Max Salvadori: una spia del regime?!?

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Max Salvadori: una spia del regime?!?
Max Salvadori: una spia del regime?!?*
di Mimmo Franzinelli
Intellettuale e uomo d’azione liberale
Max William Salvadori-Paleotti (Londra, 16 giugno 1908 - Northampton,
6 agosto 1992) è ricordato, nei repertori biografici italiani e internazionali,
come un intellettuale e un militante antifascista, con un bagaglio di lotte e di
studi che lo hanno reso un elemento di punta del liberalismo. Appena sedicenne, studente ginnasiale a Firenze, fu percosso dagli squadristi per avere difeso
suo padre, Guglielmo Salvadori, vittima di una spedizione punitiva in quanto
autore di critiche al governo apparse nel marzo 1924 sui periodici inglesi
“New Statesman” e “Westminster Gazette”1. Dopo quell’episodio la famiglia
Salvadori si trasferì in Svizzera. Laureatosi all’Università di Ginevra, nell’autunno 1929 il giovane Max aderì a Giustizia e Libertà (GL); quindi tornò in
Italia e s’impegnò quale diffusore della stampa clandestina del movimento:
ricevuti pacchi di pubblicazioni da Ernesto Rossi, ne assicurava la distribuzione nella capitale, in varie località del Lazio e delle Marche. Si laureò a Roma
in Scienze politiche, con una tesi sulla stabilizzazione del potere d’acquisto
della moneta. Fu arrestato il 21 luglio 1932 “con una quarantina di compagni
di lotta e nel settembre, durante una crisi di profondo scoraggiamento, fece
atto di sottomissione al regime, ma non compromise nessuno dei compagni
arrestati”2. Condannato al confino e tradotto a Ponza, riottenne la libertà il 20
luglio 1933 con l’assegnazione al domicilio obbligato a Fermo (Ascoli
Piceno), nella casa paterna; un paio di mesi più tardi espatriò in Svizzera, grazie al suo passaporto inglese. Riallacciati i contatti con GL, s’interessò nuova* Il testo rielabora e integra con l’apparato di note l’intervento presentato al convegno
su “Max Salvadori. Diplomazia segreta e antifascismo”, svoltosi il 6 maggio 2005 a Porto San
Giorgio. Il programma dei lavori prevedeva altre tre relazioni: Max Salvadori e l’esilio americano (Mauro Canali), Il problema storiografico dell’antifascismo e le derive revisionistiche
senza senso (Piero Craveri) e Max Salvadori, il fascismo, la guerra (Massimo Teodori). La
prima versione di questo saggio è uscita su “Italia contemporanea”, n. 238, marzo 2005.
1. Una dettagliata cronaca dell’aggressione, con la testimonianza di Guglielmo Salvadori,
figura su due intere pagine del quindicinale parigino “Becco Giallo”, 15-30 aprile 1928, n. 20.
2. Enciclopedia dell’antifascismo e della Resistenza, vol. V, Milano, La Pietra, 1987, p. 326.
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mente alla politica. Visse per qualche tempo in Kenya; nel 1937 insegnò
all’Università di Ginevra e successivamente nell’Ateneo di St. Lawrence, negli
Stati Uniti. Reclutato dai servizi segreti britannici, nel 1941 svolse missioni
nell’America centrale e particolarmente in Messico3. Volontario nell’esercito
britannico nel gennaio 1943, partecipò col grado di maggiore alla campagna di
Sicilia, prese parte allo sbarco di Salerno e rimase ferito nei combattimenti
presso Anzio. Promosso tenente colonnello, nell’ottobre 1944 assunse la
mansione di ufficiale di collegamento tra il Comando del 15° gruppo di armate alleate e il Comando militare del Comitato di liberazione nazionale
dell’Alta Italia (CLNAI). Nel febbraio 1945 fu paracadutato nelle Langhe e
quindi si recò a Milano con l’incarico – da parte dello Special Operations
Executive (SOE) – di sovrintendere alle operazioni per la liberazione della
città, nella quale visse clandestinamente dal febbraio 1945, esposto al rischio
quotidiano dell’arresto con conseguente fucilazione. Nell’immediato dopoguerra gli fu concessa la cittadinanza onoraria di Milano e fu decorato con la
Military Cross e col Distinguished Service Order. Nel secondo dopoguerra
diresse a Parigi la Divisione di Scienze politiche dell’UNESCO (1948–1949) e
fu analista politico della NATO (1952–1953). Docente di Scienze sociali presso il Bennington College, Vermont (1945–1962), e insegnante di Storia allo
Smith College, Massachusetts (1947–1975), scrisse una ventina di monografie
sulle istituzioni democratiche e sull’economia di mercato4.
Un mistificatore smascherato?
La percezione di Max Salvadori come combattente antifascista, rafforzata dal rapporto sinergico con la sorella Joyce, compagna di Emilio Lussu, è
stata recentemente incrinata da una serie di interventi, in sede storica e gior-
3. Paleotti, Massimo Salvadori, in Oxford Dictionary of National Biography, Oxford,
Oxford University Press, 2004 [consultabile sul sito www.oxforddnb.com/view/printable/76096].
4. Tra le sue pubblicazioni in lingua italiana: La penetrazione demografica europea in
Africa (Torino, Bocca, 1932), Problemi di libertà (Bari, Laterza, 1949), Storia della
Resistenza italiana (Venezia, Neri Pozza, 1955), La democrazia liberale (Roma, Opere
Nuove, 1958), La Resistenza nell’Anconetano e nel Piceno (Roma, Opere Nuove, 1962) e
Breve storia della Resistenza italiana (Firenze, Vallecchi, 1974). Le sue memorie – Resistenza
ed azione. Ricordi di un liberale – uscite nel 1951 per Laterza, sono state integrate e riedite
nel 1990 da Bastogi.
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nalistica, di Mauro Canali, il cui volume Le spie del regime dedica – nel capitolo I casi eccellenti – un serrato paragrafo al caso di Max Salvadori5.
Nell’ottobre 2004, per il lancio del volume, queste accuse sono state amplificate in una lunga intervista a “la Repubblica” e in un servizio sul “magazine” del “Corriere della Sera” dal titolo emblematico: L’uomo che visse due
volte: prima al servizio del Duce, poi di Sua Maestà; successivamente, in un
articolo pubblicato il 14 dicembre 2004 dal “Giornale”, Canali è tornato su
Max Salvadori per rimarcarne l’“apporto seppure temporaneo che rappresentò per la causa del fascismo”.
Dentro un lungo itinerario esistenziale Canali individua due momenti di
crisi (nel 1932-1933 e nel 1939-1941), vi concentra la propria analisi e ne trae
conclusioni assai pesanti. La sua analisi sconta tre limiti di fondo: 1. l’uso
delle carte di polizia come fonte-principe; 2. la mancata verifica dell’attendibilità di un materiale d’archivio così particolare; 3. un insufficiente sforzo
analitico, ovvero un serio deficit di elaborazione storiografica. Chiunque
s’imbatta in documenti di un certo rilievo deve contestualizzarli, raffrontarli con altro materiale di origine differente e di argomento analogo, esaminarli criticamente, e infine interpretarli secondo la sua sensibilità e la sua professionalità. Cosa non deve fare, invece? Accettarli come veritieri in modo
aprioristico, piegarli a tesi preconcette, forzarli ed esibirli in polemiche giornalistiche, continuare a difenderne la veridicità quando quegli stessi documenti risultano smentiti da nuove e più autorevoli fonti.
Dall’analisi delle carte di polizia, integrate da fonti britanniche e da altra
documentazione di vario genere, ho ricavato la convinzione che non esista
un “caso Max Salvadori” ma, piuttosto, un utilizzo improprio della storiografia, con la trasformazione degli oppositori politici del regime da vittime
in collaboratori dei loro persecutori.
Max Salvadori ha vissuto un’esistenza lunga e avventurosa in tempi difficili: egli ha attraversato la crisi dello Stato liberale, l’ascesa e il consolidamento del fascismo, la lotta clandestina contro il regime, l’arresto, il confino, la fuga e l’esilio. Si è rifatto una vita all’estero, ha rinnovato il proprio
impegno antifascista, si è arruolato come volontario nella seconda guerra
mondiale, ha collaborato con i servizi segreti britannici, ha combattuto nella
campagna d’Italia come ufficiale dell’esercito alleato tra il 1943 e il 1945, è
stato ferito e decorato al valore, insignito della cittadinanza onoraria di
5. Mauro Canali, Le spie del regime, Bologna, Il Mulino, 2004, pp. 404-409.
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Milano per il ruolo rivestito nella liberazione della metropoli. Dopo la sconfitta del nazifascismo ha svolto intensa attività culturale, compiuto ricerche
di storia, insegnato all’università e ha costantemente sviluppato un forte
anelito civile. Tutto questo nelle pagine del suo detrattore manca: non se ne
tiene conto nemmeno sullo sfondo della narrazione, poiché i rari accenni in
proposito sono funzionali alla contrapposizione di questa immagine positiva a quella di un dissimulatore e di un astuto collaboratore della polizia
fascista, con esiti deleteri per la memoria di Salvadori.
L’arresto e il cedimento del 1932
Il momento di crisi successivo all’arresto, determinato dalle percosse e
dalla tortura psicologica, culminato in un tracollo nervoso, è stato ammesso
e condannato dallo stesso protagonista. L’autobiografia di Salvadori si
diffonde sul trattamento praticatogli dopo la cattura, ricostruisce i processi
mentali che lo indussero alla confessione delle proprie responsabilità nella
rete clandestina. Il 7 settembre 1932 scrisse a Mussolini per chiedere un atto
di clemenza, ma una dozzina di giorni più tardi venne condannato al confino. Le autorità diplomatiche britanniche intervennero in suo favore, in
quanto egli era cittadino del Regno Unito; al confinato fu chiesto l’impegno
ad astenersi da ogni forma di attività segreta contro il governo italiano,
impegno da lui sottoscritto. Nelle proprie memorie, in cui parla di sé in
terza persona, Salvadori ha ricostruito a posteriori i processi mentali che lo
indussero a un’abiura motivata dal desiderio di riacquistare la libertà:
Inazione, scoraggiamento, confusione, alternarsi violento e doloroso di
emozioni contrastanti, incapacità di valutare correttamente azioni e situazioni: questi i motivi che spiegano – e non giustificano – l’atto che per anni
gli pesò sulla coscienza. Nei momenti in cui la disperazione giungeva al
colmo, in cui lo terrorizzava il pensiero di rimanere solo, rinchiuso per anni
fra quattro mura nude, di essere privato per sempre delle gioie che sono il
patrimonio comune degli esseri viventi, si era venuta insinuando nella
mente l’idea che qualsiasi cosa era lecita pur di poter uscire, pur di poter
abbandonare quelle mura maledette che lo separavano dal mondo dei vivi.
La fuga? impossibile. […]
Vi era un mezzo semplice del quale molti si erano serviti, il mezzo che gli
avevano fatto intravedere i poliziotti durante le interrogazioni. […] Se gl’imputati danno segno di essere moralmente distrutti, di non possedere più la
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dignità necessaria a riunire altri cospiratori, di non essere che degli stracci,
allora è possibile anche uscire dal carcere, ritornare tra i vivi. Che occorreva?
due righe che avrebbero significato la differenza tra la vita e la morte, tra
un’esistenza che non era più tale nelle celle oscure dei penitenziari e l’esistenza all’aria libera. Non doveva niente a nessuno; aveva fatto quanto aveva
potuto; esule, era rientrato in Italia; giovane, si era privato delle gioie della
gioventù per dedicarsi completamente all’azione contro la dittatura; si era
assunto la responsabilità di quanto era successo, aveva fatto sì che un disastro
nel quale potevano essere coinvolte centinaia e forse migliaia di persone si
limitasse a meno di cinquanta. Ormai non poteva più far niente, e che importava un atto di abiezione se in cambio poteva abbandonare quelle mura?
Ricordava le defezioni degli uni, la partenza per l’estero di altri, il rifiuto di
tanti a compromettersi; che potevano importare le critiche di coloro che se
ne stavano comodamente all’estero, di coloro che in Italia si guardavano bene
dal compiere il minimo atto che ponesse in pericolo la loro tranquillità?6
Tornato libero, preparò accuratamente il passaggio all’estero, in barba ai
controlli e agli obblighi cui era sottoposto. Stabilitosi in Inghilterra, riprese
l’impegno antifascista. La beffa subita dal regime indusse Mussolini a prendersi nell’inverno 1933-1934, attraverso il capo della polizia Arturo
Bocchini, una forma raffinata di vendetta: l’ambasciatore a Londra, Dino
Grandi, fu sollecitato a rendere di pubblico dominio la lettera scritta al duce
da Salvadori durante la prigionia, onde squalificarlo agli occhi degli esuli. Il
piano riuscì soltanto parzialmente, in quanto gli esuli compresero il travaglio del loro compagno e – pur senza approvarne il comportamento – lo
accolsero nuovamente tra di loro.
L’episodio è rimasto, nella lunga biografia di Max Salvadori, come una
macchia di cui egli stesso era consapevole, tanto è vero che il 20 agosto 1973
tornò sulla spiacevole questione con una missiva inviata al sovrintendente
dell’Archivio centrale dello Stato, affinché fosse acclusa al fascicolo di polizia intestato allo stesso Salvadori dagli organi repressivi del regime fascista7;
questa la parte centrale dello scritto:
6. M. Salvadori, Resistenza ed azione, cit., pp. 103-104.
7. Significativa la parte iniziale di un’annotazione autobiografica datata “San Tommaso
16.I.1971” e conservata tra le carte familiari Max Salvadori: “Avevo pensato – quando giunsi a Roma ai primi di giugno del 1944 – di impossessarmi dei fascicoli dell’OVRA che mi
riguardavano. Dato che questo avrebbe significato aggravare gli errori compiuti nel lugliosettembre 1932 cercando di nasconderli, decisi di non farne niente”.
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La lettera o “letterina” (nel gergo dei carcerati politici di allora) documenta
il fatto che compii allora un atto di codardia. Non ho niente in contrario a
che il fascicolo venga messo a disposizione di chiunque ne faccia richiesta:
non ho mai nascosto il fatto di essere stato vile in quell’occasione.
Non fui vile però durante il resto dei 22 anni durante i quali feci il poco che
potevo fare contro la dittatura – dal 24 maggio 1923 quando venni percosso
da condiscepoli fascisti che frequentavano la 5ª ginnasiale al ginnasio-liceo
“Galilei” di Firenze, ai primi di maggio del 1945 quando ebbe termine l’incarico affidatomi nell’ottobre del ’44 dal Comando Alleato in Italia di agire
come ufficiale di collegamento fra il Comando stesso ed il Comitato di
Liberazione Alta Italia in Milano8.
La crisi di Max Salvadori è un aspetto minore (e transitorio) dell’aspra
lotta ingaggiata tra i dissidenti politici, dispersi e perseguitati, e la spietata
dittatura mussoliniana: il momentaneo cedimento di un giovane militante,
quando gli pareva di avere tutto contro e avvertiva di essere alla mercé del
nemico. Un episodio certamente triste, sul quale – tanto più dopo la montatura creata ad arte dai fascisti in Inghilterra a inizio 1934 – non varrebbe la
pena di insistere. Così non ha ritenuto Mauro Canali, che addirittura vi ha
dedicato un supplemento di indagini, da una prospettiva moralistico-accusatoria che oggi – a oltre un settantennio di distanza dai fatti – risulta francamente fuori luogo: “Con una dichiarazione formale, in data 29 marzo
1933, Salvadori s’impegnava, qualora fosse stato liberato dal confino, a ‘non
svolgere attività segreta di qualsiasi genere contro l’attuale Governo’. A
seguito di questo doppio cedimento, Salvadori, il 17 [recte: 20] luglio 1933,
riotteneva la libertà”. Attenzione alla concatenazione temporale: il prigioniero ha ceduto, però poi è espatriato clandestinamente per tornare a far
l’antifascista… È irrilevante tutto ciò? Perché non dedicarvi una riflessione?
Come si è visto, la missiva a Mussolini fu utilizzata dal regime per screditarne l’autore; si capisce benissimo che il capo della polizia abbia agito in quel
modo: erano i metodi tipici della dittatura. Oggi la “letterina” è ripescata
dagli archivi e rilanciata malevolmente da uno studioso, probabilmente
inconsapevole di riproporre dinamiche per certi versi analoghe a quelle inscenate dai fascisti nel 1934 per danneggiare l’immagine dell’esule politico.
8. Copia della lettera è conservata presso l’Archivio Max Salvadori, custodito dalla
Società operaia di mutuo soccorso di Porto San Giorgio (le carte sono attualmente in via di
ordinamento e non è quindi possibile indicarne la collocazione).
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Attacchi vecchi e nuovi
Max Salvadori si è più volte trovato a fungere da bersaglio polemico. Egli
è sempre stato considerato dai fascisti come un nemico giurato, tanto è vero
che l’odio nei suoi confronti è sopravvissuto al crollo del regime. Non gli si
perdonava l’azione compiuta durante la seconda guerra mondiale, durante la
campagna d’Italia. Gli apprezzamenti di Cesare Merzagora, esponente di
spicco del Comitato di liberazione nazionale dell’Alta Italia, nell’articolo
Grazie, Max, pubblicato pochi giorni dopo la fine della guerra su un quotidiano liberale milanese9, attirarono sul loro autore l’ira dei neofascisti che
alcuni anni più tardi lo definiranno “amico e confidente del famoso spione
britannico Max Salvadori, ebreo oriundo italiano”, rinfacciandogli di avere
rivolto “disgustose lodi al nemico che aveva svolto il compito di fomentare
e indirizzare la guerra civile e coordinare l’opera dei vari segnalatori per il
bombardamento delle nostre città”10.
Quello di Canali non è, in ordine di tempo, che l’ultimo attacco contro
Max Salvadori, sferrato sotto le apparenze del “mestiere di storico” ma non
per questo meno pesante; le polemiche precedenti, perlomeno, avevano una
logica chiara e una precisa ratio, quella odierna è difficile da spiegare. Quali
le motivazioni dell’operazione? Scandalismo a buon mercato per frenesia di
notorietà? Autoinvestitura nel ruolo di moralizzatore degli antifascisti (tramite utilizzo della documentazione di polizia)? Mancata elaborazione del
lutto per tragedie familiari in campo spionistico?11
Una prosa pervicacemente accusatoria ignora le differenze esistenti tra il
lavoro dello storico e quello del pubblico ministero, sostituisce all’equilibrio
dello studioso la presunzione del moralista. Lo storico deve contestualizzare, comprendere tempi e personaggi, valutare gli individui sul loro arco esistenziale, nutrirsi con l’ingrediente del dubbio… La deontologia professionale sconsiglia l’emissione di giudizi categorici quando si disponga di pochi
documenti, impone elementari norme di diffidenza quando si lavori su una
9. “La Libertà”, 7 maggio 1945.
10. Il razzista Merzagora, “Meridiano”, 24 maggio 1953.
11. Mauro Canali, convinto che un suo zio, il tipografo Alfredo Canali, morto a
Mauthausen, fosse un paladino dell’antifascismo, gli dedicò anni addietro un libro; in realtà
Alfredo Canali era una spia della Questura di Roma, infiltrata in Giustizia e Libertà, lo stesso movimento politico in cui militò Max Salvadori…
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sola fonte (tanto più se pregiudizialmente di parte): i documenti non raccontano tutta una vita, non tutte le azioni che si compiono vengono annotate,
non tutto ciò che si scrive è veritiero e di quanto è stato scritto non tutto si
riesce a consultare. Non è corretto ignorare ogni elemento disutile alla strategia accusatoria, gonfiare i punti funzionali al teorema colpevolista, azzardare collegamenti improbabili tra eventi privi di connessione, interpretare
fantasiosamente silenzi e vuoti di documenti senza considerare che in tempi
di dittatura un oppositore che persegua un piano segreto blandisce l’interlocutore in vista del proprio obiettivo. Se lo storico avesse sottoposto a verifica le sue fonti, si sarebbe imbattuto in incongruenze sul genere della versione fornita da Salvadori il 12 dicembre 1939 all’emissario di Bocchini,
Enrico Gozzi (“abile ed esperto fiduciario della Polpol”), così parafrasata da
Canali: “Riferì […] d’aver chiesto di recente un anno di congedo per poter
lavorare in una fabbrica di aeroplani. Il nuovo impiego gli aveva consentito
il viaggio in Europa che stava effettuando. Era già stato in Inghilterra, dove
vantava molte e solide amicizie e dove gli avevano offerto un buon posto al
ministero della Pubblica Istruzione”12. Si trattava di incarichi di copertura,
escogitati per dare plausibilità alla missione segreta: infatti Salvadori non
lavorò mai in una fabbrica di aeroplani.
Fonti italiane, fonti britanniche…
Nel 1939-1941 (secondo Canali) si sarebbe realizzata una “completa sintonia d’intenti” tra Salvadori e la Polizia politica, un patto scellerato,
mascherato nel dopoguerra da “ambiguità autobiografica” con “silenzio e
depistaggio”13, elementi rivelatori di malafede a futura memoria. Premesso
che “un altro caso di caduta nei confronti del regime fascista riguarda Max
Salvadori”, lo studioso precisa che “i fatti esaminati prendono l’avvio a metà
settembre 1939”. Da quel momento, null’altro che cedimenti e abiezione:
detto eufemisticamente, un “periodo non particolarmente felice della sua
battaglia antifascista”. Per giustificare un simile giudizio Canali “forza” il
12. M. Canali, Le spie del regime, cit., pp. 405-406.
13. M. Canali, Le spie del regime, cit., pp. 408-409. Le accuse di “ambiguità autobiografica” sono reiterate da Canali con leggerezza, senza premurarsi di consultare l’Archivio Max
Salvadori, dove sono conservati numerosi appunti e memoriali autobiografici.
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materiale a sua disposizione, sino a ignorare, nelle annotazioni di polizia,
elementi di diffidenza nei confronti di Salvadori, presentato in alcuni documenti come insincero e ambiguo; al contrario, egli enfatizza e sottolinea
ogni valutazione di apprezzamento dei funzionari fascisti per le posizioni
dell’esule14. Un’attenta lettura di quel materiale rivela non già soddisfazione
per il cedimento di un avversario, ma la disponibilità a giocare con l’esule
una partita aperta ai più disparati sviluppi, da quello collaborativo a quello
della sua cattura.
Ad ogni buon conto, una copiosa documentazione di provenienza britannica – intrecciata con gli epistolari dell’Archivio Max Salvadori – consente finalmente di fare luce sul “periodo oscuro”.
Canali ha escluso “che i contatti con la Pol[izia] pol[itica], documentati
per un paio di anni, possano venire interpretati come un’azione concordata
con altri”15. Si tratta di un giudizio ribadito nella corrispondenza coi parenti di Salvadori, sia pure con la precisazione che il loro congiunto non fu una
spia: “La crisi di Max Salvadori tra il 1939 e il 1941 fu reale e non il risultato di un suo ‘doppiogioco’ in quanto agente dei servizi segreti inglesi.
Questa è la mia convinzione di studioso che ha sempre anteposto i documenti ai ricordi e alle memorie dei protagonisti. Non ho mai ipotizzato in
Max Salvadori un ruolo di spia, so perfettamente che così non è stato, e che
la crisi lo ha indotto semplicemente a tirarsi da parte per un paio di anni
dalla lotta al fascismo”16.
Il teorema accusatorio è basato sulle sole carte fasciste, utilizzate come una
documentazione probatoria e completa, rivelatrice del vero Salvadori.
Impostazione incauta, contraddetta dalle fonti inglesi. Il file intestato a Max
Salvadori negli archivi dei servizi britannici17 contiene una quantità di materia-
14. Tullio Mango, funzionario di polizia addetto all’attività all’estero, aveva espresso
insoddisfazione per il contatto stabilito con Salvadori, ritenendo che le posizioni da lui
assunte fossero generiche; non si capisce su quali basi, pertanto, Canali sostenga l’esistenza
di una consonanza di vedute e di obiettivi tra l’esule e la Polizia politica, se non con l’isolare e utilizzare fuori dal contesto singole affermazioni, contraddette da altre provenienti dalla
stessa fonte: la questione era anche in questo caso ben altrimenti complessa.
15. M. Canali, Le spie del regime, cit., p. 409.
16. Lettera di Mauro Canali a Clara Muzzarelli Formentini, 10 gennaio 2005 (ringrazio
la signora Muzzarelli Formentini di avermi inviato copia della missiva, unitamente ad altra
documentazione relativa a Max Salvadori).
17. Foreign Office Minute, in The National Archives, Public Record Office, Kew,
HS9/1305/6.
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le, inclusa una relazione del 3 marzo 1943 secondo la quale il nostro personaggio “nel 1940 si recò in Svizzera per conto di ‘C’” [“Visited Switzerland in
1940 on behalf of ‘C’”]. Ebbene, “C” era il massimo dirigente dei servizi segreti inglesi. Altri esponenti degli apparati riservati con i quali Salvadori ebbe contatti personali furono “David” (probabilmente un ufficiale della Military
Intelligence), “Peter” (l’agente che ebbe più frequenti rapporti con Max) e un
quarto personaggio indicato come emissario di “Mr. Jebb”. Le loro identità
sono ancora oggi protette dal segreto di Stato, ma le rispettive collocazioni nei
gangli dell’apparato segreto di Sua Maestà britannica appaiono certe.
A fine agosto 1939 Salvadori presentò domanda di arruolamento nelle
forze armate britanniche, senza esito: ufficialmente a causa della doppia
nazionalità, ma forse per altri imprecisati motivi. A quel punto “David” gli
sottopose un progetto d’azione:
David gli chiese se se la sentiva, a titolo personale, di stabilire dei contatti per
farsi un’idea, indipendentemente da quanto altri dicevano, della possibilità o
meno che il regime entrasse in guerra, ed a quale prezzo sarebbe stato possibile ottenere che la non-belligeranza andasse per le lunghe. Servirsi dell’apertura per entrare in contatto con tre o quattro grossi papaveri fascisti conosciuti dieci anni prima, per inserirsi nell’ambiente viscido della “diplomazia
clandestina” che non è diplomazia ma vendita all’asta di fumo e machiavellismo di bassa, bassissima lega, era cosa ripugnante. Ma vi sono occasioni in
cui è necessario non essere schizzinosi, e questa era una di quelle occasioni.
Altro che chiacchiere da caffè o da salotto! altro che fuochi d’artificio retorici! Con la macchina da guerra tedesca in azione erano in gioco le sorti non
solo dell’Italia (passi) e del Regno Unito (passi anche questo) ma le sorti della
libertà, cioè del progresso e, a lungo andare, forse anche quelle della sopravvivenza dell’umanità i cui problemi non possono essere risolti senza la creatività che il totalitarismo sopprime18.
La “diplomazia segreta” proseguì per qualche tempo (come si vedrà più
avanti), poi, verificata nuovamente l’impraticabilità dell’arruolamento,
Salvadori sviluppò una sua iniziativa personale di verifica delle potenzialità
frondiste dentro l’Italia in guerra, una forma rischiosa di azione clandestina:
“Se in uniforme, avrei ubbidito, se in abiti civili decidevo io. […] Pur sem-
18. Trascrizione dal dattiloscritto approntato da Max Salvadori per la seconda edizione
di Resistenza ed azione (cit., p. 169), dove tuttavia è omessa la parte iniziale della considerazione.
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brando sciocco, sentivo profondamente che questa era la ‘mia’ guerra: volevo e la coscienza mi diceva che dovevo ‘far di più’”19.
Mentre l’Europa precipitava nella guerra e il nostro paese rimaneva neutrale, l’esule concepì il progetto di una missione segreta che gli consentisse
di riprendere contatto con l’Italia, di studiare la possibilità del protrarsi della
neutralità, di individuare l’estensione delle posizioni antigermaniche tra le
gerarchie del regime. Dell’azione clandestina venne tenuta al corrente
l’Intelligence britannica, che riteneva l’Italia una potenza militarmente temibile e sperava restasse estranea al conflitto europeo.
I rapporti intrattenuti tra Salvadori e i servizi inglesi sono documentati dal
copioso dossier del settembre-ottobre 1939, contenente – insieme a vario
materiale di straordinario rilievo – dieci fitte cartelle dattiloscritte datate 28
settembre e intestate Mr. Max Salvadori: Propaganda in Italy in favour of the
Allies20. Il memoriale esplicita le linee-guida della strategia prospettata ai vertici dell’Intelligence, in un’azione “coperta” giustificata dalla persistente
incertezza sulla collocazione italiana nella guerra europea (“Italy is neutral
and the government is uncertain on the attitude which should be adopted”),
peraltro senza spazi di manovra dal basso dato che la partita era giocata da
un’oligarchia (“Propaganda must be addressed to them much more than to
the masses”) in parte ostile ai tedeschi. Il memoriale è postillato da dirigenti
dell’apparato politico-militare britannico con valutazioni discordi. Un parere assolutamente favorevole venne fornito da Sir Laurence Collier, del
Foreign Office, concorde sull’opportunità indicata da Salvadori di una forma
di “contenimento” dell’influenza germanica nei circoli dirigenti italiani21. Al
contrario, Sir A. Noble sottolineò come l’azione di “underground propaganda” caldeggiata dal memorandum avrebbe potuto produrre risultati positivi,
ma che di gran lunga maggiori apparivano le controindicazioni: “I do not say
that such propaganda would not produce results, but it would certainly be
19. Testimonianza di Max Salvadori nella sua introduzione all’antologia del periodico
Mazzini News. Organo della Mazzini Society (1941–1942), a cura di Lamberto Mercuri,
Foggia, Bastogi, 1990, pp. 11-12.
20. In testa al dossier compare la seguente precisazione da parte del Foreign Office, risalente al 6 ottobre 1939: “Requests Southern Department views on memorandum by Mr.
Salvadori, now employed by authorities known to Mr. Jebb, on ‘Propaganda in Italy in
favour of the Allies’”.
21. Sir Laurence Collier, cugino di primo grado della madre di Max Salvadori, più di ogni
altro funzionario britannico favorì i progetti di Salvadori in direzione dell’Italia.
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dangerous and I think at the moment unnecessary and unwise”22. Intermedia
la posizione di un terzo interlocutore, “Mr. Nichols”, che il 16 ottobre 1939
così riassunse le proprie vedute sul progetto elaborato da Salvadori: “These
proposals may be potentially advantageous, but it is equally certain that they
are potentially dangerous”. Divergenze che rispecchiavano una pluralità di
approcci in tema di politica estera. Alla fine la proposta di Salvadori fu lasciata ufficialmente cadere, in quanto ritenuta troppo arrischiata: poteva infatti
avvenire che, dentro un raffinato gioco politico-spionistico, l’ala filonazista
capitanata dal segretario del PNF Starace cogliesse l’occasione propizia per
smascherare ed eliminare gli esponenti della corrente moderata del fascismo,
tacciandoli d’intesa col nemico e togliendo così di mezzo un settore della
classe dirigente che – al momento propizio, in parallelo all’andamento della
condotta bellica in senso sfavorevole all’Asse – avrebbe giocato un ruolo
interlocutorio con gli anglo-americani. Nonostante la mancata approvazione
del progetto, il suo autore agì nella direzione prospettata ai servizi britannici, e di ciò tenne informato Laurence Collier, il funzionario di raccordo tra
Foreign Office e apparati segreti cui era maggiormente legato. Si verificò
insomma un fatto non infrequente nel giro dei servizi segreti di ieri e di oggi:
dinanzi a un piano delicato, aperto a esiti positivi ma potenzialmente foriero
di risultati disastrosi, l’istituzione resta formalmente estranea al progetto,
tutelandosi in caso di ricadute negative, mentre si lascia che il piano abbia un
suo iter e ci si mantiene aggiornati sulla sua evoluzione. L’attivismo di
Salvadori in tal senso è comprovato da altri due memorandum del medesimo
arco temporale: una relazione in lingua italiana sulla propaganda antinazista
e un rapporto in francese sull’attivazione di una radio clandestina (questo
secondo documento venne composto insieme a un’altra persona).
Il 29 novembre 1939, quando era convinto di rimpatriare in missione
segreta, l’esule si premurò di annotare in un “memoriale a futura memoria”
(“In case I go to Italy and some accident happens there…”) i contatti intercorsi con la polizia del regime. Il documento – affidato a Laurence Collier –
22. Noble contrappose al memoriale di Salvadori una dettagliata analisi della situazione
italiana, centrata sul ruolo determinante di Mussolini e sull’opportunità di un’azione propagandistica molto cauta, ben diversa da quella “avventurosa” prefigurata dall’esule alle autorità britanniche: “Time is on our side and if we can also make it profitable for the Italians to
remain neutral we are likely to achieve the results we desire without running the dangerous
risks involved in Mr. Salvadori’s scheme”.
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sarebbe servito, in caso di arresto (e, presumibilmente, di fucilazione), a
ristabilire i contorni della verità attorno alla missione dello stesso Salvadori,
per salvaguardarne la memoria. Gli otto fogli autografi (introdotti dall’avvertenza “In no account should the enclosed memorandum be published. It
can be used but non printed”) sono suddivisi in due sezioni: Relations with
official Italy e Why I decided to go. Vale la pena di tradurne la premessa:
Se non fosse scoppiata la guerra, in questo istante mi troverei all’Università di
St. Lawrence, impegnato nell’insegnamento della sociologia e dell’economia.
Invece eccomi in Inghilterra. Quando sono in gioco i destini della nostra civiltà
europea, sento che come europeo profondamente legato ai valori basilari della
cultura occidentale, il mio posto si trova da questa parte dell’Atlantico.
Mentre ero in Inghilterra qualcuno prese contatto con me e prospettò la possibilità di un viaggio in Italia, il Paese che lasciai oltre sei anni addietro. Ma
prima di intraprendere un viaggio che potrebbe avere gravi conseguenze per
me, è opportuno che io fissi sulla carta ciò che è avvenuto finora nelle mie relazioni con l’Italia ufficiale, e anche come e perché ho deciso di correre il rischio
di questo viaggio23.
La prima parte del memorandum riassume l’itinerario politico-esistenziale degli anni trenta, inclusi i rapporti epistolari intercorsi col capo della
polizia Bocchini nell’ambito di un gioco complesso e rischioso che poteva
costare a Salvadori la caduta “in una trappola simile a quella in cui furono
uccisi i fratelli Carlo e Nello Rosselli”. Anche i contatti epistolari intercorsi con Adriano Menghi (utilizzati da Canali come prove a carico), vengono
esplicitamente richiamati in queste pagine. Le ragioni della strategia fascista
sono riferite a due piani alternativi:
a) La volontà di preparare una trappola nella quale sarei caduto come in passato è avvenuto a Cesare Rossi [sequestrato dalla polizia a Campione d’Italia
nel 1928 e condotto illegalmente nel Regno – ndr] e ai Rosselli.
b) La volontà di ottenere da me una dichiarazione di lealtà al governo fascista o almeno la promessa che in questa fase in cui il governo fascista prepara
il terreno per una trattativa con le democrazie io mi astenga da critiche al
fascismo italiano.
23. Il memoriale è custodito da Clement Salvadori, insieme a un plico di altre carte paterne, nella propria abitazione di Atascadero, California.
47
Da parte sua, Salvadori motiva il proprio comportamento con due progetti: 1. verificare la possibilità di un mutamento della politica estera fascista, in senso contrario alla Germania e favorevole agli Alleati; 2. accertare
l’esistenza, ai vertici del regime, di personalità frondiste. Ipotesi che valutate col senno di poi risultano irrealistiche e sbagliate fin nelle premesse (di ciò
Salvadori si sarebbe reso conto nel 1942), ma che – calate nel contesto dell’autunno 1939 con l’Italia neutrale dentro l’Europa in guerra – avevano una
qualche plausibilità da parte di un trentunenne da tempo forzatamente ignaro della situazione interna del paese e della (im)possibilità di una liberalizzazione del regime: “Having being away from Italy for six years, it is of
course difficult for me to judge about the situation there”.
L’azione segreta richiedeva contatti ravvicinati con funzionari dell’apparato fascista e prevedeva addirittura una rischiosa missione in Italia. Di questa attività “coperta” Canali ha colto solamente i segnali di Salvadori nei
confronti dell’apparato poliziesco-diplomatico fascista; scartata a priori la
possibilità dell’azione proposta ai servizi britannici e della missione personale in funzione anti-Asse, ha preso per veritiere le versioni “addomesticate” per la polizia e per l’ambasciatore a Londra.
Diplomazia parallela e missione segreta
La spiegazione logica e coerente degli approcci di Salvadori agli apparati
del regime consiste in una forma combinata di diplomazia parallela e di azione coperta; un tentativo, sia pure nella consapevolezza dei minimi margini
di manovra, di contattare personalità e settori del fascismo ostili nei confronti dei tedeschi, per rimpatriare e valutare gli spazi di mantenimento della
neutralità italiana. Vi è il significativo precedente del 1929 quando, in previsione del rimpatrio per il lavoro clandestino con Giustizia e Libertà,
Salvadori aveva assunto pubblicamente posizioni nazionaliste e concordanti con determinati punti della politica estera fascista, in funzione di copertura dell’azione illegale. Aveva per esempio licenziato la monografia L’unità
del Mediterraneo24, utile al suo accreditamento di intellettuale compagno di
strada del regime. In questa finalità segreta è racchiusa la chiave per decrit-
24. Il testo originale della monografia venne stilato l’estate 1929, pochi mesi prima del
rimpatrio (cfr. il manoscritto conservato presso la Società operaia di Porto San Giorgio).
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tare – disinnescandone il potenziale deflagrante – le “confidenze” del 19391940 a emissari fascisti.
Nella fluida situazione della neutralità italiana la diplomazia clandestina, mirante al contatto con personalità antitedesche, aveva un fondo di
plausibilità. Secondo l’allora capo della Polizia politica, Carmine Senise (il
futuro stratega della destituzione mussoliniana del 25 luglio 1943),
Badoglio “si dichiarò apertamente contrario alla nostra entrata nel conflitto a causa delle condizioni del nostro esercito”25. In risposta agli abboccamenti con funzionari di polizia, Bocchini il 30 dicembre 1939 scrisse a
Salvadori: “prendi accordi con S.E. Bastianini, al quale puoi presentarti”;
proprio ciò che l’interlocutore desiderava. Seguirono due incontri tra l’esule e l’ambasciatore. Di questi appuntamenti Canali utilizza – al solito,
senza la minima sorveglianza critica – il riassunto stilato da Giuseppe
Bastianini per trovarvi la prova provata del cedimento di Salvadori, ovvero la diserzione dalla lotta antifascista. I giudizi di Bastianini sono commentati nel modo più banale quali attestati della crisi morale del suo interlocutore, mentre potrebbero dimostrare sia l’abilità nell’accreditarsi agli
occhi dell’ambasciatore sia l’ingenuità di Bastianini nel “bere” ciò che il
suo visitatore aveva preparato. Dal punto di vista di Salvadori, infatti, quegli incontri servivano 1. a sondare Bastianini, per riferirne l’orientamento
ai servizi segreti; 2. quale viatico per “poter essere riammesso nella famiglia italiana e rientrare nel Paese”26.
Le analisi di Canali si fermano alla superficie, o meglio alle apparenze,
e ignorano i rapporti dei servizi alleati su Bastianini, individuato tra le personalità ostili ai tedeschi, oltre a trascurare l’intesa stretta tra il ministro
degli Esteri Ciano e l’ambasciatore a Londra: “Bastianini se non è un’aquila, è però persona molto fidata ed estremamente partigiana della politica di
non intervento. Sono sicuro che renderà dei servigi importanti”27.
L’autobiografia di Bastianini restituisce un quadro aperto ai più diversi
sbocchi e offre indiretta plausibilità alle analisi politiche di Salvadori: al
momento di partire verso Londra, l’ambasciatore aveva infatti sondato il
25. Carmine Senise, Quando ero capo della polizia, Roma, Ruffolo, 1946, p. 38.
26. Cfr. – nelle carte familiari custodite da Clement Salvadori – copia delle relazioni consegnate da Max Salvadori a Bastianini e i rapporti stilati per il Foreign Office sull’andamento dei contatti con l’ambasciatore italiano a Londra.
27. Annotazione diaristica del 15 settembre 1939, ora in Galeazzo Ciano, Diario 19371943, a cura di Renzo De Felice, Milano, Rizzoli, 1990, p. 347.
49
re in senso antigermanico, trovandolo però assai freddo verso un simile
progetto28.
L’abboccamento con l’ambasciatore rientrava insomma nella strategia
prospettata a inizio autunno 1939 ai servizi segreti, una strategia che – seppure formalmente respinta – fu nondimeno esperita da Salvadori, come è
dimostrato tra l’altro dai due dettagliatissimi memoriali col resoconto dei
colloqui intercorsi il 17 e il 24 gennaio 1940: A meeting with the Italian
Ambassador. Oltre alla trascrizione del dialogo, Salvadori annotò per i
suoi interlocutori (probabilmente Collier e, per suo tramite, alti funzionari di Sua Maestà) le aspettative e le impressioni riportate: “Inizialmente
ebbi l’impressione di una personalità forte e intelligente. Quando ci siamo
lasciati, la mia opinione si era modificata considerevolmente ed era
senz’altro meno lusinghiera. Ho anche percepito che l’Ambasciatore era
assai sincero e devoto al suo capo” [At first I had the impression of dealing with a strong and intelligent personality. By the time we had finished,
my opinion had changed considerably and was undoubtedly less flattering. I also felt the Ambassador to be rather sincere and devoted to his
master].
Sino ai primi mesi del 1942 Salvadori si premurò di nascondere alle autorità diplomatiche italiane le sue vedute politiche e il perdurante impegno
antifascista. Copia di un rapporto dell’Ambasciata a Washington (con l’osservazione “che il noto Prof. Salvadori-Paleotti durante la sua permanenza
negli U.S.A. si è astenuto da qualsiasi azione antitaliana, mostrando anzi nei
contatti che ha avuto occasione di mantenere con la Rappresentanza [diplomatica] di essersi ravveduto nei suoi sentimenti verso il Regime e di nutrire
il desiderio di rientrare in Italia non appena le condizioni internazionali ne
consentano la materiale possibilità”)29 è conservata tra le Carte Salvadori,
con una significativa postilla autografa del presunto “ravveduto”: “Fra i
tanti progetti vi fu quello di rientrare legalmente in Italia (come già fatto nel
’29), con lo scopo di organizzare ‘frondisti’ per attività rivolte a rovesciare
il regime – M.S. 7.XI.1990”.
28. Giuseppe Bastianini, Uomini, cose, fatti. Memorie di un ambasciatore, Milano,
Edizioni Vitagliano, 1959, p. 70. (riedizione: Volevo fermare Mussolini: memoria di un diplomatico fascista, Milano, Bur, 2005).
29. Il giudizio dell’Ambasciata d’Italia a Washington nella trascrizione della Direzione
generale della pubblica sicurezza, Roma, 27 gennaio 1942 (copia fotostatica presso
l’Archivio Max Salvadori).
50
Occultamenti strategici o cecità dello storico?
Canali interpreta il rilascio del passaporto e il permesso di rivedere l’anziana madre (sottoposta ad occhiuta sorveglianza nella sua abitazione marchigiana) come l’esito del cedimento morale e della collaborazione con la
polizia. Egli insiste sulla crisi psicologica dell’antifascista, mentre la questione è ben diversa e assai più complessa: la polizia prestava fede alle dichiarazioni “addomesticate” di Salvadori, oppure fingeva di credergli per attirarlo
in trappola? Di questa seconda ipotesi era per esempio convinta sua madre,
Giacinta Galletti, che il 4 aprile 1940 allertava il figlio: “Mi è stato detto ora
da persona competente: ‘Non ti lasciar attirare – è pericoloso, molto pericoloso’, specialmente in tempo di guerra…” e sei giorni più tardi (mentre Max
si trovava a Ginevra per un abboccamento con emissari della Polizia politica) ribadiva le ragioni della diffidenza: “Dopo gli ultimi gravi avvenimenti
immagino che non pensi più di venire qui. Non c’è assolutamente da fidarsi, qualunque lusinga facciano”30.
“Furono naturalmente prese rigorose precauzioni per non far trapelare
nulla sul nuovo atteggiamento di Salvadori”, precisa Canali31; in realtà l’adozione di cautele non prova nulla, poiché la riservatezza era nell’interesse di ambedue le parti, quali che fossero le rispettive strategie. Anche
Salvadori prese “rigorose precauzioni” e avvertì i direttori di diversi giornali e periodici britannici e statunitensi, cui passava relazioni e commenti
di politica estera, di non indicare il suo nome nell’utilizzare il copioso
materiale da lui inviato. Per il 1940-1941 ciò si verificò sicuramente per le
testate “The Observer”, “Weekly Review”, “Time & Tide”, “News Chronicle” e “The Reform Club”, secondo quanto risulta dalle Carte Max Salvadori custodite dalla Società operaia di Porto San Giorgio e dai parenti
(una mole di materiale impressionante, che lo studioso non si è sentito in
dovere di consultare prima di dare alle stampe il suo libro né al momento
di aggravare le accuse nei successivi interventi giornalistici). A mo’ di
esempio, ecco la parte iniziale della lettera del direttore del settimanale
londinese “Time & Tide”:
30. Lettere di Giacinta Salvadori 1933-1941, Porto San Giorgio, Tipografia Segreti, 1953,
p. 116.
31. M. Canali, Le spie del regime, cit., p. 408.
51
Dear Mr. Salvadori,
It was extremely kind of you to send us those notes on Italian opinion. How
interesting they are. I note that they are not [sic] for publication so we have
used them purely as a reference and as a background to the editorial notes we
have written on Italian affairs.
We get only the smallest fragments of information about Italy through our
normal channels. Your memorandum has been most useful in filling in the
picture32.
La missiva si chiudeva con l’invito a un incontro, per discutere in via riservata cosa fosse opportuno utilizzare e cosa tenere riservato delle informazioni fornite da Salvadori: “We might be able to talk over what it is wise, and
what unwise, to publish” (l’incontro si tenne quattro giorni più tardi).
Contestualmente anche il direttore di “The Observer” ringraziava Salvadori
“for giving him an opportunity of seeing your confidential memorandum on
Italy and the European War”33. Ciò, oltre a escludere che l’antifascista si fosse
chiuso in una posizione passiva, evidenzia il suo ruolo di “orientatore” di una
parte non insignificante della stampa britannica rispetto alla situazione italiana, su cui gli opinionisti inglesi difettavano di informazioni di prima mano.
Ma vi è di più. La corrispondenza del primo semestre del 1940 attesta una serie
di appuntamenti con esponenti di spicco del ceto politico e dell’apparato militare di Sua Maestà: funzionari del Foreign Office, ufficiali del War Office,
dirigenti del Partito liberale e del Partito laburista cui Salvadori presentò “dei
suggerimenti sul come avrebbe potuto essere svolta un’azione per impedire
una partecipazione dell’Italia alla guerra come alleata della Germania”, in considerazione del fatto “che la mancata partecipazione dell’Italia al conflitto
armato avrebbe privato la Germania di un aiuto militare efficace”34.
Alcune annotazioni di emissari della Polizia politica, che trascrivono presunte dichiarazioni di Salvadori, servono a Canali per dimostrare lo sbandamento dell’esule, senza manco ipotizzare che quelle espressioni – ammesso
che siano state effettivamente pronunziate nei termini riferiti – non ne
rispecchiassero le convinzioni interiori ma puntassero ad accreditarlo come
interlocutore disponibile in vista di un progetto segreto. C’è in tutto questo
32. Lettera dell’8 febbraio 1940 (Archivio Max Salvadori).
33. Lettera dell’8 febbraio 1940 (Archivio Max Salvadori).
34. Dal memoriale di 24 pagine scritto il 10 settembre 1945 per Michele Cantarella, foglio 4
(Archivio Max Salvadori).
52
un’ingenuità metodologica: non si può prendere alla lettera (confermando e
amplificando) ciò che è scritto nelle carte della polizia fascista senza interrogare le fonti né interrogarsi sulla loro credibilità; in questo modo si addiviene a un uso paragiudiziario delle carte di polizia, si smarrisce l’orizzonte
storiografico e si scade in un cronachismo deformante. A pagina 407 di Le
spie del regime figura una frase rivelatrice di un approccio ancillare alle fonti
di polizia: “Non si hanno documenti sufficienti per accertare compiutamente come si sviluppasse la successiva attività di Max Salvadori nella direzione
annunciata ai dirigenti fascisti; quello che risulta è che la polizia politica si
mostrò molto soddisfatta del nuovo atteggiamento assunto dal vecchio
avversario”. Il fatto è che: a. il piano di Salvadori rimase incompiuto e privo
di sbocchi operativi; b. la polizia politica fu ingannata, oppure finse di stare
al gioco. Così Salvadori ha ricordato il tramonto del suo progetto: “Trovai
poca eco per quello che cercavo di spiegare e di fare. Convintomi che l’Italia
sarebbe entrata in guerra e che la Gran Bretagna non avrebbe fatto niente,
essendomi stato rifiutato di entrare nell’esercito, non mi rimase altro che
ritornare negli Stati Uniti per riprendere l’insegnamento a St. Lawrence”35.
Un’altra considerazione completa i contorni del quadro: “Si fanno piani, ma
l’azione concreta ha poco a vedere con i piani stessi”36.
Riprendiamo l’esame critico delle acquisizioni di Canali: “Non sappiamo
molto su quali sviluppi ebbero tali rapporti [non male, per un ‘caso eccellente’]. È tuttavia accertato [dallo stesso Canali] che i toni della corrispondenza tra Salvadori e la Polpol, che continuò almeno fino al giugno 1941, lasciano trapelare una completa sintonia d’intenti”37. Viene esclusa la possibilità
“che Salvadori stesse obbedendo a direttive emanate dai servizi segreti stranieri”, senza immaginare che Salvadori potesse avere impostato il piano, lo
avesse quindi sottoposto ai servizi e infine ne avesse sperimentato le possibilità di successo, tenendone aggiornati passo passo dirigenti dell’apparato
statale britannico.
Al già pesante bagaglio accusatorio Canali ha aggiunto un ulteriore capo
d’imputazione: il ritiro da Giustizia e Libertà come frutto di cedimento
morale, merce di scambio con la polizia. Ben altro quadro emerge dalla corrispondenza d’epoca, con la spiegazione delle ragioni politiche del distacco
35. Dal citato memoriale di Salvadori per Cantarella, foglio 5.
36. Testimonianza di Salvadori in Fascismo e antifascismo, Milano, Feltrinelli, 1962, p. 499.
37. M. Canali, Le spie del regime, cit., p. 408.
53
di Salvadori da GL, richiamate compiutamente in un memoriale inviato a
Magrini (Aldo Garosci):
Caro Magrini,
Ti ringrazio per la tua lettera del 31 gennaio, ricevuta alcuni giorni or sono.
Ignoravo che fossero rimasti dei dubbi per ciò che concerneva la mia decisione, che ti comunicai nel gennaio dell’anno scorso, di non riprendere la tessera.
Come mi venne detto più volte da membri del Comitato Esecutivo, vi è stata,
durante questi ultimi anni, una notevole trasformazione in Giustizia e
Libertà, in particolare nei riguardi della tendenza socialista. Nel caso mio
personale, le concezioni che ho nei confronti dei problemi politici e sociali
sono rimaste fondamentalmente le medesime di quelle che erano dieci anni
fa; al tempo stesso, le mie idee si sono modificate notevolmente per ciò che
riguarda i mezzi con i quali certi fini politici possono essere raggiunti. Vi
sono così due serie diverse di fattori che hanno contribuito ad aumentare la
distanza tra Giustizia e Libertà e me: mentre il movimento accentuava il suo
carattere socialista, io restavo un liberale; mentre il movimento rimaneva
ispirato da uno spirito rivoluzionario, gravi dubbi si facevano strada nel mio
spirito nei riguardi dell’azione rivoluzionaria e della sua utilità […].
Ti prego di credere che non sono stati dei motivi di carattere personale che
mi hanno indotto, or è più di un anno, a prendere la decisione che ti comunicai nel gennaio ’39. Io non sono in condizione di approvare o di disapprovare le vostre idee e i vostri programmi: ciò è cosa che vi riguarda. Ma vi sono
troppe differenze su questioni fondamentali perché io possa ritornare oggi
sulla mia decisione38.
Tra le ragioni del ritiro dalla militanza di partito campeggiava l’insoddisfazione per le liti intestine e le accanite polemiche che dividevano il microcosmo degli esiliati politici. Su ciò si diffonde la Memoria sul settarismo
inviata ad Alberto Cianca nel medesimo periodo: “Settarismo che io considero una delle piaghe maggiori della vita politica italiana ed il peggiore
avversario della democrazia. Sembra che la mentalità italiana non riesca a
concepire un movimento politico in cui collaborino onestamente persone
che abbiano concezioni e tendenze diverse”39. Analoghi concetti affiorano
38. Parte introduttiva e conclusione del memoriale di Max Salvadori a Magrini, 18 febbraio 1940, fogli 1 e 4 (Carte Max Salvadori, presso Clement Salvadori).
39. Questo stralcio del citato memoriale di Max Salvadori a Magrini fu inviato anche a
Cianca (Archivio Max Salvadori), a riprova della centralità, dalla visuale di Salvadori, del
problema del settarismo quale palla al piede di GL.
54
nel corso delle polemiche che opposero Salvadori alla stampa comunista e
filocomunista italo-americana, come nella lettera scritta al direttore del giornale di New York “L’Unità del Popolo”:
Ritengo tutto il fuoruscitismo italiano (come quello di molti altri paesi) politicamente liquidato. Ho manifestato a più riprese questa mia opinione personale. La risurrezione delle nazioni europee sarà opera di quelli che sono
rimasti in patria. Da quattro anni mi rifiuto di partecipare alle lotte ridicole
che poche diecine di persone si fanno gli uni agli altri. Tale partecipazione
costituirebbe solo una perdita di tempo e in questo momento non si può
stare a perdere tempo. Ciò non vuol dire che non sono disposto a dare, nella
misura delle mie modeste possibilità, quell’aiuto che posso dare, e che ho
dato, a quanti corrono il rischio di essere fucilati se restano dall’altra parte e
a quanti hanno avuto il coraggio di restare dall’altra parte dell’Atlantico40.
Sul tema del distacco da GL Salvadori ritornerà qualche mese dopo la
Liberazione in una lettera diretta a Michele Cantarella, per ribadire la validità del memoriale inviato nel febbraio 1940 a Garosci: “Quando ho incontrato persone che mi conoscevano, ho sempre messo in chiaro che avevo
dato le mie dimissioni da Giustizia e Libertà nel 1939 perché ritenevo che i
giellisti (che da anni non erano più liberali) non erano più neppure democratici (naturalmente nello spirito e nelle azioni perché a parole erano democratici come tutti gli altri). Le ragioni delle mie dimissioni erano contenute
in una lettera di 3.000 parole inviata a Garosci”41.
Un “disertore” insolitamente dinamico
Canali è convinto che nel 1939-1941 Salvadori abbia disertato la lotta
politica, con un comportamento caratterizzatosi, a paragone “degli altri leader antifascisti esuli, [come] una vera anomalia”; lo storico ironizza sulla
“sua coerente attività antifascista all’estero, che in realtà in quel periodo era
cessata”42. Al contrario, i contatti di Salvadori con la Polizia politica e con
l’ambasciatore a Londra costituivano essi stessi una rischiosa modalità di
40. Lettera del 1° ottobre 1942 (Archivio Max Salvadori).
41. Lettera del 29 ottobre 1945 (Carte Max Salvadori, presso Clement Salvadori).
42. M. Canali, Le spie del regime, cit., p. 409.
55
attività antifascista. A smentire anche qui le tesi accusatorie vi è la realtà fattuale, ovvero la dimostrazione non soltanto della prosecuzione dell’“attività
antifascista all’estero” nel 1939-1941, ma addirittura della sua intensificazione, proprio nel periodo “incriminato”.
Tra fine estate e inizio autunno 1940 Salvadori operò negli Stati Uniti per
condizionare in senso democratico la comunità dei nostri immigrati tenendo incontri e conferenze: il 12 ottobre, per esempio, fu oratore al convegno
di Amsterdam (USA) per il banchetto annuale di 22 organizzazioni italoamericane nell’anniversario della scoperta dell’America. Quattro giorni più
tardi ne scrisse a Salvemini:
Tra gli altri oratori c’erano un congressman, uno State Senator, il sindaco
(inglese d’origine), il vice-console italiano di Albany (che non venne), un
paio di preti, ecc. Era la prima volta che mi rivolgevo ad un gruppo non già
di anti-fascisti ma di Italo-Americani che hanno nei confronti del Fascismo
un’attitudine ben diversa da quella degli anti-fascisti e che non è necessariamente un’attitudine fascista. […]
Nel mio discorso insistei sul fatto che una vittoria tedesca sarebbe un disastro per l’Italia e che è nell’interesse non solo degli Stati Uniti ma anche
dell’Italia se la Germania non vince la sua guerra contro la Gran Bretagna. Mi
hanno guardato sorpresi, ma spero che alcuni abbiano compreso43.
Si trattava della linea – sostenuta da Salvemini in esilio e da Ernesto Rossi
al confino di Ventotene – definibile nei termini di “perdere per vincere”,
posizione che nel dopoguerra verrà richiamata dai nostalgici fascisti quale
prova del tradimento da parte dei “fuorusciti”, quinta colonna degli angloamericani.
L’inverno 1940-1941 Salvadori collaborò con i gruppi della milizia antinazista attivi nel nord-est degli Stati Uniti contro gli italiani filofascisti.
Questo è soltanto uno dei riscontri che contraddicono la versione di un
43. In sede di convegno (cfr. le registrazioni conservate presso la Società operaia di Porto
San Giorgio), Canali ha giudicato inverosimile l’intervento di Salvadori in veste di oratore
negli Stati Uniti, con la motivazione… del silenzio delle carte fasciste su questo aspetto della
sua attività, che certo – secondo le convinzioni di Canali – non sarebbe sfuggito agli agenti
del regime. Notevole riprova del livello di subordinazione psicologica accumulato dallo studioso nei riguardi delle carte fasciste. Quell’attività oratoria è documentata da diversi resoconti giornalistici, ritagliati da Max Salvadori e oggi conservati presso i fondi archivistici
della Società operaia di Porto San Giorgio.
56
Salvadori inattivo e connivente col regime. Versione che prende per buona
la storiella raccontata dallo stesso Max all’Ambasciata italiana di
Washington: di prepararsi cioè a una trasferta in Messico come redattore
di agenzia giornalistica, con l’impegno di non “trattare comunque argomenti riguardanti l’Italia”. La verità è ben diversa: dal giugno 1940
Salvadori operò a New York, in Messico e in America centrale quale emissario della British Intelligence – “outside agent”, denominazione in codice: G 408 – per neutralizzare una radio clandestina filonazista, come ora
apprendiamo da un rapporto del 1943 incluso nel suo file personale:
“From June 1940 to present date has worked in USA and Mexico for
SOE”; in un mese di investigazioni l’emittente di Città del Messico fu
individuata e disattivata. Dopo quasi tre anni di impegno, il suo lavoro
venne definito encomiabile per abilità, energia e integrità: “G. 408 was
outside agent in New York and member of staff in Mexico. Have highest
repeat highest opinion of his ability, energy and integrity and heartily
recommend” 44. Contestualmente la Regia Ambasciata d’Italia a
Washington assicurava l’Ambasciata in Messico che il signor Massimo
Salvadori-Paleotti era “persona di buona condotta morale”, a riprova dell’abilità con cui l’agente britannico sapeva muoversi. Involontario riconoscimento di professionalità a un agente segreto nemico.
A un certo punto della sua ricostruzione Canali, resosi conto che la rappresentazione dei rapporti idillici tra l’esule antifascista e la polizia non
tiene, ammette che “qualcosa tuttavia accadde tra il giugno e il luglio 1941,
che provocò la rottura dei rapporti”45. Incapace di chiarire cosa avvenne, egli
chiama in causa l’“ambiguità autobiografica di Max Salvadori”. Se invece di
lanciare accuse a vuoto Canali avesse letto l’autobiografia di Salvadori,
avrebbe trovato la spiegazione all’interrogativo:
Incontrò a Berna un emissario… di chi? dell’OVRA? del SIM? degli Esteri?
di gerarchi frondisti? Vide altri gerarchi camuffati da diplomatici. Faceva da
esca il progetto di un corridoio dalla Libia all’Africa Orientale o al Golfo di
Guinea, di internazionalizzazione di passaggi obbligati. Aveva amici del
tempo di quando frequentava l’Università che viaggiavano e tenevano gli
44. Telegramma cifrato da New York, 4 marzo 1943 (The National Archives, Public
Record Office, Kew, HS9/1305/6).
45. M. Canali, Le spie del regime, cit., p. 408.
57
occhi aperti. Messi insieme i pezzi del “puzzle” – cosa non difficile – riassunse in una breve relazione la sua valutazione: il regime fascista non si sarebbe
staccato da quello nazionalsocialista46.
Il vuoto esplicativo in cui si è venuto a trovare Canali dipende dal fatto
che le sole fonti di polizia sono inadeguate a spiegare il comportamento dell’attivista antifascista. Accadde che, dopo il tentativo di protrarre la neutralità italiana (obiettivo iniziale dei contatti con esponenti dell’apparato poliziesco e diplomatico italiano), svanì pure la fiducia sulla praticabilità di un’azione frondista che innescasse o accelerasse una congiura di palazzo: in
effetti, nell’estate 1941 un simile scenario era del tutto irrealistico.
Il rovesciamento della verità
Dopo la pubblicazione di Le spie del regime Canali è tornato sul “caso
Max Salvadori” in un saggio pubblicato sul periodico della Fondazione
Liberal: I cedimenti di Max Salvadori (se il titolo è tipicamente canaliano,
l’occhiello suona involontariamente profetico: La storia va raccontata per
quella che è e non per come si vorrebbe che fosse). Rispetto al libro, vi è una
più estesa trascrizione e/o parafrasi delle carte di polizia, alcune delle quali
sono riprodotte fotograficamente, per visualizzare il livello di cedimento del
“collaboratore della Polizia politica”. Una netta linea di demarcazione separerebbe il “disertore” dagli antifascisti coerenti:
Ho incluso Salvadori tra quegli antifascisti che, a un certo momento, ebbero
un cedimento verso il regime, giungendo a stipulare con esso una sorta di
compromesso, che volle dire, per lui, l’interruzione di fatto per più di due
anni, dal settembre 1939 agli inizi del 1942, di qualsiasi atto ostile verso il
regime mussoliniano e l’avvio di una campagna di sostegno a esso condotta
con molta abilità e discrezione, le cui modalità vennero di volta in volta concordate con la polizia. Tutto ciò quando, appunto nel settembre 1939, i suoi
compagni esuli negli Usa, Salvemini, Borgese e altri, valutando la tragedia in
cui stava sprofondando il mondo, decidevano di inasprire il conflitto con il
fascismo, fondando la Mazzini Society47.
46. M. Salvadori, Resistenza ed azione, cit., p. 169.
47. Mauro Canali, I cedimenti di Max Salvadori, “Liberal”, dicembre 2004-gennaio
2005, p. 124.
58
Un paio di frasi, quattro gravi errori: 1. non vi fu alcun compromesso col
regime; 2. non intervenne la minima interruzione della lotta antifascista; 3.
non risulta lo svolgimento di alcuna attività propagandistica filofascista; 4.
proseguì, al contrario, l’intensa collaborazione con Gaetano Salvemini, con
la Mazzini Society e con i sodalizi italo-americani ad essa collegati.
Anche nel periodo dei contatti segreti con esponenti della polizia mussoliniana, Max Salvadori mantenne una copiosa corrispondenza con Gaetano
Salvemini sulle prospettive e sulle modalità dell’impegno antifascista; ecco
l’inizio di una lettera dell’intellettuale pugliese: “Caro Salvadori, ti mando
una copia della mia relazione. Vedrai che le mie impressioni coincidono perfettamente con le tue”48 (In realtà tra i due amici vi erano divergenze che si
sarebbero manifestate nel 1943, dato il filoamericanesimo di Salvemini, che
dopo lo scoppio della guerra volle divenire cittadino statunitense, e il filoinglesismo di Salvadori: ciò nondimeno era corretta l’osservazione sulla concordanza antifascista).
Per non danneggiare la sua “diplomazia parallela e segreta”, Salvadori
collaborò alla stampa antifascista con dossier e articoli apocrifi: un’intensa
attività giornalistica, condotta senza apparire, per motivi che Salvemini intuì
prima ancora di esserne informato dallo stesso Max: “Se intendi dedicarti ad
attività che rendano necessario far dimenticare il tuo nome – la tua decisione [cessazione di ogni attività ufficiale] è buona”49.
La collaborazione tra i due esuli proseguì intensa e fruttuosa. Salvemini, da
Cambridge, gli scrisse il 19 novembre 1940: “Aiutami nel mio lavoro mandandomi tutte le notizie che tu hai sulle attività fasciste negli Stati Uniti”. Il 16
gennaio 1941 chiese ulteriori ragguagli sugli italiani filofascisti negli USA e tre
giorni più tardi lo consigliò: “Dovresti metterti in relazione con Tarchiani, […]
Mazzini Society, N.Y.C. Egli ritiene ci sia qualcosa di pratico da fare in Italia”.
Effettivamente Salvadori collaborò con Alberto Tarchiani e con numerosi altri
dirigenti della Mazzini Society: dal giellista Alberto Cianca al sindacalista
socialista Augusto Bellanca. Questo attivismo risultò sgradito ai comunisti,
che dalle colonne del periodico “Stato operaio” attaccarono pesantemente
Salvadori, accusato da Mario Montagnana di innestare nell’antifascismo interessi moderati e strategie borghesi. Ciò nonostante, oggi Canali afferma in
modo categorico che l’esule si ritirò dalla lotta; tra le pezze giustificative scio-
48. Salvemini a Salvadori, 19 ottobre 1940 (Archivio Max Salvadori).
49. Salvemini a Salvadori, 30 ottobre 1940 (Archivio Max Salvadori).
59
rina un biglietto di Max Salvadori all’ambasciatore italiano a Washington, con
l’impegno di “astenersi da qualsiasi atto che possa risultare (o essere sfruttato)
ingiurioso contro l’Italia” e il preannunzio dell’indisponibilità alla “collaborazione alla rivista antifascista ‘Mondo’ che si pubblica a New York”50. Lo storico prende alla lettera queste righe, rinunzia a scavare sotto la superficie e
ribadisce le accuse: “È da sottolineare che la rivista ‘Il Mondo’, diretta dall’antifascista Giuseppe Lupis, era l’organo ufficiale della «Mazzini Society».
L’atteggiamento defilato di Max Salvadori riceve una conferma dalla assenza
del suo nome dalla lista degli iscritti alla «Mazzini Society», dove invece
appaiono i nomi di tutti i maggiori esuli antifascisti negli Usa”51. Tale commento è contraddetto da una molteplicità di riscontri sulla partecipazione di
Salvadori alla vita della Mazzini Society. Intercorse pure una forma non ufficiale di collaborazione a “Il Mondo”, tenuta segreta per i motivi precedentemente indicati; fu Salvemini a fungere da intermediario: “La tua lettera interessantissima meriterebbe di essere tradotta e pubblicata sul ‘Mondo’”52.
Il consistente e continuativo apporto fornito da Max Salvadori alla Mazzini
Society risulta principalmente da due fonti coeve: a. la corrispondenza intercorsa con i dirigenti del sodalizio (incluso Giuseppe Lupis, direttore di “Il
Mondo”); b. la presenza nell’Archivio Salvadori di una quantità di documenti
interni della Mazzini Society (rendiconti di spese, bozze di bilancio, indirizzi
di iscritti, appunti di vario genere) stilati da… Max Salvadori. Lionello Venturi,
promotore ed esponente di primo piano della Mazzini Society, lo ringraziò dei
contributi per l’organo “Mazzini News”: “Caro Salvadori, grazie degli articoli. Non sono ottimista nemmeno io. Ma ho fede che l’Inghilterra non sia invasa. E questo apre tutte le possibilità per l’avvenire”53. La collaborazione si tradusse pure nella compilazione di indirizzi di destinatari del bollettino, il cui
primo numero uscì nel febbraio 1941. Eppure, per Canali, Salvadori avrebbe
rifiutato ogni collaborazione al sodalizio… Almeno in questo caso egli non
può invocare l’attenuante dell’ignoranza documentaria, poiché di tale attività
Salvadori fornì puntuali resoconti nei suoi scritti memorialistici54, resoconti
ora puntualmente confermati dal materiale d’archivio.
50. M. Canali, I cedimenti di Max Salvadori, cit., p. 134.
51. M. Canali, I cedimenti di Max Salvadori, cit., p. 134.
52. Salvemini a Salvadori, 19 ottobre 1940 (Archivio Max Salvadori).
53. Venturi a Salvadori, 28 gennaio 1941 (Archivio Max Salvadori).
54. Particolarmente nel saggio New York 1941: il “Mazzini News”, retroscena e contesto,
“Nuova Antologia”, 1985, n. 2156, pp. 160-178.
60
Nello stesso periodo dell’asserita intesa con la Polizia politica, Salvadori
collaborò con altri esuli, incluso don Luigi Sturzo, che da Jacksonville si
felicitò con lui: “Godo della tua risoluzione ad avvicinarti al Centro e lavorare nel giornalismo”55.
L’intesa si estese a personaggi di orientamento libertario come Carlo
Tresca, che a fine estate 1940 ebbe con Salvadori un “interessantissimo colloquio” intorno al reclutamento di un manipolo di volontari da impiegare in
Europa. Tresca gli presentò uno di questi, l’anarchico Humberto Galleani:
“Non è guidato da desiderio di avventura. Ha un odio inestinguibile pel
fascismo. Ritiene sinceramente che l’Inghilterra è l’ultimo baluardo e sinceramente vuole difendere, difendendo l’Inghilterra, i principii di libertà che
ci sono comuni”56.
La solidarietà ai perseguitati politici
Dalle colonne di “Liberal” Max Salvadori appare come un uomo in
profonda crisi, rinchiuso in sé stesso e inattivo, eterodiretto dalla polizia
mussoliniana; gli antifascisti avrebbero subodorato l’esistenza di un patto
segreto e l’esule sarebbe di conseguenza stato emarginato:
In alcune carte della polizia emerge nettamente il clima di forte tensione
venutosi a creare tra Salvadori e i compagni. La polizia riceveva conferma da
alcune relazioni fiduciarie provenienti da spie attive negli ambienti giellisti,
che registravano l’amarezza di Lussu per via delle accuse e delle diffamazioni fatte contro il cognato Salvadori57.
I rapporti familiari sono qui ricostruiti indirettamente, attraverso il filtro
poliziesco, dal buco della serratura. Simili insinuazioni (fondate sull’amplificazione delle tendenziose relazioni stilate da spioni dalla dubbia attendibilità)
sono smentite dal fatto che proprio in quel periodo – dal settembre 1940 in
avanti – Salvadori fu al centro di una ramificata rete di contatti, si sforzò di
55. Sturzo a Salvadori, 23 luglio 1941 (Archivio Max Salvadori).
56. Tresca a Salvadori, su carta intestata “Il Martello”, senza data ma collocabile tra il settembre e i primi giorni dell’ottobre 1940 (Archivio Max Salvadori).
57. M. Canali, I cedimenti di Max Salvadori, cit., p. 134.
61
agevolare la fuga dalla Francia della sorella Joyce e di Emilio Lussu, e per
questo versò di tasca propria centinaia di dollari. Il contributo iniziale, di
duecento dollari, fu consegnato nell’ottobre 1939 ad Augusto Bellanca, sindacalista socialista promotore della solidarietà ai perseguitati politici italiani
nei paesi occupati dai tedeschi e animatore dell’Italian-American Labour
Council (Consiglio italo-americano del lavoro, strettamente legato alla
Mazzini Society). Tale impegno solidaristico rientrava peraltro nell’apporto
fornito da Salvadori all’Italian Emergency Rescue Committee (sodalizio
costituito nel novembre 1940 su iniziativa della Mazzini Society), il cui presidente Lionello Venturi lo ringraziò per il versamento di 300 dollari da utilizzare per italiani ricercati dai nazifascisti: “Son circa 60 persone per cui
bisogna trovare i 300 dollari, cioè 18.000 dollari. Sinora ne abbiamo 8.000”58.
Il 5 settembre gli inviò una lista di 16 italiani ricercati dalla Polizia politica
(che a sua volta preparava elenchi di ricercati e li consegnava alla Gestapo per
il rintraccio degli esuli): Bruno Buozzi, Aldo Garosci, Randolfo Pacciardi,
Pietro Nenni, Franco Venturi… A fine estate 1940 Alberto Tarchiani coinvolse Salvadori nel Comitato italiano di assistenza agli antifascisti dispersi in
Francia. A dicembre Venturi lo ringraziò nuovamente per il versamento di
altri 100 dollari.
Venturi aveva prospettato una situazione tragica:
Caro Salvadori,
cattive notizie di Francia. Bohn ha telegrafato che il governo di Vichy progetta di consegnare a Hitler e Mussolini tutti gl’Italiani, Austriaci e Tedeschi
appartenenti al labor party e democrazia, oltre i cattolici del Dolfuss party,
qualora lo Stato americano non agisca. Lo State Department ha rifiutato di
fare alcun passo. Ultima speranza: Roosevelt59.
La reazione fu immediata: poche ore dopo avere ricevuto la lettera,
Salvadori scrisse a Eleanor Roosevelt (già compagna di scuola della suocera
di Max), affinché sensibilizzasse il presidente “ad un intervento per salvare le
vite di persone il cui solo crimine è di credere negli stessi valori che sono alla
base del modello americano” [if his intervention were to save the lives of people whose only crime has been to believe in those same values which are fun-
58. Venturi a Salvadori, 10 agosto 1940 (Archivio Max Salvadori).
59. Venturi a Salvadori, 16 settembre 1940 (Archivio Max Salvadori).
62
damental to American life]60. Lo sforzo solidaristico con i perseguitati dal
nazifascismo divenne ancora più produttivo quando, nel febbraio 1941,
Salvadori prese servizio presso il ministero britannico della Guerra economica (Ministry of Economic Warfare) e in tale veste si occupò delle autorizzazioni ai viaggi attraverso l’Atlantico, agevolando il flusso di fuga degli esuli
politici dalla Francia e dall’Africa del Nord verso gli Stati Uniti e il Messico.
Le stesse posizioni della Polizia politica?!? Canali (che ignora questo, e
molto altro ancora) insiste nel presentarci un Max Salvadori nei panni infidi
del collaboratore di polizia, un personaggio mefistofelico, avvinto agli emissari del regime da un’intesa che non fu scoperta “poiché Salvadori seppe
celarla dietro la cortina fumogena di un dissenso politico con la leadership di
Giustizia e Libertà”61. Secondo lo studioso, sarebbe esistita “una sorta di
intesa che rende difficile non annoverare Salvadori tra i collaboratori della
stessa polizia”; in realtà è difficile non annoverare Canali tra i riciclatori dei
veleni disseminati nelle cartacce dei servizi segreti, i cacciatori di scoop impegnati nel conferire dignità storiografica alle elucubrazioni degli uomini di
Bocchini. Un’attività, quella del riciclaggio acritico di fonti di polizia, che
fiorì rigogliosa nel giornalismo destrorso e nostalgico della seconda metà
degli anni quaranta e che evidentemente è tornata in auge.
Valutazioni del dopoguerra
Nella seconda metà del 1945 Salvadori scrisse un lungo memoriale per
Michele Cantarella e Gaetano Salvemini, onde chiarire il senso della sua iniziativa del 1939-1940 (preceduta da contatti con elementi del Foreign Office
e del War Office: “Presentai dei suggerimenti sul come avrebbe potuto essere svolta un’azione per impedire una partecipazione dell’Italia alla guerra
come alleata della Germania”)62 e distinguerla dallo “spionismo”, inquadrandola come una forma particolare di azione politica, condizionata da circostanze proibitive e ad esse adeguata. Una missione che si rivelò sostanzialmente negativa (definita nell’autobiografia “l’esperienza non brillante della
60. Salvadori a “Dear Mrs. Roosevelt”, 17 settembre 1940 (Archivio Max Salvadori).
61. M. Canali, I cedimenti di Max Salvadori, cit., p. 124.
62. Memoriale di Salvadori a Cantarella, 10 settembre 1945, foglio 4 (Carte Max
Salvadori, presso Clement Salvadori).
63
‘diplomazia clandestina’”)63 e che aveva lasciato al suo protagonista ricordi
assai sgradevoli: “Dall’incontro a Berna alle visite all’ambasciata, l’esperienza era stata stomachevole”64.
Max Salvadori non si muoveva nel vuoto pneumatico. La guerra mondiale imponeva una scelta di campo, ovvero la necessità di schierarsi con una
delle forze contendenti. Le motivazioni del suo comportamento si desumono da significativi scambi epistolari con i compagni di ideali e sono compiutamente illustrate nel citato memoriale inviato il 10 settembre 1945 a
Michele Cantarella:
Ti devo dire francamente che ignoro i sentimenti nazionalistici e che li ho
sempre ignorati. A meno che una qualsiasi cittadinanza sia il frutto di una
propria decisione, io ritengo che essa è un incidente tecnico che può essere
sfruttato se occorre ma che non implica doveri o diritti quando siano in gioco
principi fondamentali. Non una volta ho sentito un qualsiasi conflitto tra
“italianità” e “britannicismo”. Nei limiti delle mie capacità e delle condizioni nelle quali mi sono trovato volta a volta ho cercato di servire la causa della
libertà (per me sinonimo di sicurezza) personale.
Per parecchi anni prima del 1939 ho ritenuto inevitabile una guerra tra i regimi fascisti e le nazioni occidentali che avevano più o meno dei regimi tendenzialmente democratici. Ritenevo tale guerra indispensabile per porre fine al
diffondersi del fascismo. Una volta scoppiata la guerra era logico per me
dovervi partecipare attivamente. […] Per temperamento sono un “attivista”.
Per quanto la violenza fisica mi ripugni e non accetti spargimenti di sangue
che come una triste necessità da ridursi al minimo, ritengo che 10 grammi di
azione valgono più di dieci chili di carta stampata65.
Nel medesimo memorandum figurano significativi riferimenti all’azione
condotta di concerto con funzionari dei servizi britannici, quasi a spiegare e
a giustificare il proprio comportamento:
C’erano l’Intelligence Corps, l’Intelligence Service e il Secret Service il cui compito era quello di raccogliere informazioni militari. Chi ce l’ha con l’Intelligence
e crede disonorevole l’aver cooperato con i servizi informativi di una qualsiasi
63. M. Salvadori, Resistenza ed azione, cit., p. 169.
64. Dalle note autobiografiche parzialmente utilizzate per l’integrazione di Resistenza ed
azione (foglio 30 del dattiloscritto; Archivio Max Salvadori).
65. Ivi, fogli 1-2.
64
delle Nazioni Unite in tempo di guerra dovrebbe ricordare che anche
l’Intelligence è un’arma di combattimento, che le perdite in vite umane sono
spesso considerevoli e che il successo di qualsiasi operazione militare dipende
in gran parte dall’accuratezza ed efficienza delle informazioni raccolte. […]
Attraverso le Special Forces tutti i movimenti di resistenza in Europa sono
stati aiutati direttamente dall’esercito inglese. Se accettare l’aiuto di un fratello d’arme significa essere un agente, centinaia di migliaia di persone che partecipavano ai movimenti di resistenza non solo di Italia ma anche di Francia,
di Yugoslavia, di Grecia, di Norvegia, di Danimarca, di Polonia, Cecoslovacchia, Belgio, Olanda, Ungheria, Romania, Bulgaria, Finlandia (per non menzionare che i paesi europei), sono stati agenti dell’imperialismo britannico.
Sono anche stati “agenti” tutti i dirigenti di questi movimenti che hanno
accettato aiuti dall’esercito inglese, da De Gaulle in Francia, a Mihailovitch e
a Tito in Yugoslavia, a Parri e a Gallo [Luigi Longo] in Italia, a Bor in
Polonia, a Zachariades in Grecia66.
Il memoriale fu inviato da Cantarella a Salvemini, che lo commentò punto
su punto e postillò: “Ringrazio Salvadori per avere scritto quella memoria e
avermene dato visione. Essa mi ha permesso di vedere con maggiore chiarezza fatti che erano prima piuttosto nebbiosi nel mio pensiero. Inoltre Salvadori,
scrivendola, ha dato prova di un’amicizia per cui gli sono assai riconoscente”67.
Relativamente alle vicende del 1939-1943, questo è il parere di Salvemini:
Nessuno ha il diritto di criticare Salvadori o altri perché si associarono alla
politica inglese prima che questa si rivelasse per quel che era. Anche io mi vi
ero associato dall’estate del 1939 all’autunno del 1941. Io arrivo ad ammettere che ancora nell’estate del 1943, con lo sbarco in Sicilia, la politica italiana
di Churchill e di Eden poteva essere approvata almeno da chi non avesse
ancora compreso quel che almeno sei mesi prima era chiaro a chi, anche non
essendo addentro alle segrete cose, possedeva un minimo di perspicacia.
Perciò tutto quanto Salvadori scrive delle sue attività negli Stati Uniti e nel
Messico prima dell’estate del 1943 è fuori discussione, salvo che anche prima
dell’estate 1943 egli abbia contribuito coi suoi consigli a fare adottare dalle
autorità inglesi il piano monarchico-clericale e far respingere il piano democratico-repubblicano68.
66. Ivi, fogli 7-8.
67. Salvemini a Cantarella, 17 ottobre 1945, foglio 1 (Archivio Max Salvadori).
68. Salvemini a Cantarella, cit., foglio 2 (Archivio Max Salvadori).
65
Salvemini evidenzia valutazioni negative sulla politica britannica negli
ultimi due anni di guerra, con ricadute critiche sull’azione di Salvadori nel
medesimo periodo e con dubbi sulla possibilità che anche precedentemente
tale attività avesse portato acqua al mulino dell’“attivismo antifascista di
destra clerico-monarchico-churchilliano-rooseveltiano” dispiegatosi compiutamente – secondo Salvemini – nell’inverno 1942-1943:
Salvadori dice di essere un “attivista”. Niente di male e molto di bene. Ma
l’attivismo deve avere uno scopo. L’attivismo fine a sé stesso può essere attivismo fascista. Quello di Salvadori non fu mai attivismo indifferenziato. Fu
attivismo antifascista. Ma anche un attivismo antifascista indifferenziato si
poteva capire solamente finché Mussolini era lì. Col 25 luglio 1943, era inevitabile che l’attivismo antifascista si differenziasse fra attivismo antifascista
di destra conservatore monarchico-clericale (Croce, Pio XII, Badoglio,
Churchill, Roosevelt) e attivismo antifascista di sinistra democratico-repubblicano. Se Salvadori avesse fatto dell’attivismo antifascista indifferenziato
fino al luglio 1943, niente di male. Ma dopo il luglio 1943?69
A simili critiche Salvadori oppose il resoconto di ciò che egli aveva
costantemente raccomandato agli interlocutori britannici, integrando il suo
ragionamento con una previsione sul quadro dell’Italia democratica che –
scritta agli inizi dell’autunno 1945 per Cantarella e Salvemini – sarebbe stata
confermata dall’evoluzione della politica interna:
Per ciò che riguarda il mio atteggiamento, dal principio alla fine, ogni volta
che il mio parere è stato chiesto, ho affermato:
1) che non era possibile fare assegnamento alcuno su forze conservatrici,
2) che il mezzo migliore per frenare la corsa verso la sinistra stalinista era
quello di appoggiare la sinistra non comunista.
Come spiegherò più a lungo più tardi la mia valutazione di cose italiane non
è la medesima di quella di Salvemini: ritengo per esempio la mentalità fascista ancora prevalente in Italia; ritengo inoltre che solo una piccola minoranza delle masse italiane è democratica e che in regime di libertà cattolici e
comunisti avranno il massimo dei voti70.
69. Salvemini a Cantarella, cit., foglio 8 (Archivio Max Salvadori).
70. Salvadori a Cantarella, 29 ottobre 1945 (Carte Max Salvadori, presso Clement
Salvadori).
66
Infine, a proposito dell’accusa di reticenza autobiografica scagliata con
leggerezza da Canali, vale la pena di leggere le annotazioni tracciate da
Salvadori il 15 novembre 1990 a S. Tommaso di Fermo (nella vecchia residenza di famiglia), per il fascicolo contenente copia di alcune missive da lui
inviate a emissari della Polizia politica: “Incluse lettere con le quali tentavo
di aprirmi la strada per rientrare legalmente in Italia con l’idea di avvicinarmi a ‘frondisti’ per vedere se sarebbero stati disposti a compiere un ‘colpo
di Stato’. Pensavo p.e. a Jung ed anche a Senise, amico di zio Mario Collina.
Non mi rendevo conto dell’interesse per me dell’OVRA. Mi avrebbero probabilmente lasciato fare per qualche mese, e poi una buona retata”.
Una postilla. Max Salvadori, sia per indole sia per l’interiorizzazione
della forma mentale dello storico, ha accantonato negli anni una quantità
impressionante di documentazione sui passaggi significativi della propria
vita, documentazione conservatasi nonostante i frequenti spostamenti dipesi dalle scelte professionali e dalle forze esterne (la guerra, anzitutto).
L’esistenza di questo materiale – in buona parte concentrato presso la
Società operaia di Porto San Giorgio e negli archivi britannici – consente
oggi di smantellare punto su punto il teorema accusatorio costruito sulle
carte della polizia fascista71. Se, per temperamento o per il condizionamento delle circostanze, Salvadori non avesse conservato questi carteggi, la sua
71. Significativo l’ampio intervento di Massimo L. Salvadori su “la Repubblica” (Max
Salvadori. Un antifascista che non fu mai spia, 28 maggio 2005) sulle ripercussioni provocate dal libro di Canali; eccone un paio di passaggi: “A questo punto, colui che ‘per quello che
se ne sapeva’ era un coraggioso combattente della causa antifascista, muta improvvisamente
volto. La vicenda della ‘caduta’ di Salvadori rimbalza sui grandi organi di informazione. In
un’Italia che, in vena di una melassosa riconciliazione nazionale, vuole che tanti fascisti non
siano stati troppo cattivi e che tanti antifascisti siano stati non così buoni e puri, anzi decisamente impuri, scoppia il caso Max Salvadori. Cito per tutti, per la sua emblematicità, un
titolo comparso sul ‘magazine’ del Corriere della Sera: L’uomo che visse due volte: prima al
servizio del Duce, poi di Sua Maestà. Insomma, Max tradì gli antifascisti, e in primo luogo
la sorella Joyce ed il cognato Lussu”. Respinte come infondate le infamanti accuse, Massimo
L. Salvadori trae le seguenti conclusioni sull’incresciosa vicenda: “Quando le ‘rivelazioni’ di
Canali occupavano i giornali e i periodici, una persona mi chiese se fossi per caso parente
della spia fascista. Ora, avute in mano le carte ignote all’‘uomo dei documenti’ [Canali - ndr]
quando ha messo mano alle sue accuse basate sulla sua ricerca ‘scientifica’, mi sono detto che
era giunto il momento di rispondere pubblicamente. Ho ancora in mente l’ultima volta in
cui nel 1989 a New York ho incontrato Max Salvadori. Era un bel vecchio, alto e signorile.
67
immagine sarebbe rimasta macchiata, sia pure ingiustamente. Per qualche
altro militante antifascista qualcosa del genere è potuto (e potrà) avvenire: su
molti oppositori del regime, infatti, disponiamo prevalentemente delle carte
di polizia, ovvero delle versioni raccolte e tramandate da chi istituzionalmente combatteva gli oppositori politici; carteggi che, se utilizzati senza la
necessaria strumentazione critica, sprigionano a scoppio ritardato una quantità di veleni72. Oltre a interrogare i documenti, gli storici dovrebbero porsi
il problema dei vuoti documentari: della soggettività e della lacunosità delle
fonti.
La sua schiena era sempre ben diritta”. Nella sua replica (Max Salvadori. Ma gli inglesi bocciarono la sua missione in Italia, “la Repubblica”, 5 luglio 2005) Canali sostiene di non avere
“mai scritto né dichiarato né pensato che Max Salvadori fosse una spia”, mentre riafferma la
tesi del cedimento quale movente dei contatti segreti con Bastianini ecc. sulla base delle
riserve inglesi sulla missione in Italia. Ragionamento invero curioso, poiché è tutto da dimostrare che dalla mancata legittimazione della “diplomazia parallela” da parte dei servizi britannici derivi il carattere compromissorio dei rapporti allacciati da Salvadori con elementi
del regime proprio sulla base del progetto da lui comunicato ai capi dell’Intelligence.
Esistono molteplici riscontri – inclusa la redazione di rapporti in lingua inglese sul procedere dei contatti riservati – sulle reali finalità di questi rapporti, riscontri metodicamente ignorati da Canali. Inoltre, si può ritenere che i capi dello Special Operations Executive (l’organismo incaricato dell’attività clandestina in territorio nemico) fossero sprovveduti al punto
da arruolare nel giugno 1940, per incarichi delicatissimi, un elemento che agiva d’intesa con
l’OVRA (dal citato articolo di Canali: “Con l’ingresso dell’Italia in guerra, Max faceva ritorno negli Usa, da dove continuò a mantenere contatti con l’Ovra certamente fino al novembre 1941”), e che per un altro anno e mezzo avrebbe concordato le sue mosse con emissari
della polizia politica fascista? Canali non riflette nemmeno sull’inverosimiglianza della
metamorfosi di Salvadori da ideatore dell’arrischiato progetto antinazista presentato ai britannici a protagonista di un cedimento clamoroso, con repentino ritorno alla lotta antifascista premiato con la nomina a dirigente dell’Intelligence inglese in Italia. La polemica giornalistica si è chiusa con una puntualizzazione di Massimo L. Salvadori (La vera storia di Max,
“la Repubblica”, 8 luglio 2005) sulle incongruenze e i salti logici delle nuove posizioni di
Canali che, presa parziale conoscenza delle carte inglesi, nel tentativo di tenere comunque in
piedi le sue interpretazioni basate sulle carte fasciste “lascia una strada e non esita a imboccarne un’altra”.
72. Cfr. Mimmo Franzinelli, Sull’uso (critico) delle carte di polizia e Aldo Giannuli, Il
trattamento delle fonti provenienti dai servizi di informazione e sicurezza, in Voci di compagni, schede di questura, Milano, Centro studi libertari, 2002, pp. 19-30 e 31-72.
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