1. DIGNITÀ DELLA PERSONA E VALORI DOMINANTI

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1. DIGNITÀ DELLA PERSONA E VALORI DOMINANTI
1. DIGNITÀ DELLA PERSONA E VALORI DOMINANTI
Sommario:
Introduzione.
A. Le decisioni sul fine-vita.
B. Identità sessuale e famiglie “atipiche”.
C. Libertà di espressione nel dibattito politico.
D. Dignità della persona e Internet.
Bibliografia essenziale.
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Introduzione
I brani giurisprudenziali riportati in questo capitolo si occupano, a diverso titolo,
di stabilire i limiti che il rispetto della sfera privata dei singoli può incontrare quando questa viene in contatto con interessi confliggenti della collettività. Il tema è, in
altre parole, quello relativo alla difficile ricerca di una linea di confine – il più possibile chiara – tra il c.d. domaine privé ed il domaine public.
Le questioni affrontate nelle decisioni qui in parte riprodotte sono fondamentalmente quattro. La prima di esse riguarda la definizione dei limiti che possono essere
posti dall’autorità pubblica alle decisioni del singolo che riguardano aspetti essenziali
della propria persona – vita, morte, identità sessuale, matrimonio – o alle situazioni
che a tali decisioni conseguono (sez. A e B). In secondo luogo, viene presa in considerazione la possibilità che, data la qualità di “uomo pubblico” del soggetto il cui diritto
alla riservatezza è in questione, possa trovare applicazione uno standard di protezione
della sua sfera privata attenuato, in ragione del ruolo che egli ricopre. In terzo luogo –
ed in modo speculare rispetto alla questione precedente – si vedrà come la libertà di esprimere opinioni politiche, specialmente da parte di rappresentati eletti, sia considerata degna di particolare tutela ma che il suo esercizio incontra comunque un limite
nell’esigenza di rispettare la dignità di terzi (sez. C). Infine, un caso recente illustra come nemmeno “la rete” (Internet), da non pochi concepita come uno spazio di libertà
assoluta, almeno per quanto riguarda l’espressione e la comunicazione del pensiero,
non sembra più immune dalla tensione tra libertà di espressione e rispetto di regole
minime dirette a garantire la dignità delle persone (sez. D).
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Casi difficili
Nella sez. A vengono riportate alcune pronunce di giudici nazionali e dei giudici
di Strasburgo nelle quali viene preso in considerazione il possibile intervento delle
autorità pubbliche nelle scelte personalissime del singolo che attengono alla decisione di vivere o morire. I primi due casi riportati – cioè il caso Terri Schiavo (n. I) e
quello relativo ad E.E. (n. II) – sono entrambi caratterizzati dal particolare status in
cui versano i soggetti il cui diritto a morire è in questione. Si tratta, infatti, di persone che si trovano in uno stato vegetativo irreversibile e che vengono mantenute in
vita esclusivamente tramite trattamenti medici. I giudici, interpellati dai rispettivi tutori, sono chiamati a stabilire se, ed a quali condizioni, possa essere autorizzata la richiesta di questi ultimi di interrompere il mantenimento in vita artificiale delle persone loro affidate. Entrambi i giudici riconoscono la possibilità dell’accoglimento di
una tale richiesta, a condizione che vengano rispettate alcune condizioni particolarmente rigorose. In base al test seguito dal giudice nel caso Schiavo, i) debbono sussistere documenti o prove di dichiarazioni orali del paziente, prodotte in maniera consapevole e volontaria, che diano conto della sua chiara volontà di non essere sottoposto oltremodo a trattamenti artificiali di mantenimento in vita; ii) il sostituto deve
essere certo che il paziente non abbia una ragionevole probabilità di riacquistare coscienza in modo da esercitare personalmente i suoi diritti; iii) il sostituto deve prendere ogni misura per assicurare che qualsiasi limitazione o condizione espressa, sia
oralmente che per iscritto, sia stata attentamente considerata ed adempiuta. Assai
simili sono le condizioni individuate dalla Corte di Cassazione italiana nel caso E.E.
che debbono essere cumulativamente soddisfatte per poter disporre l’autorizzazione
all’interruzione delle cure. Secondo la Corte, il giudice di merito può procedere all’autorizzazione soltanto i) quando la condizione di stato vegetativo sia, in base ad
un rigoroso apprezzamento clinico, irreversibile e non vi sia alcun fondamento medico, secondo gli standard scientifici riconosciuti a livello internazionale, che lasci supporre che la persona abbia la benché minima possibilità di un qualche, sia pure flebile, recupero della coscienza e di ritorno ad una percezione del mondo esterno; e ii)
sempre che tale istanza sia realmente espressiva, in base ad elementi di prova chiari,
concordanti e convincenti, della voce del rappresentato, tratta dalla sua personalità,
dal suo stile di vita e dai suoi convincimenti, corrispondendo al suo modo di concepire, prima di cadere in stato di incoscienza, l’idea stessa di dignità della persona.
Diverso dai precedenti è il caso Pretty (n. III), deciso dalla Corte europea dei diritti dell’uomo. Qui, infatti, la richiesta di morire proviene direttamente dal paziente.
Questi, in particolare, chiede di poter essere assistito da un congiunto nel porre fine
alla propria esistenza, non essendo in grado – per il progredire della malattia da cui è
affetto – di agire da solo, senza che quest’ultimo possa subire conseguenze penali a
motivo di ciò. La Corte europea è chiamata in particolare a valutare se il diritto alla
vita tutelato dall’art. 2 della Convenzione debba essere interpretato nel senso di
comprendere anche, parimenti ad altri diritti contenuti nello strumento internazionale, l’aspetto “negativo”, ossia il diritto alla morte. E se, pertanto, uno Stato che
vieta il suicidio assistito debba ritenersi in violazione dell’art. 2. La conclusione cui
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perviene la Corte è che l’art. 2 non può essere interpretato, se non a costo di una intollerabile distorsione linguistica, nel senso di conferire il diritto diametralmente opposto a quello cui esso si riferisce, ossia il diritto alla morte; esso, inoltre, non può
nemmeno creare un diritto assoluto all’auto-determinazione nel senso di conferire al
singolo il diritto a scegliere la morte piuttosto che la vita. La decisione della Corte
muove dalla considerazione del ruolo fondamentale che l’art. 2 assume nell’economia complessiva della Convenzione: la protezione del diritto alla vita rappresenta,
infatti, una condizione necessaria per poter garantire la tutela di tutti gli altri diritti
protetti dalla CEDU.
Nella sez. B, vengono riportati brani di alcune sentenze pronunciate dalla Corte
europea ovvero della Corte Costituzionale italiana e tutte riconducibili ai temi, correlati, dell’identità sessuale e del riconoscimento legale delle famiglie “atipiche”.
Dalle sentenze emergono, in particolare, il problema dello status giuridico dei transessuali, nonché quello, più complesso, del diritto delle persone omosessuali a contrarre matrimonio e ad adottare un bambino.
Nella prima sentenza viene anzitutto preso in considerazione il problema della libertà dell’individuo di decidere circa la propria identità sessuale e di pretendere che
lo Stato riconosca tale decisione a tutti gli effetti. Il caso che viene riportato – cioè la
sentenza Goodwin (n. IV) della Corte europea dei diritti dell’uomo – ha ad oggetto
in particolare il trattamento che deve essere riconosciuto dagli Stati contraenti della
CEDU nei confronti dei transessuali. Secondo la Corte europea, in assenza di importanti fattori di interesse pubblico che si pongano in concorrenza con l’interesse del
singolo ad ottenere il riconoscimento giuridico del suo mutamento di sesso, l’applicazione dell’art. 8 della Convenzione, che tutela il diritto alla vita privata, impone agli Stati di provvedere ad un siffatto riconoscimento. A parere della Corte, infatti, si
può ragionevolmente esigere dalla società che essa accetti certi inconvenienti al fine
di permettere a delle persone di vivere nella dignità e nel rispetto, in conformità con
l’identità sessuale da loro scelta a prezzo di grandi sofferenze. La Corte ha inoltre
stabilito che l’impossibilità per un transessuale di contrarre matrimonio con una persona di sesso uguale a quello cui egli in precedenza apparteneva (prima di sottoporsi
ad un’operazione di cambiamento del sesso), costituisce una violazione del suo diritto di contrarre matrimonio, protetto dall’art. 12 della CEDU.
Il riconoscimento del diritto all’identità sessuale, affermato nel caso Goodwin, è
avvenuto sotto la spinta di un mutamento manifestatosi a livello continentale, consistente in un’aumentata sensibilità, veicolata anche della scienza, rispetto ai problemi
con i quali si confrontano i transessuali. È stato proprio questo mutamento ad indurre la Corte ad abbandonare l’atteggiamento di chiusura che aveva caratterizzato la
sua precedente giurisprudenza. La Corte si è però dimostrata particolarmente prudente, quando è stata investita della diversa questione del divieto di matrimonio tra
persone dello stesso sesso. Nella decisione concernente il caso Schalk e Kopf (n. V),
la Corte ha preferito tener conto delle soluzioni già individuate e assolutamente prevalenti nei sistemi giuridici degli Stati membri, rinunciando quindi a porsi in “con-
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tatto diretto” con le tendenze evolutive presenti nella società europea ancorché minoritarie; essa ha perciò negato che dall’art. 12 della CEDU possa ricavarsi un obbligo per gli Stati parti di riconoscere il matrimonio tra persone dello stesso sesso. È
comunque il caso di notare che il ragionamento della Corte lascia aperta la strada al
riconoscimento del matrimonio omosessuale per il futuro. Nel respingere la domanda dei ricorrenti, essa ha infatti chiaramente avvertito che l’attuale orientamento potrà mutare allorché un numero maggiore di Stati membri, rispetto agli attuali sei, estenderà il diritto di sposarsi anche alle coppie omosessuali.
La sentenza della Corte europea è di poco successiva a quella della Corte Costituzionale italiana (n. 138 del 2010) (n. VI), la quale è stata chiamata ad esprimersi su
una questione giuridica analoga, con riferimento agli artt. 2, 3, 29 e 117, primo comma della Costituzione. L’orientamento espresso dalla Corte non è dissimile da quello
della Corte europea. Le conclusioni cui perviene sono le seguenti: i) sebbene
l’unione omosessuale sia da annoverarsi tra le formazioni sociali protette dall’art. 2
della Costituzione, è da escludersi che tale protezione passi necessariamente per
l’equiparazione delle unioni omosessuali al matrimonio, cosicché spetta al legislatore
scegliere quali forme alternative di riconoscimento ammettere; ii) la nozione di famiglia accolta dalla Costituzione all’art. 29 (“La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio”), può essere interpretata in
senso evolutivo ma non sino al punto di stravolgerla nel suo significato essenziale
(che è quello legato alla famiglia intesa in senso tradizionale); iii) il divieto di matrimonio per le coppie omosessuali non costituisce una disparità di trattamento vietata
dall’art. 3, perché la situazione di una coppia omosessuale non è comparabile a quella di una coppia “tradizionale” e nemmeno alla relazione tra due persone di sesso
opposto una delle quali è un transessuale che ha cambiato sesso grazie ad un’operazione chirurgica; iv) l’esistenza di un diritto a contrarre matrimonio per le coppie
omosessuali non è desumibile neppure dalla disciplina internazionale, richiamata nel
nostro ordinamento tramite l’art. 117, primo comma, della Costituzione, dato che
tale disciplina non impone affatto agli Stati di estendere l’istituto del matrimonio anche alle coppie omosessuali.
Quando si discute di una possibile assimilazione delle relazioni omosessuali alle
relazioni eterosessuali, una delle questioni più controverse è quella relativa al diritto
di un single o di una coppia omosessuale di adottare un bambino. L’adozione da
parte di persone omosessuali suscita ancora oggi forti riserve nell’opinione pubblica
in ragione di una pretesa violazione dell’interesse superiore del bambino. Se il conflitto tra domaine publique e domaine privé, cui si accennava in apertura, resta pressoché invisibile nel dibattito giuridico che si è sviluppato attorno al diritto degli omosessuali di contrarre matrimonio, esso riemerge con prepotenza allorché il diritto
all’autonomia privata delle persone omosessuali sembra entrare in contrasto con
l’esigenza di tutelare il minore. Vi sarebbe da un lato un interesse pubblico al benessere del minore (in linea di principio prevalente) e, dall’altro, l’interesse del singolo
(uomo o donna omosessuale) ad adottare e crescere un figlio.
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A sostegno del diritto di adottare si potrebbe evocare il principio di non discriminazione di cui all’art. 14 della CEDU. Si potrebbe infatti sostenere che il divieto
di adottare che incombe sulle coppie omosessuali configura una disparità di trattamento a carico di tali soggetti, che si concreta nell’impossibilità di accedere allo status di genitore dal punto di vista dell’ordinamento e che deve essere in qualche modo giustificata. A questo genere di considerazioni tipicamente si replica che la disparità di trattamento evidenziata non costituisce una discriminazione ai sensi dell’art.
14 della CEDU perché tra coppie eterosessuali e coppie omosessuali sussistono delle
differenze significative che i singoli ordinamenti possono legittimamente prendere in
considerazione nell’attribuire alle coppie “tradizionali” un trattamento privilegiato.
La Corte europea, nel caso E.B. c. Francia (n. VII), è intervenuta sul tema affermando che impedire ad una persona omosessuale di adottare è discriminatorio se il
divieto non mira a realizzare uno scopo legittimo e ragionevole o se non vi è un rapporto ragionevole di proporzionalità tra mezzi (il divieto di adozione) e scopo (l’esigenza di proteggere il minore). In particolare, quando si tratta di orientamento sessuale, è necessario che lo Stato dimostri l’esistenza di ragioni “particolarmente gravi
e convincenti” alla base di una disparità di trattamento che incide sulla vita privata e
familiare degli individui. Secondo la Corte, la semplice constatazione che l’aspirante
genitore è omosessuale evidentemente non basta. A questo proposito, è bene ricordare che la legislazione francese consente l’adozione anche da parte di singoli individui e che la ricorrente aveva presentato domanda d’idoneità all’adozione in quanto
single nonostante convivesse da diversi anni con una compagna. La Corte ha notato
in particolare come l’indagine condotta dalle autorità nazionali per decidere se accogliere la domanda della ricorrente si fosse concentrata prevalentemente sull’orientamento sessuale della donna piuttosto che sulle sue qualità umane e sulle sua attitudine alla genitorialità.
Nella sez. C si passa ad affrontare la questione dei limiti che può incontrare la libertà di espressione, protetta dall’art. 10 della CEDU, nel contesto del dibattito politico. Nella prima sentenza riportata è analizzato il tema del rapporto tra l’esigenza
del rispetto della vita privata e quella del rispetto del diritto di espressione. La questione posta dal caso Oberschlick (n. VIII), deciso dalla Corte europea, è, in particolare, relativa ai limiti che il diritto alla vita privata del singolo può incontrare – a favore del diritto di critica – laddove questi sia un soggetto che svolge funzioni pubbliche ed oggetto di valutazione siano le posizioni da lui espresse pubblicamente.
Secondo la Corte europea, i limiti all’esercizio del diritto di critica debbono risultare
meno stringenti nel caso in cui esso venga esercitato nei confronti di un uomo politico, che agisce nella sua qualità di personaggio pubblico, anziché nei riguardi di un
privato cittadino. L’uomo pubblico, infatti, si espone inevitabilmente e coscientemente ad un controllo attento delle sue dichiarazioni ed azioni, tanto da parte dei
giornalisti che da parte dell’opinione pubblica, e deve dimostrare una maggiore tolleranza, soprattutto nel momento in cui egli stesso si lascia andare, come nel caso sul
quale la Corte deve pronunciarsi, rendendo delle dichiarazioni pubbliche che pos-
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sono prestarsi a critiche. Evidentemente, anche l’uomo politico ha diritto ad avere la
sua reputazione protetta, anche al di là della sua vita privata, ma gli imperativi di
questa protezione devono essere bilanciati con gli interessi della libera discussione
dei principi politici, poiché le eccezioni alla libertà d’espressione devono essere interpretate in modo restrittivo. I brani riprodotti della sentenza sono integrati da un
estratto dell’opinione dissenziente di alcuni membri del collegio giudicante, i quali
propendono per una soluzione che tenga maggiormente conto della necessità di tutelare comunque la sfera privata dell’individuo, soprattutto quando questa sia oggetto di “aggressione” tramite il ricorso ad offese gratuite ed oltraggi.
In un’altra sentenza della Corte europea, riguardante il caso Le Pen c. Francia (n.
IX), si affronta il diverso problema di stabilire sino a che punto la libertà di espressione di una figura pubblica è funzionale al corretto svolgimento del dibattito politico, indispensabile in una società democratica, e quando invece essa debba soccombere dinanzi a valori altrettanto fondamentali come la tutela della dignità di altre
persone (il ricorrente, noto esponente di estrema destra, aveva più volte pronunciato
frasi razziste e offensive nei confronti di una minoranza religiosa). Esaminando il caso con particolare cautela, la Corte ha ricordato che l’art. 10 della CEDU non protegge solo le idee condivise ma anche quelle che possono inquietare o scioccare; che,
inoltre, gli individui impegnati in un dibattito pubblico sono liberi di utilizzare una
certa dose di provocazione nell’esprimere le proprie idee; che, infine, le ingerenze
dello Stato nella libertà d’espressione di un membro del parlamento, il quale si fa
portatore degli interessi e delle preoccupazioni dei suoi elettori, devono essere valutate in modo particolarmente rigoroso, nel senso che lo Stato può limitare tale libertà solo per motivi di particolare gravità, tra i quali la Corte ha comunque fatto rientrare la necessità di reprimere le ripetute aggressioni verbali commesse dal ricorrente
nei confronti della popolazione di religione musulmana residente in Francia.
Infine, nella sez. D, relativa al bilanciamento tra tutela della privacy e libertà di
espressione all’interno del sistema Internet, si è riportata la pronuncia (n. X) che riguarda l’emblematico caso “Vividown” in cui il Tribunale di Milano ha condannato i
vertici di Google Italy per illecito trattamento dei dati personali. Il caso riguardava il
caricamento su Google Video – servizio gestito da Google Inc. che consente ai privati di condividere filmati amatoriali – di un filmato girato all’interno di una scuola, in
cui alcuni studenti schernivano e maltrattavano un loro compagno, portatore di
handicap, pronunciando parole offensive anche nei confronti dell’associazione Vividown, attiva nella tutela di soggetti affetti dalla sindrome di Down. Con un’innovativa pronuncia, considerata anche l’assoluta novità della materia, il giudice milanese ha ritenuto che i vertici di Google Italy avessero posto in essere dei comportamenti non conformi al d.lgs. n. 196 del 2003 (c.d. Codice privacy). Il giudice ha preliminarmente ritenuto che, allo stato attuale, non sussiste alcun obbligo giuridico per
Google, né per altri provider, di verificare i contenuti di quanto immesso nella rete,
né potrebbe essere diversamente, pena una illegittima restrizione della libertà di
pensiero ed espressione. Ma, d’altro canto, la sentenza ricorda che “non esiste nem-
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meno la ‘sconfinata prateria di internet’ dove tutto è permesso e niente può essere
vietato, pena la scomunica mondiale del popolo del web. Esistono, invece, leggi che
codificano comportamenti e che creano degli obblighi, obblighi che, ove non rispettati conducono al riconoscimento di una penale responsabilità”. In questa prospettiva, è possibile affermare che esiste un obbligo, gravante sugli Internet provider, di
fornire agli utenti tutte le necessarie avvertenze in ordine al rispetto delle norme sulla privacy. Sugli stessi soggetti, grava inoltre l’obbligo di immediata cancellazione di
quei dati sensibili che risultassero segnalati come aventi un contenuto illecito.
Le decisioni sul fine-vita
I. Ordinanza della Corte circoscrizionale di Pinella County (Florida) dell’11 febbraio
2000, Re: The Guardianship of Theresa Marie Schiavo, n. 90-2908GD-003.
La questione attiene alla richiesta di distacco delle apparecchiature di sostengo alla vita della signora Terri Schiavo effettuata dal marito Micheal Schiavo, suo tutore e custode.
Nelle prime ore del mattino del 25 febbraio 1990, Terri Schiavo ebbe un attacco cardiaco, apparentemente dovuto ad uno sbilanciamento del livello di potassio. Da quel momento non ha più
ripreso conoscenza e rimane in stato comatoso, nutrita mediante apparecchiature di supporto alla
vita. Nel 1992, il marito, divenuto tutore della moglie, agisce nei confronti dei medici che avevano
avuto in cura Terri prima dell’incidente e ottiene, come risarcimento del danno, una somma pari a
$ 700.000. Dal momento dell’incidente sino al febbraio 1993, Micheal Schiavo e i genitori di Terri,
i Signori Schindler, si prendono cura di comune accordo di Terri. Successivamente, per ragioni
non del tutto acclarate ma relative agli aspetti economici della questione, essi litigano e cessano
qualunque rapporto. Nel caso Terri Schiavo dovesse morire in costanza di matrimonio, il marito
Micheal ne erediterebbe le sostanze, mentre nel caso fosse pronunciato il divorzio, come chiedono i signori Schindler, questi ultimi diverrebbero tutori ed erediterebbero in caso di morte. Peraltro, dal momento dell’incidente, il marito si è mostrato la persona più assidua e più attenta nel seguire la degenza della moglie. La sua richiesta di distacco dell’alimentazione artificiale è avanzata
nel 2000. Ad essa si oppongono i genitori di Terri.
La Corte (nella persona del Giudice George W. Greer):
[…] Nella materia di cui è qui questione il precedente rilevante è costituito da un caso di St.
Petersburg. Poco meno di nove anni fa, la Corte Suprema della Florida ha emanato un provvedimento in un caso nel quale lo Stato della Florida si opponeva al distacco di tubi di nutrizione
[In re: Guardinaship of Estelle M Browning 568 So 2 nd (Fla. 1990)]. In quella vicenda, Estelle
Browning aveva stabilito istruzioni specifiche di trattamento (living will) e la questione era essenzialmente quella di sapere se una persona incapace possedesse lo stesso diritto di privacy
rispetto alla decisione di cessare o sospendere il trattamento medico di mantenimento in vita
di una persona perfettamente consapevole. […] La Corte Suprema della Florida prese le mosse
dalla premessa secondo cui tutti possiedono il diritto fondamentale al controllo unico della loro
persona. Essa citò una decisione di New York del 1914, affermando che una parte integrante
di questo diritto di privacy è “il diritto di compiere scelte relative alla propria salute, incluso il
diritto di rifiutare trattamenti medici non desiderati”. La Corte ritenne inoltre che tutte le misure
di supporto dovevano essere trattate in maniera analoga, non avendo essa individuato alcuna
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distinzione giuridica significativa nell’ambito degli strumenti artificiali di sostegno alla vita. Riferendosi al suo precedente John F. Memorial Hospital, Inc. vs. Bludworth, 452, So. 2nd 921 (Fla
1984), la Corte sostenne che il diritto costituzionalmente protetto di scegliere o di rifiutare un
trattamento medico non era limitato a causa della incapacità o inabilità mentale o fisica. Citando la Corte di grado inferiore, la Corte suprema della Florida convenne che “era importante per
il soggetto che si sostituiva nella decisione di essere pienamente consapevole del dovere di
fare le scelte che i pazienti avrebbero personalmente compiuto”; e che in Florida “è stato adottato un concetto di ‘giudizio sostituito’”; e [ancora] che “non si esercita il diritto altrui di autodeterminazione né si rispetta il diritto di privacy di quella persona adottando le decisioni che lo
Stato, la famiglia o la opinione pubblica preferirebbero”.
[Nel caso Guardianship of Estelle M. Browning, l]a Corte Suprema della Florida ha stabilito
un test articolato in tre parti che il sostituto (in questo caso il Ricorrente/Tutore) deve soddisfare per esercitare il diritto di privacy del paziente. […] Il sostituto deve soddisfare le seguenti
condizioni:
1) Il sostituto deve essere certo che il paziente abbia redatto tutti i documenti in maniera
consapevole e volontaria e senza indebite influenze e che le prove delle dichiarazioni orali del
paziente siano affidabili;
2) Il sostituto deve essere certo che il paziente non abbia una ragionevole probabilità di riacquistare coscienza in modo da esercitare direttamente i suoi diritti;
3) Il sostituto deve prendere ogni misura per assicurare che qualsiasi limitazione o condizione espressa, sia oralmente che per iscritto, sia stata attentamente considerata e adempiuta.
La Corte è chiamata ad applicare il precedente Guardianship of Estelle M. Browning, citato
sopra, ai fatti di questo caso. È questo il problema posto alla Corte. Tutte le altre questioni collaterali – come, ad esempio, quanto è stato ottenuto nelle attività di raccolta fondi, la qualità
del matrimonio tra Michael e Terri Schiavo, chi deve a chi tra Micheal Schiavo e il Signore e la
Signora Schindler, l’accesso o meno di questi ultimi alle informazioni mediche riguardanti la
loro figlia, i problemi attinenti alle proprietà immobiliari di Terri Schiavo in caso di decesso, e le
convinzioni della famiglia e degli amici relative alla fine della vita – sono completamente irrilevanti nella questione che la Corte deve decidere. Il problema è inquadrato nel test stabilito dalla Corte suprema della Florida nella sentenza Browning, supra. La Corte deve decidere se vi è
una chiara e convincente prova che Theresa Marie Schiavo ha reso dichiarazioni orali affidabili
che sostengono gli atti che il suo Tutore ora intende compiere. La Corte ha sopra stabilito che
la seconda parte del test, vale a dire che il paziente non ha una ragionevole probabilità di riacquistare coscienza, è senza dubbio soddisfatta in base alle prove portate.
Vi sono alcuni commenti o dichiarazioni resi da Terri Schiavo che la Corte non ritiene pertinenti ai fini della decisione. La Corte non pensa che le dichiarazioni da lei compiute a 11 o 12
anni riflettano effettivamente le sue idee in relazione alla questione che si discute. Inoltre, la
Corte non ritiene che le dichiarazioni della stessa dirette verso altri o situazioni che riguardano
altri possano avere il medesimo peso dei commenti o dichiarazioni relative a sé stessa qualora
personalmente coinvolta. […] La Corte ritiene che quelle affermazioni riflettano piuttosto ciò
che Terri Schiavo avrebbe fatto per qualcun altro in situazioni analoghe.
La Corte trova invece che Terri Schiavo abbia effettuato dichiarazioni che sono credibili ed
affidabili circa le sue intenzioni in una situazione come quella in cui ora si trova. Anzitutto, non
vi è dubbio che Terri Schiavo non ponga oneri finanziari su alcuno; questa sembrerebbe essere
un’affermazione certa per il prevedibile futuro. Tuttavia, la Corte nota che il termine onere non
è solo questione di dollari e di centesimi, dato che una persona può essere un onere per qualcun altro anche sotto il profilo emotivo o fisico. Le dichiarazioni da lei rese, che sostengono la
richiesta effettuata da chi opera in sua vece (Ricorrente/Tutore), includono quelle fatte a
quest’ultimo quando la nonna si trovava in terapia intensiva, e secondo le quali, qualora lei fosse mai divenuta un onere, non avrebbe voluto vivere a quelle condizioni. Riflettono pure le sue
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intenzioni circa questa particolare situazione anche le dichiarazioni rese a Micheal Schiavo in
occasione della visione di un programma televisivo relativo a persone mantenute artificialmente
in vita; in base a tali dichiarazioni, lei non avrebbe voluto vivere in quel modo. Inoltre, riflettono
la sua volontà anche le dichiarazioni da lei fatte in presenza di Scott Schiavo al funerale della
nonna, [che si presentano di questo tenore:] “se per caso dovessi essere in quella situazione,
lasciatemi andare e basta. Non tenetemi lì. Non voglio essere mantenuta in vita da una macchina”; e [quelle rese] a Joan Schiavo nel corso di un programma televisivo nel quale un uomo,
a seguito di un incidente, era entrato in coma, ed in base alle quali ella aveva espresso il desiderio di voler mettere nel suo testamento la richiesta di staccare i tubi e qualsiasi altra apparecchiatura nel caso fosse capitato a lei. La Corte, in particolare, ritiene che queste sono affermazioni orali di Terri Schiavo riguardanti le sue intenzioni in relazione a ciò che ella avrebbe
fatto nelle circostanze presenti e ritiene che la testimonianza relativa a tali dichiarazioni sia affidabile, degna di credito e possa essere qualificata come prova chiara e convincente.
Le affermazioni di cui sopra non contengono limitazioni o condizioni. Tuttavia, come ha notato la Signora Tyler quando ha testimoniato sul fatto che la qualità della vita costituisca il fattore decisivo nelle questioni relative al mantenimento in vita artificiale, gli americani vogliono
“provarlo per un periodo” ma non vogliono vivere con tale supporto se non vi è speranza di
miglioramento. Questa implicita condizione è stata ampiamente soddisfatta in questo caso.
Considerando i suddetti accertamenti di fatto e le conclusioni in diritto, si ordina e si stabilisce che venga concessa la richiesta di autorizzazione di Micheal Schiavo, Tutore di Theresa
Marie Schiavo, persona incapace, a cessare il mantenimento in vita artificiale [di quest’ultima];
il Ricorrente/Tutore è autorizzato a procedere con il distacco del suddetto supporto per il mantenimento in vita artificiale di Theresa Maria Schiavo.
II. Sentenza della Corte di Cassazione del 16 ottobre 2007 (Sezione Prima Civile),
E.E., n. 21748/2007.
Le questioni sulle quali la Corte di Cassazione è chiamata a pronunciarsi sono assai simili a
quelle oggetto del caso Schiavo. Si tratta infatti di stabilire entro quali termini sia possibile interrompere i trattamenti medici (nella specie, l’alimentazione e l’idratazione artificiali tramite sondino nasogastrico) che consentono di mantenere in vita da oltre quindici anni una giovane donna
che giace in stato vegetativo persistente e permanente a seguito di un trauma cranicoencefalico riportato in conseguenza di un incidente stradale.
Alla Suprema Corte ricorre il tutore della donna, suo padre, affinché essa disponga la cassazione del decreto della Corte d’appello di Milano che ha rigettato la richiesta dell’uomo – già
presentata ad un giudice di primo grado – di ottenere l’interruzione del trattamento, previa istruttoria sulla volontà della figlia contraria agli accanimenti terapeutici.
La Corte:
8. Diversamente da quanto mostrano di ritenere i ricorrenti, al giudice non può essere richiesto di ordinare il distacco del sondino nasogastrico: una pretesa di tal fatta non è configurabile di fronte ad un trattamento sanitario, come quello di specie, che, in sé, non costituisce
oggettivamente una forma di accanimento terapeutico, e che rappresenta, piuttosto, un presidio proporzionato rivolto al mantenimento del soffio vitale, salvo che, nell’imminenza della morte, l’organismo non sia più in grado di assimilare le sostanze fornite o che sopraggiunga uno
stato di intolleranza, clinicamente rilevabile, collegato alla particolare forma di alimentazione.
Piuttosto, l’intervento del giudice esprime una forma di controllo della legittimità della scelta
nell’interesse dell’incapace; e, all’esito di un giudizio effettuato secondo la logica orizzontale
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compositiva della ragionevolezza, la quale postula un ineliminabile riferimento alle circostanze
del caso concreto, si estrinseca nell’autorizzare o meno la scelta compiuta dal tutore. Sulla base delle considerazioni che precedono, la decisione del giudice, dato il coinvolgimento nella
vicenda del diritto alla vita come bene supremo, può essere nel senso dell’autorizzazione soltanto (a) quando la condizione di stato vegetativo sia, in base ad un rigoroso apprezzamento
clinico, irreversibile e non vi sia alcun fondamento medico, secondo gli standard scientifici riconosciuti a livello internazionale, che lasci supporre che la persona abbia la benché minima
possibilità di un qualche, sia pure flebile, recupero della coscienza e di ritorno ad una percezione del mondo esterno; e (b) sempre che tale istanza sia realmente espressiva, in base ad
elementi di prova chiari, concordanti e convincenti, della voce del rappresentato, tratta dalla
sua personalità, dal suo stile di vita e dai suoi convincimenti, corrispondendo al suo modo di
concepire, prima di cadere in stato di incoscienza, l’idea stessa di dignità della persona. Allorché l’una o l’altra condizione manchi, il giudice deve negare l’autorizzazione, dovendo allora
essere data incondizionata prevalenza al diritto alla vita, indipendentemente dal grado di salute, di autonomia e di capacità di intendere e di volere del soggetto interessato, dalla percezione, che altri possano avere, della qualità della vita stessa, nonché dalla mera logica utilitaristica
dei costi e dei benefici.
9. Nei limiti appena tratteggiati, il decreto impugnato non si sottrae alle censure dei ricorrenti. Esso ha omesso di ricostruire la presunta volontà di E. e di dare rilievo ai desideri da lei
precedentemente espressi, alla sua personalità, al suo stile di vita e ai suoi più intimi convincimenti. Sotto questo profilo, la Corte territoriale – a fronte dell’indagine istruttoria, nella quale è
stato appurato, per testi, che E., esprimendosi su una situazione prossima a quella in cui ella
stessa sarebbe venuta, poi, a trovarsi, aveva manifestato l’opinione che sarebbe stato per lei
preferibile morire piuttosto che vivere artificialmente in una situazione di coma – si è limitata a
osservare che quei convincimenti, manifestatisi in un tempo lontano, quando ancora E. era in
piena salute, non potevano valere come manifestazione di volontà idonea, equiparabile ad un
dissenso in chiave attuale in ordine ai trattamenti praticati sul suo corpo. Ma i giudici d’appello
non hanno affatto verificato se tali dichiarazioni – della cui attendibilità non hanno peraltro dubitato –, ritenute inidonee a configurarsi come un testamento di vita, valessero comunque a
delineare, unitamente alle altre risultanze dell’istruttoria, la personalità di E. e il suo modo di
concepire, prima di cadere in stato di incoscienza, l’idea stessa di dignità della persona, alla
luce dei suoi valori di riferimento e dei convincimenti etici, religiosi, culturali e filosofici che orientavano le sue determinazioni volitive; e quindi hanno omesso di accertare se la richiesta di
interruzione del trattamento formulata dal padre in veste di tutore riflettesse gli orientamenti di
vita della figlia. Tale accertamento dovrà essere effettuato dal giudice del rinvio, tenendo conto
di tutti gli elementi emersi dall’istruttoria e della convergente posizione assunta dalle parti in
giudizio (tutore e curatore speciale) nella ricostruzione della personalità della ragazza.
10. […] i ricorsi sono accolti, nei sensi di cui in motivazione e nei limiti in essa indicati. Ne
segue la cassazione del decreto impugnato e il rinvio della causa ad una diversa Sezione della
Corte d’appello di Milano. Detta Corte deciderà adeguandosi al seguente principio di diritto: “Ove il malato giaccia da moltissimi anni (nella specie, oltre quindici) in stato vegetativo permanente, con conseguente radicale incapacità di rapportarsi al mondo esterno, e sia tenuto artificialmente in vita mediante un sondino nasogastrico che provvede alla sua nutrizione ed idratazione,
su richiesta del tutore che lo rappresenta, e nel contraddittorio con il curatore speciale, il giudice
può autorizzare la disattivazione di tale presidio sanitario (fatta salva l’applicazione delle misure
suggerite dalla scienza e dalla pratica medica nell’interesse del paziente), unicamente in presenza dei seguenti presupposti: (a) quando la condizione di stato vegetativo sia, in base ad un rigoroso apprezzamento clinico, irreversibile e non vi sia alcun fondamento medico, secondo gli
standard scientifici riconosciuti a livello internazionale, che lasci supporre la benché minima
possibilità di un qualche, sia pure flebile, recupero della coscienza e di ritorno ad una percezione del mondo esterno; e (b) sempre che tale istanza sia realmente espressiva, in base ad ele-
Dignità della persona e valori dominanti
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menti di prova chiari, univoci e convincenti, della voce del paziente medesimo, tratta dalle sue
precedenti dichiarazioni ovvero dalla sua personalità, dal suo stile di vita e dai suoi convincimenti, corrispondendo al suo modo di concepire, prima di cadere in stato di incoscienza, l’idea
stessa di dignità della persona. Ove l’uno o l’altro presupposto non sussista, il giudice deve negare l’autorizzazione, dovendo allora essere data incondizionata prevalenza al diritto alla vita,
indipendentemente dal grado di salute, di autonomia e di capacità di intendere e di volere del
soggetto interessato e dalla percezione, che altri possano avere, della qualità della vita stessa”.
11. Ricorrendo i presupposti di cui all’art. 52, comma 2, del d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196
(Codice in materia di protezione dei dati personali), a tutela dei diritti e della dignità delle persone coinvolte deve essere disposta, in caso di riproduzione della presente sentenza in qualsiasi forma, per finalità di informazione giuridica su riviste giuridiche, supporti elettronici o mediante reti di comunicazione elettronica, l’omissione delle indicazioni delle generalità e degli
altri dati identificativi degli interessati riportati nella sentenza.
III. Sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo del 29 aprile 2002 (Quarta Sezione), Diane Pretty c. Regno Unito, ricorso n. 2346/02, in Reports of Judgments
and Decisions, 2002-III.
La Signora Pretty è affetta da una malattia degenerativa incurabile ed è paralizzata. Chiede
alle autorità britanniche che il marito possa aiutarla a suicidarsi, senza che questi rischi poi di
essere incriminato per omicidio. Poiché la legislazione inglese considera l’aiuto al suicidio come
un reato, la richiesta della Signora Pretty viene respinta dalle autorità competenti. Per tale motivo, questa si rivolge alla Corte europea.
La questione di fondo sulla quale la Corte è chiamata a pronunciarsi è se l’articolo 2 della
Convenzione, che afferma il diritto alla vita di ogni persona, comprenda anche il “diritto a morire”.
La Corte:
37. Tra le disposizioni della Convenzione che la Corte considera fondamentali, essa riconosce il primato all’articolo 2 (v. McCann e altri c. Regno Unito, sentenza del 27 settembre 1995,
Série A n. 324, pp. 45-46, §§ 146-47). L’articolo 2 salvaguarda il diritto alla vita, senza il quale il
godimento di qualunque altro diritto o libertà, sanciti dalla Convenzione, sarebbe reso vano.
Tale norma enuncia altresì le limitate circostanze in cui la privazione della vita può essere giustificata e la Corte ha esercitato un controllo particolarmente rigoroso in tutti i casi in cui siffatte eccezioni sono state invocate dai Governi chiamati in causa. […]
39. In tutti i casi di cui la Corte è stata chiamata a conoscere, essa ha posto l’accento sull’obbligo degli Stati di proteggere la vita. La Corte non è persuasa che “il diritto alla vita” garantito dall’articolo 2 possa essere interpretato nel senso di implicarne [anche] l’aspetto negativo.
Per esempio, se nel contesto dell’articolo 11 della Convenzione, la libertà di associazione è
stata ritenuta implicare, non solo il diritto di aderire ad un’associazione, ma anche il diritto corrispondente a non essere costretto ad aderire ad un’associazione, la Corte osserva che una
certa libertà di scelta circa l’esercizio di una libertà è inerente alla nozione di quest’ultima (v.
Young, James e Webster c. Regno Unito, sentenza del 13 agosto 1981, Série A n. 44, pp. 2122, § 52, e Sigurdur A. Sigurjónsson c. Islanda, sentenza del 30 giugno 1993, Série A n. 264,
pp. 15-16, § 35). L’articolo 2 della Convenzione è formulato in termini differenti. Non si preoccupa delle questioni che afferiscono alla qualità della vita o di cosa sceglie di fare una persona
della propria vita. Nella misura in cui questi aspetti sono riconosciuti tanto essenziali per la
condizione umana da richiedere protezione rispetto all’ingerenza dello Stato, essi possono riflettersi nei diritti garantiti da altri articoli della Convenzione o in altri strumenti internazionali sui
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Casi difficili
diritti umani. L’articolo 2 non può essere interpretato, se non a costo di una distorsione linguistica, come tale da conferire il diritto diametralmente opposto, segnatamente il diritto alla morte; non può nemmeno creare un diritto all’auto-determinazione nel senso di conferire al singolo
il diritto a scegliere la morte piuttosto che la vita.
40. La Corte di conseguenza rileva che nessun diritto alla morte, sia per mano di una terza
persona sia con l’assistenza di una pubblica autorità, può farsi derivare dall’articolo 2 della
Convenzione. […]
41. La ricorrente sostiene che affermare che la Convenzione non riconosce il diritto a morire significherebbe porre i Paesi che autorizzano il suicidio assistito in una condizione di infrazione della Convenzione medesima. La Corte, nel caso di specie, non è chiamata a stabilire se
la legislazione di un determinato Paese viola o meno l’obbligo di proteggere il diritto alla vita.
Come affermato nel caso Keenan, le misure che possono essere ragionevolmente adottate per
proteggere un detenuto contro sé stesso sono soggette alle limitazioni imposte dalle altre norme della Convenzione, in particolare gli articoli 5 e 8 [rispettivamente, diritto alla libertà e alla
sicurezza e diritto al rispetto della vita privata e familiare], oltre che dai principi più generali relativi all’autodeterminazione della persona ([n. 27229/95…], par. 92). Parimenti, le disposizioni
con le quali uno Stato definisce i limiti entro i quali un individuo in condizione di libertà ha facoltà di farsi del male da solo o tramite terzi, possono dar luogo a delle considerazioni che
mettono in conflitto la libertà individuale e l’interesse pubblico, le quali non possono trovar una
soluzione se non attraverso un esame delle circostanze particolari del caso di specie (v. mutatis mutandis, la sentenza Laskey, Jaggard e Brown c. Regno Unito, 19 febbraio 1997, Reports
1997-I). Tuttavia, anche se si volesse giudicare non contraria all’articolo 2 della Convenzione la
situazione in vigore in un determinato Paese che autorizzi il suicidio assistito, ciò non sarebbe
di alcun aiuto per la ricorrente, nella misura in cui non è stata stabilita la correttezza della tesi,
assai diversa, secondo la quale il Regno Unito disattenderebbe i suoi obblighi discendenti
dall’articolo 2 della Convenzione se non autorizzasse il suicidio assistito.
42. La Corte dunque conclude per l’assenza di violazione dell’articolo 2 della Convenzione.
Identità sessuale e famiglie “atipiche”
IV. Sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo del 11 luglio 2002 (Grande Camera), Christine Goodwin c. Regno Unito, ricorso n. 28957/95, in Reports of Judgments and Decisions, 2002-VI.
La ricorrente, cittadina britannica nata nel 1937, è una transessuale operata, passata dal
sesso maschile a quello femminile. Sebbene sin dall’infanzia ella fosse consapevole che il suo
“sesso cerebrale” non corrispondeva a quello fisico, si è sposata ed ha avuto dalla moglie quattro figli. Sino al 1984 ha vissuto atteggiandosi e vestendosi come un uomo. A partire da quell’anno, a seguito di una cura ormonale, ha invece iniziato a vivere come una donna, sottoponendosi, nel 1986, ad un’operazione alle corde vocali e, nel 1990, ad un’operazione di trasformazione sessuale. Entrambi questi trattamenti sono stati forniti e pagati dal Servizio sanitario
nazionale britannico (National Health Service).
La ricorrente sostiene che, malgrado gli ammonimenti formulati in passato dalla Corte di
Strasburgo quanto all’importanza di procedere ad un esame costante della necessità di una riforma normativa, il Governo non ha ancora provveduto ad adottare delle misure effettive per rimediare alle sofferenze ed all’indigenza che lei stessa ed altri transessuali operati provano. Il
mancato riconoscimento della sua nuova identità sessuale sul piano giuridico è infatti fonte di
numerose situazioni discriminatorie ed umilianti nella sua vita quotidiana.