Introduzione e lapidaria autobiografia funzionale

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Introduzione e lapidaria autobiografia funzionale
Introduzione e lapidaria autobiografia funzionale
Immagina di essere giovane. Ventuno anni, diciamo.
Immagina di avere un sacco di cose per la testa, progetti, sogni, passioni. Cose a breve termine, tipo
la solita serata con gli amici, per annegare la giornata in un paio di birre ed un mare di chiacchiere.
Cose molto più lontane, casa-famiglia-lavoro, quel genere di faccende a cui uno prima o poi si
ritrova a pensare, nel corso della sua vita.
Sono certo che anche tu abbia di questi pensieri. Come ti vedi, tra dieci anni? Magari ti sarai
laureato, avrai un lavoro che ti gratifica, o che ti castra l'anima. Chissà. Forse sarai solo, forse vivrai
con quella ragazza – proprio quella lì – con cui avrai litigato un milione di volte, e che ora ami più
di te stesso. Probabilmente avete anche del pargolame, in atto o in cantiere. Tutta una impalcatura di
cose e di relazioni, un elaborato castello, la tua vita, una pietra per ogni giorno.
Immagina, per un secondo solo, perché farlo più a lungo è difficile ed anche doloroso, che tutto,
tutto quanto, sparisca come se qualcuno avesse spento la luce. Niente birre, amici, studio, lavoro,
vacanze, famiglia, amore, futuro. Nulla più di un grande, vuoto, nero colloso.
Non è una bella sensazione. Angoscia.
Racconterò una storia. Non perché sia più importante, interessante, toccante di altre. Solo, la
conosco meglio, perché è la mia.
Hai presente gli scout, creature bizzarre che in genere trovi in treno a suonare la chitarra e cantare,
specie se tu hai un sacco di lavoro o di sonno in arretrato? Quelli che Jack Benny definiva “bambini
vestiti da cretini che seguono un cretino vestito da bambino”? Beh, ecco, io sono il cretino, ed
effettivamente ci sarebbe più di qualcosa da dire sul mio guardaroba.
Nell'agosto 2009 accompagnavo i miei ragazzi dal lago di Braies a Cortina, lungo il tracciato
dell'alta via numero uno delle dolomiti. Dieci giorni in mezzo ai picchi, ai boschi ed alle vallate più
belli che ci potessimo permettere, in termini di preparazione e di materiale, oltre che di denaro. In
ogni caso, non è un brutto giro, anzi.
Qualcuno ha detto che la natura è il miglior libro che dio ha dato all'uomo. Nonostante le mie
posizioni saldamente agnostiche, trovo un senso in questa affermazione. Chiunque abbia avuto
occasione di passare anche una sola serata abbastanza lontano dalla corrente elettrica e dalle sue
lusinghe, dormendo sotto la cupola buia del cielo (meglio se senza nient'altro che un sacco a pelo ed
eventualmente un'amaca), sa di cosa parlo. Basta anche solo un fuoco, a volte.
Di tanto in tanto, tra amici, combiniamo ancora seratine “rustiche” di questo genere. Risaliamo una
valle stretta e quasi ignota al mondo, fino ad un enorme grottone noto a noi, ai pipistrelli ed a
qualche gruppo di speleologi, che in ogni caso sono piuttosto discreti (i pipistrelli, chiaramente). Ci
portiamo un po' di legna, una bottiglia di vino buono, o una grolla, a seconda dell'occasione e della
disponibilità, più qualcosa da sgranocchiare, che varia a seconda della stagione, dalle castagne alle
pannocchie, passando per salsicce e polenta, per i mesi più freddi.
Accendiamo il fuoco, mangiamo e beviamo, e poi stiamo a guardare le fiamme che diventano braci,
e ci raccontiamo storie. Prima, leggende da vecchie timorate di dio (ma non abbastanza da
dimenticare le vecchie paganerìe). Poi, quando le bottiglie e le fole sono finite, le storie della nostra
vita. E va sempre a finire che ce ne andiamo a dormire con qualche domanda più grande di noi, sul
destino, sul caso, sull'amore, sul tempo. Dal mio punto di vista, che qualcuno definirebbe di
piromane (io preferisco dire di eracliteo, ma la sostanza non cambia troppo), il merito è in gran
parte del fuoco. Le fiamme che danzano sul faggio, levandone un concerto di schiocchi e di crepitii,
hanno un che di ipnotico. Ti costringe a starci vicino, per vederci o per scaldarti. Ti ci avvicini,
come una falena, e poi ti accorgi che stai spalla a spalla con altre persone, attratte allo stesso modo,
che per tendere al fuoco hanno violato ed hanno lasciato violare la loro bolla prossemica, il
proverbiale (e paradigmatico) metro quadrato di sicurezza, il perimetro inviolabile che ci
disegniamo attorno, il nostro confine di solitudine. Ci pensi, e pensi che quel fuoco sta scaldando
qualcosa di più delle tue salsicce o delle tue zampe intirizzite.
Insomma, tornando alla storia e dimenticando per un momento le divagazioni, nell'agosto del 2009
mi è capitato di passare una notte sulla Croda del Becco a parlare, apparentemente, di morte.
Attività proposta dai miei ragazzi (e qui potrei divagare su questa espressione, su come nessuno sia
di nessun altro, ma non ho tutto questo tempo a disposizione), a cui ho partecipato volentieri,
sebbene non senza difficoltà.
Prendi un foglio di carta, e scrivici dieci cose. Dieci cose che vuoi assolutamente fare prima di
morire, senza le quali non sentiresti completa la tua esperienza di vita. Su, fallo, o almeno provaci.
Certo, il contesto non è lo stesso, e forse non concilia, ma vale la pena, fidati. Forse aveva ragione il
Grande Inquisitore, quando enunciava le sue teorie alla seconda incarnazione di Dio nel mondo,
dopo averlo tratto in arresto. Abbiamo bisogno di un fine. Di farci schiavi, seppur di un'idea o di
una bandiera. Senza, siamo come paglia nel vento.
La percezione della nostra mortalità, della limitatezza del nostro tempo, è questo che ti mette in
ordine le cose e le prospettive. Sono sicuro, a meno che tu non sia del tutto fuori di testa, che la tua
lista non include cose come una doccia o un panino con la soppressa. Non sono queste le cose che ci
danno un senso.
Il primo punto della mia lista era qualcosa di molto semplice: vorrei salvare la vita a qualcuno.
Quando lo scrivevo, avevo in mente scenari di eroismi immediati, semplici, quelli per cui
impazzisce certa stampa. Il fatto che nelle mie fantasie il soggetto in pericolo fosse sempre
un'avvenente signorina è del tutto secondario e non degno di menzione, tanto quanto le conclusioni
a breve termine che ipotizzavo. Ma si sa, le persone, in fondo, sono semplici, e i giovani uomini
ancor di più. Poi ho iniziato a pensare meglio, a mettere a fuoco le idee. Le ho bruciate,
raffinandole, eliminando tutto ciò che non era strutturale o necessario, rimanendo con un nocciolo,
lucente e piuttosto arroventato. Volevo davvero salvare la vita a qualcuno, anche se non fosse stato
avvenente, giovane e di sesso femminile.
Ho sempre pensato tantissimo, nel corso della mia vita. Pessima abitudine, frutto di una infanzia e
di una adolescenza solitarie, trascorse più tra sassi, alberi e capre che nelle città degli uomini. Fino
ai sedici anni ho imparato più dai libri che dalle persone, giusto o sbagliato che sia. Del resto, erano
gli anni tra la fine dei novanta e l'inizio del nuovo millennio, e nei piccoli paesi del nordest, i
diversi, gli uomini neri erano ancora i teroni. Se appartieni, anche solo per metà, alla categoria, hai
un gioco difficile da giocare. O meglio, avevi. Adesso la stessa deliziosa accoglienza è riservata ad
altre categorie di fortunati, negri, slavi, cagarisi(caga-risi, facezia tipicamente veneta per indicare
persone provenienti dall'asia), basta che vengano da più lontano.
Mi sto perdendo, di nuovo. Dannazione, come se avessi tempo da buttare. Ma, in fin dei conti,
seguire una linea di pensieri in fila come perle non sarebbe nemmeno da me. Vedrò di impegnarmi
di più alla ricerca di una buona mediazione.
Dicevo, ho sempre pensato tantissimo, ma ho anche sempre pensato che quando un'idea, per buona
o bella che sia, non esce dal suo covo di circonvoluzioni e neuroni per entrare nel mondo (il che può
voler dire costruire la portaerei che hai immaginato, ma anche solo condividere, raccontare), è
degna di essere abortita, o di trovarsi un ospite migliore.
C'è stato un periodo in cui mi svegliavo, la mattina, domandandomi cosa avrei potuto fare, per
salvare la vita a qualcuno. Era diventato una specie di chiodo fisso. Non avendo la pazienza ed il
cattivo gusto di appostarmi su uno dei ponti di Bassano, in attesa di qualcuno che volesse fare
l'ultimo volo per poterlo convincere a smontare dal parapetto ed appagare il mio ego, ho ipotizzato
soluzioni diverse.
Andar soldato ad esempio: sparare a qualcuno per salvare qualcun altro però non mi è mai sembrata
una buona idea. Le basi etiche del migliorare il mondo ammazzando persone mi sono sempre parse
se non altro discutibili.
I vigili del fuoco allora. Portare fuori bambini da case in fiamme e tirare giù gatti dagli alberi,
decisamente meglio dell'opzione precedente. Senza considerare il successo che l'aitante pompiere
ha sempre riscosso (o almeno, così pare) nell'immaginario delle donzelle! Molto meglio, come idea.
Peccato che, se stai studiando all'università, tutto questo tempo per i concorsi non ce l'hai.
Non ricordo come sono arrivato all'idea giusta. Solo, un giorno era lì, sembrava che ci fosse sempre
stata, un nocciolo raffinato ed arroventato. Diventare donatore di sangue e di midollo osseo.
Eticamente valido, relativamente semplice, rapido, concreto e rispondente alle mie necessità. In più
il valore aggiunto: un donatore di sangue o di midollo osseo non conosce mai i beneficiari, le
persone che si salvano la vita grazie al suo impegno. Peccato per le belle signorine, sicuramente, ma
questo dettaglio dava alla cosa una connotazione ancor più pulita, cancellando quasi del tutto la
puzza di ego appagato.
Mi ero deciso, ed avevo già preso l'appuntamento per le analisi.
Non ci sono mai arrivato, a quell'appuntamento.
Ogni tanto me lo chiedo, specie se mi capita di stare sotto le stelle o davanti ad un fuoco. Esiste il
destino? Un copione, o anche solo un canovaccio? La partitura di una musica sulla quale balliamo
come pupazzi meccanici? Per ora ho solo una certezza: se qualcosa del genere esistesse, sarebbe
stato preparato con ironia e senso dell'umorismo di dubbio gusto.
Io, che ad agosto giravo per crode e ad ottobre mi ero deciso a salvare la vita a qualcuno donando il
mio sangue ed il mio midollo osseo, mi ritrovavo a novembre senza sangue e senza midollo osseo,
ridotto ad uno straccio di persona, debole, fiacco e ad un passo dalle grinfie della grande mietitrice.
Da scriverci un romanzo, una di quelle cose di ispirazione gotica, magari.
Due i ricordi che custodisco meglio, di quei giorni. Il primo è una sedia rotta. Quando ho capito
(perché non è facile né veloce capire che devi morire), ho avuto uno dei miei proverbiali accessi
d'ira, che in genere sbollisco a colpi d'ascia, spaccando legna per il camino. L'ho afferrata per lo
schienale e l'ho sbattuta a terra un centinaio di volte, con gli occhi sbarrati ed in silenzio. Non ho
mai capito le persone che urlano, che piangono spendendosi in vocalizzi da prefiche. In parte per
via di una forte introversione e di una specie di stupido orgoglio, in parte perché credo che se
qualcosa ti fa veramente male, o se sei veramente incazzato come un orso, sei preso da altro e non ti
restano né la voglia né la forza per strillare come un tacchino.
Comunque, alla fine il pezzo di legno più grande era lungo una trentina di centimetri, e le
mattonelle della cucina erano irrimediabilmente rovinate. Ogni tanto mi ci cade l'occhio, in genere
quando mi faccio un caffè ed aspetto che sia pronto, e tutto sommato mi viene anche un mezzo
sorriso.
Il secondo ricordo, invece, è un bacio. Un paio di giorni prima che entrassi in ospedale (ed ancora
non era chiaro se ne sarei uscito in piedi o in una cassa zincata), ho passato un pomeriggio con
un'amica. Una ragazza strana, ben strana, e molto bella. Ci eravamo conosciuti alle scuole medie, e
non ci eravamo mai sopportati. Lei mi prendeva in giro per i miei vestiti e le mie scarpe di seconda
mano, e io, da buon animale ferito, non mi risparmiavo di mordere, se ne capitava l'occasione:
sfottendola quando il suo cane è annegato in un canale, ad esempio. I ragazzini possono essere
oltremodo perfidi.
La verità, ho scoperto in seguito, è che lei mi ammirava, e mi invidiava (e le ragioni di questo mi
sono tuttora piuttosto oscure), e come fanno in molti, specie se adolescenti, denigrava quello che
non poteva avere.
Mi sono accorto quanto mi piacesse solo in seguito, in prima superiore. Ricordo ancora
quell'immagine, ce l'ho stampata in mente, come se fosse marchiata a fuoco, indelebile come tante
altre cicatrici che porto addosso, solo meno visibile.
Stava nell'atrio della nostra vecchia scuola media. Credo ci fosse un concerto, o qualcosa del
genere, ed entrambi avevamo colto l'occasione per vedere i nostri vecchi insegnanti. Salivo le scale,
trafelato, in ritardo come al solito, ed eccola lì, come un'esplosione, come il primo mandorlo in fiore
dopo un inverno terribile, come trovare un lampone a gennaio (un lampone vero, non quelle
stronzate di serra che oltre a fare schifo ormai hanno anche mutilato le metafore a base di frutta
fuori stagione).
Aveva i capelli legati in una coda di cavallo, indossava una giacca di pelle rossa da motociclista e
sembrava già la donna che sarebbe diventata. Avrei voluto carezzarla come il vento, e soffiarle le
parole giuste, le più belle che il mio cervellino sovreccitato riuscisse a trovare. Ma ero timido,
impacciato, avevo gli occhiali e l'apparecchio per i denti, ero magrolino e soprattutto incapace di
relazionarmi con le persone. Uno sfigato cronico.
L'ho salutata con un gesto della mano, evitando di parlarle per paura di mettermi a balbettare. Lei
mi ha sorriso, con un sorriso che le ho scoperto di nuovo addosso anni dopo.
Insomma, un paio di giorni prima che entrassi in ospedale abbiamo passato questo pomeriggio
insieme. Era un po' che avevamo ricominciato a frequentarci, dopo gli anni turbolenti del liceo. Mi
ha accompagnato a vedere un paio dei posti che significavano qualcosa nella sua vita, ed io ho
ricambiato con un paio dei miei. Era dicembre, e al venire del buio ci siamo ritirati a casa sua.
Eravamo accoccolati su un piccolo divano, ed io stavo parlando di un milione di cazzate per non
annegare nel suo silenzio. Lei, mi guardava. Mi guardava e basta, e chissà cosa vedeva, se il
ragazzino sfigato, o l'adolescente ribelle e disancorato da ogni realtà, o forse solo il giovane uomo
con la sua fottuta paura di morire, di perdersi tutto. Finalmente mi sono azzittito, lasciando una
frase a metà, e l'ho guardata io, con i lucciconi agli occhi (come quelli che mi stanno venendo
adesso, a ricordare quei giorni). Ci siamo abbracciati, piangendo entrambi come bambini, in
silenzio. Erano scivolate via anche le ultime seghe mentali su dio, il destino e l'ironia, ed il rischiare
di perdere per sempre qualcuno proprio quando lo hai trovato. Le nostre labbra, umide di lacrime, si
avvicinavano, in un bacio rimandato da troppo tempo.
«No, tu sei senza sistema immunitario, non vorrei rischiare di farti star male»
«Dopodomani inizieranno ad imbottirmi di antibiotici, e se dovessi morire non voglio avere anche
questo, nella mia lunga lista dei rimpianti».
È stato il bacio più dolce, più forte, più disperato del mondo. Del mio, per lo meno. Da film:
avevamo anche la colonna sonora, che se non ricordo male doveva essere un disco di Mazzy Star.
Ho pensato a vecchie fotografie, addii in stazione di soldati che partono per il fronte. Mi sentivo
morire, ma avevo guadagnato un'altra ragione per vivere, per salvarmi.
Sono tornato a casa, e quella sera, una delle ultime cene in famiglia prima del ricovero, nella
meraviglia generale, il mio era il muso meno lungo di tutti.
Ed ecco il giorno. Sono arrivato in ospedale con due valigie di libri ed un gatto di peluche, pallido
surrogato dei miei tre beniamini. Mi hanno numerato, tosato le braccia e bucato qualche vena.
La periodizzazione è una delle peggiori abitudini degli storici: decidere quando è iniziato e quando
è finito il ventesimo secolo, o il medioevo, o qualunque altra cosa del genere. Come se dire prima
guerra mondiale o fine dell'impero romano d'occidente cambiasse qualcosa. Sarà che abbiamo
questa specie di esigenza, il bisogno di mettere confini per collocare le cose, separandole dal
contesto che le ha fatte tali, o dalle loro conseguenze. Non me n'è mai fregato granché (e lo stesso si
potrebbe dire di compleanni, capodanni ed altre ricorrenze legate alla misurazione del tempo), ho
sempre voluto pensare al tempo ed alla storia come cose fluide. Ma quel giorno (e per essere precisi
nel momento in cui il braccialetto con il mio nome, il mio numero ed il mio codice a barre ha fatto il
suo bravo clic di chiusura) ho capito che effettivamente ci sono momenti in cui il tempo si ferma
per un momento. Paletti, linee, separatori. Come la fine di un capitolo.
Nel giro di una notte avevo iniziato a capire quello che sarebbe successo a me, al mio corpo, dopo
la parentesi aperta da quel clic.
Avrei dovuto combattere. Mi sono messo a scrivere.
Studiando filosofia, provengo da un ambiente in cui spesso il pensiero rimane aggrovigliato in se
stesso, senza interagire con il mondo e con le persone. Ho sempre visto un problema, in questo: se
io fossi il più bravo pittore del mondo, e dipingessi il quadro più bello del mondo, e nessuno lo
potesse ammirare, quale valore avrebbe il mio lavoro? È la solita vecchia domanda: fa rumore
l'albero che cade in mezzo alla foresta, senza nessuno che possa sentirlo? Potremmo perderci a
lungo, discutendo questa faccenda. Come ho già detto, sono sempre stato convinto che se un
pensiero non viene tradotto in cose pratiche o almeno condiviso, ha poco senso pensarlo. Quando
ho iniziato a scrivere, in ospedale, ho scritto in primo luogo per me stesso, per capirmi, per guardare
meglio, con un certo distacco, le mie emozioni, la mia storia, le mie idee.
Ho scritto anche per gli altri: condividere la mia produzione avrebbe potuto, in prima istanza,
convincere qualcun altro a diventare donatore di midollo osseo. Del resto, siamo abituati così:
abbiamo bisogno della testimonianza diretta, del pinguino coperto di petrolio, del bambino che
sniffa colla, per iniziare ad indignarci e quindi a progettare delle azioni concrete. Giusto o sbagliato
che sia, questo è un fatto. Io non avrei mai salvato la vita a nessuno, con il mio sangue marcio ed il
mio poco midollo osseo che non bastava nemmeno a me. Ma forse, se fossi stato abbastanza bravo e
tenace, le mie parole avrebbero potuto essere la molla giusta per altri, ancora in possesso del loro
corpo.
Spinto da queste semplici considerazioni non mi sono risparmiato: ho scritto moltissimo, anche
dieci ore al giorno, fintanto che non mi scoppiavano le vene degli avambracci (e non in senso
figurato), fintanto che i medici non mi imponevano di smettere. Lettere ai giornali, mail, racconti.
Ad un certo punto ho anche aperto un blog, in modo da rendere più accessibile quello che avevo da
raccontare. Si chiamava Hestia. Dopo qualche tempo avevano iniziato a scriverci anche altre
persone, oltre a me. Due in particolare, a cui devo delle scuse e delle birre di riparazione, a cui
provvederò quando riuscirò ad essere meno pavido e vigliacco di quanto non sia. Lascio al lettore
volonteroso la soddisfazione di scoprire come mai abbia adottato un nome del genere, e quale sia il
suo significato, con l'indicazione che un po' di cultura classica è d'aiuto.
Ho smesso di scriverci all'incirca un anno fa, lasciando ogni cosa a se stessa ed al progressivo
sfacelo dei siti web senza manutenzione. Non avendo rinnovato il contratto per lo spazio web, alla
fine del 2010 ogni cosa è svaporata per sempre, o almeno così credevo.
Poco tempo fa, però, mi è capitato per le mani un file, si chiamava “dall'ospedale”. Non ricordando
assolutamente cosa fosse, anziché eliminarlo senza darmi pensieri, l'ho prima controllato.
Avevo tra le mani la raccolta completa di tutto quello che avevo scritto durante il mio ricovero e nei
giorni successivi, fino a quel momento finale di distruzione, salvata tempo addietro per stamparla e
consegnarla ad uno zio che aveva il desiderio di leggere, ma non un computer collegato ad internet.
Ecco la maledizione dell'informatica: quando meno te lo aspetti, salta fuori qualcosa che credevi di
aver eliminato per sempre. Non si può più, come si faceva una volta, strappare fogli, appallottolarli
e gettarli lontano (cosa che sicuramente appaga più di premere il tasto canc su una tastiera, per
quanta forza ci si possa mettere), bruciare manoscritti o seppellire plichi e cartelle.
Il primo istinto è stato quello di destinare di nuovo (e per sempre) all'oblio quelle parole. Poi mi
sono detto che in fin dei conti alcune delle ragioni che mi avevano spinto a scrivere erano ancora
valide. C'è ancora bisogno di convincere persone ad avere attenzione per gli altri, a rivedere le
faccende e le priorità della vita in un'ottica meno falsata e straniante (e la morte, anche solo come
prospettiva, ti mette per forza le cose in ordine), a donare il midollo osseo. Quindi ho preso a due
mani il poco coraggio che ho, ed ho riletto tutto quanto, rivivendo le emozioni che avevano ispirato
quelle parole (il che ha significato, detta meno altisonante, piangere come un vitello). Ho rimesso
tutto in ordine, corretto qualcosa qua e là, riletto, limato e bestemmiato, e sacrificato un sacco di ore
di sonno e di studio. Ecco il risultato.
Ematologia, stanza 22.
Leggo uno dei miei libri preferiti. È il dhammapada, un testo scritto attorno al primo secolo a.C., ma
di origine più antica, di circa due secoli. È una raccolta dei detti del Buddha intorno a varie
questioni. E la strofa di oggi è la numero 122, che recita «Non minimizzare una buona azione, non
pensare che non avrà conseguenze. Una goccia dopo l’altra riempie la brocca, la serenità a poco a
poco si accumula in una mente consapevole». Leggo questo mentre, in una asettica stanza di
ospedale, guardo quattro flebo che gocciolano vita nei corpi di quattro compagni di sventura. Uno
sembrerebbe essere il mio. Guardo alcune foto di qualche mese fa. Questo corpo, sorridente,
ammicca dalla cima di uno dei picchi delle creste di San Giorgio, itinerario alpinistico che va da
Solagna a Camposolagna. E devo chiedermelo, la mia formazione e la mia umana curiosità me lo
impongono: come mai? Perché questa colossale differenza tra agosto e dicembre?
La prima risposta che mi viene spontaneo darmi è di natura medica. Ti hanno diagnosticato una
malattia rara, Giovanni, e piano piano il tuo midollo osseo sta morendo. Cosa vuol dire questo? Il
tuo sangue è sempre più povero di globuli rossi, bianchi e piastrine. Quindi non puoi più fare sforzi
fisici, perché affatichi il cuore, in ogni caso vai in affanno e ti manca l’aria; non puoi nemmeno
rischiare di prendere una botta o di tagliarti, ne moriresti dissanguato, oppure di emorragia interna;
non puoi, infine, correre il minimo rischio di infezione, essendo che le tue difese immunitarie sono
praticamente azzerate: niente cibi normali, niente strette di mano, abbracci, baci, niente luoghi
pubblici o treni, niente che non sia sterile. Mi viene in mente quella canzone di De André, il malato
di cuore: «e ti viene la voglia di uscire e provare cosa ti manca per correre al prato, e ti tieni la
voglia e rimani a pensare come diavolo fanno a riprendere fiato». Bella storia.
La seconda risposta (preceduta dall’assunzione delle mie dosi quotidiane di antimicotico ed
antibiotico) è più articolata. Non credo in Dio, non credo nella provvidenza, non credo nel fato.
Sono una persona che non sarebbe del tutto sbagliato descrivere come materialista nel senso
originario del termine, come qualcuno, insomma, che non abbia nel trascendente la sua ruota di
scorta. Non che sia un facilone, non che sia un uomo di nessuna spiritualità, anzi. Sono solo molto
concreto. Se dovessi individuare qualcosa in cui credo, direi che credo fermamente nella causalità,
nel legame a volte invisibile tra le cose: quello per cui se vedo fumo immagino fuoco. Quello della
logica e della scienza.
Plic. Plic. Plic. Sangue altrui gocciola nelle mie vene, sangue che mi tiene vivo e che alimenta il
fuoco delle mie domande.
La seconda risposta è che sono i numeri, i maledetti numeri, a rendere le cose così difficili a me ed
ai miei compagni di sventura. Oggi, corridoio, voci: «sono finite le piastrine.» «ma il signor
Natalino ne ha assoluto bisogno, e adesso!» «vediamo se ce ne danno da Schio, intanto bisogna
aspettare.»
E tu, Giovanni, hai la speranza di trovare del midollo osseo compatibile. Ahi ahi ahi. Mediamente le
probabilità di trovare un donatore compatibile sono uno a centomila, lo sai. Poi come se non
bastasse hai voluto fare l’anticonformista ed hai un HLA, il tuo “codice di compatibilità”, molto
raro. Quanto? Raro, come quantificarlo. Nel letto accanto al tuo un ragazzo di diciannove anni
trattiene le lacrime mentre l’ennesimo esame richiede il suo tributo, la sua libbra di dolore. Si, ma
quanto dolore ci vuole per farne una libbra? Eh…
Parlavamo di numeri: sarò schietto, dicendo che non ci sono abbastanza persone, tra “voi”, disposte
a dare un po’ di loro per tenere in vita “noi”. Ci sono una serie di elementi autenticamente
pazzeschi, in questa storia, cose che autenticamente siamo tutti portati a considerare devianti: per
iniziare, è pazzesco fare, a ventidue anni, i conti con la morte. Ma basta fare un giro in pediatria per
vedere di peggio. Poi, questa cosa della statistica è una di quelle che in assoluto mi indispongono di
più. Mi infastidisce quasi più del cocktail di farmaci che ogni sera quasi mi soffoca, costringendomi
a dosi massicce di cortisone. Insomma, per farla breve, se centomila di “voi” si iscrivessero al
registro donatori dopo un esame del sangue, probabilmente tra essi troverei una persona compatibile
con me. E se quegli stessi centomila donassero anche una sacchetta di sangue, nessuno di noi
dovrebbe più sperare negli avanzi di Schio. Questi i numeri su cui mi arrovello, mentre guardo le
gocce che piano piano strisciano nel mio sistema circolatorio.
Poi, stanco, Giovanni, decidi di alzarti e di fare due passi in corridoio. Quanti come te incontri?
Quante teste con i capelli radi o scomparsi, quante gote scavate, quanti occhi affossati? Centomila
per ognuno di loro. Lo sai, anche tu, prima della malattia non avevi considerato la cosa se non in
termini remoti. T’eri deciso solo, ironia della sorte, poco prima della diagnosi, ed il tuo
appuntamento lo ha usato tua sorella. Quanti come te, Giovanni, muoiono ogni giorno
semplicemente perché il loro centomillesimo, il loro uomo-medicina, non sa di esserlo? Fa
impressione. Ti ricordi che hai fatto quando ti hanno fatto l’esame del midollo osseo? «Niente
anestesia, voglio sentire quanto male fa, quale sia il prezzo in dolore della vita di un leucemico, di
un talassemico, di un aplasico, …» E hai concluso che non era nemmeno troppo salato, specie
considerando che chi dona in genere ha l’anestesia epidurale, se non generale, e che in una
settimana il suo corpo rigenera tutto il midollo donato. A te va anche relativamente bene, rispetto ad
altri qui dentro: dei tuoi milioni teorici di staminali emopoietiche, le cellule che producono il
sangue, ne hai ancora un 10%. Non puoi guarire, senza trapianto, ma puoi sperare di rimetterti, e se
ti rimetterai avrai ancora una decina di anni prima che le tue cellule residue muoiano o
impazziscano, iniziando a riversarti spazzatura nel sangue.
Altri numeri. Eh, ma in dieci anni salterà fuori il tuo uomo-medicina.
Forse.
C’è qualcosa di molto amaro e di molto dolce in questo forse, che è il capestro, la spada di Damocle
sulle teste di così tanti di noi. C’è che i nostri figli, il nostro lavoro, la nostra casa al mare, la nostra
compagna o il nostro compagno, le nostre passioni, il nostro futuro sono nel corpo di qualcuno che
magari non sa nemmeno quale dono, quale potere abbia. Ho realizzato, guardando il gocciolio della
mia flebo, quale quantità di persone muoia per una ragione evitabilissima come il semplice non
sapere. E quindi ho deciso di prendere il coraggio a due mani, e di dare testimonianza. Di fare una
delle poche cose che mi riescono quasi bene, scrivere, e rendere noto a quanti possibile quanto sia
facile salvare la vita a qualcuno. Ora, senso comune vorrebbe che io fossi affabile e remissivo e
tenero e molto grato, parlando della gentilezza e della bontà di chi si dà agli altri in questo senso
così letterale. Già detto. Voglio dire dell’altro, nel mio congedarmi, e non voglio smentire il mio
carattere brusco e l’estremismo morale che mi hanno contraddistinto fino ad ora: se sai cosa puoi
fare, se sai delle vite che puoi salvare, se sei nella condizione di farlo e decidi che non fa per te…
Beh, gentile sorellina, simpatico fratellino, sentiti la coscienza un po’ sporca. Sentiti un po’
vigliacco. Hai in mano un salvagente che non hai voluto lanciare all’uomo a mare. Nessun rancore,
sia chiaro, ma la prossima volta che senti della tal persona morta della tal malattia, abbi un po’ di
rimorso. Così magari sarà il tarlo, la decisione da cittadino responsabile, da persona capace di
rendersi conto dell’altro, del suo bisogno, del suo poter aiutare, a farti fare il passo decisivo e
prendere il coraggio a due mani per fare la cosa giusta, la cosa migliore. E spero caldamente che
non sia per Giovanni, per il tuo amico, per tua moglie, per il conoscente, per la persona nota. Spero
che tu prenda la strada più bella, spero che tu ti dia per amore di un perfetto sconosciuto, amore
dovuto ad un altro essere umano anche solo per essere tale. Probabilmente, Giovanni, ti hanno
trovato sconveniente, spiacevole, esagerato. So che non te la prenderai. So che considererai la
possibilità, e spererai comunque di aver fatto la cosa giusta, decidendo di puntare contro corrente
una volta ancora, di decidere di toccare l’orgoglio, l’onore, l’amor proprio delle persone invece del
solito pietismo. Sia mai, visti i tempi, che possa funzionare. Ma salutali ed abbi riguardo di loro, e
ringraziali comunque, Giovanni: magari non lo sanno, ma sono sicuramente tutti uomini-medicina.
E sia mai che…
Dhammapada, 1, 6: «Molti non vogliono sapere che siamo tutti destinati a morire. Ma nel momento
in cui te ne rendi conto, tante discussioni diventano inutili.»
Siate consapevoli, per favore.
Lettera di ringraziamento
Miei amatissimi sconosciuti, chi più chi meno,
Inizio questa lettera in maniera poco consona. Ma, del resto, non ho obbedito a nessuna delle
convenzioni del decoro fino ad ora, non vedo perché dovrei iniziare. Mi scuso. Vorrei scrivervi di
più e meglio, ma come ogni sera il farmaco che oltre a darmi qualche speranza mi brucia le vene ha
deciso di fare la sua parte per tenermi lontano dalla tastiera. Sappiate quindi che non è mia volontà
essere sbrigativo, anzi, se potessi vi scriverei pagine e pagine. Faccio quello che posso, faccio del
mio meglio.
Se le cose sono andate come spero sarete moltissimi, ed il centro trasfusionale di Bassano, per
quanto attrezzato e guarnito di persone di ottima volontà non riuscirà a permettere a tutti voi di fare
il vostro dovere di persone. Spero che molti di voi tornino, magari portando amici, compagni,
conoscenti. Spero che essere qui non sia una scusa per mettervi il cuore in pace, per sentirvi buoni
sotto le feste. L’ho già detto, ma lo voglio ripetere: non voglio essere l’oggetto di una campagna di
solidarietà personale. Sono, al più, una mascotte. Tipo la marmotta che confeziona la cioccolata,
solo in versione ospedaliera. Sono una scusa, un pretesto. Purtroppo gli esseri umani spesso
funzionano in maniera strana, ed hanno bisogno di una causa, di una bandiera, di un simbolo, di un
vate. Io ho deciso da tempo di prendere una via differente, di fare di testaccia mia, evitare di avere
dei. Potranno confermarlo quelli tra voi che mi conoscono, che sanno quanto complicato sia farmi
cambiare idea e quanto sia intransigente su certe cose. Ecco, diciamo che, in cerca di qualcosa da
darvi in segno di gratitudine per aver deciso di farvi commuovere dalle mie parole, non ho trovato
nulla di meglio delle mie parole stesse. Non perché siano speciali, ma perché per ora non ho molto
altro. Voglio quindi provare a parlarvi della mia morale strana e della felicità, e, preferirei di no, ma
se proprio ne avete bisogno potrete considerarlo un vessillo o qualcosa del genere.
C’è un fatto: tutti noi amiamo noi stessi, se non altro perché ci curiamo di noi stessi, siamo
indulgenti nei nostri confronti, soddisfiamo i nostri desideri. Ora, questo è quello che io chiamo
egoismo. Senza definizioni di bene o di male, esistono modi buoni o cattivi di “venirsi incontro”,
ma il sentimento di base è neutro. È umana tensione al conservare se stessi. Ora, come accennavo,
potete venirvi incontro in maniere molto diverse. Potete infilarvi in un centro di bellezza e farvi
tirare a lustro, potete, se volete, spendere un sacco di soldi in cose con cui circondarvi. Potete
inseguire per tutta la vita i sogni che qualcun altro prepara per voi, potete avere un cane che vi porta
il giornale e la macchina figa in garage. Potete anche, se credete, fare di meglio, andare oltre.
Ascoltatevi tutti, un momento: non vi sentite fieri, ora? Non siete orgogliosi di fare quello che state
facendo, di essere venuti qui per donare qualcosa di voi a qualcuno che ne potrebbe aver bisogno?
Non sentite come intimamente, primordialmente giusto e bellissimo sia quello che avete deciso di
fare? Ora, credo, siete felici. Di una felicità più effimera, ma molto più intensa di quella data da un
buon massaggio. È tutto dentro di voi, credetemi, non ho fatto nessuna magia. Forse dovreste solo
prendervi più tempo, ogni tanto, per pensare, per “seguire il vostro sole”, per perdervi e ritrovarvi
cambiati. Questo, in generale, credo sia un buon modo di vivere. Credo sia un buon modo di essere
giusti, di essere felici.
Quando guardo alla storia della nostra razza, ma anche solo alla cronaca, mi stupisco sempre di un
fatto, molto amaro: siamo tutti molto “io”. Chiedo scusa, ma non lo so spiegare meglio, sono solo
uno stupido e complicato quasi-dottore in filosofia.
Vi propongo però un modo di fare diversamente. Sognate, assieme ai vostri sogni, quelli di chi non
ha abbastanza forze per sognare i propri. Scegliete. Non siate solo “io”. Il mondo è pieno di sogni
spezzati, ce ne sono per tutti i gusti e per tutte le tasche. Incazzatevi, indignatevi per questi sogni
spezzati, fateli anche vostri, rendeteli vivi tanto quanto i vostri. Potreste sentirvi di nuovo come vi
sentite ora. Potrete sapere senza sentirvi colpevoli, potrete essere fieri di voi e sorridere alla vostra
coscienza.
Mi sono messo a piangere, a metà di questa lettera, e sto continuando. Sono felice. Sono
galvanizzato all’idea di quante persone sono riuscito a toccare, a muovere, a commuovere, solo
ammalandomi. L’avrei fatto prima, se lo avessi saputo. Scherzo… forse.
Non mollate. Parlate, scrivete, non trasformatemi in un feticcio dello spirito del Natale. Non sono
nemmeno cristiano. Sarete ormai stanchi di sentirvelo dire, ma: sognate.
Con affetto moralista e bacchettone, saluti da Ematologia, stanza 22.
Mie care persone
Mie care persone,
Credo sia doveroso esprimervi la mia gratitudine. Ieri, quando ho saputo cosa stava succedendo in
ospedale, mi sono commosso. Sto leggendo delle lettere bellissime, e, giuro, non mi capitava da un
po’ di sentirmi così. Siete stati favolosi. Vorrei chiedervi, però, di continuare ad esserlo. Fatevi dei
conti in tasca. Ne vale la pena, non credete? Non avete sentito, in così tanti assieme, un tepore
diverso da quello torpido del buon bere e del ben mangiare?
Questo intendevo, quando dicevo che la consapevolezza toglie il sonno, e solo l’agire secondo
conoscenza lo restituisce, assieme alla percezione di essere speciali, di essere in grado di aver cura.
Aver cura nel senso più ampio e generale del termine, senza oggetto specifico. Non voglio smettere,
però di punzecchiarvi, visto quanto credito mi state dando. Insomma, considero mio dovere questa
cosa. Quindi, ditemi: dove eravate, prima? Cosa facevate, cosa pensavate? Perché, soprattutto, avete
aspettato qualcuno che vi urlasse per iscritto cosa fare?
Fratellini e sorelline, io non sono nulla più di voi, anzi. Quante volte siete passati di fianco ad una
stortura girandovi dall’altra parte? Non inganniamoci. L’ho fatto anch’io, probabilmente lo farò
ancora. Ma oggi mi avete dato una nuova consapevolezza, e voglio condividerla: nessuno è solo.
Nessuno è Don Chisciotte contro i mulini a vento.
Vi siete trovati in “trecento, giovani e forti”, con esiti ben differenti da quelli della famosa poesia:
avete fatto qualcosa di grandioso. Adesso, non fermatevi. Tenete gli occhi aperti! Abbiate il
coraggio di guardare, di incazzarvi come bisce, abbiamo tutti sotto gli occhi millemila ragioni per
farlo.
Non sempre, anzi, quasi mai, troverete qualcuno ad indicarvi le brutture del mondo, qualcuno che
inizi per primo a dire cosa non va. Il caso ha voluto che in questa occasione mi toccasse questo
ruolo. Per caso, puro caso, s’è verificata la contingenza di un Giovanni con qualcosa da dire e con il
modo di farlo. Ma, sarete d’accordo con me: il mondo è zeppo di brutture autoevidenti, sottolineate
dal loro stesso tanfo.
Vi ho chiesto di dare voi stessi, lo avete fatto. Vi chiedo un’altra cosa.
Esplodete. Levatevi la polvere di dosso, dissigillatevi gli occhi, siate attenti. Ho incominciato questa
cosa da solo, con nulla più di un pc e di quello che resta del mio corpo. Guardate che razza di
agitazione ne è uscita. Basta poco, lo avete visto. Correrò il rischio di sembrare pietista, dicendo
queste cose, ma sono convinto che siete, siamo, come tanti otri zeppi di caramelloso succo d’amore
che piano piano se ne va a male. Perché? Perché dobbiamo andare a male? Perché dobbiamo ogni
giorno uccidere un pezzettino della nostra anima che urla indignata? Non è giusto, per noi e per il
mondo. Essere persone, essere cittadini è molto più che stare in un posto per del tempo, molto più
che appartenere alla razza umana. Patetico lirismo? Spero di no. Assumetevi le vostre
responsabilità. Scegliete. Secliete, e non abbiate paura di sembrare fragili o stupidi o patetici a
parlare di otri di amore caramelloso. Ma, non lo dirò mai abbastanza, siate coscienti, siate desti, non
voltatevi mai. Da soli è dura, ma nessuno è solo. No?
Fratello, sorella che non conosco, quello che so per certo è che, come il Gondrano della fattoria
degli animali di Orwell, «lavorerò di più». Farò quello che posso, nella speranza che esplodiate, che
esplodiamo tutti, che un centimetro per uno ci strappiamo di dosso questa cappa grigia che ci hanno
appoggiato addosso, che ci stringiamo sulla testa. Non ti fermare. Indignati. Rompi le palle. Non
solo per gli aplasici o i leucemici o la foresta pluviale o i bambini dell’Africa. Rompi le palle ogni
volta che qualcuno passa davanti ad una stortura e si volta di lato per non vedere, per non odiare la
sua passività. Starai bene, farai la cosa giusta, farai la tua parte per migliorare un po’ di mondo, un
po’ di persone. Sarai umano.
Quando vi indicano la luna, non guardate il dito. Imparate a non aver bisogno di dita che indichino.
Il caso ha voluto il verificarsi di questa situazione. Ecco, ne approfitto per regalarvi, vista la
stagione, un po’ di senso civico. Fatelo vostro, e condividetelo, e sognate sempre altri sogni, oltre ai
vostri. Se non altro, giova alla salute.
Grazie ancora, a tutti voi.
Niente.
Niente. Non avete niente.
Oggi è la vigilia di Natale. Oggi qualche miliardo di persone si prepara a celebrare il farsi uomo di
Dio. Oggi qualche miliardo di persone si prepara a santificare secondo altri e più moderni riti una
festa piuttosto antica.
Aggiungete pure il blabbla sull’apparenza, sul consumismo, sull’inutilità di metà delle cose che
facciamo. Ecco confezionata una lettera standard sul decadimento dei costumi e sulla necessità di
una brusca correzione di rotta, rispetto al barocco sporco e decadente dei nostri giorni luccicanti.
Non è questo, quello che voglio scrivere. Meglio metterlo in chiaro subito, onde evitare di venir
confuso con un telepredicatore barbuto da due soldi e nessuna sostanza, buono solo a ripetere
chiacchiere ed aria fritta in olio minerale. Anche perché, in tutta onestà, non ne ho i numeri.
Preferisco, quando possibile, essere scorbutico, sgraziato, antipatico. Preferisco non scendere a
compromessi di immagine: voglio che quello che ho da dire sia considerato per la sua sostanza, non
per i fronzoli, per i fiocchetti, per il feel e la simpatia. Quindi rincaro, e poi argomento: non avete
niente. Siete galline sgraziate, rese incapaci al volo da una vita servile di compromessi, di rospi da
ingoiare, di sfruttamento, di gabbia. Ho scritto siete?
Chiedo scusa. Siamo. Non sono diverso, in nessun modo.
Ho un solo privilegio: un posto di osservazione speciale, il mio letto d’ospedale, una
consapevolezza acuita dalla malattia, dalla minaccia della morte, uno sguardo reso lucido dal
dolore.
Fratellini e sorelline, vorrei vedere come reagireste voi, al posto mio. Io ho deciso, per quanto
possibile, di fare del mio meglio, come posso. Mi sono messo a scrivere dell’importanza di cose
sottovalutate, di quanto potete fare con i vostri soli corpi, delle vite che potete salvare. Mi sono
stupito e vi ho fatti stupire dei morti per ignoranza, per paura, per pigrizia. Ho detto di lanciare il
vostro salvagente, di non essere avari. Ho scritto, in ultima analisi, di sogni spezzati. Di cura. Di
coscienza, di senso civico ed umano.
Molti di voi, molti più di quanti non credessi o sperassi, hanno colto, non solo precipitandosi in
ospedale, ma scrivendomi, cercando di portarmi conforto, amicizia, calore. A tutti ho risposto, in un
modo o nell’altro, di non mollare. Mi sono coperto le braccia di lividi, per il troppo scrivere. Colpa
anche delle poche piastrine, chiaro, non sono così stupidamente portato al martirio.
Ora è imperativo anche per me non fermarmi. Cosa vuole fare Spit, vi chiederete? Non lo so, non
sono abbastanza saggio, accorto o avveduto per vederlo con chiarezza. Ho delle idee, delle
intuizioni. Una è la percezione della nostra gabbia. L’altra è che sarei un pazzo, e dovrei sentirmi
colpevole, se non spingessi ulteriormente sulle nostre piccole coscienze sovreccitate, agitate e
riscaldate come gli atomi di un gas da questa contingenza particolare.
Poi, c’è da dire, vi sono anche ben grato per tutta questa magnifica bagarre, e da che ho memoria
non ho mai avuto beni più preziosi delle mie poche parole, delle idee da cui esse nascono, per
ricambiare i favori ricevuti. Quindi, il massimo che posso fare, ora, è scrivere di gabbie. Del modo
in cui siamo tutti stati educati ad evitare il dolore, in ogni sua forma. Di come siamo tutti bravi a
rimuovere, a non vedere, a girarci.
Ecco perché non avete, non abbiamo, niente. Ecco la nostra schifosissima e molto deprecabile
deprivazione, il nostro colpevole isolamento. Non abbiamo niente perché non abbiamo noi stessi,
perché non abbiamo le altre persone. Non nel senso bruto del possesso materiale, si intende: nel
senso che siamo tremendamente soli, che restiamo soli per paura di essere feriti, di accogliere un
possibile dolore nella nostra vita.
Così i bambini smettono di piangere, per non sembrare deboli, così gli adulti diventano cinici,
freddi. Pensate a quanto formali siete quando chiedete a un semisconosciuto come stia.
Pensate al modo automatico in cui rispondete ad una domanda del genere: Bene, grazie, senza
nemmeno pensarci. E questo è il modo in cui vi ammazzate tra voi, membri di una stessa comunità,
concittadini. Ben sapete come prosegua questa strada nei confronti di qualcuno più “altro” del
vicino di casa.
Voglio regalarvi questo, per il vostro Natale: un po’ di me, un po’ dei miei occhi, per vedervi da
fuori, per essere oggettivi quanto un malato.
Voglio sperare, voglio credere che serva.
Voglio pensarvi, da oggi, più attenti, come siete stati più attenti dopo aver udito della malattia, del
sangue, del midollo. Più accoglienti. Più aperti. Più persone, meno bestie in gabbia.
Non so come, non so quando, ma sono convinto che tutto questo servirà a qualcosa.
Siate persone, vi prego.
Giovani!
Ciao, ragazzi. Oggi voglio scrivere a voi.
Voi che come me vi affacciate al mondo, voi che finite le scuole superiori, o che lavorate, o che
studiate all’università, o che sperate di poter lavorare.
Voi, di cui ogni giorno si parla in maniera piuttosto indecorosa, più o meno responsabili di questo.
Ci sono autorevoli studi di personalità importanti sul nichilismo, nel senso più negativo, delle nostre
generazioni, sulla nostra mancanza di valori, sulla nostra, per usare un tecnicismo da accademia,
anomia. Viene dal greco a-nomos, vuol dire non sapersi dare una direzione, non vedere uno scopo,
una direzione nella propria vita, e nemmeno muoversi troppo alla sua ricerca.
Poi, per rincarare la dose, ci danno dei bamboccioni, dei mai cresciuti, degli eterni adolescenti, degli
smidollati e degli incapaci. Ecco, questo è quanto intendevo con “in maniera piuttosto indecorosa”.
Siamo quelli della vita virtuale, degli sballi, della morale liquida.
Guardo, in questo momento, le foto che ho appeso al vetro opaco della mia stanza d’ospedale:
vengono dai quotidiani dei giorni scorsi, ci sono delle persone che sorridono. Un sacco di persone.
Un sacco di persone che non conosco nemmeno, e che di me non hanno saputo altro se non che
sono malato, come migliaia di altre persone. Che avrebbero potuto fare qualcosa.
Non sono mai stato tenero, men che meno nei confronti dei miei concittadini: ho sempre pensato,
anch’io, che la nostra generazione non rifulgesse affatto per i suoi alti valori, la sua capacità di
impegno, il suo senso civico, la sua morale elevata, ma per la sua “contaminazione da lustrini e
scintillii”, per così dire. Ecco.
Sono ben lieto di constatare la mia parzialità. Ho visto, per quanto dall’ospedale ed in maniera
mediata, un segno. Niente blabbla profetici, non vi preoccupate, non sono il tipo.
Un segno di coscienza, un guizzo, il muoversi repentino di un’acqua altrimenti scura, agitata da
qualcosa di molto vivo al suo interno. I giovani delle discoteche, dei social network, dei trent’anni
ancora a casa dei genitori si sono mossi senza chiedere troppe spiegazioni, semplicemente
accogliendo la chiamata di un altro essere umano, per altri esseri umani.
Questo è importante. Questa è la grandezza del guizzo: non conosco la stragrande maggioranza
delle persone che mi scrivono, che scrivono di me, che sono andate a tipizzare il loro midollo osseo,
e loro non conoscono me.
L’altro giorno qualcuno che non ha ben capito il senso delle cose scriveva mettendo in dubbio la
mia stessa condizione di ammalato. Ora, io, oltre a perplimermi e grattarmi la barba a caccia del
senso della cosa, che mi rimane non chiaro, dico: paradossalmente, anche se fosse?
Anche se io non fossi una persona, se non esistessi, se non come parole su carta (ed in effetti per la
maggior parte di voi che mi leggete, è così: non sapete che faccia abbia, non abbiamo mai bevuto
una birra assieme, non ci siamo mai stretti la mano), cosa cambierebbe, di quello che sta
succedendo, di quello che stiamo facendo? Nulla. Moltissime persone si starebbero muovendo per
dare loro stesse ad un altro sconosciuto, solo in virtù del suo essere altro. Ricordatevi sempre
questo, per favore. Vorrei invitarvi a capirne l’importanza, a scrivervelo addosso, a stamparvelo nel
cuore, a riscoprirlo come senso ultimo delle cose.
Ciò che ci rende persone è riconoscere le altre persone, e trattarle da persone. Come noi stessi. La
vecchia regola aurea della morale, fai agli altri quello che vuoi sia fatto a te, più volte messa in
discussione (celebre l’esempio del sadico e del masochista), ma sempre riconfermata dal più intimo
ed umano istinto alla vita, all’autoconservazione. Credo che abbiate sentito il pulsare incessante di
questo, nei giorni passati.
Credo, spero, che continuate a sentirlo. Continuate, vi prego e vi esorto. Questo è il nostro biglietto
per il futuro. Di noi in quanto persone, di noi in quanto comunità, di noi in quanto specie. Possiamo,
noi tutti, assieme, rendere veramente il mondo un po’ migliore di come lo abbiamo trovato.
Pensate: già ora, qualcuno da qualche parte nel mondo potrebbe aver trovato il suo uomo-medicina
grazie al vostro alzarvi presto, una domenica prenatalizia, per andare all’ospedale invece che al bar
o a fare shopping. Questo è già concreto. È già un fatto. È già lasciare il mondo un po’ meglio di
come lo abbiamo trovato.
Sono fiero, sono dannatamente orgoglioso di appartenere a questo. Sono orgoglioso di poter
chiamare fratelli e sorelle tutti voi, sono così elettrizzato da quanto i “giovani anomici e sbandati”
possono fare.
Adesso, ragazzi, ragazze, come dico spesso: mai fermarsi. Per noi malati, per voi che non lo siete,
per tutte le persone in quanto persone. Siate consapevoli, siate attenti. Amate l’uomo, senza riserve,
paure, timori.
Quelli sono per la generazione che ci ha preceduti.
Buona vita.
Reti
Reti. Se ne fa un gran parlare, di questi tempi. Ho ritenuto opportuno dire la mia, sulla faccenda.
Non che abbia titoli particolari, per farlo, ma non mi sono mai posto questo genere di problemi. Non
è il mio stile, e se qualcuno dovesse sentirsi disturbato da questo, non è un mio problema. Credo.
La faccenda, a dire il vero, non è nemmeno troppo complessa, ma a volte rendere la verità meno
evidente di quanto non sia risulta comodo, per le ragioni più disparate, alle persone più disparate.
Procediamo in maniera logica.
Passo primo, definire il problema.
Nella cronaca recente il web e nello specifico le reti sociali, quali facebook o twitter, hanno sempre
o quasi un ruolo di primo piano, di predominio.
Se ne parla per le vicende relative a Massimo Tartaglia ed al suo piccolo duomo sul muso del
piccolo uomo, a Susanna Maiolo, che invece a quanto pare voleva solo allenarsi al wrestling con il
santo padre, alla spirale di violenza digradante verso la guerra civile in Iran.
Nei primi due casi, la rete (nella fattispecie i vari gruppi apologetici di cui si è popolato Facebook,
tipo “Massimo, la prossima volta mira meglio” o “Susanna sei tutti noi”) viene bollata
semplicemente come strumento per esprimere odio (io dico stupidità).
Nel terzo caso, ci si riferisce alla stessa come ad un mezzo, il solo mezzo libero per far uscire fatti
da un paese sempre più sotto la coltre dell’oscurantismo, sempre più piegato e piagato da un potere
forte, per sua natura antilibertario.
Nel mio caso, invece, sicuramente di minor importanza, ma a me molto più noto, la rete è stata il
modo di muovere un sacco di persone a prendere coscienza di quanto succeda, a me, a mille altri, a
voi. Scrivo, infatti, da un letto di ospedale.
Sono ricoverato per una malattia del midollo osseo, in attesa, o meglio, nella speranza di un
trapianto, di un donatore compatibile. Consapevole delle scarse possibilità, quantificate in una a
centomila, ho trovato che il miglior modo di piegare il destino mio e dei miei colleghi di sventura
fosse aumentare il numero di potenziali donatori.
Ecco, quindi, cosa esce in quattro casi differenti dalla stessa rete: degli stupidi, degli stupidi esaltati,
dei segnali di aiuto, richieste impellenti di pace e libertà, dei moti imponenti di solidarietà popolare.
Credo, se possibile, di aver inquadrato in maniera adeguatamente precisa il problema. E, come ho
già detto, ripeto: la rete è uno strumento. La nostra intera civiltà si compone di strumenti, di
artefatti, di cose-fuori-di-noi che sono diventate nostre propaggini nel mondo.
Parlo degli occhiali che mi permettono di leggere quello che scrivo, parlo dei miei vestiti, parlo
delle pompe a cui di tanto in tanto trovo interfacciato il mio apparato circolatorio, parlo del telefono
con cui sento le voci di amici e familiari, parlo della rete, che mi consente di far volare fuori da
questa stanza pensieri che altrimenti sarebbero solo di un ricoverato.
Senza questi strumenti, saremmo come paguri in una spiaggia priva di conchiglie da occupare:
molli ed indifesi, sicuramente incapaci di tante delle meraviglie della nostra civiltà.
Ora, un altro po’ di fatti. Tutti i giorni, nelle nostre cucine, nelle mense, nei ristoranti, nei negozi,
vediamo decine e decine di coltelli. Strumenti che utilizziamo per mangiare, per cucinare, per
manipolare il cibo. Tutti i giorni, nel mondo, qualcuno viene ucciso a coltellate. Strumenti. Cose. In
loro, nessun bene, nessun male. Amplificatori dell’agire umano, per così dire, nulla di più.
Io mi chiedo: è lecito chiudere la piazza del mercato perché la gente, oltre a comprarci pane, latte e
verdura, quando ci si incontra parla male dell’amministrazione, colpevole di non aver salato
abbastanza le strade (e d'inverno non è una buona idea, risparmiare così), oggi piene di ghiaccio?
Credo che la risposta sia, come dire, autoevidente. Uscendo dalle metafore: quanto giusto è pensare
di limitare la portata di uno strumento che ha permesso a un ricoverato di saturare di appuntamenti
per la donazione di sangue e midollo osseo un ospedale per un mese di tempo?
Sono cose che, francamente, penserei attuabili da un regime totalitario oscurantista, sicuramente
non nella civilissima Italia. Di nuovo commettiamo l’errore antico di chi ha vietato l’alcol per
vietare l’ebbrezza, di chi ha vietato la parola per vietare il pensiero, di chi ha vietato il movimento
per vietare la libertà.
Ma stavolta le cose sono differenti: siamo più consapevoli, più attenti, meno disposti a farci
incatenare, azzittire, fermare.
Soprattutto, più collegati: più veloci ad esprimere il nostro pensiero, a confrontarlo, a recepire e a
capire quello degli altri. Non solo, ma anche più disposti a metterci in gioco, per gli altri in quanto
altri. Lo affermo con forza: me lo hanno dimostrato tutte le persone che, senza sapere nulla di me o
di tutti gli altri esseri umani bisognosi di sangue, midollo osseo, emoderivati, hanno affollato ed
affollano un ospedale, in risposta ad un appello uscito dalla rete. Questo è, credo, il senso autentico
di parole antiche come comunità, cittadinanza, società. Quanto vorrei che permanesse, che venisse
espanso, che sempre più fosse questa la direzione di utilizzo delle nostre nuove reti. E c’è solo un
modo: non reprimere, non chiudere, non legare. Viceversa, aprire. Liberare. Educare all’uso critico
e consapevole. Tutto qui.
Fantasie?
Ho parlato, ieri sera, con una persona molto, molto speciale. Si chiama Giuliano, e prima di me ha
occupato questo medesimo letto. Ha faticato, ha sputato sangue, ma nonostante le difficoltà e le
avversità non ha mai mollato.
Oggi è venuto anche a trovarmi di persona, durante l’ora di visite. Non so se le parole riescono a
spiegarlo, ma qui, per noi, vedere qualcuno che ha affrontato e vinto la malattia conta un sacco, ha
un effetto balsamico. È come trovarsi di fronte alla dimostrazione pratica, molto più tangibile di
mille parole, che ce la si può fare, a patto di non arrendersi. Come dico sempre, il miglior modo di
rendere possibile il fallimento è il considerarlo come possibilità reale.
Abbiamo parlato di molte cose, io e Giuliano: del cibo, delle persone favolose che lavorano qui,
delle terapie e della loro durezza, di trapianto e di donazione. Ed ho capito una cosa: c’è un punto
della faccenda su cui forse non ho insistito abbastanza, su cui forse non sono stato abbastanza
chiaro, un punto che definire capitale sarebbe ancora troppo poco.
Vi racconterò una storia. Non ha importanza se sia vera o falsa, quello che conta è che è verosimile
e che potrebbe essere accaduta, oppure potrebbe accadere. Quello che conta non sono tanto i fatti
nella loro sostanza, quanto il contenuto che veicolano.
C’era una volta, in un paesello lontano lontano, una bambina ammalata di, potremmo dire, aplasia
midollare idiopatica, oppure leucemia mieloide acuta, oppure talassemia. Non è così importante.
Pensate alla disgrazia, al dolore della malattia, alla sofferenza toccata ad una creaturina così
immeritevole di tanto, così inesperta delle cose e della vita, così troppo troppo giovane. Pensate
anche, però, che nella tragedia insensata, aveva avuto un bagliore di luce: un donatore compatibile.
Quale gioia, quale felicità! I suoi genitori non stavano nella pelle, e non perdevano giorno per
tessere le lodi delle persone di buona volontà che decidono di dare un pezzo di sé agli altri, di
riaccendere ed alimentare le vite quasi spezzate delle persone che hanno bisogno di un trapianto di
midollo per vivere.
Anche la bambina, per quanto troppo, troppo piccola per capire bene cosa stesse succedendo, era
contagiata dall’atmosfera di gaudio e speranza: il papà e il dottore le avevano detto che aveva un
angelo custode, e che questo angelo le avrebbe presto salvato la vita, e sarebbe potuta uscire
dall’ospedale, tornare a scuola, giocare con gli amici.
«No, mi dispiace. Non me la sento.» La signora scuote la testa, ripone la bella stilografica nella
borsetta, spinge indietro il foglio, che senza sforzo scivola sulla breve scrivania di fòrmica bianca.
«Signora, si rende conto, vero?» domanda l’infermiere, nel vedersi riconsegnare il foglio, privo
della firma.
«Certo, ragazzo, mi rendo conto. Cosa vuoi che ti dica? Avevo fatto la tipizzazione un paio di anni
fa, c’era un ragazzo che scriveva così tanto, sui giornali, su internet. L’avevo fatto per salvare lui,
ma lui ha trovato un altro donatore, adesso sta bene. Sulle carte c’era scritto che se avessi voluto
avrei potuto rifiutare.» La signora inizia a raccogliere le sue cose: i guanti, il cappello, un paio di
occhiali da sole. Fuori dall’ospedale fa freddo, ma c’è un sole aguzzo che par di stare a tremila
metri, senza nuvole, senza foschie.
«Questo è vero, signora. È un suo diritto, sancito dalla legge. Io le chiedo solo di considerare tutte le
implicazioni. E non solo per l’ipotetico ricevente.» L’infermiere le appoggia una mano sul braccio,
nel dire questo. Un trucco che gli ha insegnato un amico: stabilire un contatto fisico a volte può
aiutare, in queste cose, può servire. La signora si ritrae.
«Mi dispiace, ragazzo. Mi spiace sul serio, non ce la faccio, non voglio. Adesso scusa, ho un
appuntamento, faccio tardi.» La signora si alza, controlla velocemente di avere tutte le sue cose, si
volta. L’infermiere ha le braccia lunghe distese, come quando si dice che ci sono cadute le braccia.
No, mi dispiace, Caterina. L’angelo custode non c’è più. Si erano sbagliati. Eh, cosa vuoi farci, si
vede che aveva letto male l’indirizzo, sarà arrivato per qualche altro bambino. Vedrai che arriverà
anche il tuo, non ti preoccupare.
No, mi dispiace, signore. Non siamo qui per una contravvenzione. Cattive notizie, signore. Sua
moglie è in coma. Avvelenamento da farmaci. L’hanno trovata in tempo, per fortuna. Credo debba
ringraziare il suo angelo custode.
No, mi dispiace. Capiamo sempre, capiamo sul serio le implicazioni profonde, quando neghiamo
qualcosa? Capiamo sempre il senso delle cose che facciamo, il suo effetto sul mondo, sugli altri, su
noi stessi? L’ho detto, lo voglio ripetere: siate consapevoli. Siate attenti. Abbiate cura. Pensate
molto. Pensate pensate pensate.
Sono incazzato.
Sono incazzato. Sono incazzato nero. Avete presente incazzato come una scimmia? Tipo quella che
oggi, a Genova, è stata “importata illegalmente”, o “liberata”, o che altro, a seconda dei punti di
vista e delle versioni. Sono sicuro, mi si perdoni il francesismo, che quella scimmia voleva farsi
solo un sacco di cazzacci suoi.
Piuttosto evidente, visto il suo palese rifiuto delle imposizioni dell’autorità portuale. Peccato che
abbia trovato un gabinetto chimico e non un albero su cui arrampicarsi, per esprimere il suo
dissenso. Mi avrebbe ricordato di più il barone rampante di Calvino ed il suo particolarissimo tipo
di sciopero.
La verità è che nessuno ha chiesto la sua opinione, a quella scimmia.
Credo sia questo, a farla incazzare. Una motivazione forte. La mia invece è differente, molto, ma
ugualmente grossa. Mi spiego. Da ogni parte mi sento dire: sono dispiaciuto. Spero starai bene. Ti
salverai. Soprattutto, mi sento dire: non sai quanto mi senta impotente. Parliamoci chiaro, adesso.
Come non perdo occasione di ripetere, io non sono una persona speciale, in nessuna maniera, in
nessun campo. Sono un perfetto signor chiunque. Sono un perfetto signor chiunque che da qualche
tempo non può nemmeno muoversi, girare, disporre del suo corpo, delle sue energie, della sua
libertà. Sono un signor chiunque isolato in una stanza di ospedale. Ora, un po’ di numeri: il 20
dicembre, secondo il Giornale di Vicenza, si sono presentate in ospedale 260 persone per farsi
tipizzare. Domenica. Freddo. Le cose non si sono fermate, e il centro trasfusionale è saturo fino al
27 gennaio, a quanto so. Magari ci sono dati più aggiornati.
Impotenza è una parola che serve per darsi delle scuse. L’ho già scritto, lo ripeto: l’inazione, la
pigrizia, è colpevole quanto la colpa. E bada, fratello uomo, non sto parlando solo di midollo, di
sangue, di noi poveri malati che aspettiamo che tu ti renda conto che mentre uno di noi moriva eri
troppo preso dalla macchina che non va, dal calcio, dalle piccole miserie che la vita ha in serbo ogni
giorno per ognuno di noi. Questo sarebbe un discorso meschino, piccolo ed egoista. Dico, fratello
uomo, che ci sei in mezzo. Ci sguazzi senza renderti nemmeno conto, nella sofferenza. Nel male.
Come fai a sentirti inabile? Come fai a sentirti impotente? Ma porco giuda. Hai un corpo che
funziona, hai la libertà di muoverti e tanti anni davanti. Già qui mi batti, e quindi puoi fare meglio e
più di me. Perché non ne prendi atto? Cosa ti frena? Hai davvero così tanta paura di guardare il
dolore negli occhi? Perché è quello il solo modo per affrontarlo, per vincerlo.
Devi alzare gli occhi. Devi guardare dritto in faccia il povero cristo che viene a venderti gli
accendini del cazzo, e chiederti: lo farebbe, se potesse farne a meno? Devi capire la sua
umiliazione, la sua invidia, la sua storia. Devi aprire gli occhi sul suo dolore.
Invece no, fratello uomo. Chiudi. Preferisci non sapere, perché ne soffriresti. E allora, non parliamo
della malattia, non parliamo della vecchiaia, non parliamo della morte, non parliamo della
solitudine, non parliamo dello straniamento, non parliamo del male.
Facciamoci tutti una bella pera di buoni sentimenti del cazzo, facciamoci le foto da giovani e
guardiamole per tutta la vita, illudendoci di essere come Dorian Gray, ma al contrario e più scemi,
facciamoci tanti complimenti e compiaciamoci, e soprattutto non guardiamo mai la merda che s’è
accumulata sotto il tappeto.
Come fai, fratello uomo, ad ammazzare così la tua anima, la tua natura stessa? Non lo so, non ti
capisco. Ma sappi: non ti invidio. Stai meglio di me, non hai guai, non ti senti lacerare dentro dalla
consapevolezza, i tuoi problemi sono sempre piccoli e transitori, hai un sacco di amici come te, che
ti sorridono e ti vogliono bene e vengono a pranzo la domenica portando il vino quello buono.
Ma non ti invidio. Non baratterei il mio dolore con tutte le tue domeniche in famiglia, con tutto il
tuo garage pieno di attrezzi per il bricolage, con le tue gite in bicicletta. Beh, forse si, a dire il vero,
perché lo star bene è bello e comodo, e coccola.
Però annega. Io, fratello uomo, io che ho le braccia coperte di lividi per il solo scrivere, io che
rischio di svenire alzandomi dal letto, io sono molto molto più fortunato di te. La mia anima, la mia
umanità è ancora in perfetta salute. Puoi dire altrettanto?
Sentiti in colpa, fratello uomo. Sentiti in colpa come il più viscido degli assassini per tutto quello
che potresti fare e che non fai. Senti la tua umanità che se ne scappa, giorno per giorno, sentila
andare via urlando con voce sempre più fioca.
Poi, però, non fermarti a questo, non andare in depressione, non entrare in un gruppo di terapia
collettiva all’americana: la sola terapia, adesso, per te, è fare. Fai. Non importa per chi, per cosa.
Fai. Guarda dove servi, dove puoi fare la differenza, e prendi la tua impotenza a calci nel culo.
Ahug, ho detto.
Cattivi propositi
Dico sempre che il mio capodanno è ad ottobre. Mento. Ottobre mi fa solo impressione, perché è
una stagione di cambiamento. Mi scappa il sole, in ottobre, mi scappa Proserpina. Ottobre è solo un
momento in cui sento il cambiare di un ciclo, con tutta l’inquietudine che questo comporta per uno
abituato a vivere in maniera dura, intensa, partecipata, la relazione con il mondo naturale.
Mi fa male, pensarci, qui in ospedale. Mi mancano i miei sassi, mi mancano talmente forte che mi
viene da piangere a pensarci, e poi mi toccherà rileggere tutto per eliminare gli errori di battitura
causati dalla vista opaca di lacrime. Beh, che cazzo. Non venite a raccontarmi che non vi siete mai
messi a piangere per qualcosa del genere. E non azzardatevi a pensare che i sassi siano una cosa
stupida per cui mettersi a piangere, non lo sono.
Oggi ragionavo di dolori, di “hit parade del dolore”. Cosa fareste se vi chiedessi di dirmi quanto
lungo è il vostro indice? Mi rispondereste “lungo”, o “corto”, oppure cerchereste un oggetto di
riferimento comune (un evidenziatore, un pacchetto di sigarette), oppure prendereste il righello, e
mi direste che il vostro indice è lungo, che so, dodici centimetri.
Il fatto è che il vostro indice, di per sé, è solo un indice. Dire quanto sia lungo o corto richiede di
metterlo in relazione con qualcos’altro: la vostra esperienza di oggetti lunghi o corti, oppure delle
cose con cui confrontarlo direttamente.
Il dolore, come il vostro indice, come ogni altra cosa, di per sé è e basta. Ci servono delle pietre di
paragone, per definire le cose. Tutte le cose, anche noi stessi. Avete mai capito veramente il
significato di essere bianchi fino a che non avete visto un nero?
In questo momento indosso una maglietta che ho avuto qualche anno fa, ad un campo di lavoro di
Libera, presso una cooperativa agricola sorta su terreni sequestrati alla ‘ndrangheta a Polistena.
Quell’estate, a Polistena, ho capito per la prima volta quanto valesse avere delle gambe che
funzionano. L’ho capito piangendo da solo nel pieno sole di un campo dove picconavo radici di
rovo.
Guardavo un ragazzo disabile che faceva il mio stesso lavoro. Pensavo ad un’amica conosciuta da
poco, e piangevo da solo nel sole, circondato da polvere acre e sottile, e sentivo tutto il peso delle
mie gambe che funzionavano bene. È stato un regalo, quello che mi hanno fatto quelle persone? È
stato un bene, quello sprazzo, quell’improvviso sprazzo di consapevolezza?
Dio, quanto sono stato male. Quanto mi sono incazzato. Perché, mi sono chiesto? Perché loro non
possono correre come me? Lei dice, meglio a me che ai miei fratelli. Lui, invece, dice che vuole
fare di più, perché crede nel nostro lavoro, ci tiene, ma purtroppo non può fare di meglio.
Questo lungo preambolo per farvi capire il mio attuale stato d’animo, e il tipo di “essere
consapevole”, presente a me stesso, nel pormi degli obiettivi per il nuovo anno. Che inizia domani,
non ad ottobre.
CATTIVI PROPOSITI DI SPIT
Persona che mi leggi, intanto: ti sarai resa conto che non sono un bravo ragazzo, nemmeno un po’.
Sono piuttosto un rompiscatole, un tafano, un personaggio sgradevole, nell’aspetto e nelle maniere,
sempre pronto all’insulto, alla mancanza di rispetto, alla ruvidezza.
Persona che mi leggi, capirai quindi che i miei propositi non saranno, non potranno essere buoni,
perché io per primo sono tutt’altro.
Il mio primo proposito per l’anno che viene, sai, è portarti il sapore della ciclosporina. Farti sentire
il puzzo di farmaci che trasuda dalla pelle, farti schifare ed infastidire per questo odore
pestilenziale.
Il secondo cattivo proposito di Spit è convincerti che morirai, che moriranno i tuoi figli, che
moriranno i tuoi genitori, il tuo ragazzo, la tua fidanzata. Tutti quelli che contano per te moriranno.
Il terzo, dei cattivi propositi di Spit, è farti sentire che a nessuno frega niente di tutto questo. Anzi,
di più: che non se ne accorgerà nessuno.
Il quarto, è farti sentire inutile ed abbandonato.
Il quinto, aprirti gli occhi a forza, e farti vedere che tutte queste cose che per ora voglio solo farti
sentire, succedono sul serio. Pensa, che razza di bastardo.
La mia sesta nequizia del duemiladieci è invece farti sentire la colpa, prenderti a randellate la
coscienza fintanto che non ti sanguina, a colpi di consapevolezza.
La settima cattiveria per l’anno nuovo invece è convincerti che non stai facendo abbastanza, che la
tua carità non serve. Che non ti stai sacrificando. Che la tua passività è al pari di una colpa attiva.
L’ottava perfidia dell’anno sarà mostrarti che se vuoi, puoi, e convincerti di questo tuo potere.
La nona, fratello, sarà amarti e piangere con te, e farti soffrire, e soffrire con te, e indignarmi con te,
e tenerti la mano, e farmi tenere la mano quando sarò troppo malridotto per farcela da solo, e
ringraziarti, ed essere la tua pietra di paragone.
La decima delle mie perfidie, la maggiore, è darti spazio. Scrivimi, qui sotto, persona, i tuoi cattivi
propositi per l’anno che viene. Scrivili, nero su bianco, non importa se non è capodanno, se non
sono ben composti, acuti, precisi, se pensi che non si debba scrivere sui libri. Non è fondamentale.
Quello che conta è che li scrivi, perché tu possa guardarti, in essi, guardare da fuori un pezzo di te,
capirlo, valutarlo, pesarlo. Magari, essere anche tu pietra di paragone. Puoi? Ma si che puoi. Mi hai
letto fino a qui, sicuramente sei paziente, oppure hai dei non indifferenti attributi.
Ora, ragazzo, ragazza, faccia a faccia con qualcuno peggiore di me. Meno indulgente. Tu. Non
scappare, eh. Non andresti lontano.
Tanti spocchiosi auguri.
Avrei voluto essere loro
Una volta scrivevo poesie. Lo faccio ancora, ogni tanto, ma è diventato una specie di esercizio di
stile, ormai. Con mio grandissimo rammarico.
Avete mai provato, a scrivere una poesia? È una cosa solo per gli adolescenti, se è vera. È
complicato anche scrivere di poesia. Ci voglio provare: uno non può mica andare avanti a scrivere
cattiverie anche quando è la prima notte dell’anno e si sente solo e triste e freddo. Diciamocela: mi
piacerebbe iniziare il duemiladieci con un po’ di bellezza, ed ora non ci sono grandi bellezze che mi
possa permettere. Si impara ad arrangiarsi, si fa quello che si può.
«Dai, fammi leggere. Sii gentile!»
«No, stellina, non è ancora pronta. Lo sai che sono un perfezionista, su certe cose. E non farmi il
solletico, che mi sconcentri!»
Che belli, che sono. Scalzi, scarruffati come cani giovani, le magliette fuori dai pantaloni e qualche
filo d’erba qua e la. E lei che gli carezza il collo, mentre lui con quel fare così ingenuo, eppure
professionale e delicato aggiunge sillabe a matita sul taccuino rosso.
«Posso almeno sapere il titolo?»
Solleva il capo. La guarda fisso, spostando la frangia. Lei si è seduta a gambe incrociate, lo carezza.
Pensa.
«Taleggio fumante.»
Ride. Ridono. La collina suona, il cielo suona. Tutto suona, con le loro risate.
«Mi stai prendendo in giro… Tu non mi prendi mai sul serio.»
«Già, e sai perché? Perché sono cattivissimo.»
Lancia da parte il taccuino, ripone sull’orecchio la matita. Si solleva, si mette a sedere, le carezza il
naso con l’indice. Pensa che lei abbia il più bel naso all’insù dell’intero universo.
«Scrivevo del prato. Scrivevo dell’odore di questa erba. Scrivevo del cielo, e delle nuvole, e di tutte
le cose. Troppo, per darci un titolo.»
Lei lo guarda, tra il perplesso e l’intenerito, quasi come una mamma che controlla i passi incerti di
un figlio piccolo.
«Ma… Non credi siano troppe cose, per una poesia? Insomma, forse dovresti essere più specifico,
scegliere una cosa e scrivere di quella…»
Sorride, gli sfila la matita dall’orecchio, per indispettirlo.
«Non lo so. Forse hai ragione. È che, quando scrivo, non riesco a filtrare le cose. È come se mi
entrasse dentro il mondo, e io lo facessi uscire per come mi viene. Non è una cosa razionale, credo.
Non la controllo come controllo la prosa. È lei che viene, è darsi delle cose per quello che sono,
attraverso la mia matita. È come se…»
Lei lo bacia. È un bacio delicato, come sono delicati loro, giovani giunchi che ondeggiano sulla
collina al ritmo del vento. La collina canta, il cielo canta. Tutto canta, con i loro baci.
«Sei forte, lo sai? Quando ti metti a parlare di poesia hai questa faccia tutta presa, intensa, come se
fosse la cosa più importante. Ti guarderei per delle ore.»
Lui la fissa. Deglutisce.
«…è come se facessi un foto delle cose o dei pensieri attraverso i miei occhi. È magma, è mondo
vivo.»
Recupera il taccuino. Le sorride, ha l’aria imbarazzata. Lei ascolta. Piega leggermente la testa da un
lato, accenna un mezzo sorriso. Aspetta. Lui apre il taccuino, ma fissa invece quel sopracciglio un
po’ storto, che le dà sempre un’aria adorabilmente pensierosa ed assorta.
«…l’acuta perfezione
di curva carezzevole e diletta:
donna, a poetar mi è sprone.»
Grande.
Dio, quanto li amo.
Fiori
Ogni tanto mi capita di ripetermi. Spesso, in verità. Dipende dal fatto che ho una pessima memoria,
e che spesso dimentico di aver detto qualcosa, oppure non ricordo più di averlo detto a qualcuno.
Poi, quando si tratta di ragionamenti particolarmente arguti, buone barzellette, grandi notizie, tutti i
miei conoscenti sanno che per un discreto lasso di tempo inizierò ogni conversazione con un “…
Ah! Ti ho detto che… ?” Si, me lo avevi detto, Spit.
Oh. Divagavo. Volevo scrivere di due cose, oggi, piuttosto diverse tra di loro. Sto per lanciare un
dado, per decidermi. Vecchie abitudini dure a morire.
Accarezzo la superficie disinfettata di un vaso di vetro, uno di quei vasetti da marmellata, che si
lavano e si riutilizzano per anni. L’ho capovolto. Assomiglia un po’ a quelle pallette con un
paesaggio e la neve finta, che turbina e cade quando le scuoti. Villaggio di natale con la neve finta.
Tour Eiffel con la neve finta. Foto della tua fidanzata con la neve finta.
Ci assomiglia, ma ha qualcosa di drammaticamente differente, il piccolo vetro che accarezzo.
C’è la mia vita, dentro. Ci sono dei fiori di calicanto, senza neve. È una sensazione piuttosto strana,
sapete. Il fatto è che, se il tuo sistema immunitario è in ferie, ogni cosa che non sia disinfettata è una
potenziale bomba.
Per le persone ci sono i guanti, le mascherine, i gel, millanta trappole, più un rigido insieme di
procedure su cosa fare, cosa non fare. Spiegalo tu, a un fiore, che deve lavarsi le mani con l’esosan
gel.
Un pensiero della mia famiglia. L’anno scorso ero io che portavo il calicanto a casa, in questa
stagione, rubandone ai giardini più forniti e sporgenti. Adoro il suo profumo. Poi, pensateci, quale
altra pianta ha abbastanza palle per mettere fuori i fiori in questa stagione? Non sono cose per tutti,
decisamente. Non lo posso annusare, ma posso guardarlo.
Avete mai provato a passare anche solo un minuto a fissare un singolo fiore? Io non lo avevo mai
fatto. Ora, mi rendo conto quanto ognuno di essi sia unico, tanto che chiamarli tutti fiori mi sembra
profondamente ingiusto, meriterebbero davvero una differente considerazione.
Questo è il tenore dei miei pensieri, oggi: la vita, qui in ospedale, è talmente rarefatta che ogni cosa
assume un peso del tutto speciale. È come quella storia degli infiniti: i numeri, si sa, sono infiniti.
Ma anche tra zero e uno ci sono infiniti numeri. Ecco, qui si impara piuttosto bene a guardare tra
zero e uno. Il tempo di farlo sicuramente non manca.
Guardo il mio barattolo, lo giro. Diamine, quanto vorrei aprirlo, sentire per un solo secondo il
profumo di questi fiori. Non posso. Avete presente il vaso di pandora?
La mattina, in genere, mi sveglio alle sei. Poi non riesco più a prendere sonno: mi vesto, metto la
mascherina, esco in corridoio. Cammino un po’, avanti e indietro, solo. Ancora le luci sono spente,
tranne quella che illumina l'immancabile madonnina, in fondo al corridoio. Penso, penso un sacco,
ragiono sulle lettere che devo scrivere, sulle persone che posso chiamare, su cosa posso fare, su
come combattere ancora.
Stamattina, invece, sognavo. Era una sera fresca, in giugno. Stavo seduto in fondo ad un piccolo
molo di pietra bianca. Avevo i pantaloni arrotolati al ginocchio, i piedi immersi nell’acqua ancora
fredda. Di fronte a me, solo il mare, nella sua abissale e cristallina vastità. La sentivo, quella sera,
senza capirla o specularci. La sentivo sulla pelle. Guardavo il farsi scuro del cielo al tramonto, e un
filo di vento mi scompigliava i capelli, portando lontano l’odore fresco di sale e di porto. È stato un
sogno molto semplice, una singola immagine, senza parole, senza azioni. Quasi una diapositiva di
sensazioni, immagini, profumi. Non mi sarei più svegliato. Sarei rimasto l’eternità, su quel molo.
Questo, l’infinito tra uno e zero, che bisogna imparare a vedere qui dentro. Sarò ripetitivo, banale,
noioso, scontato: non perdete tempo. Riconoscete il valore delle cose. Vivete, soprattutto, senza
paura. Senza nevrosi, senza sclerosi. Siate liquidi, siate come il vento quando gioca tra i larici
ingialliti d’autunno, siate come il guizzo di fiamma delle betulle tra i faggi grigi e marroni. Potreste
non avere tempo, domani.
Non abbiate paura. Vi prego, non abbiate paura della vita. Non lo ripeterò mai abbastanza, fin
quando non vedrò le persone ballare sotto la pioggia e non rimandare gli appuntamenti e mangiare
troppo cioccolato e ridere del nulla e piangere davanti alla bellezza perfetta del suono di un piano
distante, che qualcuno suona senza troppa maestria.
Guardo di nuovo il mio vasettino, i miei fiori di calicanto. È tutto al contrario.
Ci sono io, sottovetro. Il mondo mi è concesso solo in monoporzioni sterili. Spit, con la neve finta.
Se sette mici rossi trovano casa
Cara amica dai pugni di scimmia, voglio parlarti di eroi. Ascolto, nel mentre, una favola in musica.
Nulla di rabbioso, strano. Qualcosa di differente. Dolce, addirittura. Si chiama Folaghe, questa
canzone. La conoscerai, credo.
Canto, nel mentre. Non con la voce, disturberei i miei compari e la loro televisione. Canto con la
testa, seguendo le curve armoniche e i picchi, come un tempo con lo sguardo ed i passi seguivo
l’andare irregolare, frastagliato e bellissimo delle mie montagne.
Ricordi? Ti ho mostrato delle fotografie, scattate in fila, che montate assieme formavano il mio
panorama, il mio guscio verde e grigio di sassi e foreste.
Dici un sacco di cose, amica dai pugni di scimmia. Dici che ti incazzi, che annusi, che accarezzi.
Dici che i tuoi pugni di scimmia si scontrano con teste più dure, con muri più spessi.
Voglio parlarti di gatti. C’è qualcosa, nei gatti, una scintilla di umanità molto più umana di quella
che possiedono certe persone. I gatti scelgono. Si, sono anche dei grandi furbastri, degli
approfittatori, a volte, ma scelgono, sempre, e palesano con coraggio la loro scelta. Un gatto non ti
lascerà mai con il dubbio, se tu gli vada a genio o meno.
Sette mici rossi, mi hai detto, hanno trovato casa.
Il mondo, cara amica, è pieno di ruspe. È pieno di bombe, di robot, di leve, un sacco di leve. Ci
sono macchine che ti permettono di amplificare a dismisura la tua forza, di tagliare in due i
continenti, di rompere l’atomo. Cose mirabili, cose grandiose. Cose vuote.
Cara amica, il mondo deve invidiarli, i tuoi pugni di scimmia. Cos’è una portaerei, senza una
volontà che la guidi, se non un vuoto mucchio di ferraglie? Le portaerei, le ruspe, le bombe si
comprano, si vendono, si fabbricano. Le leve si tirano, le rotelle girano per gli affari loro, con
meccanico lirismo. Tutto molto preciso, funzionale, chiaro. I pugni di scimmia, ragazza mia, quelli
o li hai, o li hai.
Allora, dove sono gli eroi? Penso al cavaliere inesistente, che nell’ora più buia ordina e conta le
cose, per affermare il suo essere. Una vuota corazza, senza quella scintilla di pensiero.
Gli eroi, amica mia, quelli grandi e bellissimi dei telefilm, dei fumetti di quando eravamo bambini,
non esistono. Non esisteranno mai, perché non ne abbiamo bisogno. Siamo tutti eroi. Siamo tutti
grandi e bellissimi, siamo tutti stelle. E non nel fulgore del giorno, ma nell’ora e nel posto più buio
le stelle brillano di più. Fa buio, quando ti ammali. Ma fa buio ogni volta che qualcuno soffre una
ingiustizia. Fa buio ogni volta che un uomo tratta suo fratello come un oggetto. Fa buio ogni volta
che ci sputiamo addosso per le nostre cazzate, che ci odiamo per cose inutili, piccole. Fa molto,
molto buio, quando sette gattini non trovano casa.
Adesso ci siamo: ho parlato di gatti e di eroi, ho rispettato l’impegno che mi sono preso. Vorrei dire
di più, sia di gatti che di eroi. Vorrei dire quanto costi, a volte, stringere forte i pugni di scimmia.
Vorrei dire quanto male ci si faccia, a sbatterli duro sul tavolo, urlando il proprio dissenso, la
propria rabbia, la propria angoscia e frustrazione. Vorrei parlare dell’eroica gatta che, una volta,
aveva deciso di allattare un piccolo cane. Deciso, perché un gatto è troppo intelligente per
sbagliarsi.
Annusiamo il dolore, tutti i giorni. Lo annusiamo costantemente, tanto che a volte ci riempie il naso
fino a non sentire altro, fino alla nausea. Allora, amica mia, possiamo essere vigliacchi, dicendoci,
convincendoci che in realtà non sentiamo nulla. Oppure possiamo essere eroi. Scegliere. Sbattere i
nostri piccoli pugni di scimmia. E se non bastano, prendere tante altre mani di scimmia, piccole
come le nostre, deboli come le nostre, e farne un enorme, colossale, apocalittico pugno di scimmia.
Sogna, cara amica. Sogna di ballare sul tetto dell’ospedale. Io, stanotte, voglio sognare un mondo di
piccole scimmie incazzate e pazze d’amore, esaltate e urlanti e felici elettriche scimmie, un’onda di
code e peli e grugnetti e piccoli pugni di scimmia, tutte prese a lanciare la loro cacca e ad agitare i
loro piccoli pugni. Fermale, se puoi, le scimmie. Ha.
Ti ringrazio, amica dai pugni di scimmia. Bevi alla mia salute, che ne ho bisogno.
Pornografia sentimentale, ovvero: del buio e dell’uomo.
Leggevo una mail, oggi. Mi ha dato da pensare, forte, duro. Riporto qualche passaggio:
«Forse hai fatto bene a raccontare della bimba, perché a chi avresti fatto comprendere l’importanza
di essere fedeli alla scelta, se avessi messo al suo posto un criminale efferato, senza nessuno che
soffre per lui? O un depresso, che preferirebbe morire? Ma credo che vada ben compresa questa
cosa […] La prima cosa che dicono all’admo è che ti stai impegnando a donare ad altri qualunque…
Io spero con tutto il cuore, davvero, che lo si capisca. Ho amato davvero il tuo post sul blog, ho
pensato “questo serve proprio!” ma quello che ho scritto mi lascia da pensare.»
Le persone, a volte, funzionano in maniera strana. Beh, più che a volte, credo. Facciamo un piccolo
esperimento mentale. Se qualcuno di voi ha letto Soffocare di Chuck Palahniuk lo prego di non
accusarmi di plagio, tuttalpiù di devota ammirazione ed ispirazione. Oppure, voi che lo avete letto,
fate finta di nulla, così potrò sembrare più geniale di quanto non sia. Ma mi raccomando, il silenzio
sia vostro compagno. Ha.
Quando avevo quattro anni, alla scuola materna, ho tirato i tuoi capelli, fortissimo. Ho sporcato il
tuo vestitino migliore con i pennarelli indelebili. Ti ho detto la mia prima parolaccia. Ti ho tirato la
terra. Una volta, ricorderai, ti ho nascosto nel berretto una gomma da masticare. Non te ne sei mai
accorto, ma spesso ho riempito di caccole di naso il tuo bicchiere. Più grandicello, alle elementari, ti
ho preso in giro. Per le lentiggini, per l’apparecchio, per gli occhiali. Ti ho dato del povero stronzo
perché non avevi i miei vestiti. Ti ho preso a pallonate, ti ho escluso dal gioco, ti ho additato, tirato
ghiaino. Ti ho anche picchiato, più di una volta: hai ancora un dente scheggiato, una cicatrice sul
sopracciglio che ti ricordano questo stronzo qui.
Ricordi il tuo primo grande amore? Ricordi la ragazzina bionda di quinta B? Le ho detto io che
parlavi male di lei. Le ho detto un sacco di altre cose. Per rovinarti la piazza, solo per quello, a me
nemmeno piaceva. Non me ne fregava nulla, di lei, di te. L’ho fatto per il puro gusto di fare del
male. Ti ho rubato la merenda. Ti ho vessato per avere i tuoi soldi. Ti ho maltrattato per anni, in
autobus, sempre tu. Perché potevo, perché ero il più forte.
A te, invece, ho spezzato il cuore. Eri così carina, con quei fiori, quei bigliettini disegnati. Eri un
giocattolo: ti ho usata e buttata via. Credi che mi sia posto il problema? Nemmeno un po’.
Guarda, lì ci sei tu, il ciccione. Come mi divertivo, con te. Avevi paura di me, come tutti. Ti
inseguivo, giocavo con te come i gatti con i topi. Quanto godevo, a vederti correre, tremula palla
grassa. La tua asma, il tuo affanno erano una musica deliziosa per le mie orecchie. Quando poi
piangevi, ah, quasi da orgasmo. Sarei andato avanti giorni e giorni, ma non volevo correre il rischio
che schiattassi. Spiegalo tu, poi.
Tu, invece: il ragazzino strano, l’alternativo: io con il motorino, tu in bicicletta. Io con la gente
giusta, con quelli fighi, primo tra i primi, tu ostinato ad andare contro corrente. Pedalavi forte,
bastardello, ma quante ne hai prese, oh quante ne hai prese. Io non facevo mica fatica come te, a me
bastava dare gas. Finocchio. Spero che ti prenda fuoco, la tua cazzo di biblioteca. Ho sempre
pisciato di gusto nel tuo zaino, sui tuoi libri.
Tu invece sei la racchia! Ricordi quando mi sono avvicinato a te come se ti volessi baciare, e invece
ti ho sputato sul muso? Grasse risate, grasse quasi quanto i tuoi boccoli untuosi, quanto le tue
manine inette.
Tu: ti ho fatto fumare la prima sigaretta, nonostante non volessi. Morirai di cancro per colpa mia.
Tu: ti vendevo gli spinelli. Adesso combatti con il metadone. Tu: ti ho ammazzato il cane, perché
ero ubriaco e mi sembrava divertente. Tu: ti ho spaccato la macchina, per rubarti l’autoradio. Me la
sono venduta per andare a troie, sai. Tu: sono io l’uomo nero. Sono io, che ti ho violentata, nel buio
del parco. Sono io che tormento ogni tua notte, che ti ho bruciato la vita. Perché mi andava di farlo.
Tu: non conoscerai mai tuo padre, perché non voleva stare zitto su certe cose.
Eccomi, sono il mostro, sono il male di tutti voi. Non sono una bambina carina, non sono un
ventiduenne fino a ieri pieno di vita. Sono io, fidatevi. Sono repellente, sono un criminale, un
assassino. Sono il pesce marcio che fa puzzare tutta la cesta. Ti tendo la mano: Salvami, fratello.
Aiutami, sorella. Amami. Dammi il tuo sangue, dammi una scintilla della tua vita, per salvare la
mia. Senza, sono morto.
Chiedi se sono disposto a pentirmi? Se magari l’ho già fatto? No. Sono sempre il solito bastardo.
Forse lo sarò per sempre.
Adesso, cosa fai? Il tempo scorre. La mia vita è nelle tue mani, lo sai. Forza, fammelo vedere
adesso, il tuo cazzo di amore, la tua merdosissima compassione, la tua carità cristiana. Sai, sono
sicuro: non siamo così diversi. Cane mangia cane. Ti odio. Ma sei tu, a scegliere. Io posso solo
odiarti.
Allora, mia cara, mio caro, sei faccia a faccia con la tua umanità. Che ci vuoi fare?
Da Gaia: Coraggio!
Ciao a tutti. Oggi la mia adorabile sorellina ha deciso, finalmente, di scrivere qualcosa di suo
pugno. Lo pubblico molto volentieri. Pensateci, sapete. Pensate bene alle cose che dice, quando
parla di coraggio e di impotenza. Ho una sorella fortissima.
Denso profumo di nuvole, caldo di fuoco dal camino, tisana alla menta.
Io, come tanti di voi, sono a casa. Penso. Non penso più di tanto al moroso o alle cose da fare
oppure a quello che sta succedendo fuori però, penso a Giovanni che si tiene occupato a forza, che
rimane ore e ore sdraiato nel suo letto della stanza 22 di ematologia (mentre solo due mesi fa
andava ad arrampicare due volte a settimana), che pensa a noi, che pensa ai suoi compagni di
sventura e a come aiutarli senza in realtà conoscerli, prima ancora di pensare a riposarsi per far
sparire quei brutti lividi che gli vengono a forza di scrivere.
Sembra burbero (sguardo intenso, barba folta e incolta, parole dure, parole forti) ma dentro di lui
c’è un amore incondizionato che da quando si è ammalato ed è entrato in contatto con la sofferenza
si è amplificato e manifestato più chiaramente.
Io sono Gaia, Spit è mio fratello e i nostri midolli sono troppo diversi.
Quando siamo andati a fare il prelievo per verificare la compatibilità ci scherzavo, dicevo: «mi sono
impegnata tanto affinché la cosa funzioni». Invece non ha funzionato. Mi sono sentita inutile,
impotente, con le mani immobilizzate da blocchi pesantissimi di cemento. Ma la forza che ha
mostrato Giovanni nel combattere per tutti quelli che come lui hanno bisogno di un trapianto di
midollo, mi ha aiutato a fare la scelta giusta: ho messo da parte paura e delusione e sono diventata
donatrice di sangue, di midollo e il prossimo passo sarà l’iscrizione all’AIDO.
In questi giorni continuo a darmi da fare per organizzare i turni di tipizzazione di DNA all’ospedale
di Bassano, telefonando a chi ha lasciato il suo modulo di iscrizione all’ADMO.
Tengo un calendario dei turni di visita, così limitati, a mio fratello.
Ricevo telefonate di parenti e amici di Giovanni che vogliono sapere come procede la ricerca di un
donatore compatibile e la terapia che sta seguendo in ospedale.
Spargo la voce tra i miei amici invitandoli a donare se stessi per la vita di qualcun altro.
Non è molto, ma è qualcosa. Forse non salverò mio fratello, con quello che sto facendo, o forse si.
Di certo tutte le persone che si avvicinano alla situazione diventano più sensibili nei confronti degli
altri, e chissà che ognuno di loro possa aiutare un bambino malato di leucemia o un ragazzo malato
di aplasia.
Non siamo impotenti di fronte alle cose che ci succedono. Mai.
Prendiamo coraggio e diamo noi stessi.
Gaia Spitale
Cosa hai fatto oggi?
Oggi è una parola impegnativa. Definisce un intervallo di tempo in cui l’istante attuale è compreso.
Oggi ho visto, oggi ho mangiato, oggi ho fatto.
Cosa hai fatto, oggi? Uno scrittore, una persona che stimo non perde occasione per ricordare come
scrivere sia una attività di rilevanza sociale. Come lo scrivere debba servire, debba avere uno scopo
che non sia solo perdersi nelle sue medesime volute. Veicolare un contenuto, sicuramente, ma non
solo. Le parole, mi ha scritto qualcuno, devono essere una piattaforma per l’azione. Oh, molto vero.
Sto chiuso qui dentro, e ragiono, nel mentre, su cose. Cose da dire, cose da scrivere. Soprattutto
cose da fare. Con una punta di desiderio/nostalgia, piuttosto agrodolce, legato alla consapevolezza
che ancora il mio corpo non vuole funzionare, ragiono su progetti più o meno arditi, più o meno
fattibili, più o meno fuori di testa. Cose. Persone da vedere, da toccare, da mettere all’opera.
Per ora, tutto questo è solo sogno, e allora ripiego sul poco che posso permettermi per modificare,
alterare, fare il mondo. E scrivo. Tu mi leggi. Mi scrivi, anche. Mi rispondi. Mi dici che ti prendo a
testate nello stomaco, mi ringrazi, a volte mi fai i complimenti per lo stile. Io ti rispondo che lo stile
è un fronzolo, che scrivo con lo scalpello, che non voglio piacerti, che voglio colpirti, che voglio
prenderti a pugni, perché prendendoti a pugni ti muovi più che se ti carezzassi e ti coccolassi e ti
dicessi che sei bravo, bello, buono. Signorina, leggi al femminile, chiaramente. Vale anche per te.
Stanotte, verso la mezzanotte, smetterò di scrivere. Guarderò velocemente le mail a cui rispondere
domattina. Spegnerò il computer, e farò due passi in corridoio, per sgranchirmi un po’ le gambe.
Andrò nel salottino, a fare due parole veloci con Paolo, che ha difficoltà a dormire. Anche lui
aspetta un donatore, spera di trovarlo. Gli parlerò di come procede il mio lavoro, di chi mi abbia
scritto. Gli darò qualche buona notizia, cercherò di sorridere. Ne abbiamo bisogno tutti e due, di un
po’ di chiacchiere di speranza, anche se magari sono solo chiacchiere. Poi tornerò in camera, a
passo lento, avvolto nella mia vestaglia strana, che tanto diverte i volontari e gli infermieri. Mi
infilerò nel letto, finalmente orizzontale, e tirerò un grosso, grosso respiro. Mi spalmerò un po’ di
crema idratante sulle mani seccate dal disinfettante, annuserò gli ultimi effluvi dell’olio alle erbe
con cui mia madre mi massaggia la schiena, quando mi viene a trovare. Ne sorriderò, sentendomi
coccolato.
Poi chiuderò gli occhi, ed inizierò a programmare il mio domani, sulla verifica del mio oggi. Non
ho ancora scritto quella lettera, devo chiamare quella persona, cose del genere. Oggi, per esempio,
avrei voluto scrivere un’ode in prosa alle zolle di terra. Non l’ho fatto. Male. Alla fine, mi
addormenterò nell’accalcarsi di pensieri su cose da fare.
Il più ricorrente, in verità, è correre. Cosa hai fatto, tu, oggi? Pensaci. Chieditelo. Analizza la tua
giornata, momento per momento. Vaglia con cura ed attenzione i tuoi incontri e le tue azioni. Poi,
fatti sempre questa domanda: a cosa è servito? Sono sicuro che tu abbia un tuo sistema di valori,
una tua scala di cose importanti. Per me, ad esempio, è importante romperti le scatole. Per te magari
è importante avere rispetto dagli altri, oppure sentirti buono, oppure salvare un albero. Non lo so.
Parlavo di pietre di paragone, tempo fa. Anche in questo, ognuno ha le proprie. Magari arrivi a casa
stanco, dopo aver guidato per delle ore, o dopo un viaggio in metropolitana. Magari non ne hai
voglia, ma cerca di farlo. A cosa sono servite le cose che ho fatto oggi? Troverai che non sempre
potrai risponderti con piena soddisfazione. Bene, molto molto bene. Te lo dico spesso: la
soddisfazione è pericolosa, i complimenti che lisciano il pelo vanno tenuti da parte e consumati con
parsimonia, solo in caso di estrema necessità.
Ricordatela, quell’inquietudine, quella sensazione di non aver fatto abbastanza cose, o cose
abbastanza utili. È la stessa che mi prende la mattina alle sei, che mi fa svegliare con la testa già
piena di idee, di cose da fare.
Dici che ti piace leggere le cose che scrivo. Non le conosco, ma a me piacciono le cose che fai.
Perché sono cose, perché cambiano le cose. Perché le mie, per ora, sono idee. Le tue sono idee in
atto. Poi, se vuoi strafare, tieni conto di quello che ti dico, del mio punzecchiare, e fai cose che
migliorino. Te, gli altri, la tua città. Appendi un quadro, leggi il giornale ad un cieco, abbi attenzione
per qualcuno. Raccogli un mozzicone di sigaretta, regala un sorriso, cerca di ricordarti il nome del
postino. Sii umano.
Puoi fare quello che vuoi, proprio perché c’è così tanto da fare. Fammi sentire utile, per favore.
Fammi sentire che le mie parole servono, non solo a farti trascorrere un po’ di buon tempo con le
tue emozioni e qualcosa da leggere. Fammi andare per il mondo, aiutami, Metti le tue gambe ai miei
sogni, presta loro le tue mani. Credo che ti piacerà, se ci credi. Vedrai, domani sera sarà più bello,
interrogarsi sul senso della propria giornata. Promesso.
Zolle di terra
Accarezzo un’idea. Si tratta, fondamentalmente, di terra. Zolle di terra dura, fango ghiacciato. Zolle
di terra secche e polverose, spaccate da intricatissimi reticoli di crepe, nel loro meraviglioso andare
caotico. Terra morbida, scura, rivoltata dalle talpe. Terra sottile, passata attraverso il corpo di
milioni di lombrichi, raffinata. Terra povera, terra di montagna, ancorata alla roccia da qualche erba
tenace, da qualche arbusto che non molla la presa. Toccare la terra. Impastare il fango, sporcarsi
come bambini, rotolare, sentire l’acqua marrone, il limo, poi i sassolini uscire tra le dita, mentre si
stringe.
Giocare in una buca di terra, sporcarsi sotto le unghie. Sentire la terra sotto i piedi, scalzi,
percepirne le asperità, la consistenza variabile, granulosa. Tenere i piedi fermi, e muovere solo le
dita, raccogliendone. Stupida terra qualunque.
Provo meraviglia, di fronte alla stupida terra qualunque. Voglio entrare nella terra. Voglio essere
terra. Sottèrrati. La mia dignità è sotto terra. La mia letteratura è sotto terra. Io voglio essere terra.
Guardo fuori, con gli occhi della mente, dove il corpo non può andare. Immagino un campo arato,
gelato dalle temperature rigide. Mi immagino piccolissimo, sull’orlo di una crepa grande come un
canyon, infinita, accogliente, sterminata, vorace.
Immagino la neve, che oggi cadeva così sottile. Si ammucchia, si accumula, sale. La terra diventa
più chiara. Sempre più chiara. Poi, bianca. Anche quella crepa gigantesca va riempiendosi. Gli
imponenti speroni ghiacciati, le cicatrici del trattore, sommersi. Tutto, sommerso. Tutto così liscio,
così piano, così bello, così bianco. Carezzevole terra innevata.
Conservo, a casa, una ciotola d’ottone. Ci metto dentro le terre. Quelle che raccolgo io, quelle che
mi portano da lontano, tutte mescolate tra di loro, così differenti, eppure indistinguibili, nella
miscela. Un sassolino australiano accanto ad una pagliuzza giapponese, a far terzetto con un
frammento lucido, l’ala verde-oro di una cetonia nostrana. Voglio annusare le mie terre, voglio
metterci le mani. Voglio raccoglierne ancora qualche pizzico.
Datemi la mia ciotola di ottone macchiato. Datemi la mia terra. Datemi le mie zampe sporche,
datemi i piedi segnati dalla polvere della strada. Polvere sei, polvere tornerai, diceva qualcuno.
Ottime ragioni, per aver rispetto della polvere, per amarla.
Perché scrivere una cosa così fine a se stessa come un'ode in prosa alle zolle di terra? Continuo
sempre a ripetere che scrivere deve servire, che deve avere uno scopo, che le parole devono dare
seguito all’azione, per avere un senso. Ecco, la risposta è che non lo so. Non posso scrivere solo di
ospedale e sangue e insulti e cattiverie. Ogni tanto ho bisogno di cose belle, e la terra, nel mio
giudizio, è una di queste.
Credo che abbiamo tutti bisogno, ogni tanto, di cose belle. Mi andava di condividere questa. Poi,
volendo, potremmo farci degli infiniti pipponi teorici sul valore simbolico della polvere, dell’essere
terra, del raccogliere le terre, di qualunque cosa. Ecco, quelli sarebbero proprio pipponi. Gustiamoci
la terra, ogni tanto. Tutto qui. Un pensiero bello, un pensiero caldo, un pensiero sporco dove
piantare tanti piccoli semini, da cui veder crescere tante piccole cose vive. Morte che diventa vita, e
poi morte, e poi vita, all’infinito.
Mi piace, la terra.
Grasse risate
Sento commiserazione, ogni tanto. Sento che nulla, in questa storia, è felice. Che non c’è da ridere.
Mi sono inventato una parola, stamattina (ogni tanto mi piace, inventare le parole, oltre ad usare
quelle che già ci sono). È pigròculo. Con l’accento tonico sulla o, pigròculo, non pigrocùlo. Poi mi
servirà, quindi la metto già ora sulla mia tavolozza, pronta a fare il suo lavoro.
Eccoci, allora. Mi guardo le braccia: sembro un tossicodipendente, ormai. In più, le chiazze
spelacchiate sicuramente non aiutano a dare l’immagine di qualcuno in salute.
Sono indolenzito, e stanco. Sono felice. Si, proprio così: sono felice. Cosa? Come? Sono buone
domande. No, non sono masochista. Non amo il dolore, non amo la malattia, anzi. Ho nostalgia per
le mie scampagnate, per le mie corse, per come erano le cose fino a qualche mese fa. Eppure, ho le
mie ragioni. Se potessi scegliere, non cambierei nulla.
Sceglierei di ammalarmi. Sceglierei di affrontare il ricovero, la paura, lo shock della notizia, le
visite, le trasfusioni. Sceglierei di soffrire.
Pazzo. Forse, un pochino. Ma non per questo, fratellino. Ho fatto i miei conti, sai. Li ho fatti bene.
Se non fosse successo nulla di questo, avrei continuato a correre e saltare, combinare qualche
disgrazia di tanto in tanto, senza troppa consapevolezza o cattiveria, mi sarei laureato prima, avrei
proseguito senza troppi intoppi il mio cammino nella vita, come mi auguri spesso.
Quando arrampicavo, non lo facevo, non l’ho mai fatto, per arrivare in cima. Certo, arrivare in cima
è figo, è forte, dà gran soddisfazione. Ti si gonfia il petto. Ma io ho sempre arrampicato per il
mentre. Per il percorso. Per cercare la perfezione, la bellezza del movimento, la precisione del
gesto, il sentire la roccia scorrermi sotto le mani, il sentirmi roccia che scorre. Ho, per così dire,
posto il mio fine nel mezzo. Del resto, prendiamo l’immagine di due persone in cima al medesimo
picco: uno c’è arrivato con le sue forze, sudando sangue dai polpastrelli, tenendo duro, faticando,
godendo del vuoto, provando il brivido della montagna. L’altro, c’è arrivato in elicottero. Eppure,
sono in cima allo stesso picco. Stessa posa eroico-alpinistica, stesso sorriso. Beh, su questo
potremmo discutere, credo.
Ecco perché sono felice. Sono in cammino. Il mio sentiero non è facile, né sicuro. È anzi pericoloso
e poco segnato. Ma che panorami, che vertigini! Ogni giorno, un po’ alla volta, riscopro il valore, il
peso di cose stupide. La mia vita, sorellina, diventa più densa. Tu mi commiseri: povero, così
giovane, non può uscire, vedere gli amici. Vero. Ma ho avuto, in cambio, il valore dei fiori.
La prima volta che sono stato a lungo fuori casa, dormendo dove trovavo e lavandomi nei torrenti,
non sapevo cosa davvero valesse una doccia calda, nonostante ne avessi avute per tutta la vita. Il
concetto è lo stesso, solo, esteso a tutto o quasi.
Ecco perché sono fortunato. Ecco perché non cambierei nulla, del mio sentiero irto e scosceso e mal
segnato. C’è dell’altro: non sono da solo, sul mio sentiero. Ti ci ho trascinato, oppure hai deciso di
seguirmi, oppure un misto delle due cose. Il fatto è che non sono solo. L’avresti fatto, tu, al posto
mio? Ecco, un’altra ragione per cui sono contento: meglio a me che a te. Io ho le spalle abbastanza
larghe per portarmi questa cosa. Non solo: sono io, a consumare la mia malattia, e non viceversa.
Guarda che casino. Ogni giorno circa duecento persone diverse leggono questo blog. Non ho mai
parlato a così tanta gente in un giorno, men che meno di cose alte come l’uomo, la necessità di
amare, il bisogno di avere cura. Mangio aplasia, per riuscirci. Le mie forze non sarebbero bastate. E
il mondo cambia, e continua a cambiare, e la goccia che sono ha mosso migliaia di altre gocce e da
qualche parte un qualche giorno qualcuno riceverà una lettera, che dirà, fratello, c’è qualcuno che ti
salva la vita. Forse è già successo. E poi, domani, ti commuoverai di fronte alla terra, e annuserai il
cielo anche per chi non lo può annusare, e sarai felice, e ti sentirai vivo e utile e bellissimo.
Ecco perché sono fortunato. Perché ti servo. Perché ho la consapevolezza di aver lasciato un segno,
anche se piccolo, di aver mosso qualcosa.
Sto combattendo due battaglie, qui nel mio letto. Una, incerta nell’esito, per la mia integrità fisica.
Una, invece, per noi, con il senso più ampio del termine noi, con tutte le sue sfaccettature ed
implicazioni. La parte migliore di tutto questo è che ho già vinto. Abbiamo già vinto, tutti, nel
momento stesso in cui abbiamo deciso di combattere. Proprio perché abbiamo deciso, perché
abbiamo scelto. Di non essere pigròculi. Di non stare a guardare, di incazzarci, sognare, muoverci,
fare. Di essere immersi nella vita, nel suo fluire intenso, autentico. Anche doloroso. Di non avere
paura. Ecco perché sono fortunato. Ecco perché sono contento (anche se, forse, contento non rende,
dovrei inventarmi una parola anche per questo). Ecco perché, che viva, che muoia, che trovi il mio
uomo-medicina, che non lo trovi, ho già vinto. Anzi: abbiamo. Zaino in spalla, fratellini, c’è ancora
un sacco di strada da fare.
Assoluzione
Crink. Crink. Gh. Hu, ah. Respira. Non urlare. Tieni il fiato, uno, due, tre secondi. Espira piano.
Non far vibrare le corde vocali. Stringi i denti. Di nuovo. Piano. Fuori aria, dentro altra aria. Fai
uscire l’aria sporca, prendi dell’aria pulita. Sporcala, espirala piano. Non urlare. C’è gente che
dorme. Girati, prova a cambiare posizione. Piano. Ecco. Fermo. No, no, tieni duro. Affonda le dita
nel cuscino. Mordilo.
Ricaccia le lacrime. Ricaccia i lamenti. Forza. Ossessivo, come al solito. Sii ossessivo. Non ti
ferma nessuno. Il male è nella testa. Niente testa, niente male. Estraniati, non lo sentire. Crink.
Un’altra fitta. Chi ti ha messo dei vetri spezzati nelle ginocchia? Non hai vetri nelle ginocchia. Sii
lucido. Non perdere la testa. Concentrati. Non hai vetri spezzati nel corpo, non ne hai nelle
ginocchia, non ne hai nelle spalle, non ne hai nei gomiti. È solo un po’ di male. Prova ad alzarti.
Guarda l’ora. Sono le quattro. Sono passate ormai due ore e mezza. Sta svanendo, ormai.
Checcazzo. Non ci pensare. Tieni la testa lucida. Prova ad alzarti. Piano, ecco. Stringi il bordo del
letto, sostieniti con le braccia. Sei in piedi. Non pensare assolutamente. Non sentire, assolutamente.
Focalizza. Testa in una bolla. Scollega. Cinque passi. Uno. Non piangere. Due. Non piangere. Tre.
Non piangere. Quattro. Non piangere. Cinque. Maniglia. Ce l’hai. Adesso puoi concederti una
lacrima, un sibilo. Piano, c’è gente che dorme. Lavandino, appoggiati. Non tremare. Apri l’acqua,
piano. Non guardare lo specchio. Ora, forza, un respiro. Acqua in faccia. Acqua pulita lava via il
dolore. Acqua pulita lava via il dolore. Convinciti. Ok, ci sei, ci sei. Chiudere l’acqua. Tremano, le
gambe. Un’altra fitta. Crink. Non pensare ai vetri spezzati, per dio non ci pensare. Ecco, siediti, c’è
lo sgabello. Siediti. Piano, piano, piano. Costringi quelle stecche stronze a non tremare. Sei tu che
comandi. Loro ubbidiscono. Sono solo stecchette stronze che tremano un po’. Fiato. Apri la bocca,
il naso non ti basta per bere aria. Attento a non fare casino. Niente aria per le corde vocali. Ecco, ci
si rimettono i gomiti, come se non bastasse. Ok, stringi i denti. Ce la puoi fare. Non urlare. Stacca i
cavi. Non pensare ai vetri spezzati. Passa. Asciugati la faccia. Piano. Piano. Adesso, alzati.
Aggrappati al lavandino. Forza, usa quelle mani di merda. Stringi. Non piangere. Tira duro, non
mollare. È come arrampicare, solo, adesso non hai nessuno a farti sicura, e devi, devi, devi tenere.
Non puoi cadere, non esiste. Piccoli passi, movimenti precisi. Tieni lo svaso, quattro dita della mano
sinistra. Come fosse calcare. Pensa come se fosse roccia. Goditi il movimento. Ecco, focalizza.
Muovi bene i piedi. Sposta il peso, scarica sul destro. Muovi il piede sinistro. Appoggialo bene.
Tiene? Tiene. Fa male, ma tiene. Allacciare le scarpette più morbide, la prossima volta. Ora, piano,
attenzione. Mano destra, maniglia. Una buona presa, larga. Tiene. Hai lo spazio per mettere un po’
di magnesio mentale, per sghisare un po’. Respira. Coordina. Prevedi il movimento. Adesso,
passaggio di continuità. Cinque movimenti, in fila. Alla fine dei quali, la cengia. Chiudi gli occhi.
Focalizza il movimento, prima di compierlo. Vedilo dentro. Ora, è sbagliato, ma fallo: apnea. Non
respirare. Se respiri urli, lo sai. Bocca chiusa, denti stretti. Cattivo, duro. Uno, due, tre, quattro,
cinque. Giù. Adesso, apri gli occhi. Ci sei. Piano, apri la bocca. Concediti un refolo d’aria. Poco.
Ok, molto bene, ti stai comportando egregiamente, continua. Un respiro un po’ più abbondante. Non
ti allargare troppo. Eh, no, cazzo. Lo sapevo. Stai uggiolando. Vergognati. Stringi i denti. Stringi.
Cattivo, duro. Ti concedo di piangere un po’, in silenzio. Stringi il lenzuolo, chiudi forte i pugni.
Tira. Ok, piano. Prova a respirare senza mugolare. Sistemati, componiti. Ordine. Pensa forte pensa
fortissimo pensa a volume talmente alto da non sentire altro che i tuoi pensieri. Concentrati su
quello che devi fare. Pensa a quello che serve. Pensa alle cose che devi fare. Hai delle
responsabilità. Hai delle cose da fare. Devi guarire. Devi mangiare della pizza. Devi uscire, e
scrivere, e annusare il cielo e correre e fare l’amore e andare ancora per crode, e cantare e saltare e
combinare disastri e scuotere e punzecchiare le persone e vivere cazzo vivere. Sei forte. Hai un
sacco di persone che ti sostengono che ti pensano che ti credono a cui servi. Sei utile cambi il
mondo. Pensa fortissimo, non può mancare tanto. Non può durare così tanto.
…Sotto la lingua? Eccola, la mia comunione. La mia assoluzione farmacologica. Diamine, si vede
che ho fatto rumore. Merda. Merda. Merda. Fortuna che… Merda.
Hai gli occhi sporchi. Pulisciti!
Mettiamo in chiaro un po’ di cose: Questo non è un reality. Non si tratta di un esperimento
demenziale per portare alla curiosità di un pubblico avido cose, persone, sensazioni che altrimenti
rimarrebbero chiuse nella mia testa, in questa stanza, in un ospedale. Sento dire che i reality show
piacciono perché permettono alle persone di vedere la vita. Mi fa incazzare come una bestia, questa
cosa.
Ehi, non mettiamoci a fare gli intellettuali fighi duri e puri: sono sicuro che anche tu hai i tuoi
scheletri nell’armadio, che “evadi” di fronte ai cesaroni, a beautiful, all’isola dei famosi o chesoio,
il cinepanettone di cui tanto si polemizza ultimamente. Ti piacciono perché sono finestre, aperte sul
mondo. Ma che palle. Tu ci sei, nel mondo. Ci vivi tutti i giorni. Dove credi di stare, da solo su
Marte? Vivi in mezzo alle persone, alle cose, all’andare fluido della vita. Perché vai in cerca di
grandi fratelli, invece di stare con tua sorella? Ti garantisco che è più viva, più vera, più reale.
Forse il problema è che ci cresci, che ci siamo cresciuti, in questa ipermediaticità. «Non scrivi più
sul giornale?» mi chiedono, di tanto in tanto. No, io scrivo sempre, al giornale lo sanno. Ma non
faccio più notizia.
La mia vita, qui, è più densa, ogni momento, ogni cosa acquisisce un peso speciale. La vostra vita,
fuori, è coagulata. Non scorre, è trasportata in bocconi, polpette grumose. Shots. Bam! Il malato
terminale! Bam! Le piccole foche ammazzate a badilate! Bam! Lo speronamento del trimarano di
Greenpeace! Bam! Una scopata in diretta, e tutte le consequenziali polemiche-insulti-diatribe.
«Ti ho visto in tv, bravo!» Mi han detto, tempo fa. Ma cagnaccio porco. Ok, ok, cercherò di essere
tollerante, ma è forse quel minuto e quaranta di stronzate a dare peso a quello che dico?
L’altro ieri scrivevo di come sia bello trovare il senso di quello che si fa non solo nel suo fine, nella
sua conclusione, ma anche nel fare stesso, nel percorso. Ecco, bene: le cose, però non vanno scisse.
Non è figo, essere in tv. Non è grande, scrivere sui giornali. Non è ok, tenere un blog. È utile.
Questo, in primis. Divertirsi a farlo, e farlo bene, questo viene dopo. Importante, sicuro, ma dopo.
Tempo fa, lavorando alla mia tesina di storia contemporanea, ho incontrato il concetto di
“eterogenesi dei fini”. Marco Revelli, l'autore di “Oltre il Novecento” lo usava riferito al novecento,
al sistema di fabbrica, al perdere il contatto tra il gesto della catena di montaggio (avvita, imbullona,
salda, una piccola azione ripetuta all’infinito) e il risultato finale del processo di produzione (la
macchina, il cavatappi, il cellulare, qualunque altra cosa). Questo signore proponeva di usare lo
stesso concetto anche per affrontare il tema del male e della morte nel secolo concluso, in
particolare riguardo al modo in cui sono state combattute le ultime guerre, con il loro peso in morti
e stermini. Hanno iniziato i nazisti, a spersonalizzare i loro “nemici”. Le nuove guerre, quelle di
oggi, si combattono da stanze come la mia, schiacciando bottoni e pronunciando frasi come
“obiettivo eliminato”. E un ragazzo ha appena sganciato un missile sulla casa di un altro ragazzo
come lui, di cui non saprà mai il nome, di cui non vedrà mai il sangue.
Eterogenesi dei fini, mancata connessione tra l’azione ed il suo esito. Non è figo essere in tv. La tv è
una scatola, non un realizzatore. Le cose sono vere quando succedono, non quando ci finiscono
dentro. Anzi, in genere quando ci finiscono dentro sono “trattate”: si esaltano i colori, si aumentano
i contrasti, un po’ di trucco dove serve, cose così. Così sembra “più vero”. Ma che cazzo cane
porco.
Ecco, ribadisco: questo non è un reality. Non è nemmeno un esperimento letterario. È, in primo
luogo, una cosa che serve. Non avrei scritto del mio male, del mio dolore, se non avessi ritenuto che
sarebbe potuto servire. Non parlatemi, per favore, di stile. Non ditemi che sono rozzo, raffinato,
bravo, colto. Non mi interessa. Mi interessa che apriate quegli occhiacci impiastricciati di caccole e
sonno. E nemmeno su di me. Su voi stessi, sulle persone che avete intorno tutti i giorni, sulle vostre
vite. Vere, anche se non sono in tv o sui giornali o su un blog del cazzo dove scrive uno che usa un
sacco di parolacce.
Fa figo fare volantinaggio per gli yanomani e per quegli stronzoni che si mangiano la loro terra per
cavarne platino. Risuona. È catartico. Fa meno figo, avere attenzione per quel vecchio che sta di
fronte a casa tua, che sta sempre da solo a vedere la tv. Sempre ’sta tv, di mezzo, nemmeno a farlo
apposta. È forse meno persona degli yanomani? Ahi ahi ahi. Beh, pensateci. In ogni caso, ribadisco:
questo NON è un reality. Ahug.
Kantucci e vin santo
Voglio approfittare di questo piccolo urlatorio pubblico per tentare un esperimento. Volete
collaborare? Ne sarei lieto. Altrimenti, fate pure come volete. L'esperimento si potrebbe chiamare
“Pregiudizio” oppure “Accessibilità” oppure qualcosa del genere. Ci penserò arrivato alla fine, e
userò quello che mi sembrerà azzeccato per il titolo.
«Pigrizia e viltà sono le cause per cui tanta parte degli uomini, dopo che la natura li ha da lungo
tempo liberati dall'altrui guida, rimangono tuttavia volentieri minorenni a vita; e per cui riesce tanto
facile agli altri erigersi a loro tutori. E' così comodo essere minorenni! Se ho un libro che pensa per
me, un direttore spirituale che ha coscienza per me, un medico che valuta la dieta per me, ecc., non
ho certo bisogno di sforzarmi da me. Non ho bisogno di pensare, se sono in grado di pagare: altri si
assumeranno questa fastidiosa occupazione al mio posto».
Chiaro, no? Ecco, senza tanti preamboli, questo è un pezzo del testo di cui voglio provare a
raccontarvi. Di chi sia? Non lo voglio dire, non ancora. Fate le vostre ipotesi, in base allo stile, al
contenuto, al messaggio. Per pigrizia e per viltà le persone rimangono minorenni a vita, istupidite da
altri che per convenienza e denaro pensano per loro. Colpa, qui si parla di responsabilità, che è
abbastanza ben spartita. Vado avanti:
«E' dunque difficile per il singolo uomo tirarsi fuori dalla minorità, che per lui è diventata come una
seconda natura. E' giunto perfino ad amarla, e di fatto è realmente incapace di servirsi della propria
intelligenza, non essendogli mai stato consentito di metterla alla prova. Precetti e formule, questi
strumenti meccanici di un uso razionale, o piuttosto di un abuso, delle sue disposizioni naturali,
sono i ceppi di una permanente minorità. Se pure qualcuno riuscisse a liberarsi, non farebbe che un
salto malsicuro anche sopra il fossato più stretto, non essendo allenato a camminare in libertà.
Quindi solo pochi sono riusciti, lavorando sul proprio spirito a districarsi dalla minorità
camminando, al contempo, con passo sicuro.»
Pesante, che diamine. Siamo schiavi ed amiamo le nostre catene, che sono formule, precetti,
tradizioni. Abitudini. Liberarsene da soli sembrerebbe una faccenda complicata, sia per mancanza di
abitudine, sia perché, che diamine, se non vedi le sbarre della tua gabbia è ben difficile sapere cosa
prendere a pugni. Idee? Soluzioni?
«Che invece un pubblico si rischiari da se, è cosa più possibile; e anzi, se gli si lascia la libertà, è
quasi inevitabile. Poiché, perfino fra i tutori ufficiali della grande massa, ci sarà sempre qualche
libero pensatore che, liberatosi dal giogo della minorità, diffonderà lo spirito di una stima razionale
del proprio valore e della vocazione di ogni essere umano a pensare da sé. […] A questo
rischiaramento, invece, non occorre altro che la libertà; e precisamente la più inoffensiva di tutte le
libertà, quella cioè di fare pubblico uso della propria ragione in tutti i campi. Ma sento gridare da
ogni lato: non ragionate! L'ufficiale dice: non ragionate, fate esercitazioni militari! L'intendente di
finanza: non ragionate, pagate! L'ecclesiastico: non ragionate, credete! (Un unico signore al mondo
dice: ragionate quanto volete e su tutto ciò che volete, ma obbedite!) Qui c'è restrizione alla libertà
dappertutto».
Questa è l'idea del signore che ha scritto il testo su cui ho deciso di sperimentare. Tiriamo le fila:
siamo ingabbiati in box invisibili, in cui stiamo bene al caldo, avendo chi si preoccupa per noi,
tenuti come tante galline in batteria, da persone a cui fa comodo tutto questo, a cui fa comodo che
noi si sia buoni, dolci, remissivi, stucchevoli.
Difficile, da soli, scardinare questa trappola di vernice, specchi, sorrisi, indifferenza. Più facile farlo
assieme, decisamente. Come? Pubblico uso della ragione. Libertà di pensiero e di espressione.
Diritto (io però direi dovere) di sottoporre ogni cosa a critica, analisi, comprensione. Diritto-dovere
di usare la testa. Diritto-dovere di dubitare. Di parlare. Di confrontarsi. Produrre pensiero collettivo.
Sapete, la parte divertente è che non stiamo leggendo un articolo di Travaglio, di Saviano, di Beppe
Grillo. Non è il manifesto di un qualche movimento girotondino o simili. Non è il popolo viola, non
è un collettivo anarcoinsurrezionalista di quelli che fanno così tanta paura, oggi.
È Kant. Immanuel Kant, il vecchio noiosissimo filosofo delle tre critiche, quello che al liceo
normalmente si odia ed abbassa la media. Queste cose vengono da un articolo apparso in un
periodico di Berlino nel 1784, con il titolo “Risposta alla domanda: che cos'è l'illuminismo”. Parola
per parola.
La domanda, per la cronaca, l'aveva fatta un certo padre Zollner il mese prima. Se il mio
esperimento è riuscito, state facendo la faccia stupita. Ditemi se avete fatto la faccia stupita, per
favore. Ci terrei a saperlo. Altra cosa: spero di avervi messo un po' di curiosità addosso. Se volete,
se siete troppo pigri per la biblioteca o la libreria, trovate il testo integrale in internet. Dove? Beh,
basta pappa pronta. Cercatevelo!
La tua vita è tua!
Ho paura. Ne ho un sacco. No, non si avvicina nessuna calamità particolarmente nefasta, nessuna
visita di parenti lontani, nessun esame impegnativo. Addirittura, la mia situazione medica parrebbe
migliorare e potrei essere dimesso, alla volta di lunedì oppure martedì. Ho paura di quello che sta
succedendo.
Mi spiego: ho sempre avuto ammirazione per chi sa sporcarsi le mani, e gran poco rispetto per il
sapiente accademico che, chiuso nel chiuso della sua torre d’avorio, scruta il mondo e sentenzia.
Da ragazzino (è la prima volta che lo confesso) appendevo in giro per il paese una specie di giornale
murale, scritto con un vecchio pc Olivetti 386, e stampato con una Tally Mannesmann, nei colori
più improbabili, a seconda di quello che rimaneva nella cartuccia, al tempo piuttosto costosa. Se
qualcuno trovasse in giro quei fogli, oppure quei file, beh, sarebbero grasse risate. Chissà che non
debba mai succedere.
Ho paura del fatto che mediamente ogni giorno questo sito registra visite da 250 persone diverse.
Ho paura delle mail che mi mandate. Ho paura di quello che mi scrivete. Mi sveglio, la mattina, che
già nel dormiveglia elaboro risposte a questa o quella persona. Non perché mi spaventi la quantità
di tempo e di fatica che servono a questo, sia chiaro. Ho paura di quello che voi vedete, in Hestia.
Ho paura, soprattutto del fatto che mi scriviate che le mie parole «sono speranza, insegnamento,
coraggio, medicina…», cito da una lettera. Ho sempre avuto passione per parlare, per scrivere, per
agire secondo giustizia, per fare del mio meglio allo scopo di lasciare il mondo meglio di come l’ho
trovato. Ma non credevo, che diavolo, di arrivare qui. Di muovere, se non altro, le mani e gli occhi
di 250 persone al giorno a leggere le cose che scrivo. Dal mio punto di vista, Hestia è
fondamentalmente una operazione filosofica, un modo di non essere sapiente nella torre d’avorio,
cosa che, peraltro, non mi riuscirebbe bene. È dire cose vere, dire cose di persone, fare pensiero
assieme in modo che questo diventi piattaforma di lancio per volare, per agire, per cambiare
concretamente il mondo, un pezzettino alla volta. Intanto, molti di voi ora sanno di morte, vita,
generosità, midollo osseo e donazione.
Molti sono diventati donatori. Qualcuno magari ci penserà. Da qualche parte qualcuno di cui non
sapremo mai nulla avrà la vita salva, e già questo è abbastanza grande da averne paura.
Condividere è la parola chiave. Essere comunità. Accorgersi di chi ci sta vicino ed averne cura.
Ecco, questo fa paura, perché è rivoluzionario.
Ho sempre cercato, nella mia vita, di tenermi lontano ed al riparo dalle lordure del potere e della
politica spicciola, con alterne fortune a dire il vero, occupandomi invece di cose vive sul serio.
Ecco, mi fa paura vedere che funziona. Che sta cambiando più cose Hestia di quante non ne abbia
cambiate, per dire, l’occupazione del rettorato dell’università di Siena, alcuni anni fa, evento in cui
ho avuto una piccola parte. Soprattutto, ecco, mi fa paura vedere quanto bisogno abbiamo tutti di
Hestia, con tutto quello che Hestia implica in termini di senso umano. Abbiamo tutti male. Siamo
tutti doloranti, siamo tutti pesti e malconci, e lo sappiamo che così non si va avanti. Lo desideriamo,
il calore che abbiamo perso. Ne sentiamo il non peso, forte, come assenza. Mi chiedo come sia stato
possibile. Come ci siamo fatti questo. Comodo, dire che ce lo hanno fatto. Ce lo siamo fatti fare, e
siamo stati a guardare, disapprovando, ma lasciando fare. Ce lo siamo fatti, gli uni agli altri. E
adesso siamo tutti soli e piccoli e impauriti.
Ecco, di cosa ho paura: di non avere abbastanza parole per tutti. Di non avere abbastanza umanità,
per tutti. Di aver iniziato qualcosa più grande di me, senza avere le forze per portarlo fino in fondo.
Io, in fondo, sono solo un ventiduenne, volonteroso e quant’altro, ma pur sempre giovane e
inesperto, e in questo momento debole abbastanza da aver bisogno dell’ennesima trasfusione. Non
mi tirerò indietro, questo è sicuro. Piuttosto, collassare nel tentativo.
Ecco cosa intendo quando parlo di necessità dell’agire, di inazione colpevole: se vedi che servi e
decidi di non servire, sei destinato a una veloce morte interiore. Ecco, forse, da dove arriva quel
freddo, quel nostro male di vivere. Ecco, forse, da dove arriva la nostra paura del dolore, della
solitudine. Abbiamo bisogno di persone, ma siamo troppo spaventati, abbiamo troppa paura di
essere feriti. Come falene, vediamo la luce, ma prendiamo per assunto che ci folgorerebbe, e allora
la desideriamo, ci struggiamo nel desiderio, e nel non poterlo (volerlo?) appagare.
L’ho già detto. Non importa. Non abbiate paura. Non temete il peso dell’altro, non temete gli
squarci che può portare nella vostra quotidianità. Amate, e troverete voi stessi, e troverete quel
calore perduto di coperta colorata. Andate incontro alle persone. Siate persone, in questo. Vedrete.
Circa un anno fa ho attraversato un periodo di profonda depressione, per una serie di ragioni,
complesse ed articolate. Sono stato male, molto. Ho detto e fatto cose piuttosto brutte. Se avessi
potuto, mi sarei evitato, al tempo. Vi giuro, vi garantisco, mi sono fatto schifo. Eppure, nonostante
tutto, c’è stato chi ha avuto il senso umano di non mollarmi. Stare con me. Discutere con me. Non
oso immaginare quanto abbiano sopportato, quelle persone. Si sono fatte prendere a calci in faccia
da me. Avrebbero potuto andare, fare cose più interessanti, frequentare compagnie migliori. Invece,
ostinati, sono stati a farsi insultare da un pietoso omuncolo che piagnucolava e diceva cattiverie.
Devo a loro la vita, e molto di più.
Devo loro l’anima, ed è un debito difficile da pagare. Posso provarci, creando pensieri, parole che
siano ossa, e darle a voi perché ci mettiate la carne, salvando la vita e l’anima di qualcuno che non
conosco, che non conoscerò mai. Di cui, però, penserò l’esistenza, talmente forte e talmente duro da
vederlo, qui con me, nell’amore degli infermieri, dei volontari, nel sorriso dei miei compagni di
stanza, nel sangue anonimo che mi cola nel corpo.
Paura, ne ho ancora. Un sacco, non passa. Ma ho anche coraggio, determinazione, senso del dovere.
Credo in Hestia. Credo in voi, credo nelle vostre mani e nei vostri sorrisi in giro per il mondo, a
cambiare le cose, a fare la rivoluzione più grande: amare l’uomo in quanto uomo, vecchio, giovane,
bisognoso, ricco, stronzo, gentile, assassino.
Adesso scatenatevi pure. Ditemi che mi sto rammollendo, che devo ritrovare la mia cattiveria, che
questa cosa sta diventando un coacervo di moralismi e buone emozioni tipo famiglia cristiana, che
devo prendervi a schiaffi e così via. Non mi importa, non me ne importa un mazza. Io annuso le
cose, e quando le sento forti, le scrivo. Giudicate, fate. Datemi del pirla, dell’illuso, del sognatore.
Fatemi a pezzi. Se anche uno solo, tra di voi, avrà capito quello che intendo, avrò comunque
raggiunto un traguardo. Avrò distillato un’altra anima bollendo un intruglio di malattia, depressione
e altre schifezze, altro che pietra filosofale.
Il buio serve. Il male serve. Tutti brilliamo, tutti siamo speciali. Solo, abbiamo bisogno del buio per
rendercene conto. Perché si veda. Solo, non permettetevi mai di chiamarmi profeta. Io indico la
luna, cazzo, guardate la luna, non il mio dito. Fatelo, e vi prenderò a schiaffi sul serio. Amorevoli,
sonori ceffoni.
La rubrica di Sonia
Alessandra è una signorina sempre gentile, sorridente. Lo suppongo, perché non le ho mai visto la
metà inferiore del viso, per via della sempiterna mascherina. Alessandra fa l’infermiera. Le ho
offerto uno snack, qualche giorno fa. Non ho capito come mai, lei ha accettato, ma ancora non lo
ha mangiato, e io lo conservo (o meglio, il mio gatto di peluche lo conserva) in attesa che venga a
ritirarlo. Alessandra, l’altro giorno, mi ha mandato questa lettera, questa storia. Credo che sia
piuttosto toccante, piuttosto illuminante, piuttosto importante, abbastanza da dover essere letta da
più persone. Ogni storia, a prescindere dalla sua conclusione, contiene un messaggio. Ogni evento,
anche il più doloroso ed insensato, credo, ci insegna qualcosa. Basta saper guardare. Buona
lettura.
Mi hai fatto venire in mente una storia, e a me piacciono le storie, perciò ho pensato di scrivertela
buttando giù due righe, perché così resterà più a lungo…
Sonia aveva 27 anni, sposata, con una bambina piccola che la veniva a trovare negli orari di visita
assieme al papà. Dieci e più anni fa non c’era internet, non c’erano ancora i dvd portatili, però i
ricoveri duravano lo stesso tante settimane, e ogni paziente si inventava qualcosa per far passare il
tempo, chi facendo la calzetta, chi sistemando album di vecchie fotografie…
Sonia un giorno era intenta a scrivere dei nomi in una rubrica, pensai stesse ricopiando i numeri
telefonici di amici e conoscenti. Molto ingenuamente mi misi ad osservarla e a scambiare due
parole…. Stava trascrivendo su carta il nome di ogni potenziale donatore che si era fatto tipizzare
con la speranza di poter essere il suo, e ogni nome rappresentava una speranza in più, anche perché
erano i primi anni del registro italiano dei donatori di midollo osseo, che erano ancora molto molto
pochi. Intanto la lista si allungava.
Il papà allenava una squadra di calcio amatoriale perciò era a contatto con molti giovani, e nel suo
piccolo si ingegnò per trovare tra di loro i potenziali donatori. Si diceva che organizzasse corriere
piene di questi ragazzi che si recavano assieme in ospedale per farsi “prelevare”. Questa cosa mi
sconvolse, la fede, la speranza, le aspettative che lei nutriva nel compilare quella rubrica mi
colpirono molto, volevo anch’io essere in quella lista, volevo anch’io in qualche modo poter
aumentare le sue speranze. Così feci il semplice prelievo e il giorno dopo molto fiera andai da lei
perché potesse aggiungere il mio nome nella sua rubrica, e non contenta feci tipizzare anche mia
sorella e mio cognato. 3 nomi, 3 numeri, 3 persone, 3 speranze in più. Ogni volta che penso al fatto
di essere donatrice di midollo, penso a quella lista e Sonia rivive. E penso che se mi capitasse
l’occasione di essere compatibile non ci penserei due volte a farmi bucherellare le chiappe per
qualcuno. Penso anche che, a differenza della donazione di organi, quando doni il midollo osseo
doni qualcosa di te che è vivo, e appunto perché sei ancora vivo riesci a renderti conto di quanto sia
importante donare, dare qualcosa a qualcuno. Caro Giovanni, nel tuo piccolo, che è poi a contatto
col piccolo dell’ematologia, hai portato un sacco di piccole rivoluzioni, hai scosso, mi auguro, un
sacco di coscienze ormai arrugginite. Ti auguro di poter trovare il tuo donatore, ma soprattutto di
vivere la malattia come un messaggio, come una prova che ti permette di crescere e diventare
migliore.
Grazie per avermi dato la possibilità di raccontarti questa storia e di ricordarla.
Un abbraccio, di quelli veri (alla faccia del terrorismo che facciamo sulle infezioni!)
Alessandra
Manici di piccone
Si stanno macellando, cazzo. Ieri, quando ho ricevuto la visita di mia madre, mi sono fatto lasciare
qualche moneta (disinfettata) per potermi comperare qualche giornale. Mi piace avere la carta in
mano, per quanto non sia male leggere le notizie online.
Volevo capire bene cosa sta succedendo in Calabria, analizzare la situazione, vedere delle immagini,
leggere delle testimonianze, capire. A dire il vero, vorrei poterci andare, ma tant’è.
Una premessa importante: appiccicatemi un’etichetta addosso, e io vi sparo. Non permettetevi di
attribuirmi una identità, una appartenenza politica. Io sono io e basta, se qualcuno, persona o partito,
la pensa come me, sono affari suoi. La sola etichetta che ho addosso è un codice a barre con scritto
01 200941963, ematologia, Spitale Giovanni, M. E già questa mi va stretta. Qui si parla di cose, di
persone, non di appartenenza, non di simboli vuoti. Spero di essermi spiegato.
Ci ho lavorato, nei campi della piana di Gioia Tauro, sapete. Dieci giorni soltanto, ma bastano per
vedere com’è zappare rovi, raccogliere olive, curare le melanzane sotto il sole a picco, in mezzo alla
polvere. E quello che ho visto io era un piccolo paradiso: una cooperativa nei pressi di Polistena,
affiliata a Libera, sorta su un terreno sequestrato alla 'ndrangheta.
Ripeto: già a quelle condizioni il lavoro non era semplice, anzi. Vi lascio immaginare come sia farlo
per anni. Farlo per magari dodici ore al giorno. Farlo per un pugno di fave, dovendo sopportare
anche le angherie del caporale di turno. Questo è un fatto.
Un altro fatto: ogni volta che un essere umano commette violenza verso un altro essere umano,
commette violenza verso se stesso in quanto uomo. Un terzo fatto, ormai trito luogo comune, ma
chissà perché mai compreso a fondo: l’odio genera odio. Ora, chiedetemi che ne penso, di quello
che succede a Rosarno.
Penso che per scrivere di questo sto rimandando un lavoro decisamente più importante, ovvero far
fare un giro in corridoio al signor Luigi, che non cammina, ed altrimenti sarebbe sempre a letto.
Penso che un nonno sta aspettando perché siamo troppo stupidi.
Evidenze logiche: quando ti trovi sotto casa una masnada di mori incazzati che vogliono romperti la
testa con il piccone, un po’ di paura ti prende. Allora hai due modi di reagire: uno, prendi un
piccone più grosso, li investi con la ruspa, acchiappi la lupara di zio Masino e ti metti a giocare al
tiro al fagiano. Due, offri loro del pane. Offri loro una carezza. Si: piazzati davanti a tuo fratello e
sferragli una potentissima carezza. Mi è successa, una volta, una cosa del genere. Mi ha tagliato le
gambe, mi ha spento tutta la cattiveria. Mi ha sconvolto peggio che dieci legnate sulla zucca.
Provo a spiegare un pensiero un po’ contorto, vediamo se mi riesce. Io non sono io perché sono io.
Io sono io perché sono non letto, non computer, non Gianni, non Francesca, non zio Masino, non
cielo, non cane, non tutto il resto. È il mondo “fuori di me” che definisce, in termini negativi, quello
che io sono. Se il mondo è un puzzle, io sono tutto il puzzle, meno il mio tassello, perché è tutto il
puzzle a definire la forma che il mio tassello ha. Questo, nella filosofia buddhista, si chiama
insostanzialità. Sapete perché il Dalai Lama, che avrebbe un certo diritto di sentirsi incazzato con
quegli sporcaccioni dei cinesi, è invece così pacifico e tranquillo? Perché sa che il carnefice, per
essere tale, ha bisogno della vittima. È il carnefice ad essere debole. Lui, il suo popolo, la sua fede,
“sono” anche senza quegli sporcaccioni dei cinesi. Mi fermo, sarebbe una strada piuttosto lunga da
percorrere, parlare di Tibet e di insostanzialità e di buddhismo.
Torniamo ai nostri aranceti, al nostro sangue sulle strade, alla nostra cacca di tutti i giorni. Quello
che succede a Rosarno non mi stupisce. Succede la stessa cosa tutti i giorni, ogni volta che qualche
stronzetto cerca di bruciare un barbone, ogni volta che qualche figlio di cagna truffa un nonno per
cento euro, ogni volta che due coglioni si prendono a mazzate per qualche ragione più o meno
futile, ogni volta che un bastardo investe qualcuno e poi se la batte. Umanità negata. Ma attenzione:
non avere amore, negare l’umanità dell’altro, implica negare la propria. Conti che prima o poi si
pagano.
Poi, giro la pagina. «Gelmini: “Dall’anno prossimo tetto del 30% per gli stranieri”». Ma che cazzo,
mi dico. «La presenza di stranieri nella scuola italiana, spesso concentrati in alcune classi non è
certo un problema di razzismo, ma un problema soprattutto didattico. Lo sanno le molte mamme
che vedono la classe dei loro figli procedere a due velocità di crescita formativa, con alcuni studenti
che rimangono indietro ed altri che riescono ad andare avanti meglio». Mamme, ascoltatemi: se
vostro figlio vuole studiare, studia. I libri ci sono apposta. Ma ci sono delle cose che non stanno nei
libri. In genere mi perdo, a questo punto del discorso, in una distinzione terminologica tra istruire ed
educare, condendo il tutto con un po’ di sofismi e di etimologia. Voglio essere più lineare, perché
oggi la tirata da intellettuale l’ho già fatta, e poi gli intellettuali mi sono sempre stati un po’ sulle
palle. E, che cazzo, oggi mi va di essere scurrile, non vi offendete, mamme.
Quando i vostri figli studiano in una classe con cinque albanesi, un ghanese o due, qualche
macedone, un paio di sporcaccioni cinesi, più un russo giusto per gradire, magari imparano meno
matematica, magari imparano meno italiano. Imparano altro.
Tempo addietro ho affrontato un problema simile, parlando di scoutismo e disabilità: se hai nel tuo
gruppo un ragazzo che non cammina, non puoi portare il gruppo sulle alpi. La tua attività educativa
ne viene castrata. Palle, palle colossali. Lo scoutismo non si occupa di formare alpinisti, si occupa
di buoni cittadini, e vedere dei ragazzi che si ingegnano per fare cose assieme a un disabile vuol
dire che hai centrato il punto, che quelli diventeranno adulti in grado di vedere chi sta loro attorno,
di cambiare qualche stortura, di essere d’aiuto. La scuola, allo stesso modo, non si deve occupare
solo di matematica, italiano, geografia. Siamo seri, mamme: quante di voi ricordano a memoria che
le province della Lombardia sono Milano, Brescia, Bergamo, Varese, Como, Lecco, Sondrio, Pavia,
Lodi, Cremona, Mantova, più Monza e Brianza che non esisteva quando ho imparato a memoria la
lista io? Soprattutto, quanto questa nozione vi è servita, nella vostra vita di ogni giorno?
Dai, intendiamoci, parliamoci chiaro. Non sto dicendo che la cultura non serve. Sto dicendo che
quando tengo una lezione parlando della distinzione terminologica tra hosion, hagion e hieron
nell’Eutifrone di Platone, oltre a trasmettere delle nozioni, parlo di vita, di morale, di giustizia, di
senso civico. Si può fare con la filosofia, ma anche con la matematica, con la letteratura, con le
scienze. Si può fare anche parlando di giochi di carte. Per esempio, adesso vi sto parlando di
pedagogia commentando una notizia di cronaca. Non rompete le palle, quindi, mamme, se i vostri
figlioli stanno in mezzo a gente con addosso odori strani, con tratti strani, che mangia roba strana.
Imparano più da loro che da venti trattati di grammatica. E poi, la questione della lingua: pensateci,
cosa fate voi, mamme, se vostro figlio va male in inglese? Viaggio studio. Lo mandate in mezzo a
tanti piccoli inglesi, perché è il modo migliore per fargli assorbire la lingua. Fosse per me, farei le
classi con un bambino per stato, un bambino per lingua. Sarebbe tragico, non si capirebbe una
mazza. Sarebbe spettacolare vedere come i bambini, che in genere sono molto più vivi e molto
meno pigròculi dei loro genitori, riuscirebbero a forgiare un sistema relazionale e conoscitivo
nuovo. Capite perché bisogna pagarli, gli insegnanti? Capite perché ce ne vogliono di più e più
preparati?
Il mondo ha preso una direzione, che è la globalità. Non ci sono cazzi, non c’è coglione verde
nostalgico che possa riportarci il paesino ed il dialetto, questo è illudersi (consiglio un film, in
proposito, si chiama The Village, di M. Night Shyamalan, non fate l’errore di scambiarlo per il
solito, stupido horror). Cosa penso, di nuovo, di Rosarno? Che ce lo siamo voluto. Che possiamo
evitare che si ripeta. Che dobbiamo scegliere. Come al solito, che dobbiamo fare. Io, adesso, vado a
far fare un giro al signor Luigi, che è il piccolo fare, oltre allo scrivere, che mi concede la mia
situazione, per cambiare un po’ il mondo.
E tu?
…Perché il vero senso della vita…
Questa è una perla. Qualcosa di più che speciale, qualcosa di unico e bellissimo. Questa è una
filastrocca che mi ha fatto avere una bambina di -credo- otto anni, che forse mi ha visto una volta e
mezza, con cui non ho mai parlato. Ok, non aspettatevi un pippone sulla bontà genuina ed un po’
ingenua dei bambini e seghe del genere. Tendiamo a considerare troppo poco sul serio quello che
fanno i bambini, tendiamo a considerarlo gioco. Per loro è tutto serissimo. Quanto ci incazziamo,
quando qualcuno non ci prende sul serio? E magari pretendiamo di essere presi sul serio quando
parliamo delle nostre ultime vacanze a Sharm, o, dio non voglia, di politica. Leggete, quindi, le
paroline di questa bambina. Lei le ha scritte per me, le ha dedicate a me. Io che sono disordinato le
lascio in giro, in modo che possiate rubarne, che possiate carpirne un po’ di succo, che possano
essere anche per voi, come per me, balsamo e coltello. Che cazzo, sono cose che io ripeto da anni,
con le mie contorsioni. Questa mi sembra una autorità molto più alta a cui appellarsi.
Quando male stai,
sul nostro aiuto contare potrai,
ti aiuteremo come possiamo
e a tirarti su il morale come solo noi sappiamo!
facendoti sorridere e togliendo dal tuo viso la tristezza
raccondandoti qualche nostra prodezza.
Ma tu non devi lacrimar,
perchè dopo se no tristi diventiam!
Con tutte le tue forze lottare dovrai
per ottenere un grande risultato che infine saprai,
se non mollerai mai
noi saremo felici come non mai!
E senza nessun rancore
ti faremo un regalo che viene dal nostro cuore,
perché il vero senso della vita
è avere accanto una persona che ti è davvero amica.
con affetto, una lupetta del Branco Arcobaleno
Domani torno a casa, o forse no
Non dobbiamo spaventarci di provare emozioni, essere sensibili non vuol dire essere deboli. Le
emozioni sono una condizione naturale dell'uomo (anche gli animali provano emozioni) e perciò
non dobbiamo rifiutarle. Sono importanti, indispensabili per continuare ad essere uomini.
Perché abbiamo perso lo stupore? Perché dopo aver appreso notizie terribili riusciamo a farci una
risata cambiando canale o girando la pagina del giornale che stavamo leggendo? Perché ci siamo
abituati a tutto il male sconvolgente che avviene ogni giorno?
Istinto di sopravvivenza?
C’era una volta un piccolo leprottino curioso. Giangianni, si chiamava. Il babbo aveva senso
dell’umorismo, ed aveva anche bevuto prima di presentarsi all’anagrafe dei leprottini, per
festeggiare la nascita del primogenito. Anche l’impiegata dell’anagrafe dei leprottini aveva una
certa dose di senso dell’umorismo. Come se non bastasse, il babbo di Giangianni era balbuziente.
Era un bel leprottino, Giangianni. Era tutto grigetto, con un pelo bello morbido, né troppo lungo né
troppo corto, delle grandi orecchie morbide, e un bel nasino rosa, sempre in movimento, sempre ad
annusare le cose e il mondo. Quando aveva raggiunto l’età della ragione, che per i leprottini maschi
vuol dire circa sei mesi, aveva deciso di voler esplorare il mondo ed annusare e capire tutto quello
che c’era in giro. Giangianni aveva quindi salutato la mamma, il papà e gli altri sedici fratelli e
sorelle (la mamma e il papà non avevano la televisione a casa, come la media delle famiglie di lepri,
e anche se l’avessero avuta, nella tana non c’era la corrente, quindi si divertivano trombando come
conigli, anche se erano lepri, in virtù dell'intercultura). Si era avviato fuori, nelle vastità del mondo.
Salta e zampetta, salta e zampetta, Giangianni era arrivato nei pressi di un torrente. Aveva sete, e
l’acqua sembrava proprio buona, fresca. La giornata era calda, perché era giugno inoltrato, il sole
cadeva a picco, e il ruscello, con il suo cantare leggero era la cosa più invitante nel raggio di
chilometri. Perché non andare a farsi una bevuta? Giangianni, non trovando risposte a questa
domanda, aveva deciso di approfittarne.
Giunto alla riva, e guardandosi attorno per individuare il punto più accessibile per dissetarsi, aveva
scorto una piccola pozza, rimasta isolata dal flusso principale per via della diminuita portata (il
tempo che cambia, le mezze stagioni che non ci sono più, i giovani d’oggi, questo genere di cose,
sapete), perfetta per abbeverarsi. Solo che… Eh si, quella pozza aveva due ospiti! Ci vivevano,
infatti, una salamandra ed un pesciolino. Giangianni non aveva mai visto animali di quel genere, e
subito non era nemmeno convinto che fossero animali, ma piuttosto sassi che si muovevano per un
qualche strano movimento di corrente. Senza troppi problemi s’era quindi messo a bere. Che acqua
buona! Chiara, fresca, dolce, acqua. C’erano dei capelli, biondi, ma notoriamente i leprottini sono di
bocca buona, al contrario delle persone, che se trovano dei capelli biondi nella zuppa in genere
vomitano o sputacchiano.
Mentre Giangianni si toglieva la sete (ed era una sete grande sul serio), la salamandra ed il
pesciolino discutevano animatamente. Giangianni, che non conosceva l’esperanto torrentizio, come
la media dei leprottini, non si rendeva conto di nulla di ciò.
«Allora, mio pigro amico, non ti sei ancora deciso ad evolvere dei polmoni rudimentali? Non puoi
andare avanti così, con quelle branchiette e basta. Non sono funzionali. Guarda me: ho dei
polmoncini, e anche le zampette. Sono un anfibio! Tra un po’ questa pozza sarà asciutta, se quel
conigliaccio continua a berci casa, e dovremo traslocare. Come pensi di fare, tu?»
«Hai ragione, carissimo. In verità stavo lavorando ad un altro progetto, sai. Da quando ho letto su
fish’s health del mimetismo batesiano e di aposematismo, mi ero messo in testa di evolvere delle
macchie come le tue, che poi sono così eleganti. Oh, come mi sono sbagliato. Oh, quanto tempo ho
buttato, cercando di farmi bello, per mettermi al riparo dal martin pescatore, che qui nemmeno ci
viene mai. Eppure ce ne parlavano sempre, quando eravamo avanotti. Mi sono fatto fregare, caro
amico. Per una paura indotta da altri, ho buttato il mio tempo, ed ora, lo so, morirò.»
Nel frattempo Giangianni, che aveva davvero una gran sete, continuava a bere, ignaro del dramma
che si consumava sotto alle sue labbra leporine.
«Te lo dicevo, te l’avevo detto, che era una perdita di tempo. E tu non mi hai ascoltato. Non hai
voluto darmi retta. Adesso cosa dovrei fare io, quando quella bestiaccia avrà bevuto casa del tutto?
Caricarti sulla schiena e riportarti nel flusso? Diamine, sono una salamandra, non un taxi. E non
ironizzare sul colore. I taxi sono gialli con i quadratini neri, io sono nero con delle macchioline
gialle.»
Giangianni iniziava a porsi delle domande, riguardo a quegli strani sassi. Intanto, la loro forma, così
illogica, così strana, allungata. Poi, uno dei due aveva proprio dei colori particolari, brillanti. Poi,
non c’era corrente, nella pozza, eppure quei due cosettini sembravano continuare a muoversi,
sebbene poco. Però l’acqua era tanto buona, chiara, fresca, dolce. Giangianni continuava a bere,
avidamente, suggendo soddisfatto il liquido dissetante.
«Come sono stato ingenuo, come sono stato fatuo! Ma ora, ti prego, amico. Abbi pietà! Perdona la
mia stoltezza, la mia dabbenaggine. Prometto, in futuro avrò più considerazione dei tuoi consigli,
perché sei un saggio anfibio, perché sei molto più evoluto di me, che sono solo un povero piccolo
pesciolino.»
«Mi dispiace, caro amico. Il livello dell’acqua è già troppo basso, e l'ossigeno in soluzione inizia ad
essere poco. Coff, coff. Me ne vado, non voglio esser qui a vedere la tua agonia. E sono sicuro che
le mie poche forze non basterebbero per trascinare fuori entrambi. Prega, io pregherò che quella
bestiaccia smetta di bere, o che lo smuoversi di una pietra a monte possa portare una variazione di
flusso, fino a far riempire di nuovo la pozza. Adieu.»
Tra una sorsata e l’altra Giangianni chiudeva gli occhi, per meglio assaporare le chiare fresche e
dolci acque, per sentirle appieno, per odorare, col suo mobilissimo nasetto tutto quello che aveva
attorno, l’aria ed il torrente e la luce del sole che filtrava tra il verde delle piante. Si sentiva felice,
pieno, il leprottino, pieno di acqua e di sole e di vita. Aveva trovato una sensazione così bella che
gli sembrava uno spreco lasciare la pozza ed andare in cerca di altro. Beveva, annusava, chiudeva
gli occhi. Ed ecco che… Uno dei due sassolini non c’era più. Quello colorato. Peccato, si diceva
Giangianni. Era bello, lo guardavo volentieri, bevendo. Chissà com’è potuto accadere. Misteri della
corrente…
«Ah, non c’è domani, per me! Nessun futuro, nessuna pesciolina, niente uova, niente avanotti ad
allietare la mia vecchiaia, nessuna vecchiaia! Come tutto questo è ingiusto, come tutto questo è
tragico. Poco lungi da qui, nel flusso, centinaia di pesciolini si lamentano dei loro piccoli acciacchi,
delle loro sfortune in amore, del prezzo delle alghe. Come vorrei averli io, i loro problemi! Vorrebbe
dire esser vivo! Ah, come sarei lieto di poter tirare un po’ la cinghia per via della crisi. Vorrebbe dire
non esser morto nei prossimi pochi minuti.»
Questo pensava il pesciolino, invece di guizzare, di provare a muoversi, di spruzzare acqua a
Giangianni, di rendergli nota la sua condizione, di provare ad attirare l’attenzione del paffuto ed
assetatissimo leporide con un salto od una giravolta, o magari solo provando a parlare una lingua
diversa dall’esperanto torrentizio. Giangianni, invece, aveva ormai prosciugato la pozza. Vedeva,
adesso, che sul fondo di bianca roccia qualcosa di piccolo e brillante si dibatteva, sempre più piano,
sempre meno. Non capiva, il leprottino, cos’era successo. Vedeva, ma senza realizzare. Poi
l’illuminazione: un pesciolino. Gli aveva bevuto la casa. Aveva sentito una storia del genere,
raccontata da uno zio. Gli si riempivano gli occhi di lacrime, a pensarci. Però quell’acqua era così
chiara, fresca, dolce, così buona. Troppo buona per non berla. «Meglio non farsi troppe domande»,
pensava Giangianni. «Se penso a quello che ho fatto» si diceva, «non berrò mai più con lo stesso
gusto di oggi. Meglio andare via, e dimenticare questa brutta storia. Non l’ho fatto apposta. Non
volevo».
Il piccolo pesce brillante, intanto, aveva smesso di battere la coda.
«Salve, pennuto, cosa vuoi da me? Spostati, che devo arrivare al flusso prima che questo sole secchi
del tutto la mia bella pelle gialla e nera. Un attimo, non mi guardare a quella maniera. Ehi, fermo!
Non vorrai mica… No! Non mi puoi mangiare! Non ti hanno insegnato nulla, nel tuo nido?
Guardami: sono un perfetto esempio di creatura aposematica. Non hai letto Poulton, non ti hanno
spiegato? Non mi puoi mangiare. No!»
«Puoi essere quello che vuoi, tesoro. Io sono solo un corvo ignorante. Ed ho fame.»
Mentre la salamandra trovava il triste epilogo del suo tentativo di tornare a casa, e la casa del nostro
pesciolino era stata bevuta del tutto, Giangianni aveva ripreso il suo errare felice, seguendo il
torrente nella sua corsa a valle. Si riempiva gli occhi di cose, di luci, di mondo. Beveva altre pozze,
nel suo andare a valle, ma con l’accorgimento, stavolta, di chiudere gli occhi. Aveva imparato la
lezione: se bevi con gli occhi chiusi, puoi bere senza troppi problemi, senza lacrime, senza sensi di
colpa. Cosa ne è stato di lui, mi chiederete. Siete sicuri di volerlo sapere? Siete sicuri di non voler
tenere gli occhi chiusi, bevendo da questa pozza di parole? Giangianni, quel morbido leprottino
grigetto dalle grandi e morbide orecchie, così desideroso di vedere e di annusare il mondo, di
scoprire cose e bere acque buone e capire quello che c’era in giro, ecco, è diventato ragù di lepre.
S’era stupito, il cacciatore, a vederlo bere con gli occhi chiusi. In genere sono animali attenti, s’era
detto. S’era detto, mentre prendeva la mira: beh, poco male, un colpo sicuro, nemmeno se ne
accorgerà. Meglio per me.
Non torna a casa, Giangianni. Non torna a casa. Alla faccia dell’istinto di sopravvivenza.
Ventotto giorni dopo, ovvero: conigli
Sono passati ventotto giorni. Domani, però, alle nove, è il momento di levare le tende. Non sono
pochi, ed ho un sacco di cose da fare. Non vedo l’ora di mangiare una pizza, di vedere i miei gatti,
rimettere le mani sui miei libri, riprendere un po’ le fila della mia vita. Certo, non sarà come prima.
Non sono guarito, sono sempre a caccia di midollo osseo, sto solo abbastanza meglio da poter stare
a casa in maniera abbastanza sicura. Queste sono informazioni di servizio che in prospettive più
ampie non contano un granché, però.
Cosa fate, voi, domani, alle nove? Dove siete? Chi avete visto, domani alle nove? Siete al lavoro?
All’università? Magari a casa. Magari siete in ospedale, perché prendete il mio posto, il mio letto 2
nella stanza 22. Qualcuno ci sarà di sicuro, in questo letto. Ho rivisto un po’ di persone, oggi.
Natalino è appena tornato, per un nuovo ciclo di terapia. Anche Franco. Ci ho messo un po’ a
riconoscerlo, senza baffi e senza capelli. Poi è tornato anche Sladan, già da qualche giorno. Ieri
notte abbiamo parlato, mentre la febbre lo scuoteva di brividi (e la febbre, fidatevi, era il meno).
Abbiamo parlato di ragazze. Abbiamo parlato di fiori, e di trovarci a bere un birra, quando saremo
tutti e due fuori, quando staremo tutti e due meglio. Abbiamo parlato di malattia, di morte. Di
nausea, di dolori, di stringere i denti. Di cosa avete parlato, voi, ieri notte? Con chi avete parlato?
Perché avete parlato, ieri notte, vero? Avete fatto, avete visto?
Oggi sono molto stanco. Per ventotto giorni ho scritto ogni giorno, una media di dieci ore al giorno.
Non ho mollato per un secondo, o quasi. Ho cercato di fare del mio meglio per tenermi impegnato,
pieno di cose da fare, di rendermi utile. Ho scritto un migliaio di email (e ne ho ancora in arretrato,
e mi sento in colpa per non aver ancora risposto, ma chiedo tolleranza). Mi sono incazzato, ho riso
un sacco, ho pianto. Ho vissuto in maniera rarefatta, e pertanto paradossalmente densa, il riflesso
del fuori resomi dal web, dalla tv, dai giornali; il dentro, nell’allungarsi della mia barba,
nell’allungarsi delle facce dei miei compagni, nel farsi complesso di pensieri sempre annodati.
Ieri sono uscito dal reparto, per la prima volta dopo ventisette giorni, per fare una radiografia. Per la
prima volta dopo ventisette giorni ho visto persone, tante, a viso scoperto. Ho visto un sacco di nasi,
di bocche, non solo occhi e mascherine. Mi sono stupito, della varietà di nasi che si possono
trovare, in un corridoio di ospedale.
Cosa avete visto, voi, ieri? Chi erano quegli sconosciuti nella metropolitana? Quali storie dietro ai
vostri colleghi? Quali vite avete incrociato, ieri, nel vostro attraversare il giorno dalla colazione alla
cena? Quante ne avete cambiate per sempre, magari senza saperlo? Quante avreste potuto
cambiarne per sempre, solo ad averlo saputo?
Vedo, con gli occhi della mente, una serie di facce che non conosco. Le immagino, ci provo. Una
ragazza bionda con degli occhi psicoblu, un nonno pelato con degli occhialoni di tartaruga che gli
fanno la faccia da tartaruga, uno zingaro con gli incisivi d’oro ed i baffoni, un bambino con il muso
e le zampe sporche di omogeneizzato, di vitello, credo. Quante icone scavalchiamo, ogni giorno?
Quante immagini di vita non vediamo, nel nostro correre verso la cena, il film della sera, il letto?
C’è una frase di Benni, che mi viene in mente: «Quanti cristi inchiodati a una sedia o a un letto la
gente scavalca, per inchinarsi a un cristo di legno. Quanti sacrifici dimenticati, per ricordarne uno.
Se mi facessero entrare in una chiesa, griderei: smettete di guardare quell’altare vuoto. Adoratevi
l’un l’altro.» Adoratevi l’un l’altro. Ecco, non saremo in chiesa, ma voglio provarci lo stesso, a
chiedervelo. In termini pratici, eh. Non parlo solo del malato (perché, come qualcuno mi ha detto,
come ho già detto a qualcuno, non siamo malati, ma abbiamo una malattia), o
dell’extracomunitario, del debole, dello sconfitto, del depresso, del trapiantato, del salvato, del
perso, del morto. Adorate la vita stessa e l’umanità in ogni sua immagine: noi-voi.
Ieri la notte mi ha portato coniglio, come amo dire. Anzi, più di uno. Una stronzata, un giochino di
parole fine a se stesso, basta levare una S e cambia il senso. Un’idea. Sarà che ieri ho scritto di lepri.
A proposito: sono sicuro che a molti di voi piace, il ragù di lepre. È più facile mangiarlo, non
sapendo che si chiamava Giangianni, vero? Parentesi chiusa. Intanto, il primo coniglio è un film. Si
chiama “Un sogno per domani”, di Mimi Leder. Dateci uno sguardo, se vi avanza tempo. Oppure
leggete il libro da cui è stato tratto, che si chiama “La formula del cuore” di Catherine Ryan Hyde.
Il secondo coniglio, invece, è più pratico. Domani, mentre io sarò preso dalle mie valigie, dai saluti
e dai commiati, dai pacchi di farmaci da portare a casa, da millanta cose da vedere e da annusare,
cercate qualcuno. Provate a non limitarvi ad attraversare la giornata in direzione della notte con il
minimo danno possibile. Puntate qualcuno, non importa chi, ed entrateci in rotta di collisione.
Toccatelo. Chiedetegli come sta. Portategli un caffè. Regalategli mille euro, o un bastoncino di
liquirizia. Magari, parlateci soltanto. Non sottovalutate il potere delle parole, se sono giuste, e
soprattutto vive.
Ognuno di noi si porta dietro una scia, credo. Una traccia, come quelle che lasciano gli aerei in
cielo, passando alti e veloci da un chissàdove ad un altro. Incrociate la vostra scia con quella di
qualcuno. Non abbiate, vi prego, paura di sembrare strani. Sono sicuro che ognuno di voi, almeno
una volta, almeno un momento, ha pregato perché qualche sconosciuto gli rivolgesse la parola.
Magari eravate in treno, annoiati, magari su una panchina, soli, magari al bar, tristi, con un rosso per
scaldarvi il freddo dentro. Quante volte ho desiderato, io, qualcuno di strano, che mi incrociasse,
che mi speronasse.
Di tanto in tanto regalo poesie. Tengo nel marsupio un blocchetto ed una penna, e ogni tanto,
quando vedo l’occasione, vedo cosa mi regala la memoria, o l’ispirazione, e lascio un foglietto a
qualcuno.
Date la scossa a qualcuno, domani. Per favore. Insomma, altrimenti stiamo qui a sparare cazzate
molto filosofiche e molto fighe sul senso dell’essere e dello stare assieme. Detesto, detesto un sacco
le parole vuote, quelle che non volano, che non servono, che non cambiano nulla, che sono solo
sfoggio di loro stesse. Vorrei, se fossi capace, scrivere una canzone. La musica trasmette sensazioni
che le parole non passano. Ecco, i miei due conigli. Un librofilm e una rotta di collisione. Vedete
voi che combinarci, poi. Ma, per favore, fate qualcosa. Date la scossa a qualcuno. Io non vedo l’ora
di poter ricominciare. Ci vediamo in giro, persone.
Fichissimi fichi
Raccogliere fichi mi è sempre piaciuto. Non solo perché vado pazzo per i fichi, però. Certo, certo,
pregustare la solenne ingozzata non è affatto male, ma c’è dell’altro. Quando stai appeso all’albero,
facendo attenzione a non spezzare quel legno così fragile e generoso, quando te ne stai tra cielo e
terra abbracciato a qualcosa di vivo che dà cose, se hai le orecchie abbastanza fine e gli occhi
abbastanza svelti, ti accorgi di alcune cose. Ok, orecchie e occhi sono solo metafore, in realtà basta
stare a pensarci un po’. Mi fa un po’ specie, parlare in questi termini, non vorrei passare per una
specie di hippie neopagano wikkan o simili, uno di quei folgorati dei crudisti, un macrobiotico o che
altro. Stare appeso a un fico è fico, e ti fa sentire fico perché è interesse del fico che tu raccolga, che
tu mangi, che tu restituisca alla terra, un po’ più in la, i suoi semini.
Raccogliere fichi è fico perché, a ben vedere, è previsto, è utile, è piacevole. Come sentirsi la
rotellina giusta al posto giusto in un ingranaggio davvero davvero grande. Non è stagione, ma ho
iniziato a raccogliere fichi. Fichissimi fichi metaforici. Slurp.
Il primo fichissimo fico metaforico è un blog . Ha iniziato a scriverlo il marito di Roberta, cercavo
tra i carteggi virtuali il suo nome, ma non lo trovo, direi Luca ma non vorrei sbagliarmi (ho una
specie di fissa per provare a ricordarmi i nomi delle persone, mi sembra un gesto di rispetto, ecco).
Questo signore ha preso una brutta botta in moto, che ha avuto delle conseguenze piuttosto
importanti, ma nonostante questo afferma che «Scrivere è molto più difficile che parlare, e spesso
non abbiamo voglia e forza per fare neppure questo. Magari vorremmo chiuderci in un angolo, nel
nostro piccolo mondo interiore, e coccolarci. Per carità, doveroso e giusto. Ma altrettante volte
pensiamo ” machissenefrega” e non facciamo o diciamo qualcosa, qualsiasi cosa, nei confronti di
qualcuno. Bè, è un’occasione persa. E non torna più. Per questo sono qui a scrivere.» La parte che
un po’ ci dovrebbe inorgoglire è che, oltre a «Roberta, che mi ha dato la forza necessaria», parrebbe
che anche leggere Hestia (che non è il mio, ma il nostro blog: non solo ci scrivono molte altre
persone, ma soprattutto, non servirebbe a nulla scrivere senza qualcuno che leggesse!) gli abbia dato
qualche idea, in merito.
Piano, con l’orgoglio, però. Fa impigrire e rammollire e fermare. A piccole dosi, solo quando serve,
quando si è malmessi e tristi, un pezzettino, come il briciolo di frutta secca quando si va per crode.
Poi, altri fichissimi fichi: ho visto il pacco di carte con richieste di tipizzazione che qui a casa
stiamo pian piano smistando, gli appuntamenti, le liste. La cosa che mi ha fatto più specie è stata
mettere il naso in tutte quelle calligrafie diverse. Non sono mai stato un grafologo, però, ecco, il
modo di scrivere è molto personale. Mi immagino le facce, almeno, ci provo, guardando le parole.
Provo ad immaginarmi questi millanta sconosciuti che in un modo o nell’altro ho preso poco
gentilmente a coscienziose randellate, e che nonostante le mie cattiverie (o magari proprio per
quelle) hanno deciso di cambiare il mondo. Perché, lo ripeto, questo è cambiare il mondo.
Un sacco, di fogli, un sacco. A cuccia, orgoglio. Ti prendo a frustate se alzi quella zucca di nuovo.
Adesso che sono di nuovo fuori, poi, ci sono le cose da fare, non solo le parole da dire e scrivere, le
cose “cose”. Progetto, con il supporto di persone insostituibili, lezioni speciali nelle scuole. Produco
bozze di protocolli d’intesa tra associazioni. Trappolo, e ogni volta che mi arriva una buona mail o
una conferma, o una telefonata, è un fichissimo fico. Toccherà farci la marmellata, con tutto questo
bendidio. L’albero, però, è alto, grosso, imponente. Poi, sapete, io non ci vedo tanto bene,
nonostante gli occhiali. Insomma, mi serve una mano. I fichi a volte si nascondono molto bene, in
mezzo alle foglie, ma guardando la pianta da altre prospettive si possono vedere tutti, un po’ alla
volta.
Idee, idee, idee. Una volta, camminavo per Siena, di notte. Ci ho vissuto, a Siena. Lunga storia.
Insomma, andavo dalla stazione dei treni verso la mia stanzetta in affitto, ed ecco che incontro un
personaggio un po’ particolare. Una specie di sfinge. Un grosso signore pelato, con gli occhi un po’
infossati, che la leggenda vuole ex professore di filosofia, un po’ partito per la tangente per colpa di
una troppo intensa ed approfondita lettura di Nietzsche. Stava appostato ad un incrocio che si
chiama Ponte di Romana, poco prima dell’omonima porta. Di tanto in tanto fermava uno studente o
due e chiedeva loro cosa studiassero. Economia era la risposta sbagliata, e tendeva a scatenare
reazioni poco poco piacevoli. Vai a capirli, ’sti filosofi. Insomma, io sono lì che mi tiro il borsone,
stanco delle sei ore di treno appena concluse e tutto quanto, e lui mi si para innanzi.
«Ehi tu, con la borsa.»
Io, qui, mi aspetto la domanda di rito. Sono relativamente tranquillo: studio filosofia, si, posso
anche argomentare e sostenere la mia posizione, non dovrei incorrere nelle sue ire. Mi fermo, cerco
di sfoggiare il sorriso meno stanco che mi riesce, appoggio il pesantissimo borsone (e il ragù della
mamma, e un po’ di lardo che non deperisci, e qualche libro nuovo, e i vestiti, e in fin dei conti non
tornerai a casa prima di un mese…)
«Buonasera. C’è una buona aria, stasera, non crede?»
«Sembra pesante, la borsa. È pesante?»
«Già, piuttosto pesante, devo ammettere. Poi, insomma, la stazione non è dietro l’angolo, e un taxi
mi costa troppo, e a quest’ora non ci sono più autobus dalla stazione a via Gigli. Però, ecco, si
porta.»
«Ti do una mano.»
«Guardi, non si dia disturbo, non è necessario, sono ormai arrivato.»
Ecco, è la volta che mi sono infilato nei guai. Adesso mi corica di mazzate e mi prende la borsa.
Porcaccio il cane, la prossima volta prendo un taxi, salterò un pasto ma prendo un taxi. Oppure
evito di arrivare così tardi. Eccolo che si avvicina. Fruga in tasca. Ok, è tre volte me. Fermo. Fermo.
Fermo.
«Ci vuole più coraggio e forza di carattere per fermarsi o addirittura per volgersi indietro che per
andare avanti», mi dice. È una citazione di Nietzsche, in effetti. La volontà di potenza. Ci penso.
Penso alla poca strada in discesa che mi separa dalla mia stanza in affitto, penso alla molta che ho
fatto, con la mia borsa pesantissima, dalla stazione a questo incrocio, a questa sfinge. Saggio.
Mamma, che persona spaventosa, imprevedibile. Non ho ancora capito se vuole farmi a pezzettini o
se sta per cambiarmi la vita, o che altro. Intanto, sto zitto ed annuisco.
«Ecco, prendi questo.» Toglie la mano dalla tasca, veloce. Io non so se aspettarmi un pugno, una
coltellata o che altro. È un foglio di carta, ed entrambe le altre cose. Ora è stropicciato, è passato del
tempo, ma ancora si legge, in calligrafia maiuscola e sicura, un altro pezzo di Nietzsche:
«Un filosofo è un uomo che costantemente vive, vede, sente, intuisce, spera, sogna cose
straordinarie; che viene colpito dai suoi propri pensieri come se venissero dall’esterno, da sopra e da
sotto, come dalla sua specie di avvenimenti e di fulmini; che forse è lui stesso un temporale gravido
di nuovi fulmini; un uomo fatale, intorno al quale sempre rimbomba e rumoreggia e si spalancano
abissi e aleggia un’aria sinistra. Un filosofo: ahimè, un essere che spesso fugge da se stesso, ha
paura di se stesso – ma che è troppo curioso per non “tornare a se stesso” ogni volta».
Leggo. Penso, che pippone autocelebrativo del cazzo. Poi leggo meglio, ritorno sui passaggi, li
analizzo, cerco di capirli, di metterli al loro posto, di sentirne il filo. Lui mi guarda. Con
compassione, credo. Poi, mi appoggia la mano sulla spalla, e mi dice una cosa ancora più
allucinante di tutto questo. Dice, lo ricordo molto bene:
«Io sono un piccolo uomo, perché ho bisogno di un grande uomo per dire le cose, perché le sue
parole sono troppo perfette perché le faccia a pezzi per averne di migliori. Ma tu sei un uomo
ancora più piccolo, perché ti porti quella borsa pesante, come se quello che c’è dentro ti servisse.
Sei come un cavallo felice di farsi frustare.»
Estremo. Decisamente estremo, e, ecco, le cose che avevo nella borsa, mi servivano, credo.
Insomma, non giravo con una collezione di barbie, o di sassi. Libri, vestiti, cibo. E questo pezzo di
pazzo gigante e pelato, prende proprio un sasso, e me lo dà in mano.
«Mettiti questo, nella borsa. Questo serve, proprio perché non serve a niente, ma pesa. Sentirai
meglio la frusta. Capirai meglio, piccolo cavallo.»
Mi aveva dato una mano, quel pazzo gigantesco. Idee, idee, idee. Dove sono, i fichi? Aiutatemi a
vederli. Aiutatemi a raccoglierli. Fico, il fico, eh. Fichissimo.
Su pornografia sentimentale ed altro
Vaffanculo. V-A-F-F-A-N-C-U-L-O. Lo so dire anche nella lingua dei segni, se serve. Me lo
insegnò una comitiva di sordomuti, in un locale in cui lavoravo, alcuni anni fa. Due colpi con la
nocca dell’indice sul mento, poi si indica il destinatario. Almeno, questo mi par di ricordare. Avevo
promesso a me stesso di tornare, con calma, su pornografia sentimentale, scriverne ancora, spiegare.
Ecco, in verità a quanto pare non aspettavo la calma, per tornarci. Aspettavo di incazzarmi di nuovo.
Iniziamo.
Intanto, il titolo non è farina del mio sacco. «Mi sento un po’ l’italiano medio che guarda i “pacchi”
alle otto e mezzo su rai uno e piange insieme al concorrente che ha accettato il compromesso di
25.000 euro e che se non l’avesse fatto ne avrebbe vinti 250.000, “poverino, solo 25.000!”. Quello
che vince in Italia, la pornografia dei sentimenti.»
Questo è un pezzo di una mail che qualcuno mi ha scritto, a proposito di consapevolezza, di dolore,
di guardare le cose, di pulirsi gli occhi. L’espressione mi è piaciuta, e ci ho ragionato sopra.
Adesso Spit caga verità, quindi sentitevi liberissimi di mandare anche lui a quel paese e smettere di
leggere, e dedicarvi a qualcosa di più importante, tipo un gatto, o l’acido ialuronico, o l’omelette, o
le vostre rispettive e più varie masturbazioni. Avvertìti, eh.
Pornografia: ogni essere umano ha fantasie erotiche, che normalmente rimangono confinate
all’interno della sua immaginazione ove ben assurgono al loro compito. Dicesi pornografia la
trasposizione di tali pensieri su supporti materiali (parole, immagini, video, …) che possano essere
fruibili da più persone. Siccome la media delle fantasie sessuali delle persone ha una distribuzione
gaussiana (quella curva a campana con cui ogni persona si sia occupata di statistica ha avuto a che
fare, con una distribuzione maggiore al centro e via via minore ai due estremi), che va, diciamo,
dalla necrofilia alla pedofilia intese come estremi, per coprire un range abbastanza ampio, gli
oggetti pornografici che si collocano al centro tendono ad essere sessualmente eccitanti per molte
persone. Ecco perché nell’agosto dell’ottantatré le tette della Mussolini su Playboy ebbero tanto
successo da parlarne ancora quando della sostanza di allora ormai è rimasto ben poco, e molto
discutibile. Ecco perché oggi, su Facebook, trovo ventimila inviti ad accendere «Una candela per i
morti di Haiti» venerdì quindici, oppure anche a proclamare il «Lutto nazionale italiano per il
disastro ad Haiti» il diciotto, e così via.
Potete infilarvi tutto quanto il kit dove non batte il sole, per quanto mi riguarda: la candelina
(accesa), la bandiera a mezz’asta (con l’asta), gli stracci neri.
Ah, ecco che si rivela Spit per quello che è: un bastardo cinico senza cuore! Oltre al suo midollo,
oltre al suo sangue, non vede altro! Inumano! Come si permette di dire cose del genere? Sono morte
delle persone, c’è stata una traGGGedia, cazzo. Dovrebbe vergognarsi, seppellirsi, schifoso.
Ripeto? Vaffanculo. Sapete cos’è quella candelina? Un esorcismo. Un modo di sentirsi buoni,
attenti, sensibili. Poi, ditemi: oltre a questo, cosa cambia? Un cazzo di niente. Quanti di voi fanno
ogni giorno qualcosa del genere? Quanti di voi danno l’obolo al questuante sperando di pagarsi il
paradiso, a rate e con un tasso conveniente? Quanti di voi, ogni giorno, in mille modi, cercano la
loro catarsi, la loro purificazione di plastica nelle mille messe ed espiazioni di comodo? Vi fa sentire
bene.
Io non voglio, cazzo, sentirmi bene. Non voglio assolutamente stare in equilibrio, fare il funambolo
su baratri di dolore, piegando la mia asta da una parte o dall’altra quel tanto che serve per non
cadere. Questo è ipocrita, falso, troppo facile. Sapete quante persone, sui moduli di richiesta per la
tipizzazione del midollo osseo hanno lasciato un numero di telefono che non funziona? Sapete
quanti non si presentano agli appuntamenti? Sapete quante telefonate, ogni giorno, è costretta a fare
mia madre, rincorrendo qualcuno che domenica venti dicembre duemilanove, nello stretto e nella
folla di un ospedale ha cercato la sua occasione di sentirsi migliore, di fare un bagno di umanità, di
verniciarsi l’anima a nuovo per coprire la muffa?
Badate bene, non mi fa incazzare, questa cosa, per via del fatto che ogni renitente è un potenziale
assassino di me o di Natalino o di Sladan o di Paolo o di chi altri. Mi fa imbufalire perché avete
barato. Avete voluto ed avete avuto la vostra assoluzione con voi stessi. Ma siete marci, marci,
marci. Voi delle candeline, voi delle bandiere a mezz’asta, voi dell’ospedale, voi dell’obolo. Pagate
la vostra indulgenza, pagatela, pagatela. Ce l’avete. Per quanto ancora? A quando la prossima mano
di vernice? Quanto ci metterà la muffa a mangiarvi del tutto? Che schifo.
Sono stato in posti molto sporchi, molto puzzolenti, molto. Ma niente, cazzo, niente puzza come le
vostre candeline profumate, come i vostri numeri sbagliati, come i vostri impegni inderogabili.
Puzzate di morte, di putrefazione.
Ecco, questo è pornografia sentimentale: eccitare i propri sentimenti, andare a caccia di qualcosa,
un caso, una causa, una disgrazia che vi faccia sentire buoni pietosi caritatevoli giusti, e cercare di
togliervi un po’ di sassi dal cuore. Poveri Haitiani. Poveri Aquilani. Poveri carcerati. Poveri
immigrati. Povero Spit.
Il povero Spit, se si sente chiamare tale, se ha coscienza di essere diventato il tuo personale santino
e simbolo di catarsi, ti dà fuoco. Madonna santissima, se ti darei fuoco. Con amore e per il tuo bene,
chiaro. Ma un sacco, di fuoco. Tienili, i sassi. Senti tutto il loro peso, e straziati. Poi, fai. Vaffanculo
alle candeline, vaffanculo alle domeniche sacrificali, vaffanculo alle immagini ed alle icone. Ci
sono un sacco di cose pratiche che puoi fare, ma costano un po’ di più. Fai per fare, cazzo, non per
sentirti buono. Porcaccio il cane, che nervi. Cattivo. Cattivo. Cattivo. Brutto cattivo. Vergognati. Te
li sequestro, te li brucio, i tuoi fumetti sentimental-pornografici. In cambio posso darti un sacco di
sassi e di legnate, se vuoi. Scegli.
Ho giocato coi peli
La fenice è quell’uccellaccio pazzesco che secondo la tradizione di tanto in tanto prende fuoco (si, il
fuoco è un elemento ricorrente, nella mia immaginazione), per poi risorgere dalle sue medesime
ceneri. La storia, volendo sarebbe un po’ più complicata di così, ma questo è quello che conta,
sapere che secondo Ovidio mangiava resine ed incensi, viveva circa cinquecento anni e costruiva,
prima di morire, un nido di cannella, mirra ed altra robaccia, o che cantava con voce meravigliosa
nel momento della morte per combustione è abbastanza superfluo, e solo uno sfoggio di quasi
inutile cultura accademica.
Ho visto una fenice, un giorno. Non come la immaginava Ovidio, o come quelle descritte nei
bestiari, però. Era una fenice del pensiero, un’idea stranissima, che si dimostrava essere vera sia
affermandola che negandola.
«[...]Quanto a me, non mi afferro saldamente ad alcunché e con profonda imparzialità combatto
tanto le mie opinioni quanto quelle degli altri, rivoltando spesso l’intera costruzione e
considerandola da tutti i punti di vista possibili, con la speranza di trovare, alla fine, quello
ponendosi dal quale sia possibile disegnarla secondo verità. [...]»
Metti In Dubbio Ogni Cosa.
No, non ve lo dico chi l’ha scritta, quella cosa. Sembra una cosa così chiara, tranquilla, semplice,
comprensibile. Invece apre un baratro. Ascolta. Io ti guardo dritto negli occhi e ti dico «metti in
dubbio ogni cosa». Tu annuisci. Leggi una notizia sul giornale, la metti in dubbio e vai a caccia di
verità.
Ecco. Facendo quello che ti ho detto, mettendo in dubbio ogni cosa, hai affermato il principio, ma
lo hai contemporaneamente contraddetto: infatti non hai messo in dubbio che bisogni mettere in
dubbio ogni cosa. Ma… Paradosso! Se metti in dubbio anche la stessa prescrizione “metti in dubbio
ogni cosa”, la affermi. La applichi a se stessa, la dimostri. Ecco com’è la fenice che ho visto, un
giorno. Ho inseguito una persona per mezza Padova, per parlare di questa cosa, e non sono ancora
arrivato ad altra soluzione della faccenda, se non con la convinzione di aver trovato un pezzo di
verità.
Verità. Perché ne siamo così ossessionati? Perché ne abbiamo così bisogno? Bella forza, vecchio.
Vai dalla tua donna, e dille che vai a giocare a calcetto. Poi vai al night con gli amici. Poi fatti
scoprire. Ecco, quello è il peso della verità. Lo senti meglio, se poi provi a invertire le parti. Non c’è
nessuna differenza tra la menzogna dell’amante clandestino e la Menzogna, in generale, con la M
maiuscola. Fa ugualmente schifo, nonostante a volte faccia comodo, nonostante a volte possa
paradossalmente rivelarsi utile.
C’è un fumetto, anzi, una graphic novel, come va di moda dire oggi, che contiene una frase del tipo
“Il politico usa la menzogna per occultare la verità, l’artista, invece, per raccontarla”. Allegorie,
metafore, favole. Tutte menzogne. Miti. Porte per la verità. Per una verità, se non altro. Poi, come
detto: metti in dubbio ogni cosa. La menzogna fa schifo perché qualcuno ci nasconde qualcosa per
il suo comodo, perché ci considera incapaci di capirla, oppure perché sa che se la capissimo non
saremmo d’accordo.
Perché continuate a prendervi per il culo? Perché state qui a leggere? Vi fa sentire più svegli?
Sveglia. Vi sto prendendo per il culo, io me medesimo. Vi sto stordendo a chiacchiere. State
annuendo, state approvando, state santificando Hestia. Dov’è il dubbio? Dov’è la sana critica?
Pensate, quando Hestia scrive, oppure bevete avidi il succo della verità? Hestia brucia. Hestia è una
dea stronza. Hestia non ha mai scritto un testamento, non vuole sacrifici, non vuole sudditi, non ha
mai promulgato una legge, dei comandamenti. Hestia si limita a bruciare, a ridurre alla cenere le
cose, liberandone energia. La sola richiesta di Hestia è di essere imitata. Beh, mai detto che si tratti
di una richiesta gentile.
«Ho giocato coi peli.
Gli occhi, il naso, la bocca, gli orecchi, il torso, le gambe, le braccia, le mani, non ho potuto mica
alterarli. Truccarmi, come un attore di teatro? Ne ho avuto qualche volta la tentazione. Ma poi ho
pensato che, sotto la maschera, il mio corpo rimaneva sempre quello… e invecchiava!
Ho cercato di compensarmi con lo spirito. Ah, con lo spirito ho potuto giocar meglio!
Voi pregiate sopra ogni cosa e non vi stancate mai di lodare la costanza dei sentimenti e la coerenza
del carattere. E perché? Ma sempre per la stessa ragione! Perché siete vigliacchi, perché avete paura
di voi stessi, cioè di perdere – mutando – la realtà che vi siete data, e di riconoscere, quindi, che
essa non era altro che una vostra illusione, che dunque non esiste alcuna realtà, se non quella che ci
diamo noi.
Ma che vuol dire, domando io, darsi una realtà, se non fissarsi in un sentimento, rapprendersi,
irrigidirsi, incrostarsi in esso? E dunque, arrestare in noi il perpetuo movimento vitale, far di noi
tanti piccoli e miseri stagni in attesa di putrefazione, mentre la vita è flusso continuo, incandescente
e indistinto.
Vedi, è questo il pensiero che mi sconvolge e mi rende feroce!
La vita è il vento, la vita è il mare, la vita è il fuoco; non la terra che si incrosta e assume forma.
Ogni forma è la morte.
Tutto ciò che si toglie dallo stato di fusione e si rapprende in questo flusso continuo, incandescente
e indistinto, è la morte.
Noi tutti siamo esseri presi in trappola, staccati dal flusso che non s’arresta mai, e fissati per la
morte.»
Questo era Pirandello. Adesso, fatemi a pezzi. Fateci a pezzi. Dateci fuoco.
Effetti indesiderati
Tumori benigni, maligni, e non specificati (cisti e polipi compresi): I pazienti in trattamento con
terapie immunosoppressive, ciclosporina e regimi contenenti ciclosporina inclusi, sono ad
aumentato rischio di sviluppare linfomi o disordini linfoproliferativi e altri tumori, in particolare
della pelle. La frequenza di tumori aumenta con l’intensità e la turata della terapia (vedere
Precauzioni).
Alcuni tumori possono avere un esito fatale.
Alcuni tumori possono avere esito fatale. Interessante, non ci avevo mai pensato.
Patologie del sistema emolinfopoietico: anemia, trombocitopenia. Presenti, ma non è colpa della
ciclosporina.
Disturbi del metabolismo e della nutrizione: iperlipidemia. Nah, questa manca. Anoressia, non è il
mio caso. Iperuricemia, iperkaliemia, ipomagnesemia, iperglicemia. Vediamo cosa dicono gli esami
di chimica del sangue, martedì.
Patologie del sistema nervoso: tremore, cefalea. Presenti. Parestesia: c’è anche quella, ogni tanto.
Convulsioni: no. Confusione: vorrei vedere te, a leggere questo libretto. Disorientamento: idem.
Iporeattività agli stimoli, no. Mai stato. Tu?
Agitazione, anche lì mi sa che non è colpa di questa cosa schifosa. Insonnia, ok, presente anche lei.
Disturbi della visione, coma, cecità corticale, paresi, atassia cerebellare, polineuropatia motoria,
edema della papilla ottica e papilloedema non sono della partita, per fortuna.
Patologie vascolari: ipertensione. No. Patologie gastrointestinali: nausea, vomito, dolore
addominale, diarrea, iperplasia gengivale, pancreatite. Ok, scelgo le prime tre, di tanto in tanto,
quando avanza tempo.
Patologie epatobiliari: disfunzione epatica. Dio non voglia, mi toccherebbe rinunciare anche alla
mezza birra a pasto.
Patologie della cute: ipertricosi, eritemi allergici. L’ipertricosi è una faccenda interessante. Aumento
della pelosità. Mh, andrò a finire come lo zio Vania de “il più grande uomo scimmia del
pleistocene”. Fico.
Patologie del sistema muscoloscheletrico e del tessuto connettivo: crampi muscolari, mialgia,
debolezza muscolare, miopatia. Loro li conosco abbastanza bene, siamo familiari ormai.
Patologie renali ed urinarie: disfunzione renale (vedere precauzioni). Mh, per ora no, ma pare che
siano disturbi frequenti. Intanto, bere un sacco di acqua, poi stiamo a vedere.
Patologie dell’apparato riproduttivo e della mammella: disturbi mestruali, ginecomastia. Ok, sono
sprovvisto della materia prima per avere anche questi.
Patologie sistemiche e condizioni relative alla sede di somministrazione: affaticamento, aumento di
peso, edema. Ok, per ora l’edema mi manca. Sono fortunato. Totale: centotrentasei euri e novanta
cents, una scatola da trenta pastiglie.
Paga lo stato, per fortuna. Paghiamo noi. Quattro euro e cinquantasei a pillola, per quattro volte al
giorno. Totale diciotto e ventiquattro, più le mani che di tanto in tanto fanno abbastanza male da far
bestemmiare per scrivere, (crampi, mialgia, debolezza muscolare, più il tremore che non aiuta), più
le ginocchia che mi tengono sveglio, più le gambe che non vanno d’accordo con le scale, più altre
faccende. Eh, certo, non è colpa solo della ciclosporina: collaborano anche l’iniezione di myelostim,
ogni mattina (centotrentuno euri, una confezione monodose), il deltacortene, il bactrim, il
fluconazolo, la folina… Effetti collaterali. Alcuni, parrebbe con esito fatale. Che culo. Sono un
concentrato di effetti collaterali. Si, che cazzo, mi sto lamentando. Eh, ma tu dici sempre che la
malattia ha i suoi lati positivi, che in un certo senso serve, che ti ha dato tante cose, che
blabblabbla…
Si. Aggiungo sempre un sacco di virgolette. Non che sia falso, per Diana: anzi, ne sono convinto.
Solo, anche il più buono dei frappè alla fragola ha il suo buon effetto collaterale. Magari solo un
accumulo di calorie. E questo non è un frappè alla fragola. Posso lamentarmi, ogni tanto, no? È il
nostro sport nazionale. Siamo i migliori, a lamentarci, noi italiani. Come ci lamentiamo noi non si
lamenta nessuno. Piove, governo ladro. Eh, ma le mezze stagioni, i giovani di una volta, e poi, non
c’è più religione. Siamo i migliori, con le lamentazioni e i piagnistei. Io non mi sono impegnato,
perché ho i crampi alle dita, ma avrei potuto far meglio, sicuro.
Domanda: cosa ho ottenuto, da questo vilissimo pugno di mosche?
Un cazzodiniente.
Lamentiamoci, vah. Lamentiamoci, Italia.
Sangue di Dio!
Credo che se iniziassi questo testo come avevo in mente, ovvero senza questa piccola introduzione,
il lettore medio ne rimarrebbe piuttosto sconcertato. Capita, è capitato: persone che si sono viste
levare la potestà sui figli minorenni, perché la loro posizione di fede li avrebbe condannati a morte
certa. Capita ed è capitato: persone che in virtù di una posizione di fede hanno deciso di morire.
Questo è già meno grave. Credo che ognuno debba disporre di sé, come preferisce. Capita, e
continuerà a capitare, che persone con un buon sangue, un buon midollo, una buona salute e un
buon orizzonte morale rifiutino di salvare la vita a qualcuno, per una posizione di fede. Questo non
va affatto bene. Molto malissimo, anzi. Specie se poi queste persone vogliono pensarsi buone e
caritatevoli.
Questo, non mi piace, della fede, di ogni fede: pone dei punti fermi alla ragione. O sei dentro o sei
fuori. O credi a tutto, in blocco, o non credi. Ci sono cose che non devi mettere in dubbio. Ecco, io
ho deciso di mettere in dubbio delle cose. Chiedo scusa, sarà un pippone teologico, ma insomma,
mica posso scrivere sempre SOLO le mie solite cose incazzate. Ci vuole varietà, ecco. Dialogo
interculturale. E purtroppo, o per fortuna, il dialogo interculturale richiede forme diverse dal mio
solito aaaaahhr vaffanculo stronzi blabbla cazzo cazzo cazzo. Se non vi piace, se è palloso, sono
affari vostri. Nessuno obbliga nessuno a leggere.
Un Professore, uno di quelli con la P maiuscola, una volta mi ha insegnato che è saggio, quando si
scrive qualcosa, o quando si parla a qualcuno, dire molto chiaramente quale sia la propria posizione.
Così il lettore, o l’interlocutore, saprà capire chiaramente cosa esce dalle posizioni, dagli assunti di
partenza, e cosa invece è frutto di argomentazione. Dico, quindi, che sono cristiano, ma non lo sono.
Mi spiego: Credo che nessuno di noi, nati e cresciuti in questo paese, in questo contesto culturale,
possa dirsi non cristiano. I nostri riferimenti, le nostre metafore, la nostra filosofia, tutto il nostro
orizzonte è profondamente intriso di cristianesimo.
Eppure, non sono cristiano. I miei genitori, quando sono venuto al mondo, hanno deciso di non
battezzarmi. Hanno cercato, durante la mia infanzia, di trasmettermi non tanto una fede, quanto una
“tensione spirituale”. Un percorso di ricerca. Ricorderò sempre con piacere quando, la sera,
leggevamo insieme il nostro piccolo libro delle religioni. Hanno sempre pensato che avrei scelto da
me, quando sarebbe stato il momento. Non sono ateo, non sono agnostico, non sono ebreo, non
sono buddhista, non sono musulmano, non sono cristiano. Non ho mai compiuto quella scelta, non
ho mai “deciso da che parte stare”. Ho fatto mie, in un certo senso, le parole di Agostino, quando
dice «non mi cercheresti se non mi avessi già trovato». Non so chi o cosa ho trovato, se non un
cammino di ricerca. Non è male, per ora. Mi permette di conservare una certa apertura, una certa
possibilità di dialogo ad ampio spettro.
Genesi 9:2-7
E avranno timore e spavento di voi tutti gli animali della terra e tutti gli uccelli del cielo. Essi son
dati in poter vostro con tutto ciò che striscia sulla terra e con tutti i pesci del mare. Tutto ciò che si
muove ed ha vita vi servirà di cibo; io vi do tutto questo, come l’erba verde; ma non mangerete
carne con la vita sua, cioè col suo sangue. E, certo, io chiederò conto del vostro sangue, del sangue
delle vostre vite; ne chiederò conto ad ogni animale; e chiederò conto della vita dell’uomo alla
mano dell’uomo, alla mano d’ogni suo fratello. Il sangue di chiunque spargerà il sangue dell’uomo
sarà sparso dall’uomo, perché Dio ha fatto l’uomo a immagine sua. Voi dunque crescete e
moltiplicate; spandetevi sulla terra, e moltiplicate in essa.
Levitico 3:17
Questa è una legge perenne per tutte le vostre generazioni. In tutti i luoghi dove abiterete non
mangerete né grasso né sangue.
Levitico 7:26-27
Non mangerete neppure del sangue, né di uccelli né di quadrupedi, dovunque abiterete. Chiunque
mangerà sangue di qualsiasi specie, sarà eliminato dalla sua gente.
Levitico 17:10-12
Se un uomo della casa d’Israele, o uno degli stranieri che abitano in mezzo a loro mangia qualsiasi
genere di sangue, io volgerò la mia faccia contro la persona che avrà mangiato del sangue, e la
eliminerò dal mezzo del suo popolo. Poiché la vita della carne è nel sangue. Per questo vi ho
ordinato di porlo sull’altare per fare l’espiazione per le vostre persone; perché il sangue è quello che
fa l’espiazione, per mezzo della vita. Perciò ho detto ai figli d’Israele: «Nessuno tra voi mangerà del
sangue; neppure lo straniero che abita fra voi mangerà del sangue».
Levitico 17:14
perché la vita di ogni carne è il sangue; nel suo sangue sta la vita; perciò ho detto ai figli d’Israele:
«Non mangerete il sangue di nessuna creatura, poiché la vita di ogni creatura è il suo sangue;
chiunque ne mangerà sarà eliminato».
Deuteronomio 12:16
ma non ne mangerete il sangue; lo spargerai per terra come acqua.
Deuteronomio 12:23
ma guàrdati assolutamente dal mangiarne il sangue, perché il sangue è la vita, e tu non mangerai la
vita insieme con la carne.
Deuteronomio 15:23
Però, non ne mangerai il sangue; lo spargerai per terra come acqua.
1Samuele 14:32-34
prese pecore, buoi e vitelli, li scannò sul suolo e li mangiò con il sangue. Questo fu riferito a Saul e
gli fu detto: «Ecco, il popolo pecca contro il SIGNORE mangiando carne con il sangue». Egli disse:
«Voi avete commesso un’infedeltà; rotolate subito qua presso di me una grande pietra». Saul
soggiunse: «Andate in mezzo al popolo e dite a ognuno di condurmi qua il suo bue e la sua pecora e
di scannarli qui; poi mangiate e non peccate contro il SIGNORE mangiando carne con sangue!»
Quella notte, ognuno del popolo condusse di propria mano il suo bue e lo scannò sulla pietra.
Mia cara persona di fede, mio caro Vero Cristiano:
Questo è il risultato delle mie ricerche a proposito di sangue per quanto concerne l’antico
testamento. L’edizione della Scrittura che ho utilizzato è la nuova riveduta, ma parallelamente ho
confrontato ogni verso, ogni riga, con la C.E.I, con la Diodati del 1607, la riveduta del ‘27, la
vulgata in latino (405 d.C). Purtroppo, per mancanza di competenze, non ho potuto mettere le mani
sui testi in greco della settanta, o sugli originali ebraici, ma devo dire che tra i testi che ho usato, ho
potuto verificare una discreta fedeltà, nonostante provengano da ambiente, culture ed epoche
differenti. Il pericolo di discordanze o di refusi, quindi, è abbastanza basso. Dopo queste doverose
premesse metodologiche, veniamo al dunque.
Sembra abbastanza chiaro, a partire da Genesi fino all’episodio narrato in Samuele, che Dio non
gradisce che si consumi sangue. E grasso. E un’altra serie di cose. Basta leggere per intero Levitico
o Deuteronomio, per rendersene conto. Parlando sempre di sangue, sebbene di altro genere,
Levitico 15:19 dice che «Quando una donna avrà i suoi corsi e il sangue le fluirà dalla carne, la sua
impurità durerà sette giorni; e chiunque la toccherà sarà impuro fino alla sera.» Guai a toccare una
donna mestruata. Guai. Hai mai avuto occasione di dover assistere un’amica, una partente, una
conoscente con un ciclo mestruale particolarmente debilitante, oppure una ragazzina al menarca? A
me è capitato. Cos’avrei dovuto fare? Dirle di arrangiarsi, che non potevo portarle un tè, o darle una
coperta, o farle una carezza, perché altrimenti sarei stato impuro? Eppure, questo dice la parola di
Dio. Sono stato fiero di aver contravvenuto, e di essere stato umano.
Levitico 20:13, invece prescrive che “se uno ha con un uomo relazioni sessuali come si hanno con
una donna, tutti e due hanno commesso una cosa abominevole; dovranno essere messi a morte; il
loro sangue ricadrà su di loro.” Oggi si parla della possibile esistenza di una base genetica per la
predisposizione allo svilupparsi di comportamenti omosessuali, che serve, quando espresso nelle
donne, a garantire un maggior tasso di fertilità. Anche se così non fosse, Dio vorrebbe che uscissi di
casa con il mio piccone ed ammazzassi ogni gay che incontro, semplicemente perché manifesta un
particolare genotipo, ricevuto in eredità dai genitori senza nessuna colpa, oppure invece
semplicemente perché per una qualunque altra ragione gli piacciono più gli uomini che le donne?
Ma per favore. Questi sono solo due esempi, potrei andare avanti.
Torniamo al nostro sangue. Non mi pare che sia vostro costume mangiare, come fanno ad esempio
gli ebrei o i musulmani (in obbedienza a questi stessi precetti), carne casher. Potresti sempre
cominciare, per meglio obbedire alla parola di Dio. Ora, un paio di appunti. Nei climi caldi, quali
quelli desertico, mediterraneo caldo o mediterraneo temperato, tipici dei luoghi in cui si svolgono le
vicende dell’antico testamento, la carne cruda tende ad un deperimento piuttosto veloce, ed a
diventare un perfetto terreno di coltura per svariate famiglie di batteri. Ridurne il contenuto in acqua
(leggi: dissanguare) è il miglior modo per garantirle una maggior durata. Questa è la ragione
antropologica della proibizione di cui stiamo parlando. Dire che Dio non vuole che mangiamo il
sangue è più facile che spiegare ogni volta «per prova ed errore abbiamo visto che la carne
dissanguata si conserva meglio, e si rischia meno a mangiarne». Interpretare questi passi della
Scrittura in maniera diversa da quello che sono, ovvero fantasmi di un’altra epoca, di un’altra
cultura, sarebbe piuttosto, come dire, stupido.
Aspetto però un’obiezione: mi dirai che sia nel passo di Genesi che ho già citato, sia in Atti 15:20 e
15:29, che sono la trascrizione di un protoconcilio in cui i primi cristiani decidevano cosa tenere e
cosa tralasciare della precedente tradizione (che di per sé mi sembra un’operazione abbastanza
arbitraria), al sangue viene attribuita un’importanza tutta speciale, e quel precetto viene ribadito,
uscendo quindi dal campo delle disposizioni alimentari. Parliamone: in primo luogo, le istanze
igieniche che lo avevano generato, rimanevano valide. Lo sarebbero rimaste per secoli ancora. Poi,
in ogni cultura il sangue ha un significato magico, è un simbolo forte.
Ogni cultura ha i suoi miti legati al sangue. E non perché sia stato Dio a dirlo, a ordinare di
inventarsi storielle sul sangue, ma semplicemente perché il potere simbolico del liquido della vita,
presente in tutti gli uomini e in moltissimi animali, è forte ed eccita bene l’immaginazione.
Fine del materiale biologico a statuto speciale. Una domanda, prima di passare al nuovo testamento,
che complica le cose: Sei fedele alla parola di Dio. Vuoi esserlo. Allora, smetti di mangiare carne
che non sia casher, ammazzi i gay, non tocchi le donne mestruate eccetera, oppure inizi a pensare
che la Scrittura vada interpretata, usata come contenuto sapienziale simbolico da leggere all’interno
di un tempo e di un contesto?
Ma va bene, va bene. Veniamo alla parte più interessante. Episodio noto, eh, talmente noto da essere
patrimonio della nostra cultura, non solo della fede.
Matteo 26:27-28 racconta dell’ultima cena di Gesù. Dice che “preso un calice e rese grazie, lo diede
loro, dicendo: «Bevetene tutti, perché questo è il mio sangue, il sangue del patto, il quale è sparso
per molti per il perdono dei peccati.»”.
In Marco 14:23-24, invece, “preso un calice e rese grazie, lo diede loro, e tutti ne bevvero. Poi Gesù
disse: «Questo è il mio sangue, il sangue del patto, che è sparso per molti»”.
Poi c’è Luca 22:20, secondo cui “allo stesso modo, dopo aver cenato, diede loro il calice dicendo:
«Questo calice è il nuovo patto nel mio sangue, che è versato per voi»”.
A Giovanni ci arriviamo dopo, lui ha l’abitudine di rendere le cose sempre più complicate di quanto
non debbano essere. Insomma, mi pare che la scena sia abbastanza chiara, no? Gesù, alla sua ultima
cena, esplica il senso della sua vita, che sta per concludersi.
Veniamo adesso a Giovanni, però in riferimento ad un altro episodio. Si tratta di Gesù che insegna
alla sinagoga di Cafarnao, o Capernaum, o Kefar Nahum che dir si voglia. Devono essere state
lezioni interessanti, altro che certe cose soporifere delle nostre università di oggi.
Comunque, Giovanni 6:53-56 racconta: “perciò Gesù disse loro: «In verità, in verità vi dico che se
non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avete vita in voi. Chi
mangia la mia carne e beve il mio sangue ha vita eterna; e io lo risusciterò nell’ultimo giorno.
Perché la mia carne è vero cibo e il mio sangue è vera bevanda. Chi mangia la mia carne e beve il
mio sangue dimora in me, e io in lui»”.
Ok, chi non ci crede può sentirsi legittimato a pensare che Gesù avesse delle manie di grandezza, o
che Giovanni fosse un lecchino. Ne possiamo parlare.
Il punto, però è un altro. Gesù infrange e fa infrangere il comandamento di astenersi dal sangue, con
il proprio. Per salvare tutti, amici, nemici, familiari, sconosciuti. Ora, tu che hai deciso di
riconoscerti nel messaggio di Gesù, nelle sue parole, hai due modi di darne traccia: il primo è
partecipare ad un rito simbolico in cui tu mangi la sua carne e bevi il suo sangue. Il secondo, più
complesso, è capire il senso, estrapolare il messaggio, applicarlo. Gesù dà se stesso, il suo corpo ed
il suo sangue, per amore del prossimo, quello vicino che conosce e quello lontano che non
conoscerà mai.
Insomma, intendiamoci: fossi il presidente dell’associazione donatori organi, donatori sangue o di
un’altra associazione del genere, io gli manderei la tesserina di socio onorario, al vecchio ebreo
capellone. Ci sapeva fare, un sacco. Eccolo, il secondo modo per dare traccia, per mostrare di aver
compreso ed accolto le parole di Cristo: fare come lui. Imitarlo. Seguire i suoi passi. Era sangue di
Cristo, sangue di un cristo, quello che ho accolto in me, l’altro giorno in ospedale. Sangue di
qualcuno, sconosciuto, che aveva amato il prossimo suo al punto di sacrificargli se stesso.
Serve dire altro? Si, credo. Il salmo 50, specie la sua conclusione. Lo dedico a tutte quelle persone
che sono convinte di avere la legge, la verità in tasca. Io, per quanto mi riguarda, sto contentissimo
in compagnia dei miei millanta dubbi. Tipo, se dedicare un salmo come se fosse un brano in radio
sia una cosa blasfema oppure no. Mah.
Fulmini!
Devi avere la pazienza dei santi, mi hanno detto. La pazienza dei santi. Io, a dire il vero, ho gran
poco di santo. Del resto, che altro fare? Non posso mettere iomemedesimo le mani nella biochimica
del mio corpo. Non posso iomemedesimo girare masticando le tibie, gli sterni e le creste iliache
delle persone, in cerca di un midollo che abbia un buon sapore. Che palle. Non è pazienza. È
sopportazione, tutto qui.
Wow, come sei fico, come sei eroe, mi dicono. Palle. Cosa dovrei fare? Appallottolarmi su me
stesso e piangere? No, non è essere eroi. È solo voler sopravvivere. È solo, per quanto possibile,
tirare fuori del buono, da tutta questa schifezza. Ci sto riuscendo? Non lo so. So che si stanno
muovendo delle cose.
Sono arrivato ad una conclusione, sull’atto di giudicare, nel mio forzato ascetismo da stilita
ospedaliero, appollaiato su un letto anziché sulla solita colonna, scollegato dal mondo: ogni nostro
giudizio è immerso nel tempo. Quindi parziale.
Bivio: mi ammalo, oppure no. Seconda via: continuo la mia vita, arrampico, seguo le lezioni
all’università, mi laureo in tempi brevi. Divento donatore di sangue e midollo. Il resto, troppo
lontano per discuterne.
Prima via: mi spavento. Mi incazzo, come una scimmia. Cambio completamente la mia vita. La mia
carriera universitaria si complica, i tempi si distendono. Affronto un mese di ospedale, e una
prospettiva di una lunga terapia.
Però inizio a scrivere. Parlo con le persone, per essere precisi rompo le palle alle persone, prendo a
testate le persone, perché vedano le cose per quello che sono e non per quello che vorrebbero.
Questo porta, in prima istanza, un aumento di attenzione per la problematica del sangue e del
midollo osseo, tanto che qualcuno, dalla segreteria nazionale di ADMO mi scrive che «Ho sentito
parlare di te e letto il tuo blog, innanzitutto davvero davvero grazie per avere il coraggio di metterti
in gioco in questo modo, stai dando una grande forza anche a tutti noi, nel nostro lavoro quotidiano,
e poi in questi giorni ci ha contattato veramente tanta gente che vuole iscriversi al registro dei
donatori, e credo proprio che il merito sia tuo… quindi continua a scrivere e a non farti fermare da
nessuno, siamo tutti con te… ».
Poi, gli effetti collaterali. Ricercati, a dire il vero. L’ho detto, lo ripeto: il sangue ed il midollo sono
una perfetta allegoria per parlare di umanità, di accorgersi degli altri, di darsi agli altri, con
disinteresse. Perché? Perché sono io? Un cazzo. Perché è giusto. Perché non riconoscere l’umanità
degli altri vuol dire negare la propria, uccidersi un po’ alla volta, diventare cose, non persone. Ecco,
il mio bivio.
Ci penso, ci ripenso. Per come giri la faccenda, non ce n’è. L’utile maggiore è uscito dalla mia
malattia. Come se non bastasse, non avrei mai conosciuto un sacco di persone straordinarie, se il
mio sangue non fosse andato in pappa. Non avrei visto, nel buio, il brillare di tante persone, tutte
speciali.
Mh. Mi fa un po’ schifo, questa cosa. Sarei stato una persona normalmente passiva, se non mi fossi
ammalato. È servita una malattia rara per muovermi verso l’umanità.
E voi?
Voi che scusa avete?
No. Non ne avete, di scuse. Guardate, prendete coscienza delle cose. E poi agite. Ci sono
abbastanza me in giro per il mondo, abbastanza persone con il midollo pigro e il sangue marcio, o
con qualunque altra cosa schifosa che intrappola il corpo in una gabbia, sia di farmaci o di
ingranaggi e ruote, o di tubi, o di qualunque altra cosa.
Ci sono abbastanza cristi inchiodati alla loro allegorica croce perché ne prendiate atto, senza che
debba capitare a voi, o ai vostri figli, senza che piombi anche sulla vostra gobba. Dovete essere
attenti, però. Guardare. Non distogliere lo sguardo.
Lo so. Fa soffrire, sentire le storie che racconto. Ma, per dio, levatemi la vostra attenzione, e avrete
ucciso il senso che ho trovato alle mie sfighe. Questa è la sola pazienza che posso avere: quella di
raccontare me, perché possiate tutti rendervi conto delle cose, quelle vere, il valore della terra sotto i
piedi, o del profumo di un fiore, senza dover affrontare in prima persona il dolore, quello vero,
quello da svegliarsi urlando, la notte.
Che cazzo, l’alternativa è prendervi tutti a randellate, spezzare le gambe a tutti, per farvi capire cosa
voglia dire sofferenza. Non mi piace, come idea. Però, ecco, a parole posso prendervi a mazzate
come voglio. Aha. Tempesta. Un sacco, di tempesta. Fulmini. Fulmini, vi voglio portare, schiaffare
in testa. Fulmini di parole. Che vi stordiscano, ma senza ammazzarvi. Se possibile.
Un ponte di luce
C’era un sacco di ghiaccio, stamattina. Tetti bianchi. Prati bianchi. Alberi bianchi. Trine di brina sui
rami, su fili d’erba, sulle foglie rinsecchite, sul precoce verde delle prime timide foglie di primula.
Girando per casa ho cercato di guardare da ogni parte, da ogni finestra, per vedere tutto il mio
orizzonte, seppur da dietro un vetro.
Vivo in una valle stretta, il sole arriva abbastanza tardi. Ma quando arriva, che spettacolo.
La luce inizia a filtrare, a sud-est, sopra il monte Cornon, fra i tronchi delle conifere. Sbam!
Attraversa la valle, come un ponte, steso in un istante, e va a sbattere dalle parti dei prati alti e dei
boschi di Campolongo, le propaggini dell’altopiano.
Un ponte di luce, che, dove accarezza le bianche betulle e i faggi coperti di ghiaccio, alza cortine di
vapori. È una cosa da vedere, il sole, quando si insinua in questa valle, d’inverno. Accarezza la
roccia, che inizia a cambiare colore. Tutto, cambia colore. Ogni cosa.
Il ghiaccio inizia a scomparire, sublima, creando queste pazzesche nuvolette, così veloci a sparire,
così veloci a muoversi. È un mondo che muta, lento, veloce, chi può dirlo, è così relativo. Il bianco
svapora in marrone, in grigio, in giallo ed arancione. Quando sale la luce, poi, bisogna guardare i
nostri stapiombi di calcare. Le creste di San Giorgio, Camposolagna, la val dei Ponti, la val dei
Cavallini e la val Putifaia. La roccia non è mai grigia e basta.
Certo, non saranno i colori magnifici delle Dolomiti, ma vale la pena, ogni tanto, fermarsi a
guardare i cromatismi della roccia, il loro cambiare. Il modo in cui le ombre camminano,
disegnando forme diverse. Il modo in cui, in questa stagione, si vedono i vecchi sentieri, i vecchi
ruderi, tracce ormai dimentiche del peso del piede dell’uomo, boschi che non sentono da molto il
chiasso del respiro delle persone, case ormai vuote, focolari riconsacrati a tane e camini abitati non
più dalla fuliggine, ma dalla clematide, dall’edera e dal rovo.
C’era un sacco di ghiaccio, stamattina.
Quando sei costretto a casa da una malattia piuttosto tenace a mollare la presa, hai un sacco di
tempo per pensare. Per guardare le cose con occhi diversi, per vedere dappertutto simboli, allegorie.
Se poi questa è già una tua abitudine, ecco. Il gioco è fatto.
Guardi i calcari e le vecchie foto, e pensi a come l’arrampicare sia metafora della vita, come la
cordata e la sicura siano simbolo di profonda intesa, di come mettere la propria vita nelle mani di un
compagno sia un gesto di estrema fiducia.
Guardi quelle vecchie case, e ti torna in mente quando, zaino in spalla, attrezzato con un po’ di
corda, cordini e moschettoni, ti inerpicavi sulle pareti della valle, intruso, tra cose non più delle
persone.
Pensi a quelle escursioni come a viaggi mistici, ritorni ad un mondo preumano, perso per sempre,
diverso.
Ricordi le rovine del capitello a Santa Barbara, eretto da qualche minatore. Una statuina, e come exvoto una lampada al carburo.
Pensi ad un mondo diverso, che rivive nelle memorie e nelle fantasie, nei fantasmi di vapore
sollevati la mattina dal ponte di luce che attraversa la valle. Uno sbaffo di bruma, e immagini
generazioni di carbonari, immagini piante abbattute e grandi pire, immagini le slitte e i sacchi,
immagini il lavoro, il massacro paziente degli scalpellini, immagini lo scroscio della pietra che tra il
sottobosco scende a valle, diretta chissà dove, immagini lo scorrere della vita in quelle rovine.
La nebbia le avvolge, e per un momento sembra che i muri siano di nuovo integri, che i soffitti
siano ancora al loro posto. È tutto così lontano.
È un mondo scorso, andato, come le foreste che attraverso il Brenta hanno fondato Venezia. Sono
un tecno-entusiasta, un tecno-dipendente, vivo grazie a macchine, ogni giorno uso un computer per
diverse ore, la rete è una protesi del mio pensiero e del mio agire. Eppure, ancor di più oggi, che
quel calice mi è precluso, credo nella necessità, ogni tanto, di andare a bere l’acqua della cascata
della Val Gadena, o della sorgente del Pertuso, calcando pietre che hanno visto i passi di chissà
quanti, attratti da quell’angolo di mondo fuori del mondo, da quell’acqua.
Non solo come operazione nostalgica, però. Stare agli estremi di quel ponte di luce, in quei vapori,
in quei fantasmi, è un altro simbolo.
Siamo tutti congelati, siamo tutti rappresi, sclerotizzati dalla nostra solitudine, dalla nostra
mancanza di relazione, di altre persone.
Bisogna mettersi al sole. Berne i raggi, farsi avvolgere da quei vapori, da quei fantasmi, quelle
brume di mondi perduti.
Bisogna scongelarsi, levarsi di dosso la brina, scaldarsi in mezzo alle ombre che si accorciano.
Sentire la carezza del calore sulla pelle. Danzare con i fantasmi di vapore, in mezzo alle mura delle
dimore perdute, delle tane fredde.
Portare vita, di nuovo, con una diversa percezione. Portare un nuovo calore, con la consapevolezza
di quello che è stata la morsa del gelo.
Certo, il sole prima o poi tramonta. Certo, il gelo ritorna. Allora, è il momento di raccogliere i doni
del bosco, e di accendere il fuoco. Un grande fuoco che brilli e scaldi, e sia faro e filò, e cuore
caldo, fintanto che il ponte di luce non stenda di nuovo il suo arco sulla solitaria, chiusa e stretta
Valbrenta.
Non appartiene all’uomo che cammina nemmeno di dirigere il
suo passo
Mi arriva ogni giorno un sacco di posta. Per quanto possibile, cerco sempre di rispondere a tutti, in
tempi umani. Ecco, ogni tanto qualche mail mi colpisce in maniera particolare, e diventa ragione
per scrivere, anziché una sola risposta privata, qualcosa da mettere qui sul blog, a beneficio di
tutti. Credo che ognuno, in un modo o nell’altro, abbia la sua da dire, e che da ogni parola, ripeto,
OGNI parola, si possa trarre un insegnamento di qualche genere. Alcuni giorni fa mi è arrivata
una mail che mi ha dato davvero molto da pensare. Una di quelle cose che ti portano a fermarti, a
guardarti dietro, a considerare la strada fatta e la strada da fare, a fare il punto sulla situazione, a
farsi, in poche parole, un po’ di conti in tasca. Ecco, io li ho fatti, i miei conti in tasca. Avevo
deciso, a cose fatte, di metterli per iscritto. Se non altro, i risultati e qualche passaggio
dell’equazione che mi ha portato ad essere me, qui ed ora. Ho messo un bellissimo disco che mi ha
regalato un amico mentre ero in ospedale (scrivo sempre ascoltando musica), ed ho iniziato. Ho
scritto un po’ di righe. Ho cancellato tutto. Ho ripensato: ognuno ha qualcosa da dire, da ogni
parola si può trarre insegnamento. Allora ho deciso di mettere in atto, in modo che il mio principio
non restasse pura teoresi (una perla falsa) ma azione. Dare peso alle parole degli altri. Eccoci.
Caro Giovanni,
ho letto con molta attenzione “Sangue di Dio”.
Adesso cosa ti aspetti da me, che difenda le mie idee? Che mi risenta per quello che dici? Che
riveda la mia opinione perché grazie a te ho capito che stavo sbagliando? Onestamente quale
risultato vuoi ottenere? O semplicemente vuoi farci sapere come ti senti? Come la pensi?
Prendertela con qualcuno che vede le cose diversamente da te, non cambia purtroppo la situazione,
vediamo tutti i giorni qualcuno stare male perché vorrebbe delle cose che non riesce ad avere,
perché non si sente capito, perché si sente defraudato di qualcosa. Gente che non ha da mangiare,
che non ha un lavoro, una famiglia, e chissà cos’altro ancora.
Il punto è che le cose stanno così, per quanto la cosa ci faccia dispiacere. Le cose stanno così. Certo
molti sono convinti che se tutti ci impegnassimo di più le cose possono cambiare, ma la realtà è
un’altra.
Se guardiamo alla storia, comprendiamo che per quanto possiamo lottare, le cose vanno sempre
nella stessa direzione. Sai perché? Per dirla con le parole di Geremia “non appartiene all’uomo che
cammina nemmeno di dirigere il suo passo”. L’essere umano non è in grado, non ha la capacità di
risolvere i problemi che si è creato volendo vivere in maniera indipendente dal proprio creatore, non
tenendo conto dei limiti che gli erano stati dati. Con questo non voglio dire che non dobbiamo fare
nulla e stare a guardare, dobbiamo però capire i nostri limiti. D’altra parte, se siamo una 500 non
dobbiamo pensare di essere una Ferrari, o meglio lo possiamo anche pensare, ma poi dobbiamo fare
i conti con la realtà, davanti all’evidenza dobbiamo riconoscere umilmente che c’eravamo sbagliati.
[...]
[...]Felice di conoscerti, in queste settimane sono stati molti i ragazzi (un po' di tutto il Veneto) che
hanno telefonato alla segreteria del Coordinamento per avere informazioni su come diventare
donatori di midollo[...]
[...]qualche minuto fa in una delle mie pause studio al tg ho sentito una tua intervista…ho cercato
anche informazioni su fb..ma forse xkè hai troppi omonimi e forse perchè poi tutta la voglia di
cercare tra i tanti nn l’avevo ho trovato qst link e ho preferito scriverti…ed ho pensato che forse qst
volta nn devo far correre e se te puoi darmi una mano a capire come poter donare midollo te ne sarei
grata…grazie[...]
[...]ti scrivo per ringraziarti. C’è una cosa che non ho detto quasi a nessuno: da un po’ di tempo
spero, sogno, prego che i miei genitori mi lascino donare il midollo, (iscrivermi al registro, ecco):
sono volontaria in ospedale, con un unico pensiero fisso. donarsi completamente. Non basta il
tempo offerto, o l’amicizia. è sempre poco. Purtroppo, per varie cose, tra cui i timori della mamma
(infondati) e il fatto che, purtroppo, sono giovane e devo obbedire, ancora non ho potuto fare niente.
Ma, in silenzio, spero e prego. Ieri la mamma ha visto il servizio su studio aperto, mi ha guardata e
ha detto: “se vuoi, hai il mio permesso”. e’ stato un miracolo, né più né meno, di quello. Vorrei
abbracciarti forte, forte forte: grazie a ieri sono cadute le resistenze di mamma! Un abbraccio grosso
grosso grosso[...]
[...]da quando ho 3 anni convivo con l’anemia aplastica. Dopo aver visto il servizio non potevo fare
a meno di scriverti e magari di raccontarti un po’ di cose, di confrontarci e di dirti di non arrenderti
mai per nessuna ragione al mondo.[...]
[...]Appena ho raccolto un po’ di idee dai link che mi hai fornito faccio preparare la circolare e
inizio il mio giro per le quinte nelle ore libere che ho in orario. Intanto, grazie ai poster, ho già avuto
qualche richiesta di informazioni.[...]
[...]Vedrai che bello quando ci tornerai su quelle cime. Io l’ho già provata quella sensazione di poter
ritornare a fare le cose di un tempo. Una delle emozioni più grandi l’ho avuta proprio andando in
montagna. Dopo tante sofferenza vedere che il corpo ti supporta di nuovo, sentire le gambe che ce
la fanno e il respiro che “tiene” mentre un po’ alla volta arrivi sempre più su è una sensazione
indescrivibile. Quando poi arrivi in cima e guardi giù in quel momento ti senti… Non te lo dico
come ti senti. Lo proverai da te.[...]
[...]In fondo sei ancora nel bel mezzo della bufera. Il trapianto io l’ho già fatto, il trapianto mi ha
realmente salvato la vita. Per questo mi sento bisognoso di sensibilizzare la gente. Il mio più che un
impegno è un dovere, ma lo faccio con piacere.Se il donatore per me è stato trovato lo devo
essenzialmente a quelle persone eccezionali che hanno creduto nell’altruismo e che sono riusciti a
portare avanti un progetto iniziato verso la fine degli anni 80 e che prima nemmeno esisteva. Nel
nostro piccolo dobbiamo contribuire per far sì che quante più persone possibili possano disporre di
un donatore compatibile e possano giovare della stessa fortuna che ho avuto io. Non so se hai mai
letto la lettera di Rossano… Rossano era un giovane ragazzo, morto nell’89 per la mancanza di un
donatore. Una settimana prima di morire scrisse una lettera che era in pratica il suo testamento.
Oltre ad uno struggente addio rivolto alle persone a lui più care si rivolgeva a chi lo conosceva
chiedendo loro di farsi tipizzare. Rossano aveva un sogno che era quello che entro l’anno 2000 la
leucemia fosse un male debellato. Nessuno avrebbe dovuto più scrivere una lettera come la sua[...]
[...]ora la gente, forse, riesce ad indignarsi, a leggere gli articoli che escono nel web e commentarli
con parole più o meno aggressive. Ma non scende più in piazza. non grida più, o grida troppo poco.
sembra che non se ne abbia più voglia, accettiamo le cose come sono, perché siamo pigri. No, io
non lo accetto. è bella e vera la tua espressione “dobbiamo sognare i sogni degli altri”. Accidenti, se
è vero. E come fare? [...]
[...]Ho trovato su internet un articolo che parlava di te.. Grazie ai tuoi pensieri sei riuscito a spronare
più di 300 persone a farsi tipizzare. Fantastico. Tutti dicono che il mondo non lo si può cambiare,
ma tu l’hai già fatto. Una di queste persone tipizzate potrà un giorno magari salvare una vita ed
essere inconsciamente compatibile con uno perfetto sconosciuto che ha bisogno del nostro aiuto.[...]
[...]Credo che gran parte degli studenti che ho incontrato oggi e ieri a Palazzo Maldura siano intenti
a registrarsi come potenziali donatori. Piccolo intervento all’inizio lezione, distribuzione di
informazione admo … e la parola passa. Avevo in mente di portarti dei rami dal nostro calicantus
enorme, che si impegna solo ora (strano) a profumare. [...]
[...]penso che quando si deve dire qualcosa di importante a volte è necessario gridare.
Volevo poi chiederti se posso diffondere il tuo messaggio di ricerca dell’uomo-medicina presso le
‘reti’ con cui sono in contatto [...]
[...]buongiorno, tra qualche minuto dovresti lasciare l’ospedale…buon rientro!!!!! ti penso e rifletto
su come posso attivare la mia rotta di collisione!
buona giornata! [...]
[...]mi piacerebbe inserire un articolo sulla tua storia ed il tuo blog nel prossimo numero di Inveneto
Magazine, avendo una tiratura di 10000 copie in tutto il Veneto darebbe anche una bella visibilità a
parte il piacere di una pubblicazione.[...]
[...]grazie, le tue informazioni mi sono molto utili, dici bene, la condivisione è già azione, perciò
cerco altre informazioni e ancora le condivido e mi metto al più presto in lista tra i donatori.[...]
[...]quello che posso fare è mettermi in lista per verificare la compatibilità del mio sangue ed
essendo una pastora (lavoro in una chiesa protestante) diffondere nel mio ambiente la richiesta. È
proprio vero che solo con l’esperienza diretta si acquista sensibilità su alcune cose che, altrimenti, ci
sterilizzano alla vita. La nostra camera sterile, da qui fuori, è più impermeabile della tua…sic! Ma
grazie per la tua tenacia e per il rimando a quei piccoli segni, gratuiti, che possono cambiare la vita.
In epoca di “cultura della delega” e di senso di impotenza, ci da la sensazione di poter riprenderci in
mano la vita per migliorare il mondo.[...]
[...]ho sentito parlare di te e letto il tuo blog, innanzitutto davvero davvero grazie per avere il
coraggio di metterti in gioco in questo modo, stai dando una grande forza anche a tutti noi, nel
nostro lavoro quotidiano, e poi in questi giorni ci ha contattato veramente tanta gente che vuole
iscriversi al registro dei donatori, e credo proprio che il merito sia tuo… quindi continua a scrivere e
a non farti fermare da nessuno, siamo tutti con te… Per quanto riguarda ADMO ti contatterà presto
una giornalista che si occupa del nostro notiziario e del sito internet. Grazie ancora, un abbraccio[...]
[...]buona giornata e grazie per le tue parole che lanci attraverso internet, hanno un peso importante.
Ho dato il link a varia gente, tra l’altro uno di loro con cui faccio teatro-carcere insegna mate e
fisica all’ospedale di Padova a studenti del reparto di oncoematologia, pure lui ha deciso di
diventare donatore. Gli piace molto come scrivi, e mi ha ringraziata tanto [...]
[...]Anche io come te ho ripreso il toro per le corna e ho tirato fuori tutta la grinta che ho. Ce la
faremo, Ce la dobbiamo fare. [...]
[...]Sono le azioni che contano. I nostri pensieri, per quanto buoni possano essere, sono perle false
fintanto che non vengono trasformati in azioni. La forza non viene dal vigore fisico. Viene da una
volontà indomabile[...]
[...]Ho visto il blog e l’ho fatto girare, mi pare proprio una gran cosa e so che ti porta via molto
tempo, energie e forza. Io direi di muoverci così, se per te va bene. Io potrei già iniziare a fare
un’indagine di massima tra i professori con cui collaboriamo e sentire le loro disponibilità per il
discorso generale della tipizzazione.[...]
[...]parlando di cose serie, qui ho buone notizie: solo in classe mia sono diventate donatrici (siamo
tutte donne,frequento lo psico-pedagogico!) altre 5 ragazze, oltre alle tre che c’erano già..e questo
dopo aver letto le tue lettere eh!!! potrà sembrarti roba da poco, ma è già qualcosa dai.
Guarda quante cose sei riuscito a fare, quante persone sei riuscito a smuovere usando le tue magiche
parole. Dovrebbero darti un premio solo per il fatto che sei riuscito a svegliare la bella, viziata e
capricciosa addormentata nel bosco (che sarebbe la sottoscritta) mollandole un bel calcio in culo.
Doloroso ma ben meritato![...]
[...]perdonami sono sempre io la ragazzina rompiballe!..ma proprio non ho resistito devo dirti una
cosa. Stavo leggendo “Effetti indesiderati”, e mi sono sentita terribilmente stupida e bambina per
come mi sono comportata. Scusami infinitamente se non ho mai avuto il coraggio di chiederti come
stavi, o che malattia avevi ( ha ragione Anita quando dice “Tutti i miei migliori amici hanno un alto
coefficiente di follia,cosa vuol dire,sono tutte o quasi persone che hanno avuto la faccia di culo di
chiedermi in modo schietto che cosa avevo,di indagare, capire. Forse non sono state politically
correct, ma sono di certo stata umanity correct. Su questo punto insisterò sempre,e mi rivolgo
specialmente alla mia generazione siate Faccia di Culo”) ma forse avevo paura delle risposte, di
guardare in faccia il dolore. Scusa scusa veramente sono stata un’insensibile. E poi ultima cosa, non
mi lamenterò più per scuola, o per la prof d’italiano, o altre cazzate simili[...]
[...]hai proprio ragione quando parli di scelta, tanto più se questa scelta costa sacrifici … ed è vero
… è così che matura la nostra consapevolezza … lo sto ripetendo a me stesso perché credo di
averne bisogno… questi trecento dell’altra domenica non sono un’inezia… sono il segno che
qualcosa si può muovere… l’obiettivo è chiaro no? allora questa è la strada giusta: un tam-tam
furioso che arrivi ad ogni angolo. Pensa, serve a te che in questo momento ne senti l’urgenza … e
potrà servire anche a molte altre persone in situazioni analoghe[...]
…Serve altro? Non credo. Siamo sassolini. Ognuno di noi, da solo, è solo, è niente, è polvere. Ma
chi, davvero, è solo?
Inconciliabili in conciliabolo
M’è arrivato un sms, qualche giorno fa. Diceva, suppergiù, che una bambina di 17 mesi, malata di
leucemia, aveva bisogno di sangue B negativo. Intendiamoci: non si cerca sangue B negativo per
sms, non è così che funzionano le cose.
Scrivo attaccato ad una sacca di globuli rossi, aspettandone un’altra di uguale, più un’altra di
piastrine: scrivo con una certa cognizione di causa.
Sono quasi del tutto convinto che si trattasse di una storia falsa. Ora, no. Non sto per incazzarmi
come una iena, non sto per mettermi a pontificare sull’onestà e sulla verità, insultando nelle maniere
più impensabili l’autore di quel messaggio. Tempo fa, quando ero ricoverato ed appetibile per i
giornali che pubblicavano un giorno si ed uno anche le cose che scrivo, qualcuno aveva messo in
dubbio la realtà della mia condizione, della mia malattia, del mio ricovero.
«Sai, a volte i giornali pubblicano storie false, solo perché fanno vendere. È capitato, circa un anno
fa, con la storia di una bambina per cui si cercava un sangue particolare. Perdonami quindi se non ti
ho creduto subito». Non sono le parole esatte, ma il concetto è quello, più o meno. Menzogne,
menzogne.
Da piccolo leggevo un libro di filastrocche, si chiamava “c’era un bambino profumato di latte”, o
qualcosa del genere. Ne conteneva una particolarmente geniale, di cui ancora ricordo alcuni versi.
“con forti conforti si va ai funerali… con dito condito si assaggia il ragù…” Cose del genere. È una
filastrocca di giochi di parole. Ecco, non date mai un libello del genere ai vostri pargoli, se volete
che abbiano un’infanzia normale. Testi del genere in tenera età portano quasi inevitabilmente a
quella che Abelardo chiamava “la pericolosa e contagiosa malattia dello scrivere”, con tutto quello
che comporta, dagli occhiali in giù. Pensavo un gioco di parole del genere, ieri. Inconciliabili in
conciliabolo. Menzogne, menzogne.
La verità è che ci piacciono, certe menzogne. A parte quelle che raccontiamo noi stessi, magari per
pararci il culo con la morosa, il capo, la mamma, ci sono quelle che ci rendono più accettabile il
mondo. “Non posso farci nulla”, “domani smetto di fumare”, “non è colpa mia”, “ci penserò in un
altro momento”. Cose del genere. Cose che diciamo, che ci diciamo, per nascondere la verità. Altra
piccola citazione: «il politico usa la menzogna per mascherare la realtà. L’artista, per raccontarla.»
Di nuovo, le parole non sono precise. Sono attaccato ad una sacca di sangue, non ho i miei libri
sottomano, vado a memoria, a spanne. Comunque, questo era il padre di Evey Hammond, in V for
vendetta. Giusto per la cronaca, giusto perché magari qualche denigratore di fumetti potrebbe
rivedere le sue scellerate posizioni.
La verità è che quella bambina di diciassette mesi a cui serve sangue B negativo non esiste. Vi fa
incazzare, scoprirlo, perché vi sentite creduli, e stupidi, e perché vi chiedete chi sia il sadico che
inventa storie truci sulle bambine di diciassette mesi, perché non si fa. Eccolo, il nostro conciliabolo
di inconciliabili. Quella bambina non esiste, è una menzogna. Ma sono vero io, che sono attaccato
ad una sacca di zero positivo. E se non fossi vero nemmeno io (sarebbe così strano? Cosa
cambierebbe?), se pure io fossi menzogna, sarebbero verità tutte le altre persone che ogni giorno si
pappano ettolitri di sangue, gentilmente offerto da qualche sconosciuto.
La mia domanda, quindi: è giusto incazzarsi perché qualche simpaticone mette in giro sadiche
catene di sant'Antonio a proposito di bimbette bisognose di sangue? Insomma, non che quell’sms
avesse una particolare rilevanza artistica, ma credo sia da pensarci, e nemmeno poco. Una
menzogna, che non nasconda nessuna verità, che non porta utile a chi la racconta, ma che invece
parla, sfrutta le nostre debolezze e il nostro intenerimento per spingerci a fare qualcosa di giusto.
Ok, c’è comunque da sentirsi coglionati, presi in giro, ma…
Ecco, tutto qui. Ecco, la pornografia sentimentale che serve. La menzogna utile. La verità? Mi sta
sulle palle che ci servano le menzogne, le belle storielle, per muovere il culo. Mi sta sulle palle che i
giornali abbiano bisogno di scrivere “Ventiduene combatte con la morte blabbla” per vendere una
copia in più. Perché questa disaffezione per la verità? Perché questa necessità della bella storiella,
dell’utile falso? No eh, perché se serve le favole le so raccontare pure io. Tipo, c’è una bambina di
diciassette mesi che non mangia più perché quando sarà grande non esisterà più l'università. Ogni
volta che prendi la macchina per fare un tragitto che potresti fare a piedi, in bici o con i mezzi
pubblici, muore un pacioccosissimo cucciolo di foca, bianco e con gli occhioni.
Ogni volta che hai bisogno di farti mentire per muovere il culo, un piccolo africano denutrito chiude
per sempre gli occhietti cisposi e pieni di mosche.
Ecco dove siamo voluti arrivare. Però, lo ripeto: se non altro, menzogne. Palle. Questa, la verità.
Tempo e parole
Tic… tic… tic… Lo odio. Infatti, dopo un periodo di iniziale convivenza difficile (la notte lo
chiudevo nell’armadio per non sentirlo), dopo una serie infinita di vicendevoli dispetti e
scaramucce, dopo una ostentata quanto fasulla reciproca indifferenza, alla fine l’ho convinto a
traslocare. Adesso fa bella mostra di sé appeso al muro dello studio. Non riuscivo a sopportarne il
fastidiosissimo gocciolare senz’acqua.
Non mi piacciono, gli orologi. Ogni volta che ne guardo uno ho la percezione piuttosto chiara di
quanto velocemente scappi il tempo. Di quanto poco tempo abbia.
Sulla mia scrivania giacciono impilati un buon numero di libri, tutti testi piuttosto impegnativi. A
fianco, il Progetto Educativo Globale, un altro lavoro in sospeso. Subito sotto, gli appunti per
l’incontro che io, un donatore di midollo osseo ed un medico terremo in una scuola, qui vicino. Poi,
un pacchettino di carte, burocrazia universitaria che da troppo tempo reclama la mia attenzione.
Oggi ho fatto un bel bagno, nella vasca. Lungo. Molto lungo. Avevo con me uno dei libri di cui
parlavo, a dire il vero. Non sono stato a trastullarmi con paperelle e barchette (che peraltro posseggo
e con cui di tanto in tanto amo dilettarmi), ma mi sono comunque venuti i sensi di colpa per il modo
in cui stavo impiegando il mio tempo, e mi sono anche caduti gli occhiali in acqua, a dire il vero.
Vorrei che le giornate durassero trenta ore, almeno, per riuscire a non lasciare indietro qualcosa
delle mille cose che ho sempre da fare. Poi succedono cose strane, come adesso: scrivo dieci righe
qui, poi mi sposto su un altro file e scrivo dieci righe di tesi, poi mi sposto di nuovo e butto giù un
po’ di appunti di cose scout. Guardo la posta, che si accumula inesorabile,e faccio i conti di quando
riuscirò a rispondere. Poi mi viene mal di testa e mi vergogno, alzo la musica e mi rimetto, con
rinnovata lena. Venti righe, e si ricomincia. Lavoro in maniera caotica, perché ragiono in maniera
caotica e le mie idee seguono un filo tutto loro.
Sono consapevole di un fatto: se non scrivo, dimentico. Lo ben sanno tutte le persone a cui chiedo
“ehi, ricordami questo e quest’altro”. Lo ben sanno tutte quelle persone a cui ripeto per l’ennesima
volta qualcosa, perché regolarmente mi dimentico di averlo raccontato.
Ma ecco, sto divagando di nuovo. Mi scriveva, qualche tempo fa, una mia amica. Mi raccontava di
una sua piccola epifania, una di quelle esperienze che improvvisamente cambiano la tua percezione
delle cose, o almeno, di qualcosa. Era in contatto con il presidente della sezione ADMO del posto
dove vive, stava prendendo appuntamento per fare la tipizzazione.
«In pratica mi ha detto, alla fine della telefonata: ti faccio chiamare direttamente dall’ospedale,
perché è inutile che ti porti io del materiale informativo eccetera, in questo modo non perdiamo una
settimana.»
Ecco, quelle parole l’hanno colpita particolarmente. Non perdiamo una settimana. In fondo, cos’è
una settimana, rispetto ai suoi ventisei anni? O ai miei ventidue? Nulla.
Tutto. Cosa succede, in una settimana? Cosa farebbe, Spit, con una settimana? Pagherei, per avere
una settimana di bolla temporale, una piccola, personalissima, distorsione del tempo. Tutte le mail
arretrate avrebbero una risposta. Scriverei un altro capitolo della mia tesi. Sistemerei tutta la
burocrazia universitaria una volta per tutte, e magari anche quella relativa all’invalidità civile.
Finirei almeno due dei miei libroni.
Quante settimane ho buttato, a mezzore qua e la. Quante continuate a buttarne, tutti. Dovrebbero
inventarla, una macchina per riciclare il tempo buttato via. Mi accontenterei anche dei cinque
minuti usati, dei quarti d’ora altrui, magari vecchi e puzzolenti. Mi sa che non si può, eh. Peccato.
Allora, che diamine, cercate di usarlo bene, il vostro tempo, ché altrimenti mi tocca essere
invidioso, e non mi piace essere invidioso. Questo, per non essere tragici.
Per esserlo, invece: domenica sei stato due ore a guardare cazzate alla tv, poltrendo in divano.
Avresti potuto andare in ospedale e dare il tuo sangue. Avresti potuto portare i tuoi figli in
montagna, a vedere qualcosa di bello. Avresti potuto passare due ore con qualcuno di solo, tipo tuo
nonno, o il nonno di qualcun altro, in una casa di riposo. Avresti potuto leggere un buon libro,
pensare, farti delle idee, scrivere. Avresti potuto fare un sacco di cose, magari piccole in sé, ma che
avrebbero potuto fare la differenza, se non altro per qualcuno. Hai preferito rimanere fermo, perché
tanto il mondo non cambia e non sarò io granellino di polvere a cambiare il mondo. Hai sputato in
faccia a chi ha i giorni contati.
Hai sputato in faccia a te stesso, perché anche i tuoi giorni sono contati. Solo che non conosci la
data di scadenza. Chi è quello fortunato?
Tre
Tre, oltre ad essere il numero del giorno in cui sono nato e il titolo di una delle mie canzoni
preferite, è il numero di persone che hanno scritto questa cosa. Greta, Alessandro, Spit. Tre
immagini, come in un caleidoscopio a prisma, che si sovrappongono, si accavallano. Tre pezzi di
tre vite, così differenti, legate da un unico, ideale, filo rosso. Ecco. Abbiamo voluto scrivere questa
cosa per dare una visione unica eppure tripartita, comunque unitaria. Una faccenda di
sfaccettature, che ha anche un bel suono. Va bene, non voglio scrivere altro. Leggete.
Mi chiamo Greta, ho vent’anni. Sono una delle tante persone anonime che vi capita di incrociare per
la strada, quando state correndo da qualche parte travolti dal frenetico fuggifuggi della vita di
oggigiorno. Conduco una vita comune: ho una famiglia e degli amici, vado all’università, ho dei
progetti e dei sogni per il mio futuro, al cui raggiungimento mi applico ogni giorno. Tutte cose,
queste, che ogni essere umano tende a dare per scontate.
Sono solo uno dei tanti. Sono me, sono te, sono tuo fratello, tuo figlio, tuo padre. Non ha grande
importanza. Sono solo Spit. Mi chiamano così perché è metà del mio cognome, e perché prima di
ammalarmi, arrampicavo. Lo spit è un tipo di chiodo che si usa in arrampicata sportiva,
particolarmente apprezzato perché una volta piantato, sta. Non lo schiodi, per anni. Tenace,
qualcosa di ostinato, a cui ci si può appendere con un certo grado di fiducia. Un soprannome che
mi è sempre piaciuto.
Ho smesso di farlo molto tempo fa: non do per scontato di avere sempre accanto fisicamente e
moralmente le persone a me care, perché mi rendo conto che ci possono essere delle situazioni o
delle condizioni che allentano i rapporti, ed è importante ricordare che le relazioni umane sono il
materiale più fragile con cui abbiamo a che fare.
Altre volte una lontananza forzata può separarci dalle persone che amiamo, impedendoci di poterle
incontrare direttamente e permettendoci di vederle solo al di là di un vetro, di una grata, o nello
schermo di un computer se abbiamo la fortuna di avere una webcam. Non mi illudo di poter essere
sempre calata in un contesto quotidiano stabile come può essere quello della scuola, dell’università
o del lavoro: questi contesti ci danno sicurezza perché hanno un ciclico perpetuarsi che va
approssimativamente dal lunedì al venerdì/sabato e sono intervallati da un periodo di tregua che è
quello del fine settimana.
Peccato che ci possano essere cause di forza maggiore che abbattono le solide mura protettive di
questi nidi che noi chiamiamo “la mia settimana”: può capitare, nella vita, di essere sradicati dal
proprio contesto, e di venir trascinati in situazioni a tempo indeterminato in cui si è costretti a vivere
alla giornata perché non si sa nemmeno se ci sarà un domani, come sarà, se sarà migliore o
peggiore, idilliaco o catastrofico. Magari, solo come l’oggi: questa può essere la risposta peggiore
se l’oggi equivale a una condizione di precarietà e di instabilità che non dà alcuna certezza e, di
conseguenza, nessuna sicurezza.
Era ottobre: le prime macchie, i primi segni di qualcosa che non va, il fiatone per una semplice
rampa di scale, le febbricole. Esami del sangue. Ero a Padova, stavo per entrare all’università.
Suona il telefono. Mia madre: le avevo chiesto di far vedere il mio emocromo al medico. Era
preoccupatissima. Secondo il medico non dovevo essere nemmeno in grado di camminare. Prendere
un treno, di corsa. Andare a Vicenza. Subito ho sgranato un po’ gli occhi. Vabbè. Mia madre è
apprensiva. Prendiamo questo treno. Arrivo in ospedale. Mi guardano. Guardano l’emocromo.
Suppongono un errore, ripetono gli esami.
Tuttavia la mia esperienza mi ha dato modo di constatare due fattori fondamentali: il primo è che
anche quando si pensa di aver toccato il fondo c’è sempre qualcuno che sta peggio e che, anche
quando le cose non migliorano, bisogna star contenti perché non peggiorano.
In secondo luogo certe situazioni si sopportano molto meglio quando non si è da soli: calando
questa affermazione in un esempio banale ma chiaro, si può dire che quando si deve trasportare da
soli un grosso sacco pieno, questo è pesantissimo, ma se si è aiutati da qualcuno il peso si divide e il
sacco diventa molto più leggero, nella percezione di ognuno. Sembrano sciocchezze ma non sono
affatto cose da poco. Finora ho appositamente parlato di casi generali. Ora intendo appurare il modo
in cui ho acquisito questo modo di pensare, ma non sarò solo io il soggetto del mio racconto:
scriverò di situazioni che ho visto, di persone che ho incontrato sul mio cammino, di cose che non
avrei mai creduto possibili e per le quali invece ora mi limito a sperare che ci sia una via d’uscita.
Era freddo, quella sera, nonostante fosse agosto. Del resto, eravamo a duemilaquattrocento e rotti
metri, appollaiati sulla Croda del Becco. Un campo itinerante, con gli scout. Dieci giorni di stelle e
soli in Dolomiti. Si parlava di morte, quella sera, sulla Croda del Becco.
Dicevo, tra le altre cose, che prima di morire vorrei salvare la vita a qualcuno. Avevo deciso,
finalmente, di farmi tipizzare e diventare donatore di midollo e di sangue. La visita era prenotata
per il diciassette novembre. Anche per quello, avevo fatto le analisi del sangue. Non ci sarei mai
andato, a quella visita. Non avrei mai salvato la vita a qualcuno, con il mio sangue o con il mio
midollo. Avrei avuto, invece, io stesso bisogno di una mia persona-medicina, di qualcuno che,
mosso dalle mie stesse idee, mi salvasse la vita. La vita è ironica, a volte. Molto, molto ironica. A
ben vedere, ci si può anche ridere su, sebbene sia un riso tendente all’amaro.
Quando mi sono ammalata di leucemia ero un esserino alto un metro e un tappo: ho visto cose che,
penserebbero in molti, un bambino non dovrebbe vedere e ancor più non dovrebbe vivere. Io mi
ritengo fortunata di aver potuto esperire certe situazioni perché queste esperienze mi hanno fatto
diventare la persona che sono: testarda e scorbutica, certo, ma anche grata nei confronti delle
piccole cose di ogni giorno. Poter camminare e vedere, poter andare a scuola o all’università, poter
mangiare quello che voglio, avere un cervello che funziona, essere viva ed avere delle ottime
condizioni di vita.
Quale valore attribuiresti ad una vita che sei costretto a passare a letto infermo, muovendo solo la
bocca, o avendo bisogno di una persona che ti gira nel letto perché tu non ne hai la forza? Che gusto
ci sarebbe nel mangiare sempre le solite cose perché ad alcuni alimenti sei allergico, o perché per un
periodo devi mangiare solo cose cotte, sigillate, monodose? Che divertimento ci sarebbe se di fatto
fai la quinta elementare ma non hai mai visto la tua scuola? Che valore dai ad una gita in montagna,
anche se ci metti due ore per arrivare alla meta e scendi dalla macchina solo per tre minuti di
orologio a toccare la neve? Che valore dai a dieci minuti da trascorrere con i tuoi amici quando non
puoi incontrare nessuno? Quanto pagheresti la Gioconda di Leonardo se fossi cieco? Ad ognuna di
queste domande una risposta diversa.
Il nuovo emocromo riconferma i valori indicati dal precedente: sangue scarso. Pochi globuli rossi,
poche piastrine, pochi globuli bianchi. Mancano le cellule componenti il sangue. Urge un esame
del midollo osseo, per escludere infiltrazioni neoplastiche. Ho chiesto di farlo senza anestesia:
volevo rendermi conto della quantità di dolore. Sapevo già che avrei avuto bisogno di un trapianto,
sapevo anche come funziona il prelievo dalle creste iliache. Ecco, volevo essere un po’ più
consapevole. Poi, altri esami. Metalli pesanti, infezioni, si ipotizza tutto il possibile.
La prima volta che mi sono ammalata, mi sono bastati due anni di terapie: i primi nove mesi in
isolamento, vedendo solo i miei genitori, mia nonna e mia sorella quando stava bene (se aveva
anche solo un raffreddore veniva spedita da nonni o zii).
La cosa strana è che la gente pensa ad un malato come ad una persona magra e cadaverica distesa
moribonda in un letto d’ospedale, in un’inconsolabile solitudine. Abbastanza lontano dal vero.
All’ospedale c’è una sacco di gente che diventa la tua seconda famiglia: altri malati, infermieri,
dottori, volontari. Tutti, dietro al camice o al pigiama, sono persone con un nome, una faccia e una
storia. Bambini che giocano, gente che ride quando le cose vanno bene e non sta sempre a piangere
perché pensa che le cose vadano male.
Un malato non è mai solo, anzi, ha sempre troppa gente attorno. E poi non ha solo la malattia, non
va solo all’ospedale: trascorre del tempo a casa, con la famiglia, e nel mio caso c’era la scuola.
Anche se sei malato continui ad essere uno studente. Dopo quei nove mesi avevo ricominciato ad
andare a scuola, sempre con le dovute precauzioni, finché allo scadere dei due anni dall’inizio delle
terapie i medici mi hanno detto che stavo bene e potevo riprendere a tutti gli effetti una vita
normale.
Nel mentre, trasfusioni. Pezzi di altre persone, che non conoscerò mai, che entrano nel mio sistema
cardiocircolartorio. Ho capito il senso di “avere qualcuno nel cuore”. Poi, la risposta, in seguito
alla biopsia osteo-midollare: aplasia midollare idiopatica, o anemia aplastica che dir si voglia.
Una visita specialistica a Genova, per la conferma della terapia da intraprendersi. La scoperta del
mio “limite teorico” dato dalle poche staminali midollari rimastemi, dai loro telomeri accorciati.
Ed ora, si spera. Si spera che la terapia funzioni. Si spera che, nel mentre, salti fuori un donatore
compatibile.
Tre anni e undici mesi dopo ero in ricaduta, la malattia era tornata, e mi è stata presentata subito
l’opportunità di fare il trapianto, se si fosse trovato un donatore. Altre due cose da non dare per
scontate: essere abbastanza forti da poter reggere un trapianto e trovare un donatore.
Iniziate le cure pre-trapianto, mi sono dilettata in varie complicazioni che non sto a descrivere
perché col trapianto e con la mia malattia non avevano nulla a che vedere. Fatto sta che queste
complicazioni hanno rimandato il trapianto di sei mesi. Il mio era un midollo abbastanza comune e
ho avuto la fortuna di trovare più di un donatore possibile: all’inizio nei registri italiani non c’era
nessuno ed erano stati trovati due stranieri. Durante quei famosi sei mesi, però, in Italia ci sono stati
nuovi iscritti e tra questi ben quattro potevano interessare me. La più compatibile era E. Di lei non
so altro e ciononostante su di lei potrei versare fiumi di parole, ma non è questa le sede per farlo.
Io sono Alessandro. Ho cominciato a sentir parlare di donazione di midollo osseo già da
quando ho iniziato a donare il sangue, a 20 anni. Devo ammettere che anch’io all’inizio ho
commesso l’errore di pensare che si trattasse di midollo spinale, quindi ho sempre avuto un
po’ di paura ad informarmi veramente.
Solo dopo qualche anno mi sono reso conto di aver commesso un grosso errore, quando nel
2007 un paio di donatori del mio paese mi hanno proposto di tipizzarmi. Mi hanno dato dei
volantini, hanno risposto alle mie domande… e devono essere stati anche maledettamente
convincenti, visto che ho fatto il prelievo praticamente subito. Altrettanto rapidamente sono
stato anche chiamato dall’Admo di Vicenza per fare dei controlli, visto che sembrava ci fosse
una speranza di compatibilità con un malato in attesa di trapianto.
Ho raccontato pochissimo di me e di quello che ho visto e vissuto nella mia infanzia e nella mia
adolescenza, spero basti a farsi un’idea. A volte pensiamo che per tenere lontano da noi il male,
qualsiasi forma esso abbia, basti non parlarne e scansarlo, se per caso cerca di intrufolarsi nella
nostra vita attraverso il telegiornale o in qualche altra forma.
È comodo, anch’io tenderei ad essere così: perché dovrebbero interessarmi i malati di HIV, di
sclerosi multipla, di lebbra, di malattie rare? Io non ho quelle malattie, non sono problemi miei…
Perché dovrei preoccuparmi di problemi di droga e alcolismo che dilagano tra i giovani? Io non mi
drogo e non bevo, non è un problema mio… Perché dovrei interessarmi delle persone che non
hanno i soldi per arrivare a fine mese perché hanno perso il lavoro o non riescono a trovarne uno o
non guadagnano comunque abbastanza? Io non lavoro per scelta, studio, i miei mi mantengono.
Non mi riguarda… Per ora.
Un fatto curioso è che l’essere umano crede di poter mantenere la vittoria una volta raggiunta: basta
guarire, ma non si pensa a mantenersi in salute quando siamo in salute; basta disintossicarsi da
sostanze stupefacenti e alcol, ma perché rifiutare una dose quando me la offrono? Basta aver voglia
di lavorare, ma se poi nessuno ti prende? Cosa se ne fanno le aziende di un plurilaureato che
pretende uno stipendio stratosferico quando possono far svolgere le stesse funzioni a un diplomato
che abbia esperienza nel settore? Basta che i miei mi mantengano, ma forse a novant’anni faranno
un po’ fatica a continuare a lavorare…
A giugno del 2008, mi sono recato a Vicenza per un ulteriore prelievo, appunto, per esami
approfonditi. Oltre ad informarmi a cosa sarei andato incontro, mi hanno anche fatto
presente che non sempre la compatibilità è sufficiente per un trapianto. In parole povere non
avrei dovuto farmi grosse illusioni. Devo ammettere che le settimane seguenti non sono state
proprio confortanti, visto che per un mese e mezzo circa non ho più saputo niente. Verso fine
luglio però ho ricevuto una chiamata dall’ospedale di Verona.
Il genere umano si è abituato a vedere il male come qualcosa di contagioso da tenere lontano,
invece di avvicinarsi ad esso come esperienza formativa. Sappiamo che le persone soffrono, ma non
pensiamo che per loro possiamo fare più di quanto non crediamo: se tenessimo veramente ai nostri
amici, non offriremmo loro una sigaretta, anche se ce la chiedono; faremmo loro leggere un inserto
che può interessarli tra gli annunci lavorativi, se sappiamo che stanno cercando lavoro;
cercheremmo di aiutarli se hanno difficoltà di salute… beh, piano, non sono mica un dottore! Cosa
pretendi?
In effetti puoi fare molto. Passo alla seconda persona personale perché finora ho fatto ampie
digressioni su questioni generali, ma ora tocca a te ragionare, a te che stai leggendo queste righe.
Tu forse per il tuo amico non puoi fare niente, magari il tuo amico è destinato a morire. Ma puoi
fare qualcosa per qualcuno che è in condizioni simili alle sue, qualcuno che ha degli amici come te
che non vogliono che lui soffra.
La dottoressa Gandini mi annunciava che la compatibilità era ottima e che quindi, se fossi
stato ancora disponibile, sarebbero iniziati i controlli e le analisi per il trapianto. Ovviamente
non ci ho ripensato neanche un secondo e ho risposto di si all’istante.
Non so cosa mi aspettassi da quell’esperienza, ma il solo fatto di poter essere determinante per
il destino di una persona mi ha tolto ogni dubbio. A questo punto ho iniziato a frequentare
l’ospedale di Verona, una volta ogni 2 o 3 settimane circa, per delle analisi, radiografie,
prelievi, colloqui e quant’altro. Mi hanno inoltre spiegato che la persona che aveva bisogno
del trapianto era un ragazzo giovane, di appena 25 anni, che viveva (o perlomeno provava a
sopravvivere!) in Polonia.
Poi, in agosto, mi hanno finalmente comunicato che il prelievo si sarebbe svolto il giorno 2 di
settembre, sempre se fossi stato ancora d’accordo, ovviamente (me l’avranno chiesto almeno
20 volte!). Così la data era fissata, e per me non c’era altro da fare che firmare i documenti
per l’autorizzazione al prelievo del midollo.
Probabilmente non conoscerai mai la persona che stai aiutando, come non conoscerai mai che fine
faranno i cinque euro che a Natale hai dato al mercatino di beneficenza. I cinque euro,
ammettiamolo, li hai messi perché volevi fare bella figura davanti alla morosa, o magari volevi fare
colpo sul ragazzo che ti ha venduto quella stecca di cioccolato del mercato equo e solidale. Qui ti
chiediamo di più: nessuno verrà a dirti bravo e nessuno ti dirà che bel gesto hai fatto. Niente
perbenismi. Qualcuno però potrebbe dirti: se non ci fossi stato tu, sarei morto.
Oppure potrebbe morire proprio perché tu ti sei tirato indietro, non te la sei sentita o perché non ti
sei mai interessato della cosa. Scegli cosa vuoi essere: salvatore anonimo di qualcuno che non
conoscerai mai e che non potrà mai ringraziarti, o assassino latitante che nessuno si sprecherà mai
di cercare perché tanto nessuno ti ha mai visto con un’arma in mano? Se scegli di uccidere, nessun
problema: nessuno ti obbliga ad aiutare il prossimo e potrai sempre consolarti pensando che tanto
quella persona sarebbe morta comunque.
Nel mio caso E. si sarebbe potuta tirare indietro all’ultimo momento, prima di donare il midollo per
me. Io sarei morta, lei non lo avrebbe mai saputo e avrebbe continuato tranquilla la sua vita di
sempre. Tirarsi indietro, in fondo, era un suo diritto, nessuno se la sarebbe presa con lei.
Prima che io firmassi mi hanno messo davanti ad una scelta. Una volta che io avessi firmato, il
paziente sarebbe stato sottoposto a dei cicli di chemioterapia. Se io mi fossi rifiutato di
presentarmi, una volta firmati i documenti, il paziente sarebbe morto, oppure costretto a
vivere nella camera sterile di un ospedale, in attesa di un nuovo donatore. Visto che la
compatibilità è estremamente rara, trovarne un altro sarebbe stata una ipotesi remota.
Fortunatamente ero pienamente cosciente di quello che stavo per fare e non mi sono dovuto
fermare a riflettere su quello che stavo facendo.
E poi, anche se ce ne fosse stato bisogno, come avrei potuto tirarmi indietro e lasciar morire
una persona di 25 anni, per colpa della leucemia?? Non so se sarei più riuscito a guardarmi
allo specchio.
A questo punto i consiglieri del direttivo dei donatori di sangue e di organi del mio piccolo
paese si sono fatti avanti per offrirsi di accompagnarmi in ospedale e venirmi a riprendere. A
loro ha fatto piacere partecipare ad un gesto del genere, anche se solo marginalmente e devo
dire che anch’io ho apprezzato veramente molto la loro partecipazione. È bello sapere che si
sta facendo una cosa meravigliosa e che hai parecchia gente che ti sostiene. Sono venuti a
prendermi a casa e mi hanno accompagnato fino a fuori dal reparto, visto che lì non
sarebbero potuti entrare. Prima di salire però, ci siamo fermati tutti al bar dell’ospedale, per
un brindisi di augurio a base di succo di frutta (eravamo in un ospedale e mi sembrava brutto
entrare in reparto mezzo ubriaco).
A quel punto, dopo una serie di abbracci e strette di mano, sono entrato da solo nel reparto.
Ho dovuto indossare la mascherina, il camice e le ciabatte, per evitare di portar dentro anche
la più piccola possibilità di contagio. Mi sono sistemato in camera, con una telecamera che mi
osservava costantemente, e lì ho iniziato a leggere un libro che mi ero portato, ascoltare
musica, guardare la tv, interrotto solamente di tanto in tanto da qualche medico o infermiere
per qualche colloquio o controllo della pressione.
Solamente alla sera ho iniziato a rendermi veramente conto di quello che stavo per fare. Di lì a
poche ore avrei fatto una cosa che per qualcun altro avrebbe segnato il destino. Lì ho iniziato
a sentirmi leggermente più contento, oltre che un po’ impaurito. Alla fine dei conti, non fa mai
piacere entrare in ospedale, qualunque sia il motivo. Come c’era da aspettarsi ho dormito
poco, ma questo non riguardava l’agitazione, visto che soffro d’insonnia da sempre.
Dato che mi ero svegliato presto, ho avuto il tempo di fare la mia doccia quotidiana prima
ancora che il primo infermiere si facesse vivo per darmi la sveglia. Un ultimo controllo della
pressione, poi la preanestesia e poi mi hanno trasportato in sala operatoria. L’intervento in se
è durato un paio d’ore, durante le quali io ho sempre dormito. Al mio risveglio ero già in
camera, anche se la fase di risveglio è durata più o meno un’oretta, visto che non riuscivo
ancora a tenere gli occhi aperti. Altri controlli della pressione, poi un medico che mi ha fatto
un questionario (al quale credo di aver risposto abbastanza approssimativamente, visto che
non ero perfettamente in me!) e alla fine un gradito regalo. L’associazione dei donatori di
midollo osseo di Verona mi ha fatto recapitare in camera un pacco dono, contenente una
confezione maxi di pasticcini, con allegata una lettera di ringraziamento. E’ stata una
soddisfazione in più ricevere dei ringraziamenti da perfetti sconosciuti che non sapevano
nemmeno chi io fossi. Fa capire quanto alcune persone tengano ad essere vicino a tutti coloro
che compiono azioni così semplici, ma così importanti.
Il resto della giornata è passato rispondendo al telefono, visto che un sacco di persone, anche
se da lontano, hanno voluto farmi sentire il loro affetto e il loro apprezzamento. Alla sera sarei
dovuto tornarmene a casa, ma purtroppo un leggerissimo inconveniente me l’ha impedito
(una leggera nausea), e hanno preferito assistermi per qualche ora in più. Sono uscito la
mattina successiva, accompagnato a casa dai vecchi amici donatori, giusto in tempo per
lasciare il posto ad un altro donatore di Cartigliano. In seguito ho scoperto che il donatore
seguente era addirittura un mio conoscente, anche se molto alla lontana. Una cosa che mi ha
fatto veramente piacere, oltre alla immensa soddisfazione che mi sono portato a casa come
souvenir dall’ospedale, è stato cenare insieme agli amici che mi hanno accompagnato avanti e
indietro, offrendo loro i pasticcini avevo ricevuto in dono e una bottiglia di vino per brindare
insieme.
Fa sempre molto piacere essere circondati da persone che ti vogliono bene e condividono i tuoi
valori.
Puoi scegliere:
1) diventare donatore di midollo osseo e, se mai un giorno ti chiameranno a donare il midollo per
qualcuno che non puoi scegliere e che non conoscerai mai, accettare e salvare una vita.
Consapevole del fatto che nessuno ti dirà mai bravo;
2) diventare donatore di midollo osseo e, se mai un giorno ti chiameranno a donare il midollo per
qualcuno che non puoi scegliere e che non conoscerai mai, tirarti indietro: nella migliore delle
ipotesi hai creato false speranze, nella peggiore delle ipotesi dall’altra parte hanno già fatto
trattamenti irreversibili al ricevente e questo è destinato a morire. Ma tranquillo, tirarti indietro era
un tuo diritto, se anche hai ucciso una persona nessuno ti porterà mai in carcere;
3) puoi scegliere di non diventare donatore di midollo osseo. Nessuno ti costringe e puoi continuare
a vivere tranquillo la tua vita di sempre. Ma vuoi mettere con la soddisfazione di sapere che
dall’altra parte del mondo c’è una persona che vive solo grazie a te? Che altrimenti sarebbe morta?
Che tu sei il suo eroe anonimo e senza faccia? Pensaci, perché potrebbe anche capitare che tu sia
l’unica persona al mondo compatibile con un malato che ha bisogno di trapianto, la sua unica
speranza di avere un futuro per cui fare dei progetti.
Due cose ti chiedo:
1) pensaci bene: se decidi di diventare donatore di midollo osseo fallo in modo convinto. Non
iscriverti per tirarti indietro all’ultimo momento, perché se lo fai firmi la condanna a morte di una
persona che magari poteva vivere ancora e trovare un donatore con più fegato e più amore del
prossimo di quanto non ne abbia avuto tu. Aspetta prima di iscriverti: pensaci un paio di mesi,
riflettici bene e iscriviti convinto, ma non iscriverti sull’onda dell’emozione perché il tuo amico o
parente è malato solo perché lui è malato e credi di poter salvare lui. Non salverai mai lui. Forse
salverai qualcun altro.
2) non tenerti dubbi: informati, fai una domanda stupida ma che ti torna utile piuttosto che tenerti un
dubbio che all’ultimo momento ti porta a tirarti indietro.
Dopo esserti preso il tempo per le debite considerazioni scegli tu cosa fare. Nessuno ti condannerà,
né ti criticherà. Magari, proprio quando sei convinto, vai per iscriverti e scopri di non avere le carte
in regola per diventare donatore e vieni rifiutato. Non prendertela a male, tu da parte tua ce l’hai
messa tutta. Ma se ti hanno detto che non puoi fare il donatore è proprio perché i donatori sono
tutelati quanto i riceventi: è giusto dare midollo sano a chi riceve, ma non sarebbe giusto far donare
persone che per esempio sono sottopeso e per questo correrebbero dei rischi.
Alla fine di tutto sono veramente fiero e orgoglioso di quello che ho fatto. Sono esperienze
fanno riflettere sull’importanza di un gesto disinteressato e anonimo, che molta più gente
dovrebbe provare, per rendersi conto di quanto poco serva, a volte, per fare la differenza fra
la vita e la morte. Inutile dire che lo rifarei domani stesso, se mi venisse richiesto!
Insomma, tiriamo le fila: di me ho raccontato pochissimo, forse ti ho svelato più informazioni su di
te, su quanto vali e su quanto puoi valere. Citando uno slogan dell’ADMO mi sento solo di
aggiungere: non sei uno, sei unico.
Cosa rimane, di me, dopo l’ospedale, dopo la diagnosi, dopo la prima battaglia? Non ne sono
sicuro. Certamente, consapevolezza. Certamente, voglia di combattere, non solo la malattia.
Certamente, la percezione accresciuta dei tanti altri me, in giro per il mondo. La voglia di
cambiare le cose. Per tutti noi. Il mio donatore non è ancora saltato fuori, come non sono saltati
fuori i donatori di tante altre persone, che aspettano. Aspettano. Aspettano. Certo, il nostro tempo
non è infinito. Intanto, aspettiamo.
Tu?
Schiaffi e carezze, e scopare per la verginità.
Per iniziare, un frammento di cronaca, con i relativi commenti alla notizia, apparsa in un
quotidiano online. Mi sono limitato a selezionare qualche passaggio particolarmente, come dire,
interessante.
Padova, «puzzi di romena»: 13enne torna da scuola e si butta dalla finestra
PADOVA (27 gennaio) – Emarginata dai compagni di classe perché “puzza di romena”, una
tredicenne di Solesino ha cercato di uccidersi gettandosi dalla finestra di casa. È accaduto una
settimana fa, ma solo ieri la vicenda è stata resa nota. A divulgare i motivi che hanno spinto la
ragazzina a tentare il suicidio è Adrian Teodorescu, presidente dell’associazione “Alleanza romena”.
Questi piccoli mostri, ma soprattutto i loro educatori, a partire dai loro genitori, meriterebbero di
essere trasferiti in massa in una stalla a spalare letame a vita !!!
Gente gretta, maligna e squallida !!!
Mi autocensuro al volo ed evito di scrivere come riterrei opportuno punire e rieducare (se possibile)
i responsabili (e le loro famiglie)… qualcuno potrebbe farsi un’idea sbagliata.
Se verrà confermato che la causa del trauma subito sono le angherie subite dai compagni di classe
(se di compagni si può parlare), di terribile c’è il puzzo emanato da questi ultimi, puzzo della loro
ignoranza, puzzo di stupidità, puzzo di bullismo, puzzo di violenza, puzzo di sopraffazioni, puzzo di
strafottenza, puzzo di vuoto di valori, puzzo di mancanza di educazione.
L’Italia di oggi ne è piena, di questo puzzo, se ne respira in ogni dove, e lo stiamo trasmettendo noi
ai “nostri” ragazzi italici. Qualcuno ne sarà fiero, non so se pochi o tanti. Non il sottoscritto.
in 2° media, pur con la cattiveria riconosciuta agli adolescenti, gli stessi difficilmente si posso
improvvisare xenofobi a 10/11 anni! La malvagità, è frutto di contaminazione ambientale, è fuori di
dubbio!
I ragazzini e i ragazzi sanno essere crudeli come pochi, non rendendosi conto quanto possano ferire
le persone più sensibili con commenti, per loro quasi allegri, ma per chi li subisce deleteri; non per
nulla si dice: Uccide più la “penna” (comprese le parole) che la spada! Se però la bambina fosse
stata rumena e figlia di genitori pieni di soldi non credo che avrebbe subito quelle cattiverie.
Avrebbero invece fatto a gara per averla come amica.
Purtroppo, secondo me, è la cultura dilagante del denaro che conta, che fa la differenza.
Puoi essere di qualsiasi nazionalità e avere il colore della pelle diversa dagli altri, però se sei pieno
di denaro, tutto il resto non conta. Il denaro non puzza.
Penso che se i bambini di quell’età si comportino in quel modo è perché quella è la cultura dilagante
delle loro famiglie, ascoltano i loro genitori e si adeguano.
Sono un romeno che ho studiatto a Milano, a Bocconi. Cosa vi abbiamo fatto noi, i romeni? Lo so
che sono tanti zingari che fanno dei problemi in italia…Ma la magior parte son li per studiare, per
lavorare con permesso di soggiorno legale…Sono tante aziende italiane qui in Romania…Noi non
diciamo niente…Per qualche zingari, queli rom, perche dobbiamo ricevere noi tutti il vostro
razzismo?…Quesi rom, zingari non sono romeni..zingari sono dapertutto….loro hanno citadinanza
romena..anche noi abbiamo tanti problemi con loro…non abbiamo neanche no sicurezza neanche
sulla strada, autobus, tram etc..ma non possiamo fare niente…abbiamo anche noi paura di zingari…
Ma non capiamooo..dovede avere razzismo accanto zingari, i rom, ma non per romeni…Dovete
chiedere vostri citttadini che conoscono i romeni veri…comme sono?Tanti romeni sono dei direttori
nelle aziende, sono medici li, professori…lavorano con anziani italiani…queste cose non si
vedono???
Ora, parliamone. Inutile dire che queste cose mi fanno incazzare come una biscia. Poi,
aggiungiamoci che hanno ripreso a farmi male le articolazioni nonostante il toradol, e che il
magnesio non mitiga abbastanza i crampi alle mani. Mi si perdoni, quindi, il titolo scurrile, che
provvedo subito a spiegare:
Ogni tanto un cazzone sgonfiato pigròculo, dal suo elegante scranno non esita a profondersi in
profonde stronzate senza nessun senso, tipo: “questa situazione richiede il nostro impegno militare
per mantenere la pace”. Combattere per la pace. Che di per sé è una colossale contraddizione logica.
Ne parlavo, ricordo, al tempo dell’ultima missione di pace in Libano. Qualcuno mi obiettò che era
necessario, al tempo, creare un cordone di sicurezza per evitare lo scontro diretto, e che a quello
servivano i soldati. La mia risposta? Se al tempo in Libano, oppure in qualunque altra situazione del
genere, al posto di un contingente di poveri ragazzi poco consapevoli, avessimo mandato schiere di
ambasciatori e di uomini politici? Insomma, nessuno oserebbe alzare le mani su una colossale
delegazione di pace composta dai principali esponenti politici del cosiddetto civilissimo occidente,
specie se disarmati e presenti in veste di mediatori.
Insomma, Clinton (che non era un sant'uomo) era riuscito a far stringere le mani di Sharon ed
Arafat, pace all’animaccia sua. Ecco cosa intendo. Chi decide di impiegare le forze armate per le
famose “missioni di pace” commette un errore logico. Combattere per la pace è sensato come
scopare per la verginità, checcazzo. Nessuna guerra, nessun conflitto armato ha mai prodotto pace,
in nessun modo. Che palle, siamo nel 2010 ed ancora serve dire ovvietà del genere. Che spreco di
intelligenza e di parole. Se qualche coglionaccio imparasse ad usare il cervello, io starei scrivendo
un altro pezzo del mio eternamente in fieri romanzo a puntate, invece di questa roba.
Mi fanno ridere, allo stesso modo di chi combatte per la pace o di chi scopa per la verginità (o di chi
chiude per la libertà, o di chi cucina per il crudismo, o bla bla bla), tutte quelle persone che se la
prendono con gli xenofobi. Dai, cazzo. Pensateci! Quanto spesso si sentono cose stupide come
“guerra alla guerra” oppure “nessuna tolleranza con l’intolleranza” oppure altri bla bla sloganeschi
del genere? Mi chiedo come mai ci sia ancora gente che li ascolta, che li pensa.
Il fascismo è stato un movimento antidemocratico ed antilibertario, avverso alla libertà di parola e
di pensiero. Lo stato italiano, oggi, punisce l’apologia di fascismo. Lo stato italiano combatte per la
pace e scopa per la verginità. Non che mi piacciano i fascisti, eh. Ma non mi piacciono nemmeno
gli stupidi.
Ma torniamo alle nostre faccende, alla nostra scuola di Solesino. In ospedale, tra le altre cose, avevo
un compagno di stanza di Solesino. Vabbé. Tra le persone che hanno commentato quella notizia c’è
una buona dose di scopatori per la verginità. Domanda: se tu mi prendi a schiaffi, e io ti prendo a
schiaffi, andiamo in pari. Ma, perdio, a me non passa il male alla faccia. Se tu mi prendi a schiaffi, e
io ti sferro una carezza, prima non capisci un cazzo, poi ti chiedi se io non sia pazzo, poi ti vengono
i sensi di colpa. Magari sei uno stronzo sul serio, e mi tiri una seconda serie di sberle. Voglio vedere
come stai, dopo una seconda raffica di carezze. Cosa pensi, cosa ti chiedi. In fin dei conti, sei un
essere umano. Stronzo, ma umano.
Non è solo una faccenda di coerenza, eh: io mi riconosco il diritto di essere incoerente, e lo
riconosco agli altri. Ma non vedo il senso di agire senza logica, fare cose stupide. Dai allora, quando
gli xenofobi prenderanno tutti i forconi e gli schioppi per cacciare i romeni, o gli zingari, o gli
africani, o i terroni, o i mezzosangue come il sottoscritto (e ne avrei di storie da raccontare in
proposito…), andiamo tutti loro incontro con altri forconi, con altri schioppi, perché “Odiamo chi
Odia” o altre cagate del genere. Macelliamoci a vicenda, cazzo, soprattutto macelliamo noi stessi
nel nonsenso.
Come l’autore dell’ultimo commento che ho riportato. Ma porca puttana. Hai provato il gusto della
discriminazione, dell’odio, dell’intolleranza, solo perché appartieni ad una determinata categoria
(perché non possiamo parlare né di razza, né di etnia, né di nazionalità): è mai possibile che tu
ripeta le stesse idiozie nei confronti di altri? Posso darti amorevolmente fuoco? Bah. Che mondo.
Per fortuna che c’è il cazzutissimo partito dell’amòre a portare avanti nell’agone politico queste
profonde istanze di rinnovamento logico-morale. Ho voglia di dare fuoco a qualcosa. Tipo a me
stesso, per esempio. Almeno evaporerebbero un po’ di liquidi, e non sarei più un rospaccio
rincoglionito e gonfio.
Ma forse, a ben pensarci, è meglio aspettare domani e prendere del lasix.
Mi sono ammalato per guarire. Ha!
Novantanove autoritratti
Novantanove, ha deciso di disegnarne. Subito io ho provato ad immaginare una stanza in cui cento
lei mi guardano da un po’ dovunque. Vagamente inquietante, e tendente alla psicopatologia, ho
pensato, all’inizio. Del resto, non sono molte le persone che si prendono la briga di disegnare un
simile numero di autoritratti, con la chiara intenzione di disegnarne quel preciso numero, non di
disegnarne un po’, che poi si rivelano essere novantanove.
Poi, dopo il pre-giudizio, ho cercato di capire, di vederci chiaro. La cosa mi intrigava troppo.
Quando disegna un autoritratto, mi ha detto, è come se si guardasse, in modo diverso da come ci si
guarda allo specchio, e non solo. Prima si guarda, poi capisce com’è, poi si disegna. Le serve per
capire chi lei sia, e per cambiarsi, per modificare se stessa.
Il riflesso, poi: spesso non è lo specchio, quello in cui si osserva. Il riflesso di una finestra buia,
dice, restituisce una immagine diversa. Il vetro non è liscio liscio, è leggermente distorcente. Poi, il
riflesso oltre ad essere deformato è parziale, intersecato con gli oggetti del fuori. Sovrapposto. Non
è solo lei, ma è lei sopra le cose del mondo. Se non altro, di quel pezzo di mondo che è lì fuori in
quel momento.
Ha deciso di farne novantanove per una ragione ben precisa. Cento è un numero che esprime
completezza. Lei, invece, non avrà mai finito. Non smetterà mai di guardarsi, di giudicare se stessa,
di ridisegnarsi, di apportare modifiche. Uno sbaffo di carboncino, una sfumatura di sanguigna, un
guizzo nervoso di matita.
Ne farà novantanove, per essere lei stessa il centesimo, o il primo. L’opera definitiva,
definitivamente incompleta, in mutazione continua, in perenne modifica e riedizione. Quelli sulla
carta, quelli da appendere, servono per tenersi in allenamento. Per interiorizzare il procedimento,
dice. Io aggiungo che il processo ha anche una sua rilevanza estetica. Con gli artisti bisogna parlare
difficile per non sembrare stupidi. In altri termini, è dannatamente brava. Un sacco.
Poi, la bellezza frutto del suo percorso di ricerca mi ricorda un sacco il mio modo di arrampicare.
La bellezza estetica del percorso, che è fine a se stesso e prevede una conclusione, ma non così
importante, anzi, quasi contenuta già nel percorso. Si tiene viva. Io mi tengo vivo con le sacche di
sangue, e la speranza di trovare una persona con un midollo abbastanza simile al mio. E,
chiaramente, scrivendo. In fin dei conti, anche sul monitor del pc s’intravede un po’ di riflesso, ed è
inevitabile che un po’ di anima filtri, e finisca nelle parole.
Lei si disegna, io mi scrivo.
C’è chi si cammina, chi si suona, chi si fotografa. C’è chi, quando vede un riflesso di sé, mette
mano alla cassetta dei trucchi, e copre, copre, copre, fino a costruire una maschera irriconoscibile e
grottesca, tanto radicata da distruggere la faccia, diventando coperchio di una scatola vuota.
Fino ad oggi, lei ne ha disegnati un buon numero, di autoritratti, ed un buon numero li ha distrutti.
Insieme, ha distrutto e ridisegnato se stessa.
Fino ad oggi, ho scritto un sacco di cose. Ne ho distrutte poche, tutte troppo belle per essere mie.
Siamo vivi. Siamo magma, siamo persone in cammino, in continua ridefinizione. C’è chi ci
chiamerebbe incoerenti. Non mi interessa. Il pensiero che rimane fermo nel suo nido, muore. Vive
quello che viaggia, che gira, che prova. Che parte dal suo nido, che ogni tanto ci torna, ma che tra
una sosta e l’altra vede le opposte sponde degli oceani.
Le ho chiesto di disegnare un mio ritratto. Voglio vedere cosa lei vede di me, che immagine esce dal
filtro dei suoi occhi e della sua mano. Un altro pezzo di magma-me. Per ricambiare, ho provato a
scriverla, un altro pezzo di magma-lei.
Cosa me ne frega di condividere la cosa? La trovo bella. E l’ultima volta che ho distrutto qualcosa
di bello, non mi è piaciuto.
Chiaro di luna e cascate
È successo.
Sapevo, sapevo che sarebbe arrivato anche questo momento. Sapevo che avrei dovuto farci i conti.
È iniziato in ospedale, subdolo e strisciante. Di per sé buttare il tempo mi mette di cattivo umore,
buttarlo in una sala d’aspetto, in attesa di notizie, visite, o sangue, ecco, è peggio. È ansiogeno.
Sono tornato a casa con le scatole girate.
Poi. La discussione sbagliata con la persona sbagliata. Detesto litigare, peggio ancora se mi rendo
conto di avere la maggior parte della responsabilità, cosa che raramente sono disposto ad
ammettere. Poi, altre mille piccole cose stupide, ognuna profondamente irritante. Il tutto,
chiaramente, condito con la solita dose di dolori, di crampi, di schifo.
Il toradol, certo. Beh, non è una bacchetta magica, il cazzo di toradol. Come se i miei reni ed il mio
fegato non avessero già da dedicarsi ad occupazioni migliori. Ho delle foto, appese vicino a dove
scrivo. Me che arrampico. Me alle isole Eolie. Me su un motorino con uno zaino più grosso di me.
Me su uno dei miei sentieri. Ecco, sono giorni che guardo quelle foto. Sono giorni che ci penso.
Rivoglio il mio corpo com’era. L’altra sera lo pensavo talmente forte che, in combinazione con il
resto, sono scoppiato. Ero al telefono con una mia cara amica, per fortuna. Una che ne sa.
Non piango, di solito. O meglio, non sono abituato a piangere. In ospedale m’è capitato spesso, e
quasi mai per il dolore. Ma ho pianto più in quel mese che in tutto il resto della mia vita, credo.
Non so come mai, non sono uno di quei bigjim convinti che il vero uomo non pianga. Solo, sono
sempre stato piuttosto introverso, e pertanto poco abituato ad esprimere con il corpo piuttosto che
con le parole le cose che sento.
Ero al telefono con un'amica che mi ha chiesto di piangere.
«Non ci riesco, senza la musica giusta.»
Conosco molta musica a memoria, retaggio dei miei trascorsi da clarinettista.
«Allora tutte le volte che hai scritto di piangere… mentivi?»
No, non mentivo.
«Non serve averla nelle orecchie, la musica, per sentirla, sai?»
Mentalmente, seguo la partitura di un pezzo dei Vangelis. Poi, una scorsa al Don Giovanni di
Mozart. Poi, cado nella mia-sua trappola.
«Conosci la sonata per pianoforte 14 “chiaro di luna” di Beethoven? C’è una leggenda, in proposito,
quasi sicuramente non vera. Si dice che sia stata composta per far vedere la luna ad una ragazza
cieca.»
E nonostante sappia molto bene che è molto probabilmente falso, non mi importa. Immagino un
Beethoven, sempre più sordo, che cerca di far vedere la luna ad una ragazza che invece non ci vede.
Ecco. Apro i rubinetti, con la musica che va, anche se solo nella mia testa. E in un momento, tutte le
sicurezze che ho forzatamente cercato di costruirmi, le cose a cui mi sono appoggiato in questi
mesi, sono andate in pezzi, come legno marcio. La malattia, la percezione della sua ineluttabilità,
l’idea della morte mi sono piombate addosso come una frana, seppellendomi. Per un momento non
c’è stata speranza. Non c’è stata forza. Non c’è stato desiderio di fare. Non c’è stato altro: stare
rannicchiato e piangere.
È servito. Bisogna piangere, ogni tanto. Bisogna lasciarsi andare, accoccolarsi, perdersi. Nessuna
montagna resiste per sempre, in piedi, rigida, uguale a se stessa. Bisogna essere come i torrenti.
Bisogna correre, come l’acqua, passare in mezzo alle cose, ma con la capacità di eroderle. Bisogna,
ogni tanto, tirare il fiato. Del resto, l’acqua che balza in cascata non fa rumore quand'è in aria. È
silenziosa, raccolta, bianca. Prende fiato.
Per scrosciare più forte, all’impatto.
Non mi ferma nessuno. Non ci ferma nessuno.
Io sono me. Problemi?
Dovrei procurarmi del cerone, credo. Bianco, bello spesso. Dovrei darmene una buona mano tutte le
mattine. Questa è solo la prima metà della soluzione ad un certo problema. La seconda, non mi è
ancora chiara. Ma qualcosa inventerò, sicuro.
Il certo problema è piuttosto semplice da spiegare: trattasi della percezione che le persone hanno
della mia condizione di salute. Se mi faccio vedere in giro, le persone pensano che stia bene e
quindi tutto il sommovimento di coscienze che finora ha portato a tutti questi nuovi donatori viene a
mancare, come se il problema del sangue e del midollo fossero solo miei, come se i miei problemi si
fossero risolti.
Chi invece conosce la mia condizione di salute, si stupisce di tutto quello che faccio, quasi potessi
star disteso a letto, respirare e poco più. Due diverse concezioni, entrambe rovinate dal pregiudizio.
Ma porcaccio il cane (e sono quattro giorni, se non sbaglio, che non scrivo insulti o cattiverie di
genere, e quindi è quasi ora di ricominciare), è possibile?
Ci sono un sacco di cose che posso fare. Una passeggiata, scrivere per ore, posso anche fare il capo
scout, posso scaricare (seppur con una certa fatica) delle buone quantità di scatoloni di generi
alimentari. Eppure, dovrei stare fermo. Perché? Perché SONO malato. Banane, come se non lo
sapessi, come se non ci pensasse il mio stesso corpo a ricordarmelo, ogni giorno. Ma AVERE una
malattia, per quanto stronza (oh, che soddisfazione il turpiloquio) non vuol dire essere diventati
delle larve incapaci, cazzo (oh, doppia soddisfazione). Possibile che non si riesca a pensare alla
persona con una malattia, per quanto grave, in termini oggettivi?
Di contro, è possibile che le persone siano così veloci a perdere il loro entusiasmo, solo perché non
sto più inchiodato in ospedale e perché adesso posso annusare quello che voglio? Dipendo
comunque dalle trasfusioni. Mi sveglio comunque, ogni mattina o quasi, già pieno di dolorini, che, a
volte, peggiorano. Il più delle volte. Ho comunque bisogno di un trapianto, nonostante, sforzandomi
e facendo del mio meglio riesca a fare il sacco di cose a cui accennavo prima. Eppure, da un lato la
gente pensa male se mi vede in giro (l’ho visto che passeggiava! Ma allora sta bene, non serve che
vada a fare le analisi per diventare donatore… Si vede che ci marcia sopra per farsi pubblicità),
dall’altro non sembro abbastanza ammalato perché risultino rilevanti le cose che dico. Perché non
faccio abbastanza sensazione.
Beh, ecco. Vaffanculo. È così difficile pensare una persona per quello che è? No, il cerone… Bah.
Vecchi e sassi
Avevo di nuovo le zampe gonfie, ieri. Ieri, ero di nuovo come un rospo. Ma c’era il sole, ieri.
Dopo aver pranzato, ecco, ho deciso di mettere fuori il naso. Una breve passeggiata. Avevo anche
dell’ottima compagnia. A dire il vero, fosse stato per me sarei rimasto a casa, perché ero abbastanza
indolenzito e rospo, ma non puoi fare il rospo, se hai dell’ottima compagnia. Così ho rivisto angoli
di paese che non vedevo da parecchio tempo. La mia ottima compagnia si occupa di architettura, tra
le varie cose.
Una buonissima scusa per badare a cose cui fino ad ora avevo guardato solo in maniera abbastanza
parziale e veloce. Finestre murate da mattoni forati, per esempio, e vecchi muri a secco. Le case dei
ricchi di oggi e le case dei ricchi di ieri. Sassi tagliati, strappati alla montagna senza fare tanti
complimenti. In qualche caso per costruire i muri, per separare il dentro dal fuori, per creare un
“dentro”. In altri, buttati via in inutili rivestimenti di dubbio gusto estetico ed etico.
Sarebbe dovuta essere una passeggiata da un quarto d’ora: invece, seguendo un filo invisibile,
abbiamo attraversato il paese, seguito il fiume per un breve tratto, accarezzato le pareti di roccia
dove qualche mese fa passavo le mie giornate, osservato da lontano vecchie case abbarbicate sulla
montagna, e feritoie, nidi di mitragliatrici collegati da gallerie costruite quando il confine con
l’Austria era molto più vicino.
Abbiamo ascoltato se il vecchio Ezzelino il monaco, da sotto la sua stele duecentesca appesa dietro
la chiesa, aveva qualcosa di nuovo da raccontare, ed assaggiato l’acqua della fontana che gorgoglia
lì vicino. Sulla strada di casa, quando le mie gambe ormai reclamavano un po’ di riposo, abbiamo
pensato di dare uno sguardo al cimitero.
Mi piacciono, i cimiteri. C’è sempre da imparare, a vederli, a starci dentro (a starci
temporaneamente dentro, visto che se diventi un ospite fisso hai ben poche possibilità di imparare
ancora qualcosa). Dai morti impari che se sei morto ricco, puoi permetterti tutti i sassi che vuoi,
tagliati, impilati, scolpiti. Impari che se sei morto povero, ti tocca una croce di legno con il nome
scolorito, oppure un foglio di carta plastificata, appiccicato su una fettina di sasso a basso costo. Dai
morti impari che tutto questo serve per i vivi, che avere sopra la testa il mausoleo di famiglia o solo
una rastrellata di ghiaia e qualche metro di terra, non ti rende più o meno morto.
La morte, diceva Totò, è una livella. Altri sassi, che rivestono persone. Meditavo: su Blade Runner.
Sulle navi da combattimento in fiamme al largo dei bastioni di Orione, sui raggi B che balenano nel
buio alle porte di Tannhauser. Su tutti quei momenti che andranno perduti come lacrime nella
pioggia.
Pensavo a come ognuno di quei corpi in disfacimento fosse stato persona quanto me, con tutto il suo
carico di sogni, di segreti, di storie. Pensavo a tutti quei cervelli, le cui configurazioni, ognuna
unica, i cui engrammi, andavano persi per sempre, come lacrime nella pioggia.
Pensavo, con una punta di malinconia, all’umano destino: svanire. Un altro degli insegnamenti dei
morti.
Una vecchina di cui non mi ero accorto. Salutiamo, con cortesia. Sta uscendo, cammina sul vialetto
centrale, diretta alla cancellata in ferro battuto. «Arrivederci, ragazzi. Mi ha fatto piacere
incontrarvi: ormai, conosco più gente qui dentro che lì fuori». Dove, intendiamoci, il qui è il
cimitero.
Una cosa imparata dai vivi al camposanto: si può essere morti e camminare. Non di vecchiaia, non
di malattia, non di anemia aplastica: di solitudine. Siamo noi che facciamo tirare il calzino ai
vecchi. Siamo noi che li ammazziamo. Siamo noi gli stronzacci che con poca grazia e meno buon
gusto rapiniamo la montagna dei suoi sassi, per costruire un coperchio di pietra ai nostri nonni.
Mentre sono ancora vivi.
Avessi ottant’anni, sarei piuttosto incazzato. Altro che stare a guardare i cantieri commentando i
lavori.
Ecco come mai m’è sempre piaciuto, nonostante tutto, stare in giro, e non solo nel mio paesino tra
le montagne. Ecco come mai vale la pena, anche se le zampe non aiutano, di camminare, annusare,
vedere. Ecco come mai bisogna avere attenzione, saper ascoltare i vecchi ed i sassi: hanno un sacco
di storie da raccontare. Non saperle ascoltare, vedere, cogliere, è essere quella pioggia in cui quelle
lacrime sono perse, per sempre.
Franco non c’è più
Ciao Giovanni,
Tu probabilmente non ti ricorderai di me… Sono la moglie di un tuo ex compagno di “sventura” e
di stanza… Stanza 22, diventata ormai da un po' simbolo della battaglia di sensibilizzazione che stai
portando avanti.
Franco (il baffo) è il nome di mio marito, anche lui ha combattuto tanto, e purtroppo, al contrario di
te, in silenzio. Ora non c'è più.
Ti ammiro per la forza e il coraggio con qui stai cercando di scovare e smuovere la solidarietà
latente nel profondo delle persone raggiunte, urlando a squarciagola il bisogno di valori veri e di
amore sincero verso il prossimo.
Continua così, non ti stancare mai di smuovere le coscienze, potresti rischiare di salvare qualche
vita ed anche qualche anima…
Ivana
Franco, il baffo, non c’è più. Porca puttana. Sembrava una cosa bella, lontana, teorica, vero?
Sembra tutto più facile quando si affronta la faccenda con certo distacco, dato dal mezzo e dal modo
di argomentare.
Figo, figo, ci siamo sentiti tutti più buoni a dire leggere scrivere qualche cazzata, possibilmente
incisiva, o dotta, o blablabla.
Non scrivo da un po’ più di due settimane. Come mai? Mi sto occupando della mia vita, il che
include la tesi di laurea. Il tempo libero, lo sto dedicando alle scuole. Giro per i licei della zona,
incontrando i ragazzi e spiegando loro come mai serve avere occhio per gli altri, il che implica
sangue, midollo osseo e ogni altra forma di attenzione e di amore, dal cibo al tempo.
Ho fatto un bilancio. Ho poche energie da spendere, e quelle che investo nel “mietere” giovani
rendono di più.
Qui, invece, siamo sempre i soliti, ci parliamo addosso, non serviamo. Non cambiamo nulla.
Franco era uno dei tre occupanti della stanza 22 il giorno del mio ricovero. Assieme a Natalino mi
ha spiegato come funzionava la routine quotidiana, il foglio della mensa, un sacco di piccole cose
che non stanno su nessun manuale. Ricordo il dialetto quasi incomprensibile che parlava con sua
moglie, o con me. Mi sentivo tonto, o sordo, a parlare con Franco. E non è che abbia poca
dimestichezza con il dialetto. Quello di Solagna, però.
Ricordo che tra noi quattro della stanza 22 era stato il secondo ad uscire dall’ospedale, poco dopo
Sladan. Era rientrato poco prima che uscissi io. Senza baffi e senza capelli. Ho fatto fatica a
riconoscerlo.
Franco guardava un sacco di TV, la notte. Restava sempre sveglio, anche dopo che io avevo smesso
di scrivere, e smettevo molto, molto tardi, quasi sempre. È stato l’ultimo che ho salutato, in
ospedale, prima di uscire. Sorridevamo entrambi. Gli ho detto, stringendogli la mano: «vedrai che
tra poco tocca a te, andare a casa».
Vaffanculo. In tutto questo, dov’eravamo, noi? Annuire, sbrodolare, sbavare, sentirci migliori per
leggere e scrivere quattro cazzate. Schifo. Schifo di nessun valore. In tutto questo spreco di parole e
saliva, in tutto questo chiacchiericcio rumoroso, quanto del fattibile non s’è fatto?
Andate in montagna, appena possibile. Si impara il valore del fiato.
Premessa alla conclusione (che è un po' una contraddizione e
quindi mi piace)
Ogni pensiero ha la sua musica. Un giorno mi piacerebbe organizzare una esposizione
multisensoriale, una cosa un po' neofuturista. Creare un percorso per le persone, che esprima
un'emozione, un'idea, qualcosa. Esporre odori, sapori, cose da vedere e da toccare. E solo la musica,
il suono, potrebbe fare da filo conduttore. Essere il Virgilio dell'incauto, finito per sventura o per
errore nell'inferno caotico di sensazioni ordito da una specie di sadico bastardo.
Per ora devo limitarmi a scrivere ed a scattare qualche fotografia, visto che non ho ancora trovato il
tempo per dare spazio alle mie fantasie, e l'idiota che mi dia corda. Ma voglio comunque
permettermi un consiglio.
Nothing else matters. Non la versione originale dei Metallica. La cover, delicata, disperata e
profonda che sono riusciti ad arrangiare gli archi degli Apocalyptica. Volume pieno, eh. La musica
non va sentita solo con le orecchie, deve prendere il corpo intero e farlo vibrare, facendo entrare in
risonanza anche l'anima. Compera il CD, scarica illegalmente il brano e guadagnati l'inferno dei
pirati multimediali, cerca un concerto, sequestra il quartetto e falli suonare sotto la minaccia di una
castrazione collettiva. Fai come vuoi, non importa. Basta che tu stia ascoltando quella cazzo di
canzone, prima di continuare.
Questa invece è la conclusione
Non sono bravo con le conclusioni. Non sono mai stato bravo a mettere il punto a qualcosa,
chiuderlo e considerarlo finito, per sempre. Lo ben sanno le donne che ho importunato per tempi
improbabili, dopo essere stato lasciato. A parte questo, credo che sia colpa di Socrate e di
Pirandello. Pirandello, perché la vita è un magma, e Socrate, perché mettere qualcosa per iscritto,
dargli una forma definita, è un po' come soffocare la forza viva del pensiero che ha generato una
serie di parole. Nel sistemare questo mucchio caotico di cose scritte mi sono dovuto dare una
regola: leggi, sistema, rileggi, lima e vai avanti. Già a distanza di poche ore avrei cambiato tutto di
nuovo, in un continuo processo di creazione e distruzione, di forgia.
Socrate aveva la fortuna di vivere in un posto piccolo, e di poter essere lui, in un certo senso, il suo
libro, la raccolta dei suoi pensieri localizzata nello spazio. Raccontare ti permette di essere sempre
vivo, fortuna che la parola scritta non concede. Io, beh, oltre a non essere Socrate (e ad essere
sicuramente molto più stupido di lui) non posso permettermi di essere il mio libro. Non ne ho il
tempo, e sebbene mi piaccia raccontare storie, di ogni genere, gli sconosciuti mi rendono molto
timido. Aggiungo: immagina di dover raccontare quasi ogni giorno, a qualcuno di cui non conosci
altro che il viso, come, quando e perché è probabile che tu muoia, e come, quando e perché sono
morti i tuoi amici. Questo assomiglia abbastanza alla mia quotidianità, a quello che faccio (e lo
faccio perché so che serve, perché convince persone, perché se non lo facessi mi sentirei colpevole
di poter fare e non aver fatto) ed è abbastanza tremendo. Ti svuota, e rischi di meccanizzare, di non
sentire più niente, di castrarti le emozioni per non stare male, male, male. Forse anche a questo
serve, scrivere. Una specie di cassaforte. In queste pagine ci sono, cristallizzate per sempre, le
emozioni che ho sentito nel periodo più difficile, più impegnativo e più bello della mia vita. Se un
giorno dovessi morire dentro, prima che fuori, qui resterà qualcosa, una traccia, un fantasma di me.
Un filatterio con una scheggia d'anima a cui potrò, se non altro, guardare con nostalgia ricordando
chi ero.
È passato del tempo. Il tempo, in teoria, dovrebbe curare ogni ferita. Il giorno che trovo il cazzone
sgonfiato che s'è inventato questa genialata, lo strozzo con le mie mani.
Franco è morto. È morto anche Natalino, e Sonia che non ho mai conosciuto, e molti altri. Come
Stefano, che aveva gli anni che ho io. Stefano, che andava in montagna come me, a cui avevo
promesso di portarlo ad arrampicare con me, aggiungendo che sarebbe andato tutto bene, che
sarebbe guarito, che un giorno i nostri corpi non sarebbero stati più stracci cenciosi, ma sarebbero
tornati quelli giovani e forti che ricordavamo.
Stefano adesso è cenere, e non avrà mai più montagne e cieli, né il vento che canta tra gli alberi, né
nient'altro. Niente birre, amici, studio, lavoro, vacanze, famiglia, amore, futuro. Nulla più di un
grande, vuoto, nero colloso.
Io sono ancora vivo, invece, e non c'è fottuto giorno sul calendario in cui non mi domandi come
mai.
Ci sono anche giorni in cui mi pento di essere uscito vivo dalla mia stanza 22. Mi rispondo e mi
consolo in un sacco di modi diversi: il mio impegno sta servendo a qualcosa per salvare la vita ad
altre persone, per iniziare. Mi sforzo di crederci. Poi: Dio ha dei progetti per me. La sofferenza in
terra è preludio ad un radioso avvenire oltremondano dopo la dipartita. No, non ci credo nemmeno
un po'. Alla fine della fiera, resta solo dirsi che cercare il senso della vita è una puttanata da filosofi,
che non serve a nulla, e che si tratta di tempo sottratto a cose migliori.
Ci sono giorni in cui penso che se fossi morto non dovrei alzarmi ogni mattina, prendere i miei libri,
salire su un treno per andare ad imparare cose che non mi serviranno mai. Che non dovrei
indignarmi ed incazzarmi per come stanno andando le cose in questo Paese di ratti e puttane (con il
massimo rispetto per le categorie citate), che non dovrei assistere, ogni giorno, alla progressiva,
sistematica e continua distruzione dei sogni miei e della mia generazione, che non dovrei pensare a
chi vendere il culo o l'anima per portarmi a casa quattro soldi di merda, sperando che mio padre
possa un giorno andare in pensione, con almeno l'illusione di non aver allevato un fallito incapace
di provvedere a se stesso. Se avessi tirato le cuoia non dovrei nemmeno scrivere o raccontare ogni
giorno delle mie sfighe, non dovrei riaprire tutte queste ferite, non dovrei stare male.
Se fossi morto, sarei morto amato, attorniato da amici e parenti (magari anche i testimoni di Geova
avrebbero detto una preghiera per quel nipote o cugino senzadio che mi capita di essere), un sacco
di persone avrebbero pianto per me, si sarebbero strette tra loro, e magari avrebbero potuto, un
giorno, ricordare me e le mie stronzate con un sorriso, bevendo una buona birra e brindando alla
mia.
Questo, tutto questo, non toglie nulla ad una semplice semplice semplice verità:
Morire È Una Merda.
E tutto sommato sono abbastanza contento di essere vivo. Soprattutto, di poter avere ancora
bellezza. Vedere una bella ragazza, per strada, sentirne la scia di profumo evocativo, potente.
Assaggiare vini buoni, in buona compagnia. Arrampicare tantissimo, e stare sotto al cielo senza tetti
e muri, e fare l'amore sotto le stelle, senza fermarsi, respirandosi addosso per tenersi al caldo.
Scrivere qualche poesia, ogni tanto, tenerla da parte e limarla all'infinito, perfetta nella sua eterna
incompletezza, lusso che può permettersi chi ha tempo, o chi si convince di averlo.
Sarebbero già ragioni più che sufficienti, tutto sommato, per essere contenti di vivere. Ce ne sono
altre.
Se sei morto, non potrai mai, mai più fare la differenza per nessuno, in nessun modo. Beh, a meno
di non essere morto dannatamente male, o in modo un sacco clamoroso, o di essere stato un figo da
vivo, così tanto da diventare una specie di icona ispiratrice. Oppure puoi sempre scegliere la
soluzione di ripiego e fare la differenza come fantasma o come zombie, ma fantasmi e zombie non
sono molto socialmente accettati. Puzzano e fanno paura alle persone.
Se sei vivo è tutto più facile. Basta che non ti rintani in te stesso, che ti guardi attorno, e poco altro.
Trovi di sicuro qualcosa da fare, se parti dal presupposto di voler cambiare le cose in meglio, e se
hai un senso di cosa vuol dire meglio. Suppergiù è quello che sto cercando di fare io, ora come ora.
Provare a fare qualcosa di bello è uno dei miei obiettivi principali. Suona strano, detto da uno che
non taglia quasi mai la barba, si lava giusto l'indispensabile e disdegna quasi ogni genere di
fronzolo estetizzante. Diciamo che ho un mio personalissimo senso del bello, ecco. Mi sono
sperimentato a scolpire la pietra, con risultati scadentissimi. Un pennello non saprei nemmeno da
che parte tenerlo e quando suono mi vergogno della mia inettitudine. Va un po' meglio con la
fotografia, ma scrivere è di gran lunga la mia carta migliore (se fossi maligno nei miei confronti, e
lo sono, potrei obiettare che non è affatto una gran carta, diciamo, più o meno, come il due a
briscola). Spero se non altro di essermi espresso in maniera almeno abbastanza chiara, in queste
pagine.
Ho una pia illusione, che per ora mi piace coltivare. Sogno di poter, un giorno, vivere in un furgone,
girando la nostra Italia, fermandomi a raccontare storie alle persone, a raccoglierne di nuove, a
forgiarle e dare loro forma. Cesellare parole per costruire sogni. Non fermarmi che per poco, nelle
piazze dei paesi, posti in cui le persone ancora trattano lo straniero con una certa umanità ce ne sono
ancora. Dovrò procurarmi anche un piccolo bidone per fare il fuoco. Un cantastorie senza un fuoco
non è tanto credibile. Già, magari anche una scimmia e un violinista non starebbero male, nella foto
di famiglia. Magari una violinista. Ha.
Forse sarei più realista se mi vedessi, tra qualche anno, capitano d'industria, il che è tutto dire. Ma il
bello del pensiero è che ha meno limiti della realtà, e se ti abitui a pensare largo, poi ti accorgi che,
a volte, qualcuna delle tue seghe mentali si dimostra inaspettatamente realizzabile. Chi smette di
sognare muore prima, e non è solo un modo di dire, garantisco. Non possiamo mai, mai, mai
smettere di sognare.
Chi sogna anche i sogni degli altri, beh, vive almeno per due.
Almeno per sempre.