Max Salvadori: una spia del regime?!?
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Max Salvadori: una spia del regime?!?
Max Salvadori: una spia del regime?!?* di Mimmo Franzinelli Intellettuale e uomo d’azione liberale Max William Salvadori-Paleotti (Londra, 16 giugno 1908 - Northampton, 6 agosto 1992) è ricordato, nei repertori biografici italiani e internazionali, come un intellettuale e un militante antifascista, con un bagaglio di lotte e di studi che lo hanno reso un elemento di punta del liberalismo. Appena sedicenne, studente ginnasiale a Firenze, fu percosso dagli squadristi per avere difeso suo padre, Guglielmo Salvadori, vittima di una spedizione punitiva in quanto autore di critiche al governo apparse nel marzo 1924 sui periodici inglesi “New Statesman” e “Westminster Gazette”1. Dopo quell’episodio la famiglia Salvadori si trasferì in Svizzera. Laureatosi all’Università di Ginevra, nell’autunno 1929 il giovane Max aderì a Giustizia e Libertà (GL); quindi tornò in Italia e s’impegnò quale diffusore della stampa clandestina del movimento: ricevuti pacchi di pubblicazioni da Ernesto Rossi, ne assicurava la distribuzione nella capitale, in varie località del Lazio e delle Marche. Si laureò a Roma in Scienze politiche, con una tesi sulla stabilizzazione del potere d’acquisto della moneta. Fu arrestato il 21 luglio 1932 “con una quarantina di compagni di lotta e nel settembre, durante una crisi di profondo scoraggiamento, fece atto di sottomissione al regime, ma non compromise nessuno dei compagni arrestati”2. Condannato al confino e tradotto a Ponza, riottenne la libertà il 20 luglio 1933 con l’assegnazione al domicilio obbligato a Fermo (Ascoli Piceno), nella casa paterna; un paio di mesi più tardi espatriò in Svizzera, grazie al suo passaporto inglese. Riallacciati i contatti con GL, s’interessò nuova* Il testo rielabora e integra con l’apparato di note l’intervento presentato al convegno su “Max Salvadori. Diplomazia segreta e antifascismo”, svoltosi il 6 maggio 2005 a Porto San Giorgio. Il programma dei lavori prevedeva altre tre relazioni: Max Salvadori e l’esilio americano (Mauro Canali), Il problema storiografico dell’antifascismo e le derive revisionistiche senza senso (Piero Craveri) e Max Salvadori, il fascismo, la guerra (Massimo Teodori). La prima versione di questo saggio è uscita su “Italia contemporanea”, n. 238, marzo 2005. 1. Una dettagliata cronaca dell’aggressione, con la testimonianza di Guglielmo Salvadori, figura su due intere pagine del quindicinale parigino “Becco Giallo”, 15-30 aprile 1928, n. 20. 2. Enciclopedia dell’antifascismo e della Resistenza, vol. V, Milano, La Pietra, 1987, p. 326. 35 mente alla politica. Visse per qualche tempo in Kenya; nel 1937 insegnò all’Università di Ginevra e successivamente nell’Ateneo di St. Lawrence, negli Stati Uniti. Reclutato dai servizi segreti britannici, nel 1941 svolse missioni nell’America centrale e particolarmente in Messico3. Volontario nell’esercito britannico nel gennaio 1943, partecipò col grado di maggiore alla campagna di Sicilia, prese parte allo sbarco di Salerno e rimase ferito nei combattimenti presso Anzio. Promosso tenente colonnello, nell’ottobre 1944 assunse la mansione di ufficiale di collegamento tra il Comando del 15° gruppo di armate alleate e il Comando militare del Comitato di liberazione nazionale dell’Alta Italia (CLNAI). Nel febbraio 1945 fu paracadutato nelle Langhe e quindi si recò a Milano con l’incarico – da parte dello Special Operations Executive (SOE) – di sovrintendere alle operazioni per la liberazione della città, nella quale visse clandestinamente dal febbraio 1945, esposto al rischio quotidiano dell’arresto con conseguente fucilazione. Nell’immediato dopoguerra gli fu concessa la cittadinanza onoraria di Milano e fu decorato con la Military Cross e col Distinguished Service Order. Nel secondo dopoguerra diresse a Parigi la Divisione di Scienze politiche dell’UNESCO (1948–1949) e fu analista politico della NATO (1952–1953). Docente di Scienze sociali presso il Bennington College, Vermont (1945–1962), e insegnante di Storia allo Smith College, Massachusetts (1947–1975), scrisse una ventina di monografie sulle istituzioni democratiche e sull’economia di mercato4. Un mistificatore smascherato? La percezione di Max Salvadori come combattente antifascista, rafforzata dal rapporto sinergico con la sorella Joyce, compagna di Emilio Lussu, è stata recentemente incrinata da una serie di interventi, in sede storica e gior- 3. Paleotti, Massimo Salvadori, in Oxford Dictionary of National Biography, Oxford, Oxford University Press, 2004 [consultabile sul sito www.oxforddnb.com/view/printable/76096]. 4. Tra le sue pubblicazioni in lingua italiana: La penetrazione demografica europea in Africa (Torino, Bocca, 1932), Problemi di libertà (Bari, Laterza, 1949), Storia della Resistenza italiana (Venezia, Neri Pozza, 1955), La democrazia liberale (Roma, Opere Nuove, 1958), La Resistenza nell’Anconetano e nel Piceno (Roma, Opere Nuove, 1962) e Breve storia della Resistenza italiana (Firenze, Vallecchi, 1974). Le sue memorie – Resistenza ed azione. Ricordi di un liberale – uscite nel 1951 per Laterza, sono state integrate e riedite nel 1990 da Bastogi. 36 nalistica, di Mauro Canali, il cui volume Le spie del regime dedica – nel capitolo I casi eccellenti – un serrato paragrafo al caso di Max Salvadori5. Nell’ottobre 2004, per il lancio del volume, queste accuse sono state amplificate in una lunga intervista a “la Repubblica” e in un servizio sul “magazine” del “Corriere della Sera” dal titolo emblematico: L’uomo che visse due volte: prima al servizio del Duce, poi di Sua Maestà; successivamente, in un articolo pubblicato il 14 dicembre 2004 dal “Giornale”, Canali è tornato su Max Salvadori per rimarcarne l’“apporto seppure temporaneo che rappresentò per la causa del fascismo”. Dentro un lungo itinerario esistenziale Canali individua due momenti di crisi (nel 1932-1933 e nel 1939-1941), vi concentra la propria analisi e ne trae conclusioni assai pesanti. La sua analisi sconta tre limiti di fondo: 1. l’uso delle carte di polizia come fonte-principe; 2. la mancata verifica dell’attendibilità di un materiale d’archivio così particolare; 3. un insufficiente sforzo analitico, ovvero un serio deficit di elaborazione storiografica. Chiunque s’imbatta in documenti di un certo rilievo deve contestualizzarli, raffrontarli con altro materiale di origine differente e di argomento analogo, esaminarli criticamente, e infine interpretarli secondo la sua sensibilità e la sua professionalità. Cosa non deve fare, invece? Accettarli come veritieri in modo aprioristico, piegarli a tesi preconcette, forzarli ed esibirli in polemiche giornalistiche, continuare a difenderne la veridicità quando quegli stessi documenti risultano smentiti da nuove e più autorevoli fonti. Dall’analisi delle carte di polizia, integrate da fonti britanniche e da altra documentazione di vario genere, ho ricavato la convinzione che non esista un “caso Max Salvadori” ma, piuttosto, un utilizzo improprio della storiografia, con la trasformazione degli oppositori politici del regime da vittime in collaboratori dei loro persecutori. Max Salvadori ha vissuto un’esistenza lunga e avventurosa in tempi difficili: egli ha attraversato la crisi dello Stato liberale, l’ascesa e il consolidamento del fascismo, la lotta clandestina contro il regime, l’arresto, il confino, la fuga e l’esilio. Si è rifatto una vita all’estero, ha rinnovato il proprio impegno antifascista, si è arruolato come volontario nella seconda guerra mondiale, ha collaborato con i servizi segreti britannici, ha combattuto nella campagna d’Italia come ufficiale dell’esercito alleato tra il 1943 e il 1945, è stato ferito e decorato al valore, insignito della cittadinanza onoraria di 5. Mauro Canali, Le spie del regime, Bologna, Il Mulino, 2004, pp. 404-409. 37 Milano per il ruolo rivestito nella liberazione della metropoli. Dopo la sconfitta del nazifascismo ha svolto intensa attività culturale, compiuto ricerche di storia, insegnato all’università e ha costantemente sviluppato un forte anelito civile. Tutto questo nelle pagine del suo detrattore manca: non se ne tiene conto nemmeno sullo sfondo della narrazione, poiché i rari accenni in proposito sono funzionali alla contrapposizione di questa immagine positiva a quella di un dissimulatore e di un astuto collaboratore della polizia fascista, con esiti deleteri per la memoria di Salvadori. L’arresto e il cedimento del 1932 Il momento di crisi successivo all’arresto, determinato dalle percosse e dalla tortura psicologica, culminato in un tracollo nervoso, è stato ammesso e condannato dallo stesso protagonista. L’autobiografia di Salvadori si diffonde sul trattamento praticatogli dopo la cattura, ricostruisce i processi mentali che lo indussero alla confessione delle proprie responsabilità nella rete clandestina. Il 7 settembre 1932 scrisse a Mussolini per chiedere un atto di clemenza, ma una dozzina di giorni più tardi venne condannato al confino. Le autorità diplomatiche britanniche intervennero in suo favore, in quanto egli era cittadino del Regno Unito; al confinato fu chiesto l’impegno ad astenersi da ogni forma di attività segreta contro il governo italiano, impegno da lui sottoscritto. Nelle proprie memorie, in cui parla di sé in terza persona, Salvadori ha ricostruito a posteriori i processi mentali che lo indussero a un’abiura motivata dal desiderio di riacquistare la libertà: Inazione, scoraggiamento, confusione, alternarsi violento e doloroso di emozioni contrastanti, incapacità di valutare correttamente azioni e situazioni: questi i motivi che spiegano – e non giustificano – l’atto che per anni gli pesò sulla coscienza. Nei momenti in cui la disperazione giungeva al colmo, in cui lo terrorizzava il pensiero di rimanere solo, rinchiuso per anni fra quattro mura nude, di essere privato per sempre delle gioie che sono il patrimonio comune degli esseri viventi, si era venuta insinuando nella mente l’idea che qualsiasi cosa era lecita pur di poter uscire, pur di poter abbandonare quelle mura maledette che lo separavano dal mondo dei vivi. La fuga? impossibile. […] Vi era un mezzo semplice del quale molti si erano serviti, il mezzo che gli avevano fatto intravedere i poliziotti durante le interrogazioni. […] Se gl’imputati danno segno di essere moralmente distrutti, di non possedere più la 38 dignità necessaria a riunire altri cospiratori, di non essere che degli stracci, allora è possibile anche uscire dal carcere, ritornare tra i vivi. Che occorreva? due righe che avrebbero significato la differenza tra la vita e la morte, tra un’esistenza che non era più tale nelle celle oscure dei penitenziari e l’esistenza all’aria libera. Non doveva niente a nessuno; aveva fatto quanto aveva potuto; esule, era rientrato in Italia; giovane, si era privato delle gioie della gioventù per dedicarsi completamente all’azione contro la dittatura; si era assunto la responsabilità di quanto era successo, aveva fatto sì che un disastro nel quale potevano essere coinvolte centinaia e forse migliaia di persone si limitasse a meno di cinquanta. Ormai non poteva più far niente, e che importava un atto di abiezione se in cambio poteva abbandonare quelle mura? Ricordava le defezioni degli uni, la partenza per l’estero di altri, il rifiuto di tanti a compromettersi; che potevano importare le critiche di coloro che se ne stavano comodamente all’estero, di coloro che in Italia si guardavano bene dal compiere il minimo atto che ponesse in pericolo la loro tranquillità?6 Tornato libero, preparò accuratamente il passaggio all’estero, in barba ai controlli e agli obblighi cui era sottoposto. Stabilitosi in Inghilterra, riprese l’impegno antifascista. La beffa subita dal regime indusse Mussolini a prendersi nell’inverno 1933-1934, attraverso il capo della polizia Arturo Bocchini, una forma raffinata di vendetta: l’ambasciatore a Londra, Dino Grandi, fu sollecitato a rendere di pubblico dominio la lettera scritta al duce da Salvadori durante la prigionia, onde squalificarlo agli occhi degli esuli. Il piano riuscì soltanto parzialmente, in quanto gli esuli compresero il travaglio del loro compagno e – pur senza approvarne il comportamento – lo accolsero nuovamente tra di loro. L’episodio è rimasto, nella lunga biografia di Max Salvadori, come una macchia di cui egli stesso era consapevole, tanto è vero che il 20 agosto 1973 tornò sulla spiacevole questione con una missiva inviata al sovrintendente dell’Archivio centrale dello Stato, affinché fosse acclusa al fascicolo di polizia intestato allo stesso Salvadori dagli organi repressivi del regime fascista7; questa la parte centrale dello scritto: 6. M. Salvadori, Resistenza ed azione, cit., pp. 103-104. 7. Significativa la parte iniziale di un’annotazione autobiografica datata “San Tommaso 16.I.1971” e conservata tra le carte familiari Max Salvadori: “Avevo pensato – quando giunsi a Roma ai primi di giugno del 1944 – di impossessarmi dei fascicoli dell’OVRA che mi riguardavano. Dato che questo avrebbe significato aggravare gli errori compiuti nel lugliosettembre 1932 cercando di nasconderli, decisi di non farne niente”. 39 La lettera o “letterina” (nel gergo dei carcerati politici di allora) documenta il fatto che compii allora un atto di codardia. Non ho niente in contrario a che il fascicolo venga messo a disposizione di chiunque ne faccia richiesta: non ho mai nascosto il fatto di essere stato vile in quell’occasione. Non fui vile però durante il resto dei 22 anni durante i quali feci il poco che potevo fare contro la dittatura – dal 24 maggio 1923 quando venni percosso da condiscepoli fascisti che frequentavano la 5ª ginnasiale al ginnasio-liceo “Galilei” di Firenze, ai primi di maggio del 1945 quando ebbe termine l’incarico affidatomi nell’ottobre del ’44 dal Comando Alleato in Italia di agire come ufficiale di collegamento fra il Comando stesso ed il Comitato di Liberazione Alta Italia in Milano8. La crisi di Max Salvadori è un aspetto minore (e transitorio) dell’aspra lotta ingaggiata tra i dissidenti politici, dispersi e perseguitati, e la spietata dittatura mussoliniana: il momentaneo cedimento di un giovane militante, quando gli pareva di avere tutto contro e avvertiva di essere alla mercé del nemico. Un episodio certamente triste, sul quale – tanto più dopo la montatura creata ad arte dai fascisti in Inghilterra a inizio 1934 – non varrebbe la pena di insistere. Così non ha ritenuto Mauro Canali, che addirittura vi ha dedicato un supplemento di indagini, da una prospettiva moralistico-accusatoria che oggi – a oltre un settantennio di distanza dai fatti – risulta francamente fuori luogo: “Con una dichiarazione formale, in data 29 marzo 1933, Salvadori s’impegnava, qualora fosse stato liberato dal confino, a ‘non svolgere attività segreta di qualsiasi genere contro l’attuale Governo’. A seguito di questo doppio cedimento, Salvadori, il 17 [recte: 20] luglio 1933, riotteneva la libertà”. Attenzione alla concatenazione temporale: il prigioniero ha ceduto, però poi è espatriato clandestinamente per tornare a far l’antifascista… È irrilevante tutto ciò? Perché non dedicarvi una riflessione? Come si è visto, la missiva a Mussolini fu utilizzata dal regime per screditarne l’autore; si capisce benissimo che il capo della polizia abbia agito in quel modo: erano i metodi tipici della dittatura. Oggi la “letterina” è ripescata dagli archivi e rilanciata malevolmente da uno studioso, probabilmente inconsapevole di riproporre dinamiche per certi versi analoghe a quelle inscenate dai fascisti nel 1934 per danneggiare l’immagine dell’esule politico. 8. Copia della lettera è conservata presso l’Archivio Max Salvadori, custodito dalla Società operaia di mutuo soccorso di Porto San Giorgio (le carte sono attualmente in via di ordinamento e non è quindi possibile indicarne la collocazione). 40 Attacchi vecchi e nuovi Max Salvadori si è più volte trovato a fungere da bersaglio polemico. Egli è sempre stato considerato dai fascisti come un nemico giurato, tanto è vero che l’odio nei suoi confronti è sopravvissuto al crollo del regime. Non gli si perdonava l’azione compiuta durante la seconda guerra mondiale, durante la campagna d’Italia. Gli apprezzamenti di Cesare Merzagora, esponente di spicco del Comitato di liberazione nazionale dell’Alta Italia, nell’articolo Grazie, Max, pubblicato pochi giorni dopo la fine della guerra su un quotidiano liberale milanese9, attirarono sul loro autore l’ira dei neofascisti che alcuni anni più tardi lo definiranno “amico e confidente del famoso spione britannico Max Salvadori, ebreo oriundo italiano”, rinfacciandogli di avere rivolto “disgustose lodi al nemico che aveva svolto il compito di fomentare e indirizzare la guerra civile e coordinare l’opera dei vari segnalatori per il bombardamento delle nostre città”10. Quello di Canali non è, in ordine di tempo, che l’ultimo attacco contro Max Salvadori, sferrato sotto le apparenze del “mestiere di storico” ma non per questo meno pesante; le polemiche precedenti, perlomeno, avevano una logica chiara e una precisa ratio, quella odierna è difficile da spiegare. Quali le motivazioni dell’operazione? Scandalismo a buon mercato per frenesia di notorietà? Autoinvestitura nel ruolo di moralizzatore degli antifascisti (tramite utilizzo della documentazione di polizia)? Mancata elaborazione del lutto per tragedie familiari in campo spionistico?11 Una prosa pervicacemente accusatoria ignora le differenze esistenti tra il lavoro dello storico e quello del pubblico ministero, sostituisce all’equilibrio dello studioso la presunzione del moralista. Lo storico deve contestualizzare, comprendere tempi e personaggi, valutare gli individui sul loro arco esistenziale, nutrirsi con l’ingrediente del dubbio… La deontologia professionale sconsiglia l’emissione di giudizi categorici quando si disponga di pochi documenti, impone elementari norme di diffidenza quando si lavori su una 9. “La Libertà”, 7 maggio 1945. 10. Il razzista Merzagora, “Meridiano”, 24 maggio 1953. 11. Mauro Canali, convinto che un suo zio, il tipografo Alfredo Canali, morto a Mauthausen, fosse un paladino dell’antifascismo, gli dedicò anni addietro un libro; in realtà Alfredo Canali era una spia della Questura di Roma, infiltrata in Giustizia e Libertà, lo stesso movimento politico in cui militò Max Salvadori… 41 sola fonte (tanto più se pregiudizialmente di parte): i documenti non raccontano tutta una vita, non tutte le azioni che si compiono vengono annotate, non tutto ciò che si scrive è veritiero e di quanto è stato scritto non tutto si riesce a consultare. Non è corretto ignorare ogni elemento disutile alla strategia accusatoria, gonfiare i punti funzionali al teorema colpevolista, azzardare collegamenti improbabili tra eventi privi di connessione, interpretare fantasiosamente silenzi e vuoti di documenti senza considerare che in tempi di dittatura un oppositore che persegua un piano segreto blandisce l’interlocutore in vista del proprio obiettivo. Se lo storico avesse sottoposto a verifica le sue fonti, si sarebbe imbattuto in incongruenze sul genere della versione fornita da Salvadori il 12 dicembre 1939 all’emissario di Bocchini, Enrico Gozzi (“abile ed esperto fiduciario della Polpol”), così parafrasata da Canali: “Riferì […] d’aver chiesto di recente un anno di congedo per poter lavorare in una fabbrica di aeroplani. Il nuovo impiego gli aveva consentito il viaggio in Europa che stava effettuando. Era già stato in Inghilterra, dove vantava molte e solide amicizie e dove gli avevano offerto un buon posto al ministero della Pubblica Istruzione”12. Si trattava di incarichi di copertura, escogitati per dare plausibilità alla missione segreta: infatti Salvadori non lavorò mai in una fabbrica di aeroplani. Fonti italiane, fonti britanniche… Nel 1939-1941 (secondo Canali) si sarebbe realizzata una “completa sintonia d’intenti” tra Salvadori e la Polizia politica, un patto scellerato, mascherato nel dopoguerra da “ambiguità autobiografica” con “silenzio e depistaggio”13, elementi rivelatori di malafede a futura memoria. Premesso che “un altro caso di caduta nei confronti del regime fascista riguarda Max Salvadori”, lo studioso precisa che “i fatti esaminati prendono l’avvio a metà settembre 1939”. Da quel momento, null’altro che cedimenti e abiezione: detto eufemisticamente, un “periodo non particolarmente felice della sua battaglia antifascista”. Per giustificare un simile giudizio Canali “forza” il 12. M. Canali, Le spie del regime, cit., pp. 405-406. 13. M. Canali, Le spie del regime, cit., pp. 408-409. Le accuse di “ambiguità autobiografica” sono reiterate da Canali con leggerezza, senza premurarsi di consultare l’Archivio Max Salvadori, dove sono conservati numerosi appunti e memoriali autobiografici. 42 materiale a sua disposizione, sino a ignorare, nelle annotazioni di polizia, elementi di diffidenza nei confronti di Salvadori, presentato in alcuni documenti come insincero e ambiguo; al contrario, egli enfatizza e sottolinea ogni valutazione di apprezzamento dei funzionari fascisti per le posizioni dell’esule14. Un’attenta lettura di quel materiale rivela non già soddisfazione per il cedimento di un avversario, ma la disponibilità a giocare con l’esule una partita aperta ai più disparati sviluppi, da quello collaborativo a quello della sua cattura. Ad ogni buon conto, una copiosa documentazione di provenienza britannica – intrecciata con gli epistolari dell’Archivio Max Salvadori – consente finalmente di fare luce sul “periodo oscuro”. Canali ha escluso “che i contatti con la Pol[izia] pol[itica], documentati per un paio di anni, possano venire interpretati come un’azione concordata con altri”15. Si tratta di un giudizio ribadito nella corrispondenza coi parenti di Salvadori, sia pure con la precisazione che il loro congiunto non fu una spia: “La crisi di Max Salvadori tra il 1939 e il 1941 fu reale e non il risultato di un suo ‘doppiogioco’ in quanto agente dei servizi segreti inglesi. Questa è la mia convinzione di studioso che ha sempre anteposto i documenti ai ricordi e alle memorie dei protagonisti. Non ho mai ipotizzato in Max Salvadori un ruolo di spia, so perfettamente che così non è stato, e che la crisi lo ha indotto semplicemente a tirarsi da parte per un paio di anni dalla lotta al fascismo”16. Il teorema accusatorio è basato sulle sole carte fasciste, utilizzate come una documentazione probatoria e completa, rivelatrice del vero Salvadori. Impostazione incauta, contraddetta dalle fonti inglesi. Il file intestato a Max Salvadori negli archivi dei servizi britannici17 contiene una quantità di materia- 14. Tullio Mango, funzionario di polizia addetto all’attività all’estero, aveva espresso insoddisfazione per il contatto stabilito con Salvadori, ritenendo che le posizioni da lui assunte fossero generiche; non si capisce su quali basi, pertanto, Canali sostenga l’esistenza di una consonanza di vedute e di obiettivi tra l’esule e la Polizia politica, se non con l’isolare e utilizzare fuori dal contesto singole affermazioni, contraddette da altre provenienti dalla stessa fonte: la questione era anche in questo caso ben altrimenti complessa. 15. M. Canali, Le spie del regime, cit., p. 409. 16. Lettera di Mauro Canali a Clara Muzzarelli Formentini, 10 gennaio 2005 (ringrazio la signora Muzzarelli Formentini di avermi inviato copia della missiva, unitamente ad altra documentazione relativa a Max Salvadori). 17. Foreign Office Minute, in The National Archives, Public Record Office, Kew, HS9/1305/6. 43 le, inclusa una relazione del 3 marzo 1943 secondo la quale il nostro personaggio “nel 1940 si recò in Svizzera per conto di ‘C’” [“Visited Switzerland in 1940 on behalf of ‘C’”]. Ebbene, “C” era il massimo dirigente dei servizi segreti inglesi. Altri esponenti degli apparati riservati con i quali Salvadori ebbe contatti personali furono “David” (probabilmente un ufficiale della Military Intelligence), “Peter” (l’agente che ebbe più frequenti rapporti con Max) e un quarto personaggio indicato come emissario di “Mr. Jebb”. Le loro identità sono ancora oggi protette dal segreto di Stato, ma le rispettive collocazioni nei gangli dell’apparato segreto di Sua Maestà britannica appaiono certe. A fine agosto 1939 Salvadori presentò domanda di arruolamento nelle forze armate britanniche, senza esito: ufficialmente a causa della doppia nazionalità, ma forse per altri imprecisati motivi. A quel punto “David” gli sottopose un progetto d’azione: David gli chiese se se la sentiva, a titolo personale, di stabilire dei contatti per farsi un’idea, indipendentemente da quanto altri dicevano, della possibilità o meno che il regime entrasse in guerra, ed a quale prezzo sarebbe stato possibile ottenere che la non-belligeranza andasse per le lunghe. Servirsi dell’apertura per entrare in contatto con tre o quattro grossi papaveri fascisti conosciuti dieci anni prima, per inserirsi nell’ambiente viscido della “diplomazia clandestina” che non è diplomazia ma vendita all’asta di fumo e machiavellismo di bassa, bassissima lega, era cosa ripugnante. Ma vi sono occasioni in cui è necessario non essere schizzinosi, e questa era una di quelle occasioni. Altro che chiacchiere da caffè o da salotto! altro che fuochi d’artificio retorici! Con la macchina da guerra tedesca in azione erano in gioco le sorti non solo dell’Italia (passi) e del Regno Unito (passi anche questo) ma le sorti della libertà, cioè del progresso e, a lungo andare, forse anche quelle della sopravvivenza dell’umanità i cui problemi non possono essere risolti senza la creatività che il totalitarismo sopprime18. La “diplomazia segreta” proseguì per qualche tempo (come si vedrà più avanti), poi, verificata nuovamente l’impraticabilità dell’arruolamento, Salvadori sviluppò una sua iniziativa personale di verifica delle potenzialità frondiste dentro l’Italia in guerra, una forma rischiosa di azione clandestina: “Se in uniforme, avrei ubbidito, se in abiti civili decidevo io. […] Pur sem- 18. Trascrizione dal dattiloscritto approntato da Max Salvadori per la seconda edizione di Resistenza ed azione (cit., p. 169), dove tuttavia è omessa la parte iniziale della considerazione. 44 brando sciocco, sentivo profondamente che questa era la ‘mia’ guerra: volevo e la coscienza mi diceva che dovevo ‘far di più’”19. Mentre l’Europa precipitava nella guerra e il nostro paese rimaneva neutrale, l’esule concepì il progetto di una missione segreta che gli consentisse di riprendere contatto con l’Italia, di studiare la possibilità del protrarsi della neutralità, di individuare l’estensione delle posizioni antigermaniche tra le gerarchie del regime. Dell’azione clandestina venne tenuta al corrente l’Intelligence britannica, che riteneva l’Italia una potenza militarmente temibile e sperava restasse estranea al conflitto europeo. I rapporti intrattenuti tra Salvadori e i servizi inglesi sono documentati dal copioso dossier del settembre-ottobre 1939, contenente – insieme a vario materiale di straordinario rilievo – dieci fitte cartelle dattiloscritte datate 28 settembre e intestate Mr. Max Salvadori: Propaganda in Italy in favour of the Allies20. Il memoriale esplicita le linee-guida della strategia prospettata ai vertici dell’Intelligence, in un’azione “coperta” giustificata dalla persistente incertezza sulla collocazione italiana nella guerra europea (“Italy is neutral and the government is uncertain on the attitude which should be adopted”), peraltro senza spazi di manovra dal basso dato che la partita era giocata da un’oligarchia (“Propaganda must be addressed to them much more than to the masses”) in parte ostile ai tedeschi. Il memoriale è postillato da dirigenti dell’apparato politico-militare britannico con valutazioni discordi. Un parere assolutamente favorevole venne fornito da Sir Laurence Collier, del Foreign Office, concorde sull’opportunità indicata da Salvadori di una forma di “contenimento” dell’influenza germanica nei circoli dirigenti italiani21. Al contrario, Sir A. Noble sottolineò come l’azione di “underground propaganda” caldeggiata dal memorandum avrebbe potuto produrre risultati positivi, ma che di gran lunga maggiori apparivano le controindicazioni: “I do not say that such propaganda would not produce results, but it would certainly be 19. Testimonianza di Max Salvadori nella sua introduzione all’antologia del periodico Mazzini News. Organo della Mazzini Society (1941–1942), a cura di Lamberto Mercuri, Foggia, Bastogi, 1990, pp. 11-12. 20. In testa al dossier compare la seguente precisazione da parte del Foreign Office, risalente al 6 ottobre 1939: “Requests Southern Department views on memorandum by Mr. Salvadori, now employed by authorities known to Mr. Jebb, on ‘Propaganda in Italy in favour of the Allies’”. 21. Sir Laurence Collier, cugino di primo grado della madre di Max Salvadori, più di ogni altro funzionario britannico favorì i progetti di Salvadori in direzione dell’Italia. 45 dangerous and I think at the moment unnecessary and unwise”22. Intermedia la posizione di un terzo interlocutore, “Mr. Nichols”, che il 16 ottobre 1939 così riassunse le proprie vedute sul progetto elaborato da Salvadori: “These proposals may be potentially advantageous, but it is equally certain that they are potentially dangerous”. Divergenze che rispecchiavano una pluralità di approcci in tema di politica estera. Alla fine la proposta di Salvadori fu lasciata ufficialmente cadere, in quanto ritenuta troppo arrischiata: poteva infatti avvenire che, dentro un raffinato gioco politico-spionistico, l’ala filonazista capitanata dal segretario del PNF Starace cogliesse l’occasione propizia per smascherare ed eliminare gli esponenti della corrente moderata del fascismo, tacciandoli d’intesa col nemico e togliendo così di mezzo un settore della classe dirigente che – al momento propizio, in parallelo all’andamento della condotta bellica in senso sfavorevole all’Asse – avrebbe giocato un ruolo interlocutorio con gli anglo-americani. Nonostante la mancata approvazione del progetto, il suo autore agì nella direzione prospettata ai servizi britannici, e di ciò tenne informato Laurence Collier, il funzionario di raccordo tra Foreign Office e apparati segreti cui era maggiormente legato. Si verificò insomma un fatto non infrequente nel giro dei servizi segreti di ieri e di oggi: dinanzi a un piano delicato, aperto a esiti positivi ma potenzialmente foriero di risultati disastrosi, l’istituzione resta formalmente estranea al progetto, tutelandosi in caso di ricadute negative, mentre si lascia che il piano abbia un suo iter e ci si mantiene aggiornati sulla sua evoluzione. L’attivismo di Salvadori in tal senso è comprovato da altri due memorandum del medesimo arco temporale: una relazione in lingua italiana sulla propaganda antinazista e un rapporto in francese sull’attivazione di una radio clandestina (questo secondo documento venne composto insieme a un’altra persona). Il 29 novembre 1939, quando era convinto di rimpatriare in missione segreta, l’esule si premurò di annotare in un “memoriale a futura memoria” (“In case I go to Italy and some accident happens there…”) i contatti intercorsi con la polizia del regime. Il documento – affidato a Laurence Collier – 22. Noble contrappose al memoriale di Salvadori una dettagliata analisi della situazione italiana, centrata sul ruolo determinante di Mussolini e sull’opportunità di un’azione propagandistica molto cauta, ben diversa da quella “avventurosa” prefigurata dall’esule alle autorità britanniche: “Time is on our side and if we can also make it profitable for the Italians to remain neutral we are likely to achieve the results we desire without running the dangerous risks involved in Mr. Salvadori’s scheme”. 46 sarebbe servito, in caso di arresto (e, presumibilmente, di fucilazione), a ristabilire i contorni della verità attorno alla missione dello stesso Salvadori, per salvaguardarne la memoria. Gli otto fogli autografi (introdotti dall’avvertenza “In no account should the enclosed memorandum be published. It can be used but non printed”) sono suddivisi in due sezioni: Relations with official Italy e Why I decided to go. Vale la pena di tradurne la premessa: Se non fosse scoppiata la guerra, in questo istante mi troverei all’Università di St. Lawrence, impegnato nell’insegnamento della sociologia e dell’economia. Invece eccomi in Inghilterra. Quando sono in gioco i destini della nostra civiltà europea, sento che come europeo profondamente legato ai valori basilari della cultura occidentale, il mio posto si trova da questa parte dell’Atlantico. Mentre ero in Inghilterra qualcuno prese contatto con me e prospettò la possibilità di un viaggio in Italia, il Paese che lasciai oltre sei anni addietro. Ma prima di intraprendere un viaggio che potrebbe avere gravi conseguenze per me, è opportuno che io fissi sulla carta ciò che è avvenuto finora nelle mie relazioni con l’Italia ufficiale, e anche come e perché ho deciso di correre il rischio di questo viaggio23. La prima parte del memorandum riassume l’itinerario politico-esistenziale degli anni trenta, inclusi i rapporti epistolari intercorsi col capo della polizia Bocchini nell’ambito di un gioco complesso e rischioso che poteva costare a Salvadori la caduta “in una trappola simile a quella in cui furono uccisi i fratelli Carlo e Nello Rosselli”. Anche i contatti epistolari intercorsi con Adriano Menghi (utilizzati da Canali come prove a carico), vengono esplicitamente richiamati in queste pagine. Le ragioni della strategia fascista sono riferite a due piani alternativi: a) La volontà di preparare una trappola nella quale sarei caduto come in passato è avvenuto a Cesare Rossi [sequestrato dalla polizia a Campione d’Italia nel 1928 e condotto illegalmente nel Regno – ndr] e ai Rosselli. b) La volontà di ottenere da me una dichiarazione di lealtà al governo fascista o almeno la promessa che in questa fase in cui il governo fascista prepara il terreno per una trattativa con le democrazie io mi astenga da critiche al fascismo italiano. 23. Il memoriale è custodito da Clement Salvadori, insieme a un plico di altre carte paterne, nella propria abitazione di Atascadero, California. 47 Da parte sua, Salvadori motiva il proprio comportamento con due progetti: 1. verificare la possibilità di un mutamento della politica estera fascista, in senso contrario alla Germania e favorevole agli Alleati; 2. accertare l’esistenza, ai vertici del regime, di personalità frondiste. Ipotesi che valutate col senno di poi risultano irrealistiche e sbagliate fin nelle premesse (di ciò Salvadori si sarebbe reso conto nel 1942), ma che – calate nel contesto dell’autunno 1939 con l’Italia neutrale dentro l’Europa in guerra – avevano una qualche plausibilità da parte di un trentunenne da tempo forzatamente ignaro della situazione interna del paese e della (im)possibilità di una liberalizzazione del regime: “Having being away from Italy for six years, it is of course difficult for me to judge about the situation there”. L’azione segreta richiedeva contatti ravvicinati con funzionari dell’apparato fascista e prevedeva addirittura una rischiosa missione in Italia. Di questa attività “coperta” Canali ha colto solamente i segnali di Salvadori nei confronti dell’apparato poliziesco-diplomatico fascista; scartata a priori la possibilità dell’azione proposta ai servizi britannici e della missione personale in funzione anti-Asse, ha preso per veritiere le versioni “addomesticate” per la polizia e per l’ambasciatore a Londra. Diplomazia parallela e missione segreta La spiegazione logica e coerente degli approcci di Salvadori agli apparati del regime consiste in una forma combinata di diplomazia parallela e di azione coperta; un tentativo, sia pure nella consapevolezza dei minimi margini di manovra, di contattare personalità e settori del fascismo ostili nei confronti dei tedeschi, per rimpatriare e valutare gli spazi di mantenimento della neutralità italiana. Vi è il significativo precedente del 1929 quando, in previsione del rimpatrio per il lavoro clandestino con Giustizia e Libertà, Salvadori aveva assunto pubblicamente posizioni nazionaliste e concordanti con determinati punti della politica estera fascista, in funzione di copertura dell’azione illegale. Aveva per esempio licenziato la monografia L’unità del Mediterraneo24, utile al suo accreditamento di intellettuale compagno di strada del regime. In questa finalità segreta è racchiusa la chiave per decrit- 24. Il testo originale della monografia venne stilato l’estate 1929, pochi mesi prima del rimpatrio (cfr. il manoscritto conservato presso la Società operaia di Porto San Giorgio). 48 tare – disinnescandone il potenziale deflagrante – le “confidenze” del 19391940 a emissari fascisti. Nella fluida situazione della neutralità italiana la diplomazia clandestina, mirante al contatto con personalità antitedesche, aveva un fondo di plausibilità. Secondo l’allora capo della Polizia politica, Carmine Senise (il futuro stratega della destituzione mussoliniana del 25 luglio 1943), Badoglio “si dichiarò apertamente contrario alla nostra entrata nel conflitto a causa delle condizioni del nostro esercito”25. In risposta agli abboccamenti con funzionari di polizia, Bocchini il 30 dicembre 1939 scrisse a Salvadori: “prendi accordi con S.E. Bastianini, al quale puoi presentarti”; proprio ciò che l’interlocutore desiderava. Seguirono due incontri tra l’esule e l’ambasciatore. Di questi appuntamenti Canali utilizza – al solito, senza la minima sorveglianza critica – il riassunto stilato da Giuseppe Bastianini per trovarvi la prova provata del cedimento di Salvadori, ovvero la diserzione dalla lotta antifascista. I giudizi di Bastianini sono commentati nel modo più banale quali attestati della crisi morale del suo interlocutore, mentre potrebbero dimostrare sia l’abilità nell’accreditarsi agli occhi dell’ambasciatore sia l’ingenuità di Bastianini nel “bere” ciò che il suo visitatore aveva preparato. Dal punto di vista di Salvadori, infatti, quegli incontri servivano 1. a sondare Bastianini, per riferirne l’orientamento ai servizi segreti; 2. quale viatico per “poter essere riammesso nella famiglia italiana e rientrare nel Paese”26. Le analisi di Canali si fermano alla superficie, o meglio alle apparenze, e ignorano i rapporti dei servizi alleati su Bastianini, individuato tra le personalità ostili ai tedeschi, oltre a trascurare l’intesa stretta tra il ministro degli Esteri Ciano e l’ambasciatore a Londra: “Bastianini se non è un’aquila, è però persona molto fidata ed estremamente partigiana della politica di non intervento. Sono sicuro che renderà dei servigi importanti”27. L’autobiografia di Bastianini restituisce un quadro aperto ai più diversi sbocchi e offre indiretta plausibilità alle analisi politiche di Salvadori: al momento di partire verso Londra, l’ambasciatore aveva infatti sondato il 25. Carmine Senise, Quando ero capo della polizia, Roma, Ruffolo, 1946, p. 38. 26. Cfr. – nelle carte familiari custodite da Clement Salvadori – copia delle relazioni consegnate da Max Salvadori a Bastianini e i rapporti stilati per il Foreign Office sull’andamento dei contatti con l’ambasciatore italiano a Londra. 27. Annotazione diaristica del 15 settembre 1939, ora in Galeazzo Ciano, Diario 19371943, a cura di Renzo De Felice, Milano, Rizzoli, 1990, p. 347. 49 re in senso antigermanico, trovandolo però assai freddo verso un simile progetto28. L’abboccamento con l’ambasciatore rientrava insomma nella strategia prospettata a inizio autunno 1939 ai servizi segreti, una strategia che – seppure formalmente respinta – fu nondimeno esperita da Salvadori, come è dimostrato tra l’altro dai due dettagliatissimi memoriali col resoconto dei colloqui intercorsi il 17 e il 24 gennaio 1940: A meeting with the Italian Ambassador. Oltre alla trascrizione del dialogo, Salvadori annotò per i suoi interlocutori (probabilmente Collier e, per suo tramite, alti funzionari di Sua Maestà) le aspettative e le impressioni riportate: “Inizialmente ebbi l’impressione di una personalità forte e intelligente. Quando ci siamo lasciati, la mia opinione si era modificata considerevolmente ed era senz’altro meno lusinghiera. Ho anche percepito che l’Ambasciatore era assai sincero e devoto al suo capo” [At first I had the impression of dealing with a strong and intelligent personality. By the time we had finished, my opinion had changed considerably and was undoubtedly less flattering. I also felt the Ambassador to be rather sincere and devoted to his master]. Sino ai primi mesi del 1942 Salvadori si premurò di nascondere alle autorità diplomatiche italiane le sue vedute politiche e il perdurante impegno antifascista. Copia di un rapporto dell’Ambasciata a Washington (con l’osservazione “che il noto Prof. Salvadori-Paleotti durante la sua permanenza negli U.S.A. si è astenuto da qualsiasi azione antitaliana, mostrando anzi nei contatti che ha avuto occasione di mantenere con la Rappresentanza [diplomatica] di essersi ravveduto nei suoi sentimenti verso il Regime e di nutrire il desiderio di rientrare in Italia non appena le condizioni internazionali ne consentano la materiale possibilità”)29 è conservata tra le Carte Salvadori, con una significativa postilla autografa del presunto “ravveduto”: “Fra i tanti progetti vi fu quello di rientrare legalmente in Italia (come già fatto nel ’29), con lo scopo di organizzare ‘frondisti’ per attività rivolte a rovesciare il regime – M.S. 7.XI.1990”. 28. Giuseppe Bastianini, Uomini, cose, fatti. Memorie di un ambasciatore, Milano, Edizioni Vitagliano, 1959, p. 70. (riedizione: Volevo fermare Mussolini: memoria di un diplomatico fascista, Milano, Bur, 2005). 29. Il giudizio dell’Ambasciata d’Italia a Washington nella trascrizione della Direzione generale della pubblica sicurezza, Roma, 27 gennaio 1942 (copia fotostatica presso l’Archivio Max Salvadori). 50 Occultamenti strategici o cecità dello storico? Canali interpreta il rilascio del passaporto e il permesso di rivedere l’anziana madre (sottoposta ad occhiuta sorveglianza nella sua abitazione marchigiana) come l’esito del cedimento morale e della collaborazione con la polizia. Egli insiste sulla crisi psicologica dell’antifascista, mentre la questione è ben diversa e assai più complessa: la polizia prestava fede alle dichiarazioni “addomesticate” di Salvadori, oppure fingeva di credergli per attirarlo in trappola? Di questa seconda ipotesi era per esempio convinta sua madre, Giacinta Galletti, che il 4 aprile 1940 allertava il figlio: “Mi è stato detto ora da persona competente: ‘Non ti lasciar attirare – è pericoloso, molto pericoloso’, specialmente in tempo di guerra…” e sei giorni più tardi (mentre Max si trovava a Ginevra per un abboccamento con emissari della Polizia politica) ribadiva le ragioni della diffidenza: “Dopo gli ultimi gravi avvenimenti immagino che non pensi più di venire qui. Non c’è assolutamente da fidarsi, qualunque lusinga facciano”30. “Furono naturalmente prese rigorose precauzioni per non far trapelare nulla sul nuovo atteggiamento di Salvadori”, precisa Canali31; in realtà l’adozione di cautele non prova nulla, poiché la riservatezza era nell’interesse di ambedue le parti, quali che fossero le rispettive strategie. Anche Salvadori prese “rigorose precauzioni” e avvertì i direttori di diversi giornali e periodici britannici e statunitensi, cui passava relazioni e commenti di politica estera, di non indicare il suo nome nell’utilizzare il copioso materiale da lui inviato. Per il 1940-1941 ciò si verificò sicuramente per le testate “The Observer”, “Weekly Review”, “Time & Tide”, “News Chronicle” e “The Reform Club”, secondo quanto risulta dalle Carte Max Salvadori custodite dalla Società operaia di Porto San Giorgio e dai parenti (una mole di materiale impressionante, che lo studioso non si è sentito in dovere di consultare prima di dare alle stampe il suo libro né al momento di aggravare le accuse nei successivi interventi giornalistici). A mo’ di esempio, ecco la parte iniziale della lettera del direttore del settimanale londinese “Time & Tide”: 30. Lettere di Giacinta Salvadori 1933-1941, Porto San Giorgio, Tipografia Segreti, 1953, p. 116. 31. M. Canali, Le spie del regime, cit., p. 408. 51 Dear Mr. Salvadori, It was extremely kind of you to send us those notes on Italian opinion. How interesting they are. I note that they are not [sic] for publication so we have used them purely as a reference and as a background to the editorial notes we have written on Italian affairs. We get only the smallest fragments of information about Italy through our normal channels. Your memorandum has been most useful in filling in the picture32. La missiva si chiudeva con l’invito a un incontro, per discutere in via riservata cosa fosse opportuno utilizzare e cosa tenere riservato delle informazioni fornite da Salvadori: “We might be able to talk over what it is wise, and what unwise, to publish” (l’incontro si tenne quattro giorni più tardi). Contestualmente anche il direttore di “The Observer” ringraziava Salvadori “for giving him an opportunity of seeing your confidential memorandum on Italy and the European War”33. Ciò, oltre a escludere che l’antifascista si fosse chiuso in una posizione passiva, evidenzia il suo ruolo di “orientatore” di una parte non insignificante della stampa britannica rispetto alla situazione italiana, su cui gli opinionisti inglesi difettavano di informazioni di prima mano. Ma vi è di più. La corrispondenza del primo semestre del 1940 attesta una serie di appuntamenti con esponenti di spicco del ceto politico e dell’apparato militare di Sua Maestà: funzionari del Foreign Office, ufficiali del War Office, dirigenti del Partito liberale e del Partito laburista cui Salvadori presentò “dei suggerimenti sul come avrebbe potuto essere svolta un’azione per impedire una partecipazione dell’Italia alla guerra come alleata della Germania”, in considerazione del fatto “che la mancata partecipazione dell’Italia al conflitto armato avrebbe privato la Germania di un aiuto militare efficace”34. Alcune annotazioni di emissari della Polizia politica, che trascrivono presunte dichiarazioni di Salvadori, servono a Canali per dimostrare lo sbandamento dell’esule, senza manco ipotizzare che quelle espressioni – ammesso che siano state effettivamente pronunziate nei termini riferiti – non ne rispecchiassero le convinzioni interiori ma puntassero ad accreditarlo come interlocutore disponibile in vista di un progetto segreto. C’è in tutto questo 32. Lettera dell’8 febbraio 1940 (Archivio Max Salvadori). 33. Lettera dell’8 febbraio 1940 (Archivio Max Salvadori). 34. Dal memoriale di 24 pagine scritto il 10 settembre 1945 per Michele Cantarella, foglio 4 (Archivio Max Salvadori). 52 un’ingenuità metodologica: non si può prendere alla lettera (confermando e amplificando) ciò che è scritto nelle carte della polizia fascista senza interrogare le fonti né interrogarsi sulla loro credibilità; in questo modo si addiviene a un uso paragiudiziario delle carte di polizia, si smarrisce l’orizzonte storiografico e si scade in un cronachismo deformante. A pagina 407 di Le spie del regime figura una frase rivelatrice di un approccio ancillare alle fonti di polizia: “Non si hanno documenti sufficienti per accertare compiutamente come si sviluppasse la successiva attività di Max Salvadori nella direzione annunciata ai dirigenti fascisti; quello che risulta è che la polizia politica si mostrò molto soddisfatta del nuovo atteggiamento assunto dal vecchio avversario”. Il fatto è che: a. il piano di Salvadori rimase incompiuto e privo di sbocchi operativi; b. la polizia politica fu ingannata, oppure finse di stare al gioco. Così Salvadori ha ricordato il tramonto del suo progetto: “Trovai poca eco per quello che cercavo di spiegare e di fare. Convintomi che l’Italia sarebbe entrata in guerra e che la Gran Bretagna non avrebbe fatto niente, essendomi stato rifiutato di entrare nell’esercito, non mi rimase altro che ritornare negli Stati Uniti per riprendere l’insegnamento a St. Lawrence”35. Un’altra considerazione completa i contorni del quadro: “Si fanno piani, ma l’azione concreta ha poco a vedere con i piani stessi”36. Riprendiamo l’esame critico delle acquisizioni di Canali: “Non sappiamo molto su quali sviluppi ebbero tali rapporti [non male, per un ‘caso eccellente’]. È tuttavia accertato [dallo stesso Canali] che i toni della corrispondenza tra Salvadori e la Polpol, che continuò almeno fino al giugno 1941, lasciano trapelare una completa sintonia d’intenti”37. Viene esclusa la possibilità “che Salvadori stesse obbedendo a direttive emanate dai servizi segreti stranieri”, senza immaginare che Salvadori potesse avere impostato il piano, lo avesse quindi sottoposto ai servizi e infine ne avesse sperimentato le possibilità di successo, tenendone aggiornati passo passo dirigenti dell’apparato statale britannico. Al già pesante bagaglio accusatorio Canali ha aggiunto un ulteriore capo d’imputazione: il ritiro da Giustizia e Libertà come frutto di cedimento morale, merce di scambio con la polizia. Ben altro quadro emerge dalla corrispondenza d’epoca, con la spiegazione delle ragioni politiche del distacco 35. Dal citato memoriale di Salvadori per Cantarella, foglio 5. 36. Testimonianza di Salvadori in Fascismo e antifascismo, Milano, Feltrinelli, 1962, p. 499. 37. M. Canali, Le spie del regime, cit., p. 408. 53 di Salvadori da GL, richiamate compiutamente in un memoriale inviato a Magrini (Aldo Garosci): Caro Magrini, Ti ringrazio per la tua lettera del 31 gennaio, ricevuta alcuni giorni or sono. Ignoravo che fossero rimasti dei dubbi per ciò che concerneva la mia decisione, che ti comunicai nel gennaio dell’anno scorso, di non riprendere la tessera. Come mi venne detto più volte da membri del Comitato Esecutivo, vi è stata, durante questi ultimi anni, una notevole trasformazione in Giustizia e Libertà, in particolare nei riguardi della tendenza socialista. Nel caso mio personale, le concezioni che ho nei confronti dei problemi politici e sociali sono rimaste fondamentalmente le medesime di quelle che erano dieci anni fa; al tempo stesso, le mie idee si sono modificate notevolmente per ciò che riguarda i mezzi con i quali certi fini politici possono essere raggiunti. Vi sono così due serie diverse di fattori che hanno contribuito ad aumentare la distanza tra Giustizia e Libertà e me: mentre il movimento accentuava il suo carattere socialista, io restavo un liberale; mentre il movimento rimaneva ispirato da uno spirito rivoluzionario, gravi dubbi si facevano strada nel mio spirito nei riguardi dell’azione rivoluzionaria e della sua utilità […]. Ti prego di credere che non sono stati dei motivi di carattere personale che mi hanno indotto, or è più di un anno, a prendere la decisione che ti comunicai nel gennaio ’39. Io non sono in condizione di approvare o di disapprovare le vostre idee e i vostri programmi: ciò è cosa che vi riguarda. Ma vi sono troppe differenze su questioni fondamentali perché io possa ritornare oggi sulla mia decisione38. Tra le ragioni del ritiro dalla militanza di partito campeggiava l’insoddisfazione per le liti intestine e le accanite polemiche che dividevano il microcosmo degli esiliati politici. Su ciò si diffonde la Memoria sul settarismo inviata ad Alberto Cianca nel medesimo periodo: “Settarismo che io considero una delle piaghe maggiori della vita politica italiana ed il peggiore avversario della democrazia. Sembra che la mentalità italiana non riesca a concepire un movimento politico in cui collaborino onestamente persone che abbiano concezioni e tendenze diverse”39. Analoghi concetti affiorano 38. Parte introduttiva e conclusione del memoriale di Max Salvadori a Magrini, 18 febbraio 1940, fogli 1 e 4 (Carte Max Salvadori, presso Clement Salvadori). 39. Questo stralcio del citato memoriale di Max Salvadori a Magrini fu inviato anche a Cianca (Archivio Max Salvadori), a riprova della centralità, dalla visuale di Salvadori, del problema del settarismo quale palla al piede di GL. 54 nel corso delle polemiche che opposero Salvadori alla stampa comunista e filocomunista italo-americana, come nella lettera scritta al direttore del giornale di New York “L’Unità del Popolo”: Ritengo tutto il fuoruscitismo italiano (come quello di molti altri paesi) politicamente liquidato. Ho manifestato a più riprese questa mia opinione personale. La risurrezione delle nazioni europee sarà opera di quelli che sono rimasti in patria. Da quattro anni mi rifiuto di partecipare alle lotte ridicole che poche diecine di persone si fanno gli uni agli altri. Tale partecipazione costituirebbe solo una perdita di tempo e in questo momento non si può stare a perdere tempo. Ciò non vuol dire che non sono disposto a dare, nella misura delle mie modeste possibilità, quell’aiuto che posso dare, e che ho dato, a quanti corrono il rischio di essere fucilati se restano dall’altra parte e a quanti hanno avuto il coraggio di restare dall’altra parte dell’Atlantico40. Sul tema del distacco da GL Salvadori ritornerà qualche mese dopo la Liberazione in una lettera diretta a Michele Cantarella, per ribadire la validità del memoriale inviato nel febbraio 1940 a Garosci: “Quando ho incontrato persone che mi conoscevano, ho sempre messo in chiaro che avevo dato le mie dimissioni da Giustizia e Libertà nel 1939 perché ritenevo che i giellisti (che da anni non erano più liberali) non erano più neppure democratici (naturalmente nello spirito e nelle azioni perché a parole erano democratici come tutti gli altri). Le ragioni delle mie dimissioni erano contenute in una lettera di 3.000 parole inviata a Garosci”41. Un “disertore” insolitamente dinamico Canali è convinto che nel 1939-1941 Salvadori abbia disertato la lotta politica, con un comportamento caratterizzatosi, a paragone “degli altri leader antifascisti esuli, [come] una vera anomalia”; lo storico ironizza sulla “sua coerente attività antifascista all’estero, che in realtà in quel periodo era cessata”42. Al contrario, i contatti di Salvadori con la Polizia politica e con l’ambasciatore a Londra costituivano essi stessi una rischiosa modalità di 40. Lettera del 1° ottobre 1942 (Archivio Max Salvadori). 41. Lettera del 29 ottobre 1945 (Carte Max Salvadori, presso Clement Salvadori). 42. M. Canali, Le spie del regime, cit., p. 409. 55 attività antifascista. A smentire anche qui le tesi accusatorie vi è la realtà fattuale, ovvero la dimostrazione non soltanto della prosecuzione dell’“attività antifascista all’estero” nel 1939-1941, ma addirittura della sua intensificazione, proprio nel periodo “incriminato”. Tra fine estate e inizio autunno 1940 Salvadori operò negli Stati Uniti per condizionare in senso democratico la comunità dei nostri immigrati tenendo incontri e conferenze: il 12 ottobre, per esempio, fu oratore al convegno di Amsterdam (USA) per il banchetto annuale di 22 organizzazioni italoamericane nell’anniversario della scoperta dell’America. Quattro giorni più tardi ne scrisse a Salvemini: Tra gli altri oratori c’erano un congressman, uno State Senator, il sindaco (inglese d’origine), il vice-console italiano di Albany (che non venne), un paio di preti, ecc. Era la prima volta che mi rivolgevo ad un gruppo non già di anti-fascisti ma di Italo-Americani che hanno nei confronti del Fascismo un’attitudine ben diversa da quella degli anti-fascisti e che non è necessariamente un’attitudine fascista. […] Nel mio discorso insistei sul fatto che una vittoria tedesca sarebbe un disastro per l’Italia e che è nell’interesse non solo degli Stati Uniti ma anche dell’Italia se la Germania non vince la sua guerra contro la Gran Bretagna. Mi hanno guardato sorpresi, ma spero che alcuni abbiano compreso43. Si trattava della linea – sostenuta da Salvemini in esilio e da Ernesto Rossi al confino di Ventotene – definibile nei termini di “perdere per vincere”, posizione che nel dopoguerra verrà richiamata dai nostalgici fascisti quale prova del tradimento da parte dei “fuorusciti”, quinta colonna degli angloamericani. L’inverno 1940-1941 Salvadori collaborò con i gruppi della milizia antinazista attivi nel nord-est degli Stati Uniti contro gli italiani filofascisti. Questo è soltanto uno dei riscontri che contraddicono la versione di un 43. In sede di convegno (cfr. le registrazioni conservate presso la Società operaia di Porto San Giorgio), Canali ha giudicato inverosimile l’intervento di Salvadori in veste di oratore negli Stati Uniti, con la motivazione… del silenzio delle carte fasciste su questo aspetto della sua attività, che certo – secondo le convinzioni di Canali – non sarebbe sfuggito agli agenti del regime. Notevole riprova del livello di subordinazione psicologica accumulato dallo studioso nei riguardi delle carte fasciste. Quell’attività oratoria è documentata da diversi resoconti giornalistici, ritagliati da Max Salvadori e oggi conservati presso i fondi archivistici della Società operaia di Porto San Giorgio. 56 Salvadori inattivo e connivente col regime. Versione che prende per buona la storiella raccontata dallo stesso Max all’Ambasciata italiana di Washington: di prepararsi cioè a una trasferta in Messico come redattore di agenzia giornalistica, con l’impegno di non “trattare comunque argomenti riguardanti l’Italia”. La verità è ben diversa: dal giugno 1940 Salvadori operò a New York, in Messico e in America centrale quale emissario della British Intelligence – “outside agent”, denominazione in codice: G 408 – per neutralizzare una radio clandestina filonazista, come ora apprendiamo da un rapporto del 1943 incluso nel suo file personale: “From June 1940 to present date has worked in USA and Mexico for SOE”; in un mese di investigazioni l’emittente di Città del Messico fu individuata e disattivata. Dopo quasi tre anni di impegno, il suo lavoro venne definito encomiabile per abilità, energia e integrità: “G. 408 was outside agent in New York and member of staff in Mexico. Have highest repeat highest opinion of his ability, energy and integrity and heartily recommend” 44. Contestualmente la Regia Ambasciata d’Italia a Washington assicurava l’Ambasciata in Messico che il signor Massimo Salvadori-Paleotti era “persona di buona condotta morale”, a riprova dell’abilità con cui l’agente britannico sapeva muoversi. Involontario riconoscimento di professionalità a un agente segreto nemico. A un certo punto della sua ricostruzione Canali, resosi conto che la rappresentazione dei rapporti idillici tra l’esule antifascista e la polizia non tiene, ammette che “qualcosa tuttavia accadde tra il giugno e il luglio 1941, che provocò la rottura dei rapporti”45. Incapace di chiarire cosa avvenne, egli chiama in causa l’“ambiguità autobiografica di Max Salvadori”. Se invece di lanciare accuse a vuoto Canali avesse letto l’autobiografia di Salvadori, avrebbe trovato la spiegazione all’interrogativo: Incontrò a Berna un emissario… di chi? dell’OVRA? del SIM? degli Esteri? di gerarchi frondisti? Vide altri gerarchi camuffati da diplomatici. Faceva da esca il progetto di un corridoio dalla Libia all’Africa Orientale o al Golfo di Guinea, di internazionalizzazione di passaggi obbligati. Aveva amici del tempo di quando frequentava l’Università che viaggiavano e tenevano gli 44. Telegramma cifrato da New York, 4 marzo 1943 (The National Archives, Public Record Office, Kew, HS9/1305/6). 45. M. Canali, Le spie del regime, cit., p. 408. 57 occhi aperti. Messi insieme i pezzi del “puzzle” – cosa non difficile – riassunse in una breve relazione la sua valutazione: il regime fascista non si sarebbe staccato da quello nazionalsocialista46. Il vuoto esplicativo in cui si è venuto a trovare Canali dipende dal fatto che le sole fonti di polizia sono inadeguate a spiegare il comportamento dell’attivista antifascista. Accadde che, dopo il tentativo di protrarre la neutralità italiana (obiettivo iniziale dei contatti con esponenti dell’apparato poliziesco e diplomatico italiano), svanì pure la fiducia sulla praticabilità di un’azione frondista che innescasse o accelerasse una congiura di palazzo: in effetti, nell’estate 1941 un simile scenario era del tutto irrealistico. Il rovesciamento della verità Dopo la pubblicazione di Le spie del regime Canali è tornato sul “caso Max Salvadori” in un saggio pubblicato sul periodico della Fondazione Liberal: I cedimenti di Max Salvadori (se il titolo è tipicamente canaliano, l’occhiello suona involontariamente profetico: La storia va raccontata per quella che è e non per come si vorrebbe che fosse). Rispetto al libro, vi è una più estesa trascrizione e/o parafrasi delle carte di polizia, alcune delle quali sono riprodotte fotograficamente, per visualizzare il livello di cedimento del “collaboratore della Polizia politica”. Una netta linea di demarcazione separerebbe il “disertore” dagli antifascisti coerenti: Ho incluso Salvadori tra quegli antifascisti che, a un certo momento, ebbero un cedimento verso il regime, giungendo a stipulare con esso una sorta di compromesso, che volle dire, per lui, l’interruzione di fatto per più di due anni, dal settembre 1939 agli inizi del 1942, di qualsiasi atto ostile verso il regime mussoliniano e l’avvio di una campagna di sostegno a esso condotta con molta abilità e discrezione, le cui modalità vennero di volta in volta concordate con la polizia. Tutto ciò quando, appunto nel settembre 1939, i suoi compagni esuli negli Usa, Salvemini, Borgese e altri, valutando la tragedia in cui stava sprofondando il mondo, decidevano di inasprire il conflitto con il fascismo, fondando la Mazzini Society47. 46. M. Salvadori, Resistenza ed azione, cit., p. 169. 47. Mauro Canali, I cedimenti di Max Salvadori, “Liberal”, dicembre 2004-gennaio 2005, p. 124. 58 Un paio di frasi, quattro gravi errori: 1. non vi fu alcun compromesso col regime; 2. non intervenne la minima interruzione della lotta antifascista; 3. non risulta lo svolgimento di alcuna attività propagandistica filofascista; 4. proseguì, al contrario, l’intensa collaborazione con Gaetano Salvemini, con la Mazzini Society e con i sodalizi italo-americani ad essa collegati. Anche nel periodo dei contatti segreti con esponenti della polizia mussoliniana, Max Salvadori mantenne una copiosa corrispondenza con Gaetano Salvemini sulle prospettive e sulle modalità dell’impegno antifascista; ecco l’inizio di una lettera dell’intellettuale pugliese: “Caro Salvadori, ti mando una copia della mia relazione. Vedrai che le mie impressioni coincidono perfettamente con le tue”48 (In realtà tra i due amici vi erano divergenze che si sarebbero manifestate nel 1943, dato il filoamericanesimo di Salvemini, che dopo lo scoppio della guerra volle divenire cittadino statunitense, e il filoinglesismo di Salvadori: ciò nondimeno era corretta l’osservazione sulla concordanza antifascista). Per non danneggiare la sua “diplomazia parallela e segreta”, Salvadori collaborò alla stampa antifascista con dossier e articoli apocrifi: un’intensa attività giornalistica, condotta senza apparire, per motivi che Salvemini intuì prima ancora di esserne informato dallo stesso Max: “Se intendi dedicarti ad attività che rendano necessario far dimenticare il tuo nome – la tua decisione [cessazione di ogni attività ufficiale] è buona”49. La collaborazione tra i due esuli proseguì intensa e fruttuosa. Salvemini, da Cambridge, gli scrisse il 19 novembre 1940: “Aiutami nel mio lavoro mandandomi tutte le notizie che tu hai sulle attività fasciste negli Stati Uniti”. Il 16 gennaio 1941 chiese ulteriori ragguagli sugli italiani filofascisti negli USA e tre giorni più tardi lo consigliò: “Dovresti metterti in relazione con Tarchiani, […] Mazzini Society, N.Y.C. Egli ritiene ci sia qualcosa di pratico da fare in Italia”. Effettivamente Salvadori collaborò con Alberto Tarchiani e con numerosi altri dirigenti della Mazzini Society: dal giellista Alberto Cianca al sindacalista socialista Augusto Bellanca. Questo attivismo risultò sgradito ai comunisti, che dalle colonne del periodico “Stato operaio” attaccarono pesantemente Salvadori, accusato da Mario Montagnana di innestare nell’antifascismo interessi moderati e strategie borghesi. Ciò nonostante, oggi Canali afferma in modo categorico che l’esule si ritirò dalla lotta; tra le pezze giustificative scio- 48. Salvemini a Salvadori, 19 ottobre 1940 (Archivio Max Salvadori). 49. Salvemini a Salvadori, 30 ottobre 1940 (Archivio Max Salvadori). 59 rina un biglietto di Max Salvadori all’ambasciatore italiano a Washington, con l’impegno di “astenersi da qualsiasi atto che possa risultare (o essere sfruttato) ingiurioso contro l’Italia” e il preannunzio dell’indisponibilità alla “collaborazione alla rivista antifascista ‘Mondo’ che si pubblica a New York”50. Lo storico prende alla lettera queste righe, rinunzia a scavare sotto la superficie e ribadisce le accuse: “È da sottolineare che la rivista ‘Il Mondo’, diretta dall’antifascista Giuseppe Lupis, era l’organo ufficiale della «Mazzini Society». L’atteggiamento defilato di Max Salvadori riceve una conferma dalla assenza del suo nome dalla lista degli iscritti alla «Mazzini Society», dove invece appaiono i nomi di tutti i maggiori esuli antifascisti negli Usa”51. Tale commento è contraddetto da una molteplicità di riscontri sulla partecipazione di Salvadori alla vita della Mazzini Society. Intercorse pure una forma non ufficiale di collaborazione a “Il Mondo”, tenuta segreta per i motivi precedentemente indicati; fu Salvemini a fungere da intermediario: “La tua lettera interessantissima meriterebbe di essere tradotta e pubblicata sul ‘Mondo’”52. Il consistente e continuativo apporto fornito da Max Salvadori alla Mazzini Society risulta principalmente da due fonti coeve: a. la corrispondenza intercorsa con i dirigenti del sodalizio (incluso Giuseppe Lupis, direttore di “Il Mondo”); b. la presenza nell’Archivio Salvadori di una quantità di documenti interni della Mazzini Society (rendiconti di spese, bozze di bilancio, indirizzi di iscritti, appunti di vario genere) stilati da… Max Salvadori. Lionello Venturi, promotore ed esponente di primo piano della Mazzini Society, lo ringraziò dei contributi per l’organo “Mazzini News”: “Caro Salvadori, grazie degli articoli. Non sono ottimista nemmeno io. Ma ho fede che l’Inghilterra non sia invasa. E questo apre tutte le possibilità per l’avvenire”53. La collaborazione si tradusse pure nella compilazione di indirizzi di destinatari del bollettino, il cui primo numero uscì nel febbraio 1941. Eppure, per Canali, Salvadori avrebbe rifiutato ogni collaborazione al sodalizio… Almeno in questo caso egli non può invocare l’attenuante dell’ignoranza documentaria, poiché di tale attività Salvadori fornì puntuali resoconti nei suoi scritti memorialistici54, resoconti ora puntualmente confermati dal materiale d’archivio. 50. M. Canali, I cedimenti di Max Salvadori, cit., p. 134. 51. M. Canali, I cedimenti di Max Salvadori, cit., p. 134. 52. Salvemini a Salvadori, 19 ottobre 1940 (Archivio Max Salvadori). 53. Venturi a Salvadori, 28 gennaio 1941 (Archivio Max Salvadori). 54. Particolarmente nel saggio New York 1941: il “Mazzini News”, retroscena e contesto, “Nuova Antologia”, 1985, n. 2156, pp. 160-178. 60 Nello stesso periodo dell’asserita intesa con la Polizia politica, Salvadori collaborò con altri esuli, incluso don Luigi Sturzo, che da Jacksonville si felicitò con lui: “Godo della tua risoluzione ad avvicinarti al Centro e lavorare nel giornalismo”55. L’intesa si estese a personaggi di orientamento libertario come Carlo Tresca, che a fine estate 1940 ebbe con Salvadori un “interessantissimo colloquio” intorno al reclutamento di un manipolo di volontari da impiegare in Europa. Tresca gli presentò uno di questi, l’anarchico Humberto Galleani: “Non è guidato da desiderio di avventura. Ha un odio inestinguibile pel fascismo. Ritiene sinceramente che l’Inghilterra è l’ultimo baluardo e sinceramente vuole difendere, difendendo l’Inghilterra, i principii di libertà che ci sono comuni”56. La solidarietà ai perseguitati politici Dalle colonne di “Liberal” Max Salvadori appare come un uomo in profonda crisi, rinchiuso in sé stesso e inattivo, eterodiretto dalla polizia mussoliniana; gli antifascisti avrebbero subodorato l’esistenza di un patto segreto e l’esule sarebbe di conseguenza stato emarginato: In alcune carte della polizia emerge nettamente il clima di forte tensione venutosi a creare tra Salvadori e i compagni. La polizia riceveva conferma da alcune relazioni fiduciarie provenienti da spie attive negli ambienti giellisti, che registravano l’amarezza di Lussu per via delle accuse e delle diffamazioni fatte contro il cognato Salvadori57. I rapporti familiari sono qui ricostruiti indirettamente, attraverso il filtro poliziesco, dal buco della serratura. Simili insinuazioni (fondate sull’amplificazione delle tendenziose relazioni stilate da spioni dalla dubbia attendibilità) sono smentite dal fatto che proprio in quel periodo – dal settembre 1940 in avanti – Salvadori fu al centro di una ramificata rete di contatti, si sforzò di 55. Sturzo a Salvadori, 23 luglio 1941 (Archivio Max Salvadori). 56. Tresca a Salvadori, su carta intestata “Il Martello”, senza data ma collocabile tra il settembre e i primi giorni dell’ottobre 1940 (Archivio Max Salvadori). 57. M. Canali, I cedimenti di Max Salvadori, cit., p. 134. 61 agevolare la fuga dalla Francia della sorella Joyce e di Emilio Lussu, e per questo versò di tasca propria centinaia di dollari. Il contributo iniziale, di duecento dollari, fu consegnato nell’ottobre 1939 ad Augusto Bellanca, sindacalista socialista promotore della solidarietà ai perseguitati politici italiani nei paesi occupati dai tedeschi e animatore dell’Italian-American Labour Council (Consiglio italo-americano del lavoro, strettamente legato alla Mazzini Society). Tale impegno solidaristico rientrava peraltro nell’apporto fornito da Salvadori all’Italian Emergency Rescue Committee (sodalizio costituito nel novembre 1940 su iniziativa della Mazzini Society), il cui presidente Lionello Venturi lo ringraziò per il versamento di 300 dollari da utilizzare per italiani ricercati dai nazifascisti: “Son circa 60 persone per cui bisogna trovare i 300 dollari, cioè 18.000 dollari. Sinora ne abbiamo 8.000”58. Il 5 settembre gli inviò una lista di 16 italiani ricercati dalla Polizia politica (che a sua volta preparava elenchi di ricercati e li consegnava alla Gestapo per il rintraccio degli esuli): Bruno Buozzi, Aldo Garosci, Randolfo Pacciardi, Pietro Nenni, Franco Venturi… A fine estate 1940 Alberto Tarchiani coinvolse Salvadori nel Comitato italiano di assistenza agli antifascisti dispersi in Francia. A dicembre Venturi lo ringraziò nuovamente per il versamento di altri 100 dollari. Venturi aveva prospettato una situazione tragica: Caro Salvadori, cattive notizie di Francia. Bohn ha telegrafato che il governo di Vichy progetta di consegnare a Hitler e Mussolini tutti gl’Italiani, Austriaci e Tedeschi appartenenti al labor party e democrazia, oltre i cattolici del Dolfuss party, qualora lo Stato americano non agisca. Lo State Department ha rifiutato di fare alcun passo. Ultima speranza: Roosevelt59. La reazione fu immediata: poche ore dopo avere ricevuto la lettera, Salvadori scrisse a Eleanor Roosevelt (già compagna di scuola della suocera di Max), affinché sensibilizzasse il presidente “ad un intervento per salvare le vite di persone il cui solo crimine è di credere negli stessi valori che sono alla base del modello americano” [if his intervention were to save the lives of people whose only crime has been to believe in those same values which are fun- 58. Venturi a Salvadori, 10 agosto 1940 (Archivio Max Salvadori). 59. Venturi a Salvadori, 16 settembre 1940 (Archivio Max Salvadori). 62 damental to American life]60. Lo sforzo solidaristico con i perseguitati dal nazifascismo divenne ancora più produttivo quando, nel febbraio 1941, Salvadori prese servizio presso il ministero britannico della Guerra economica (Ministry of Economic Warfare) e in tale veste si occupò delle autorizzazioni ai viaggi attraverso l’Atlantico, agevolando il flusso di fuga degli esuli politici dalla Francia e dall’Africa del Nord verso gli Stati Uniti e il Messico. Le stesse posizioni della Polizia politica?!? Canali (che ignora questo, e molto altro ancora) insiste nel presentarci un Max Salvadori nei panni infidi del collaboratore di polizia, un personaggio mefistofelico, avvinto agli emissari del regime da un’intesa che non fu scoperta “poiché Salvadori seppe celarla dietro la cortina fumogena di un dissenso politico con la leadership di Giustizia e Libertà”61. Secondo lo studioso, sarebbe esistita “una sorta di intesa che rende difficile non annoverare Salvadori tra i collaboratori della stessa polizia”; in realtà è difficile non annoverare Canali tra i riciclatori dei veleni disseminati nelle cartacce dei servizi segreti, i cacciatori di scoop impegnati nel conferire dignità storiografica alle elucubrazioni degli uomini di Bocchini. Un’attività, quella del riciclaggio acritico di fonti di polizia, che fiorì rigogliosa nel giornalismo destrorso e nostalgico della seconda metà degli anni quaranta e che evidentemente è tornata in auge. Valutazioni del dopoguerra Nella seconda metà del 1945 Salvadori scrisse un lungo memoriale per Michele Cantarella e Gaetano Salvemini, onde chiarire il senso della sua iniziativa del 1939-1940 (preceduta da contatti con elementi del Foreign Office e del War Office: “Presentai dei suggerimenti sul come avrebbe potuto essere svolta un’azione per impedire una partecipazione dell’Italia alla guerra come alleata della Germania”)62 e distinguerla dallo “spionismo”, inquadrandola come una forma particolare di azione politica, condizionata da circostanze proibitive e ad esse adeguata. Una missione che si rivelò sostanzialmente negativa (definita nell’autobiografia “l’esperienza non brillante della 60. Salvadori a “Dear Mrs. Roosevelt”, 17 settembre 1940 (Archivio Max Salvadori). 61. M. Canali, I cedimenti di Max Salvadori, cit., p. 124. 62. Memoriale di Salvadori a Cantarella, 10 settembre 1945, foglio 4 (Carte Max Salvadori, presso Clement Salvadori). 63 ‘diplomazia clandestina’”)63 e che aveva lasciato al suo protagonista ricordi assai sgradevoli: “Dall’incontro a Berna alle visite all’ambasciata, l’esperienza era stata stomachevole”64. Max Salvadori non si muoveva nel vuoto pneumatico. La guerra mondiale imponeva una scelta di campo, ovvero la necessità di schierarsi con una delle forze contendenti. Le motivazioni del suo comportamento si desumono da significativi scambi epistolari con i compagni di ideali e sono compiutamente illustrate nel citato memoriale inviato il 10 settembre 1945 a Michele Cantarella: Ti devo dire francamente che ignoro i sentimenti nazionalistici e che li ho sempre ignorati. A meno che una qualsiasi cittadinanza sia il frutto di una propria decisione, io ritengo che essa è un incidente tecnico che può essere sfruttato se occorre ma che non implica doveri o diritti quando siano in gioco principi fondamentali. Non una volta ho sentito un qualsiasi conflitto tra “italianità” e “britannicismo”. Nei limiti delle mie capacità e delle condizioni nelle quali mi sono trovato volta a volta ho cercato di servire la causa della libertà (per me sinonimo di sicurezza) personale. Per parecchi anni prima del 1939 ho ritenuto inevitabile una guerra tra i regimi fascisti e le nazioni occidentali che avevano più o meno dei regimi tendenzialmente democratici. Ritenevo tale guerra indispensabile per porre fine al diffondersi del fascismo. Una volta scoppiata la guerra era logico per me dovervi partecipare attivamente. […] Per temperamento sono un “attivista”. Per quanto la violenza fisica mi ripugni e non accetti spargimenti di sangue che come una triste necessità da ridursi al minimo, ritengo che 10 grammi di azione valgono più di dieci chili di carta stampata65. Nel medesimo memorandum figurano significativi riferimenti all’azione condotta di concerto con funzionari dei servizi britannici, quasi a spiegare e a giustificare il proprio comportamento: C’erano l’Intelligence Corps, l’Intelligence Service e il Secret Service il cui compito era quello di raccogliere informazioni militari. Chi ce l’ha con l’Intelligence e crede disonorevole l’aver cooperato con i servizi informativi di una qualsiasi 63. M. Salvadori, Resistenza ed azione, cit., p. 169. 64. Dalle note autobiografiche parzialmente utilizzate per l’integrazione di Resistenza ed azione (foglio 30 del dattiloscritto; Archivio Max Salvadori). 65. Ivi, fogli 1-2. 64 delle Nazioni Unite in tempo di guerra dovrebbe ricordare che anche l’Intelligence è un’arma di combattimento, che le perdite in vite umane sono spesso considerevoli e che il successo di qualsiasi operazione militare dipende in gran parte dall’accuratezza ed efficienza delle informazioni raccolte. […] Attraverso le Special Forces tutti i movimenti di resistenza in Europa sono stati aiutati direttamente dall’esercito inglese. Se accettare l’aiuto di un fratello d’arme significa essere un agente, centinaia di migliaia di persone che partecipavano ai movimenti di resistenza non solo di Italia ma anche di Francia, di Yugoslavia, di Grecia, di Norvegia, di Danimarca, di Polonia, Cecoslovacchia, Belgio, Olanda, Ungheria, Romania, Bulgaria, Finlandia (per non menzionare che i paesi europei), sono stati agenti dell’imperialismo britannico. Sono anche stati “agenti” tutti i dirigenti di questi movimenti che hanno accettato aiuti dall’esercito inglese, da De Gaulle in Francia, a Mihailovitch e a Tito in Yugoslavia, a Parri e a Gallo [Luigi Longo] in Italia, a Bor in Polonia, a Zachariades in Grecia66. Il memoriale fu inviato da Cantarella a Salvemini, che lo commentò punto su punto e postillò: “Ringrazio Salvadori per avere scritto quella memoria e avermene dato visione. Essa mi ha permesso di vedere con maggiore chiarezza fatti che erano prima piuttosto nebbiosi nel mio pensiero. Inoltre Salvadori, scrivendola, ha dato prova di un’amicizia per cui gli sono assai riconoscente”67. Relativamente alle vicende del 1939-1943, questo è il parere di Salvemini: Nessuno ha il diritto di criticare Salvadori o altri perché si associarono alla politica inglese prima che questa si rivelasse per quel che era. Anche io mi vi ero associato dall’estate del 1939 all’autunno del 1941. Io arrivo ad ammettere che ancora nell’estate del 1943, con lo sbarco in Sicilia, la politica italiana di Churchill e di Eden poteva essere approvata almeno da chi non avesse ancora compreso quel che almeno sei mesi prima era chiaro a chi, anche non essendo addentro alle segrete cose, possedeva un minimo di perspicacia. Perciò tutto quanto Salvadori scrive delle sue attività negli Stati Uniti e nel Messico prima dell’estate del 1943 è fuori discussione, salvo che anche prima dell’estate 1943 egli abbia contribuito coi suoi consigli a fare adottare dalle autorità inglesi il piano monarchico-clericale e far respingere il piano democratico-repubblicano68. 66. Ivi, fogli 7-8. 67. Salvemini a Cantarella, 17 ottobre 1945, foglio 1 (Archivio Max Salvadori). 68. Salvemini a Cantarella, cit., foglio 2 (Archivio Max Salvadori). 65 Salvemini evidenzia valutazioni negative sulla politica britannica negli ultimi due anni di guerra, con ricadute critiche sull’azione di Salvadori nel medesimo periodo e con dubbi sulla possibilità che anche precedentemente tale attività avesse portato acqua al mulino dell’“attivismo antifascista di destra clerico-monarchico-churchilliano-rooseveltiano” dispiegatosi compiutamente – secondo Salvemini – nell’inverno 1942-1943: Salvadori dice di essere un “attivista”. Niente di male e molto di bene. Ma l’attivismo deve avere uno scopo. L’attivismo fine a sé stesso può essere attivismo fascista. Quello di Salvadori non fu mai attivismo indifferenziato. Fu attivismo antifascista. Ma anche un attivismo antifascista indifferenziato si poteva capire solamente finché Mussolini era lì. Col 25 luglio 1943, era inevitabile che l’attivismo antifascista si differenziasse fra attivismo antifascista di destra conservatore monarchico-clericale (Croce, Pio XII, Badoglio, Churchill, Roosevelt) e attivismo antifascista di sinistra democratico-repubblicano. Se Salvadori avesse fatto dell’attivismo antifascista indifferenziato fino al luglio 1943, niente di male. Ma dopo il luglio 1943?69 A simili critiche Salvadori oppose il resoconto di ciò che egli aveva costantemente raccomandato agli interlocutori britannici, integrando il suo ragionamento con una previsione sul quadro dell’Italia democratica che – scritta agli inizi dell’autunno 1945 per Cantarella e Salvemini – sarebbe stata confermata dall’evoluzione della politica interna: Per ciò che riguarda il mio atteggiamento, dal principio alla fine, ogni volta che il mio parere è stato chiesto, ho affermato: 1) che non era possibile fare assegnamento alcuno su forze conservatrici, 2) che il mezzo migliore per frenare la corsa verso la sinistra stalinista era quello di appoggiare la sinistra non comunista. Come spiegherò più a lungo più tardi la mia valutazione di cose italiane non è la medesima di quella di Salvemini: ritengo per esempio la mentalità fascista ancora prevalente in Italia; ritengo inoltre che solo una piccola minoranza delle masse italiane è democratica e che in regime di libertà cattolici e comunisti avranno il massimo dei voti70. 69. Salvemini a Cantarella, cit., foglio 8 (Archivio Max Salvadori). 70. Salvadori a Cantarella, 29 ottobre 1945 (Carte Max Salvadori, presso Clement Salvadori). 66 Infine, a proposito dell’accusa di reticenza autobiografica scagliata con leggerezza da Canali, vale la pena di leggere le annotazioni tracciate da Salvadori il 15 novembre 1990 a S. Tommaso di Fermo (nella vecchia residenza di famiglia), per il fascicolo contenente copia di alcune missive da lui inviate a emissari della Polizia politica: “Incluse lettere con le quali tentavo di aprirmi la strada per rientrare legalmente in Italia con l’idea di avvicinarmi a ‘frondisti’ per vedere se sarebbero stati disposti a compiere un ‘colpo di Stato’. Pensavo p.e. a Jung ed anche a Senise, amico di zio Mario Collina. Non mi rendevo conto dell’interesse per me dell’OVRA. Mi avrebbero probabilmente lasciato fare per qualche mese, e poi una buona retata”. Una postilla. Max Salvadori, sia per indole sia per l’interiorizzazione della forma mentale dello storico, ha accantonato negli anni una quantità impressionante di documentazione sui passaggi significativi della propria vita, documentazione conservatasi nonostante i frequenti spostamenti dipesi dalle scelte professionali e dalle forze esterne (la guerra, anzitutto). L’esistenza di questo materiale – in buona parte concentrato presso la Società operaia di Porto San Giorgio e negli archivi britannici – consente oggi di smantellare punto su punto il teorema accusatorio costruito sulle carte della polizia fascista71. Se, per temperamento o per il condizionamento delle circostanze, Salvadori non avesse conservato questi carteggi, la sua 71. Significativo l’ampio intervento di Massimo L. Salvadori su “la Repubblica” (Max Salvadori. Un antifascista che non fu mai spia, 28 maggio 2005) sulle ripercussioni provocate dal libro di Canali; eccone un paio di passaggi: “A questo punto, colui che ‘per quello che se ne sapeva’ era un coraggioso combattente della causa antifascista, muta improvvisamente volto. La vicenda della ‘caduta’ di Salvadori rimbalza sui grandi organi di informazione. In un’Italia che, in vena di una melassosa riconciliazione nazionale, vuole che tanti fascisti non siano stati troppo cattivi e che tanti antifascisti siano stati non così buoni e puri, anzi decisamente impuri, scoppia il caso Max Salvadori. Cito per tutti, per la sua emblematicità, un titolo comparso sul ‘magazine’ del Corriere della Sera: L’uomo che visse due volte: prima al servizio del Duce, poi di Sua Maestà. Insomma, Max tradì gli antifascisti, e in primo luogo la sorella Joyce ed il cognato Lussu”. Respinte come infondate le infamanti accuse, Massimo L. Salvadori trae le seguenti conclusioni sull’incresciosa vicenda: “Quando le ‘rivelazioni’ di Canali occupavano i giornali e i periodici, una persona mi chiese se fossi per caso parente della spia fascista. Ora, avute in mano le carte ignote all’‘uomo dei documenti’ [Canali - ndr] quando ha messo mano alle sue accuse basate sulla sua ricerca ‘scientifica’, mi sono detto che era giunto il momento di rispondere pubblicamente. Ho ancora in mente l’ultima volta in cui nel 1989 a New York ho incontrato Max Salvadori. Era un bel vecchio, alto e signorile. 67 immagine sarebbe rimasta macchiata, sia pure ingiustamente. Per qualche altro militante antifascista qualcosa del genere è potuto (e potrà) avvenire: su molti oppositori del regime, infatti, disponiamo prevalentemente delle carte di polizia, ovvero delle versioni raccolte e tramandate da chi istituzionalmente combatteva gli oppositori politici; carteggi che, se utilizzati senza la necessaria strumentazione critica, sprigionano a scoppio ritardato una quantità di veleni72. Oltre a interrogare i documenti, gli storici dovrebbero porsi il problema dei vuoti documentari: della soggettività e della lacunosità delle fonti. La sua schiena era sempre ben diritta”. Nella sua replica (Max Salvadori. Ma gli inglesi bocciarono la sua missione in Italia, “la Repubblica”, 5 luglio 2005) Canali sostiene di non avere “mai scritto né dichiarato né pensato che Max Salvadori fosse una spia”, mentre riafferma la tesi del cedimento quale movente dei contatti segreti con Bastianini ecc. sulla base delle riserve inglesi sulla missione in Italia. Ragionamento invero curioso, poiché è tutto da dimostrare che dalla mancata legittimazione della “diplomazia parallela” da parte dei servizi britannici derivi il carattere compromissorio dei rapporti allacciati da Salvadori con elementi del regime proprio sulla base del progetto da lui comunicato ai capi dell’Intelligence. Esistono molteplici riscontri – inclusa la redazione di rapporti in lingua inglese sul procedere dei contatti riservati – sulle reali finalità di questi rapporti, riscontri metodicamente ignorati da Canali. Inoltre, si può ritenere che i capi dello Special Operations Executive (l’organismo incaricato dell’attività clandestina in territorio nemico) fossero sprovveduti al punto da arruolare nel giugno 1940, per incarichi delicatissimi, un elemento che agiva d’intesa con l’OVRA (dal citato articolo di Canali: “Con l’ingresso dell’Italia in guerra, Max faceva ritorno negli Usa, da dove continuò a mantenere contatti con l’Ovra certamente fino al novembre 1941”), e che per un altro anno e mezzo avrebbe concordato le sue mosse con emissari della polizia politica fascista? Canali non riflette nemmeno sull’inverosimiglianza della metamorfosi di Salvadori da ideatore dell’arrischiato progetto antinazista presentato ai britannici a protagonista di un cedimento clamoroso, con repentino ritorno alla lotta antifascista premiato con la nomina a dirigente dell’Intelligence inglese in Italia. La polemica giornalistica si è chiusa con una puntualizzazione di Massimo L. Salvadori (La vera storia di Max, “la Repubblica”, 8 luglio 2005) sulle incongruenze e i salti logici delle nuove posizioni di Canali che, presa parziale conoscenza delle carte inglesi, nel tentativo di tenere comunque in piedi le sue interpretazioni basate sulle carte fasciste “lascia una strada e non esita a imboccarne un’altra”. 72. Cfr. Mimmo Franzinelli, Sull’uso (critico) delle carte di polizia e Aldo Giannuli, Il trattamento delle fonti provenienti dai servizi di informazione e sicurezza, in Voci di compagni, schede di questura, Milano, Centro studi libertari, 2002, pp. 19-30 e 31-72. 68