a pesare la congettura υἱόν a termine
del v. 22, che direziona univocamente l’esegesi del passo. Per prima cosa, essa implica che ταλακάρδιον sia riferito a Telefo, escludendo quest’ultimo dalla schiera
dei soggetti potenziali di βοῶν. Chi era dunque a gridare? Un ulteriore assunto è che
a farlo dovesse essere uno dei personaggi principali che agivano nella storia di Telefo a noi nota: Achille, Dioniso, Eracle. I primi due sono scartati perché non collimano con le tracce; il terzo sembrerebbe avvalorato da πατρί di v. 25, benché
anch’esso dia problemi paleografici20. È evidente come la scelta di Eracle quale soggetto di βοῶν al tempo stesso condizioni, e sia condizionata, dalla congettura υἱόν a
termine del verso. Presupposto fondamentale di tutta la ricostruzione è che il riferimento a un padre, a v. 25, riguardi Eracle piuttosto che Teutrante; nel commento
dell’editore alla voce πατρί si legge (p. 40): «Telephus’ father Heracles (rather than
his adoptive father Teuthras)». Ma questa preferenza rimane immotivata.
Obbink a p. 40 del commento segnala una notizia di Pausania (8.45.7). In essa il
Periegeta rende noto che il gruppo scultoreo del frontone occidentale del tempio di
Atena Alea a Tegea rappresentava lo scontro tra Telefo e Achille. La ricostruzione
iconografica del frontone che gli archeologi hanno effettuata sulla base dei ritrovamenti vorrebbe Atena tra i due contendenti, Dioniso dietro l’uno ed Eracle dietro
16
17
18
19
20
Cf. l’edizione diplomatica, dove l’unica cosa che l’editore può dire è che una di quelle tracce poteva essere un epsilon.
Cf. Nicolosi 2007, 319 s.
Le lievi differenze non intaccano la visione generale del passo.
Ad eccezione del composto τηλεβοῶν, nominato ma giudicato impossibile. Luppe invece leggerebbe ἐ]βοῶν. Nella poesia epica ed elegiaca la maggior parte delle occorrenze costituisce il gen.
pl. del sostantivo βοῦς.
Come già detto lo spazio a sinistra non sembra essere sufficiente. Cf. West 2006, 15.
- 74 -
Note di lettura al papiro di Telefo
l’altro21. Forse a questo proposito non è inopportuna una precisazione. Come è noto,
il tempio di Tegea, distrutto da un incendio nel primo decennio del sec. IV a.C., fu
ricostruito attorno alla metà del secolo; a sovrintendere i lavori fu chiamato, quale
progettista e direttore, con la funzione sia di architetto che di scultore, Skopas di Paro. Questi era un’artista che amava le iconografie complesse, le composizioni con un
gran numero di personaggi, le scene ricche di eventi. Ma, a parte il gusto personale
dello scultore, v’erano certo altri motivi circa la presenza di quei personaggi, e in
particolare di Eracle, che a noi più interessa. Uno poteva essere di ragione epicorica:
il sito dove sorgeva il tempio, Tegea, era il luogo del concepimento di Telefo, il luogo nel quale Eracle usò violenza ad Auge22. Così il frontone del tempio poteva celebrare Tegea due volte, una per Telefo che vi era nato, una per il più importante eroe
greco che vi era passato. Con questo non si vuole negare la possibilità che Eracle
fosse intervenuto nella battaglia tra Achille e Telefo23, ma semplicemente suggerire
che, quale che fosse la struttura del frontone, essa non implica che ogni trattazione
poetica dell’episodio necessariamente dovesse coinvolgere i personaggi che lì comparivano; né che Skopas per la sua composizione dovesse dipendere, tra le varie trattazioni poetiche, da una in particolare, o tanto più che questa dovesse essere paria
dato che lo era anche il grande scultore24.
Tornando al testo, una ipotesi, credo, abbastanza pacifica è ritenere che il
χαριζό̣μ̣ di v. 25, sia esso nominativo o accusativo, vada riferito a Telefo, cuore del
componimento. Egli deve quindi necessariamente compiere un’azione per cui si rende gradito al padre. Che cosa dovrebbe fare Telefo per rendersi gradito a Eracle? Nel
presentare la sua ipotesi ricostruttiva del v. 22, Obbink scrive che Eracle, sopraggiungendo, avrebbe potuto esortare Telefo a fronteggiare Achille, o suggerirgli la
fuga dopo la perdita dello scudo25. La Nicolosi, sulle orme del primo editore, amplia
le ipotesi: potrebbe portare aiuto al figlio, avvertendolo di lontano o sottraendolo egli stesso al Pelide26. Ma l’episodio dello scontro con Achille non è stato narrato
prima del v. 22, né v’è alcun indizio che suggerisca la sua trattazione in ciò che si
legge dei versi che seguono.
Credo valga la pena di soffermarsi anche sull’interpretazione di βοῶν. Obbink e
West sono costretti ad ammettere un uso di βοάω che regge accusativo di persona,
nel senso di ‘invocare’, ‘chiamare gridando’. Quest’uso è completamente ignoto alla
poesia arcaica prima di Pindaro, le prime attestazioni si leggono nell’opera del poeta
tebano. A meno di non intendere la parola come sostantivo (caso in effetti largamente maggioritario nella poesia epica), le possibilità sembrano due: o un uso del verbo
che potremmo chiamare ‘pindarico’ e a cui va collegato ταλακάρδιον; o un uso assoluto del verbo in conformità con la prassi dell’epica arcaica, e in tal caso
21
22
23
24
25
26
In proposito Obbink rimanda a Bauchhenss-Thüriedl 1971, 37 s. e a Boardman 1966, 177.
Cf. Apollod. 2.7.4.
Si noti comunque che di questo non v’è riscontro nelle fonti letterarie.
Riconosco però che in questo caso la comune origine del poeta e dell’artista è alquanto suggestiva.
Cf. Obbink 2005, 38. Confesso di trovare un po’ bizzarra l’idea di un Eracle che sproni alla fuga;
ad ogni modo siamo nel campo delle pure ipotesi: non v’è indizio di queste azioni nel testo che
possiamo leggere.
Cf. Nicolosi 2007, 320.
- 75 -
Angelo Vannini
ταλακάρδιον non dipende da esso. A questo proposito va segnalato che il verbo
βοάω è di preferenza impiegato per l’azione del gridare legata a una invettiva o a un
discorso (spesso parenetico)27, mentre per il grido di guerra è più frequente
l’impiego dei verbi ἰάχω, αὔω o κλάζω – tuttavia esso, benché raro, è comunque attestato (tre casi nell’Iliade ad esempio: 17.89, 17.607, 23.847).
Prima di tornare a riflettere sull’identità del padre di Telefo, è bene esaminare,
brevemente, la congettura υἱόν a fine v. 22, che a prima vista sembra convincente
perché – oltre ad essere, per così dire, speculare a πατρί di v. 25 – vanta un ottimo
riscontro in [Hes.] Sc. 424, dove Διὸς ταλακάρδιος υἱός costituisce una formula situata dopo cesura trocaica; un parallelo, questo, reso anche più allettante dal fatto
che l’espressione si riferisce a Eracle. Ma continuando la lettura del poemetto si arriva al v. 448, dove il semidio è designato con una formula all’altra assai simile:
Διὸς θρασυκάρδιον υἱόν. Le designazioni sono del tutto equivalenti, stanno per ‘Eracle coraggioso’; gli aggettivi θρασυκάρδιον e ταλακάρδιος, benché con diversa
sfumatura di significato28, all’interno dell’espressione formulare perdono la loro
pregnanza semantica per divenire interscambiabili – la loro scelta difatti non inerisce
al contesto. Anche θρασυκάρδιος è aggettivo molto raro, vi sono due sole occorrenze nell’Iliade che può essere utile considerare. In 10.41 al secondo emistichio si
legge μάλα τις θρασυκάρδιος ἔσται dopo pentemimere; in 13.343 μάλα μεν
θρασυκάρδιος εἴη, sempre dopo pentemimere. Anche qui l’aggettivo si trova
all’interno di due formule pressoché identiche, a occupare – come nel caso
dell’Ἀσπίς – il biceps del quarto metron e tutto il quinto metron. Ora, considerando
che un individuo non può essere designato semplicemente come figlio, bensì come
figlio di qualcuno, mi sembra chiaro come l’integrazione υἱόν proposta da Obbink (e
accolta a testo già nell’editio princeps) sia accettabile soltanto qualora si postuli la
presenza, a inizio di v. 22 o 23, di uno dei padri di Telefo che deve compiere
un’azione rivolta al proprio figlio. Mentre il fatto che la formula di Sc. 424 termini
con υἱός non implica che ogni uso di ταλακάρδιος in quella posizione esametrica
comporti la medesima fine di verso – qualsiasi bisillabo potrebbe starvi, come dimostrano gli esempi iliadici con θρασυκάρδιος. Insomma, o si accetta la presenza di
un padre di Telefo o l’integrazione di Obbink a fine del v. 22 svela tutto il suo carattere problematico. Fatta questa precisazione è meglio tornare al testo tràdito, a πατρί
di v. 25 e al suo riferimento.
Apollodoro (3.9.1) rende noto non solo che Auge sposò Teutrante, ma anche che
Telefo, dopo varie vicissitudini (esposto sul monte Partenio, allattato da una cerva,
allevato da bovari), giunse in Misia istruito dal dio, dove fu adottato dal re. Teutrante è quindi padre putativo di Telefo, proprio come Anfitrione di Eracle. Mi sembra
non vi sia alcun ostacolo tale da impedire a πατρί di riferirsi al re dei Misi. Inoltre, il
nome di Teutrante è presente nel testo, egli è stato già nominato al v. 16, dove la ca27
28
Cf. ad es. Il. 2.97, 198; 15.687; 17.264. A volte si tratta delle grida di un araldo, come in due esempi teognidei: vv. 887 e 1197.
Il primo pone più l’accento sull’ardimento, l’assenza di paura; il secondo sulla forza interiore di
affrontare le situazioni, da cui infatti le due accezioni principali del verbo *τλάω, ovvero quella di
sopportare e quella di osare (come avere il coraggio di fare qualcosa). Per un uso pregnante di
ταλακ. fuori da espressione formulare cf. Soph. OC 540, ove sta per ‘sventurato’, come Edipo dice di sé per aver ‘sopportato le cose più turpi’ (cf. v. 521).
- 76 -
Note di lettura al papiro di Telefo
pitale della Misia è definita ‘amabile città di Teutrante’. Questo elemento sarebbe
stato sufficiente a eliminare l’ambiguità tra padre putativo e padre biologico nel riferimento a v. 25. Insomma sembra di poter dire che πατρί riferito a Teutrante abbia
maggior coerenza testuale che se riferito a Eracle.
Ma riflettiamo meglio su questa espressione. Il verbo χαρίζω accompagnato da
dativo significa ‘fare cosa gradita a qualcuno / compiacere qualcuno’. Nell’uso epico
il participio è impiegato in funzione attributiva a esprimere soprattutto finalità29 ma
anche conseguenza30, in riferimento alla determinata azione che il soggetto sta compiendo. Tra i vari esempi è molto interessante Hes. Th. 580, dove si legge
χαριζόμενος Διὶ πατρί – il soggetto è Efesto che sta fabbricando il diadema da porre sulla testa di Pandora, ‘per far cosa gradita a Zeus padre’. Al v. 572 Esiodo precisa che Efesto sta operando Κρονίδεω διὰ βουλάς. Qui compiacere il padre è servirlo. In Od. 13.265 l’identità o prossimità tra le idee di servire il padre e di far cosa a
lui gradita viene addirittura tematizzata31, si legge infatti: οὕνεκʼ ἄρʼ οὐχ ᾧ πατρὶ
χαριζόμενος θεράπευον (soggetto è l’io parlante Odisseo). In sintesi, questo ‘far
cosa gradita’ può riguardare un’azione eseguita di propria spontanea volontà;
un’azione di propria volontà ma fatta per χάρις, come compenso per qualcosa che si
è ricevuto32; un’azione per compiacere la volontà altrui, vicina all’idea del servire.
Ora, quale azione dovrebbe fare Telefo allo scopo di rendersi gradito al padre o di
servirlo? Dato che gli Achei stanno assediando la città di Teutrante è ovvio che egli
compiacerà o servirà suo padre difendendola e respingendo i nemici33. Questa mi
sembra la lettura che abbia maggiore coerenza con i dati del testo. Forse Teutrante
poteva comparire all’inizio del v. 22 e, quale soggetto del ‘pindarico’ βοῶν, invocare il figlio alla difesa della città. A questo proposito si noti che il riscontro apportato
da Obbink per un uso di βοάω che regge l’accusativo (Pind. Pyth. 6.36) riguarda
proprio un padre (Nestore) che richiede l’aiuto del figlio (Antiloco). Ma a mio giudizio Teutrante poteva anche non comparire affatto, e il grido essere un grido di
guerra, o di altro. La presenza di Teutrante in quel punto del testo non è necessaria
perché l’espressione del v. 25 mantenga attivo e pertinente il suo riferimento.
Forse si può anche aggiungere qualcosa. Si è detto della valenza attributiva
dell’espressione χαριζόμενος + dativo, che non di rado è quella di una finale implicita. Se a proposito del riferimento non ci siamo ingannati, essa potrebbe essere stata
usata dall’autore per chiarire le motivazioni del comportamento dell’eroe. ‘Telefo
argivo, degli Argivi mise in fuga il numeroso esercito’: ciò è da lui stato fatto, intendeva forse il poeta, per servire la volontà del padre adottivo?
29
30
31
32
33
Cf. Il. 11.23; 15.449; 17.291.
In Od. 8.538 esso ha valore consecutivo e descrive l’effetto di un’azione.
Benché non si tratti del proprio padre, ma di quello altrui.
È il caso di A.R. 2.530.
Si noti che l’azione di ‘suscitare la fuga’ dei nemici è proprio quella che gli studiosi anglosassoni
integrano al v. 24, nonostante la presenza di Eracle.
- 77 -
Angelo Vannini
3. L’elegia di Telefo quale exemplum mythicum?
Che l’elegia di Telefo conservi parte di un componimento in cui Archiloco avrebbe
fatto ricorso ad un exemplum mythicum a partire da un contesto concernente eventi a
lui contemporanei è oramai, nella letteratura critica, communis opinio; se ne distacca
solo parzialmente Aloni ipotizzando il fr. 1 quale esito della conflazione di due distinte elegie (una consolatoria, l’altra celebrativa) avvenuta in ambito simposiale34.
In particolare tutti gli studiosi concordano sul fatto che la narrazione mitica sarebbe
stata introdotta dal poeta per giustificare un episodio di fuga che lo vedeva coinvolto. Si consideri, a titolo di esempio, la lettura di M.L. West. A mio avviso quella ricostruzione contiene un elemento abbastanza palese di incoerenza semantica. In particolare, suscita perplessità che il poeta, dopo aver detto che non bisogna definire
κακότης un caso di fuga dovuto alla decisione divina (vv. 2 s.) e dopo aver raccontato quale exemplum di ciò la battaglia del Caico, possa concludere definendo proprio κακή la φύζα che Telefo provoca negli Achei (v. 24; «cowardly panic» traduce
West). Questa esegesi del componimento da un lato trae origine dall’esigenza di ricondurre il testo del fr. 1 a ciò che si conosce della prassi poetica archilochea (ipotizzandone l’occasione, la sua precisa funzionalità pragmatica), dall’altro è basata
sull’interpretazione del significato della parola κακότης come ‘vigliaccheria’. Invero Obbink nel commento all’editio princeps scrive che il termine può avere due significati, quello di disaster e quello di cowardice; ma dalla traduzione fornita a p. 32
e dall’esposizione del contenuto nella sezione introduttiva – dov’egli annota «mentions of cowardice and flight» (p. 20) – risulta evidente quale sia la preferenza
dell’editore.
Vale la pena ricordare che nella poesia epica il sostantivo κακότης – qualora non
sia impiegato nel senso di ‘sciagura, rovina, male’, quantitativamente più rappresentato – significa sì qualcosa come il valer poco, ma in riferimento a un comportamento individuale che si valuta come inadeguato rispetto alle circostanze o alle aspettative. In tutti questi casi si è nel mezzo di un contesto discorsivo, non narrativo, nel
quale è in atto da parte del locutore un giudizio sopra il comportamento altrui. In tutti gli esempi omerici il discorso del personaggio è specificamente parenetico35 e la
parola κακότης ricorre sempre in dativo causale al fine di analizzare le ragioni di
una situazione estremamente negativa, circoscrivendole all’ambito distintamente
umano, allo scopo di responsabilizzare l’uomo e in opposizione concettuale alla volontà divina quale movente36. Il suo impiego ha perciò valenza di sprone: esso vuole,
sottraendo responsabilità agli dèi, conferirla agli uomini e al loro comportamento,
affinché si sia consapevoli che una possibilità di rovesciare a proprio vantaggio la
situazione esista, che non tutto è ancora perduto. Nella poesia omerica, ove vi sia
associazione dell’idea di ‘viltà’ con quella di ‘fuga’ il termine impiegato è piuttosto
l’aggettivo κακός, a volte sostantivato (cf. ad es. Il. 8.94 e 11.408). In questo modo
la qualificazione della viltà non è ottenuta evocando una nozione astratta, ma attri-
34
35
36
Cf. Aloni 2007.
Ad eccezione di Il. 3.366, che consiste in un’apostrofe a Zeus in cui Menelao lamenta
l’insuccesso avuto nel tentativo di punire Paride.
Alcuni esempi: Il. 2.368; 13.108; 15.721; Od. 24.455.
- 78 -
Note di lettura al papiro di Telefo
buendola direttamente (e quindi più efficacemente) al soggetto, che si trova perciò a
occupare il polo per lui più disdicevole dell’opposizione κακός-ἐσθλός, che è il
fondamento etico di una civiltà di vergogna.
È sufficiente una lettura attenta dell’Iliade per comprendere come già nell’epica
arcaica non esista un atteggiamento univoco a riguardare la fuga, bensì che ogni fuga è soggetta a valutazione particolare. Due sono gli elementi discriminanti nel giudicare se un determinato caso di fuga rientri tra i comportamenti ammissibili per
l’ἐσθλός oppure sia azione indegna di lui. Primo, il grado di evoluzione dello scontro; cioè se la ritirata avvenga per costrizione, nel senso che è l’unica possibilità per
salvare la vita (quindi a combattimento iniziato e, diremmo, divenuto irreversibile in
quanto all’esito), oppure se essa sia volontaria e dovuta a pusillanimità, nella forma
dell’astensione a priori dalla battaglia37. Secondo, l’entità dell’avversario in relazione al piano umano/divino; cioè se la ritirata sia imposta o meno da una manifestazione della potenza divina38.
Si noti che nel fr. 1 la battaglia è introdotta dall’espressione ‘Telefo ἐφόβησε il
numeroso esercito (degli avversari)’ (vv. 5 s.), la quale pone certamente in rilievo
l’eroe. Infatti, se nell’Odissea il verbo φοβέω è impiegato nel senso specifico di
‘fuggire per paura’, dove lo spavento è sempre scatenato dalla vista di un immortale39, nell’Iliade esso diviene quasi un termine tecnico del lessico militare, designante
una precisa modalità di guerra, una tipologia di ritirata originata dallo spavento che è
suscettibile di rappresentazione specifica: all’origine vi è un evento δεινός (come la
folgore divina, o l’apparizione di un dio40) oppure una persona (come un eroe smanioso41) che suscita uno spavento terribile; di qui lo scoramento, la depressione che
toglie forza ai guerrieri e li costringe alla fuga. Nel caso dell’eroe che imperversa, la
ritirata è accompagnata dall’inseguimento da parte del furioso e dall’uccisione degli
ultimi42. Questo tipo di rappresentazione ha spesso luogo in concomitanza con
l’aristia dell’eroe43; in tale contesto la problematizzazione della fuga – quale azione
ammissibile o deprecabile – non sembra avere pertinenza, perché il racconto è orientato ad altro (l’esaltazione delle gesta dell’eroe) e perché il ripiegamento è visto come costretto. Sembra insomma di poter cogliere nella lingua epica una particolare
sfumatura connotativa circa questa espressione designante la fuga: se una proposizione con il verbo φεύγω potrebbe essere impiegata per inquadrare il soggetto che
compie l’azione di fuga con particolare attenzione alle sue motivazioni, invece la
formulazione del tipo ‘un individuo ἐφόβησε gli avversari’ pare piuttosto centrata
sulla persona o sull’evento che causa la fuga, esaltandone la grandezza.
Si noti che nel testo del fr. 1 gli Achei, sbarcati in Misia, non rifiutano la battaglia, ma la ingaggiano; essa ha per loro un esito funesto: la pianura misia e il Caico
37
38
39
40
41
42
43
Cf. Il. 5.217-238; 11.150; 21.580.
Cf. Il. 8.133-170, 335-347.
Cf. ad es. Od. 16.163; 22.299; 24.57.
Cf. Il. 8.139; 15.318-327; 17.595 s.
Si noti che spesso l’eroe μαίνεται perché un dio gli ha ispirato furore. Cf. Il. 15.603-638; 16.656659.
In Il. 20.90-94 Enea dice che una volta, messo in fuga da Achille, si è salvato soltanto grazie a
Zeus che gli infuse forza e agilità nelle gambe.
Cf. ad es. Il. 11.91-178.
- 79 -
Angelo Vannini
si empiono di caduti, e gli invasori, sterminati da un uomo implacabile, si volgono in
fuga. La rappresentazione non è quella di una fuga anticipata, ma di un esercito messo in rotta da un eroe smanioso, in quel momento invincibile; un genere di fuga che,
come già detto, non sembra destare problemi a proposito della viltà. Al v. 7 si legge
μοῖρα θεῶν ἐφόβει, espressione assai singolare, che non credo abbia paralleli nella
poesia greca44, a enfatizzare la presenza di una volontà divina all’origine della fuga.
Telefo quindi costringe i Greci al ripiegamento in virtù della sua superiore potenza
(e supportato dalla volontà divina). Al v. 7 pare che gli Achei siano definiti
ἄλκιμοι45. Interessante è notare l’impiego di questo aggettivo in contesti di fuga. In
Il. 11.483 sembra che il valore di Odisseo ne esca accresciuto, dato che l’eroe è capace di resistere da solo contro nemici numerosi e ἄλκιμοι; in Il. 16.689 si dice che
il νόος di Zeus è superiore a quello degli uomini, infatti ὅς τε καὶ ἄλκιμον ἄνδρα
φοβεῖ. Sembra insomma impiegato, in tali contesti, in qualità di counterpart, al fine
di esaltare la superiorità e la grandezza di colui che riesce a sopraffare persino un
ἄλκιμος.
I valori semantici che a mio avviso – e per quello che si riesce a leggere – emergono dai primi dodici versi del frammento, sembrano compatibili con due direzioni
generali di significato. La prima sarebbe quella della esaltazione di Telefo e del suo
eroismo, che è riuscito a mettere in fuga guerrieri valorosi come gli Achei46; l’altra
quella centrata sulla inevitabilità della fuga dei Greci, data la superiore potenza del
nemico. A questo punto vorrei precisare che uno dei nodi interpretativi dell’elegia
sta nel determinare quale di queste due direzioni semantiche sia stata maggiormente
enfatizzata dal poeta, o meglio, se dobbiamo credere che il poeta ne avesse, per dir
così, perseguita una (e a scapito dell’altra), oppure se possiamo pensarle come complementari tra loro, quale effetto di una medesima idea di fondo. Ad ogni modo mi
sembra evidente che l’ipotesi degli studiosi anglosassoni – che vuole il fr. 1 quale
exemplum mitico introdotto dal poeta per giustificare un proprio episodio di fuga –
possa trovare consistenza solo poggiandosi su quegli elementi testuali riferibili alla
seconda delle due direzioni di significato sopra elencate. Ma prima di riflettere su
tale ipotesi e sulle sue implicazioni, vorrei esaminare in breve un exemplum tratto
dall’Iliade per fare alcune considerazioni sulla sua struttura. In 6.129-41 Diomede
afferma di non voler combattere contro gli dèi, e per motivare tale posizione rammenta la vicenda di Licurgo; al termine del racconto aggiunge che, a causa di quello
che è accaduto a Licurgo, egli non vuole combattere contro gli dèi. L’exemplum è
qui incluso in una struttura ad anello, dove l’affermazione che lo ha innescato è posta immediatamente prima e dopo di esso; la ripetizione finale è necessaria per riportare l’attenzione al punto da cui era partita e riprendere le fila del racconto. Ma come
è articolato l’exemplum? Esso inizia offrendo immediatamente la risposta al quesito
che vorrebbe sciogliere. Il quesito in questo caso sarebbe ‘perché non vuoi combattere contro gli dèi?’, la risposta ‘perché chi lo fa, per forte che sia, non vive a lungo’;
44
45
46
Le espressioni più vicine sono quelle che vedono μοῖρα soggetto di un’azione coercitiva, cf. ad
es. Od. 11.292 e 22.413.
Il papiro si lascia leggere fino alla lettera my.
Sono incline ad una lettura pregnante di αἰχμηταί a v. 8 come ‘valorosi’, dato il contesto. Per questo significato cf. Il. 1.290; 3.49; 7.281.
- 80 -
Note di lettura al papiro di Telefo
ma questo concetto non è espresso tramite un enunciato generale, bensì si trova ad
affiorare implicitamente da un esempio particolare: ‘perché Licurgo, dopo averlo
fatto, non visse a lungo, benché fosse κρατερός’. A questa ‘risposta’ segue, in breve, il racconto di come Licurgo provò a contrastare gli dèi, come venne ad essi in
odio, tanto che Zeus lo accecò; e a causa di tale odio, aggiunge il poeta, non visse a
lungo. Di nuovo ciò che ho chiamato ‘risposta’ – e che è il concetto fondamentale
dell’exemplum – è ribadito, creando una seconda struttura ad anello situata dentro la
prima. A questa forte unità strutturale si aggiungono una grande linearità e perspicuità argomentative, di tipo paratattico, tramite concetti giustapposti o consequenziali.
Ora, posto che qui non si ha alcuna intenzione – a proposito della struttura e delle
modalità argomentative dell’exemplum – di derivare regole generali da un unico caso particolare, questa analisi del passo iliadico è utile in quanto, semplicemente, offre il destro per alcune considerazioni sulla struttura del fr. 1. Per prima cosa proviamo a immaginare come quel testo poteva funzionare in qualità di exemplum. Il
concetto fondamentale richiesto sarebbe ‘anche a chi è valoroso può capitare di essere costretto alla fuga’; la sua realizzazione particolare dovrebbe essere ‘persino i valorosi Achei furono costretti alla fuga da Telefo’. A questo proposito si potrebbe dire
che da una parte i valori fondamentali di senso sembrano compatibili, ma che
dall’altra non compare, in ciò che si riesce a leggere, alcuna espressione linguistica
esplicita che comunichi il concetto fondamentale richiesto – pertanto o essa compariva nella parte di testo perduta47, oppure non compariva affatto. In quest’ultimo caso dovremmo pensare a un exemplum diverso da quello iliadico, introdotto con minore perspicuità comparativa: un exemplum in cui il parallelo tra il piano del locutore e quello della diegesi mitica era suggerito in modo più indiretto, potremmo dire
allusivo, lasciando che il concetto fondamentale – anziché essere espresso esplicitamente – affiorasse in maniera più connotativa mediante la rappresentazione dello
scontro. Nel testo che si può leggere non vi sono elementi tali da far pensare a
un’unità strutturale simile a quella del caso iliadico citato. Invero West ravvisa una
ring-composition, leggendo μ]οῦνος ἐών a v. 5, e μο]ῦνος a v. 25 (riferiti a Telefo)48. Sono però entrambe letture assai incerte, e la seconda in misura maggiore49;
tuttavia, anche ammettendo si possa parlare di struttura ad anello50, il tema che verrebbe ribadito (e perciò sottolineato) sarebbe diverso da quello richiesto: anziché esplicitare l’inevitabilità della fuga dei Greci e la relativa assenza di viltà, sarebbe posta in risalto la figura di Telefo, che ‘da solo sconfisse i nemici’, con una prospettiva, per così dire, rovesciata rispetto a quella che ci attenderemmo – saremmo insomma fuori di quella che abbiamo chiamata seconda direzione di significato.
Ma l’aspetto più problematico per una lettura del frammento quale exemplum per
giustificare un episodio di fuga, pare essere la sua articolazione narrativa generale.
47
48
49
50
Questa alternativa non sarebbe compatibile con le ricostruzioni effettuate da Obbink 2006 e West
2006.
West 2006, 15.
Sembra vi sia un chi in luogo del ny, cf. D’Alessio 2006, 7, che propone [πρό]μ̣α̣χος o ἄ[μ̣α̣χος,
e Obbink 2006, 7.
Cf. Obbink 2006, 7 n. 19, secondo il quale πρόμαχος «is but a variation on» μοῦνος: tale lettura
non sarebbe quindi d’ostacolo al riconoscimento della struttura. Di diversa opinione Aloni 2007,
227-30.
- 81 -
Angelo Vannini
Sebbene non si tratti qui che di spunti di riflessione, una cosa credo si potrebbe dire
a proposito della tecnica narrativa degli exempla, che pare intuitiva. A partire da un
dato patrimonio di avvenimenti mitici, la narrazione si dovrebbe esplicare attraverso
una rigorosa selezione di contenuti in rapporto alla funzione esemplare che essa viene ad assumere. È probabilmente di qui che nascono la forte unità strutturale, la linearità e la perspicuità argomentative che abbiamo ravvisate nell’exemplum iliadico
sopra considerato. Quanto all’elegia di Telefo invece, la rappresentazione
nell’insieme pare troppo complessa, troppo ricca di dettagli che finirebbero col diluire l’efficacia dell’exemplum; in particolare, dal v. 15 in poi si verificherebbe la perdita della sua unità, con l’articolata spiegazione dell’‘errore’ dei Greci prima (un fatto che l’uditorio di certo conosceva e che sarebbe stato superfluo rievocare51), e il
ritorno alla narrazione dello scontro poi. Inoltre in questa cornice interpretativa non
troverebbe spiegazione l’attenzione che il poeta sembra concedere alla figura di Telefo: perché porsi, da un punto di vista narrativo, nella sua prospettiva, evidenziando
le ragioni (o gli effetti) del suo comportamento52? A mio parere la complessità della
diegesi – con la sua ricchezza di particolari, con l’anacronia narrativa a v. 16 (palinodia dello scontro o semplice digressione?) – e la dinamica di un movimento prospettico che va da Telefo agli Achei e dagli Achei ritorna a Telefo, rientrano con
qualche difficoltà nell’economia che l’episodio avrebbe richiesto, se narrato come
exemplum per giustificare un reale episodio di fuga che avrebbe avuto per protagonisti Archiloco e compagni.
Università di Urbino
Angelo Vannini
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
Aloni – Iannucci 2007
A. Aloni – A. Iannucci, L’elegia greca e l’epigramma dalle origini al V secolo, Firenze
2007, 205-36.
Bauchhenss-Thüriedl 1971
C. Bauchhenss-Thüriedl, Der Mythos von Telephos in der antiken Bildkunst, Beiträge zur
Archäologie 3, 1971, 37-74.
Boardman et Al. 1966
J. Boardman et Al., Griechische Kunst, München 1966.
Bulloch 1970
A.W. Bulloch, A Callimachean Refinement to the Greek Hexameter, CQ 64, 1970, 257-68.
51
52
Come ben nota lo stesso West 2006, 15 s., quando scrive «if his hearers were as familiar with the
story as he was, lines 5-7 might have sufficed to make his point. The fact that he goes on about it
at such lenght must mean that he enjoys telling it for its own sake. [...] I suspect that the retelling
of the myth was the main raison d’être of the poem».
Mi riferisco ovviamente all’espressione di v. 25.
- 82 -
Note di lettura al papiro di Telefo
Cantilena 1995
M. Cantilena, Il ponte di Nicanore, in Struttura e storia dell’esametro greco, I, Roma 1995,
9-67.
D’Alessio 2006
G.B. D’Alessio, Note al nuovo Archiloco (POxy LXIX 4708), ZPE 156, 2006, 19-22.
Fränkel 1968
H. Fränkel, Wege und Formen frühgriechischen Denkens, München 19683, 100-56 (tr. it.
L’esametro di Omero e di Callimaco, in Struttura e storia dell’esametro greco, II, Roma
1996, 173-269).
Gentili – Lomiento 2008
B. Gentili – L. Lomiento, Metrics and Rhythmics: History of Poetic Forms in Ancient
Greece, Pisa-Roma 20082.
Luppe 2006
W. Luppe, Zum neuen Archilochos (P.Oxy. 4708), ZPE 155, 2006, 1-4.
Nicolosi 2007
A. Nicolosi, Ipponatte, epodi di Strasburgo. Archiloco, epodi di Colonia (con un’appendice
su P.Oxy. LXIX 4708), Bologna 2007, 277-333.
Obbink 2005
D. Obbink, The Oxyrhynchus Papyri vol. LXIX, London 2005, 18-42.
Obbink 2006
D. Obbink, A New Archilochus Poem, ZPE 156, 2006, 1-9.
West 2006
M.L. West, Archilochus and Telephos, ZPE 156, 2006, 11-17.
Abstract: The author presents some textual observations on Telephos’ elegy (P. Oxy. 4708 fr. 1).
First, he examines v. 2 from a semantic and rhythmic point of view; then he analyses vv. 22-5 discussing the most crucial textual suggestions hitherto accepted by scholars, including Heracles’ epiphany at 22. Finally, he explores the relationship between ‘cowardice’ and ‘flight’ in Early Epic, concluding with some remarks about structure and meaning of Telephos’ poem.
Keywords: Archilochus, Telephos, Herakles, flight, exemplum.
- 83 -