Quanto costì costa Rubik
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Quanto costì costa Rubik
LUNEDÌ ECONOMIA 11 GDP GIORNALEdelPOPOLO LUNEDÌ 10 DICEMBRE 2012 + ALBERTO DI STEFANO L’imposta liberatoria e le possibili ricadute sulla piazza finanziaria Quanto costì costa Rubik Alberto Di Stefano, economista, è membro della Direzione Generale di Banque Cramer & Cie di Ginevra, responsabile del Dipartimento di Asset Management. L’obiettivo dell’intervento non è di arrivare a stimare cifre assolute, ma piuttosto di scattare una fotografia panoramica per cogliere aspetti rilevanti del dibattito e i possibili sviluppi per l’economia del Cantone. di CORRADO BIANCHI PORRO Recentemente è stato presentato il “Tavolo della crisi” promosso da Giovanna Masoni Brenni, Alberto Di Stefano, Massimo Tognola, Alberto Cotti e Meinrado Robbiani. È un’iniziativa volta a comprendere l’attuale fase del sistema bancario ticinese e formulare proposte concrete per superarla. Riprendiamo il discorso con Alberto Di Stefano, membro della direzione generale di Banque Cramer di Ginevra che ha redatto un interessante documento edito da Casagrande: “Questioni di piazza”, da cui riproduciamo alcune tabelle. Cosa non è emerso a sufficienza nella recente conferenza stampa? Direi che l’aspetto più interessante che si voleva trasmettere è il senso di urgenza e quindi la necessità di un approccio concreto. Secondo le mie stime il contributo del settore bancario al Pil cantonale è oggi leggermente superiore al 6%, il turismo pesa tra il 4 ed il 6%. Per misurare la crisi dell’industria sono necessarie informazioni, e quelle rilevanti mancano completamente. È necessario misurare i patrimoni gestiti, unica vera misura dell’importanza dell’industria del “Private Banking”. Non è una cifra direttamente ottenibile a seguito della presenza delle grandi banche e di altri istituti svizzeri che non forniscono i dettagli regionali, ma questo non vuol dire che non si possano fare delle ipotesi, come ho fatto nella mia analisi, per stimarla. Cosa si può fare in Ticino? Secondo me ci sono due attività interessanti da valutare per gli istituti del Cantone. La prima è la clientela istituzionale. In Svizzera si gestiscano circa 650 miliardi di franchi svizzeri in fondi pensione. Le casse pensioni pubbliche del Cantone affidano una parte consistente dei patrimoni (tra il 50 ed il 90%) alle grandi banche svizzere o altri istituti fuori dal Cantone. Sono sicuro che non si tratta di una questione legata alle competenze di gestione patrimoniale, visto che in Ticino esistono società che offrono in questo campo una qualità di altissimo livello (anche grazie a questo siamo la terza piazza finanziaria svizzera!). Mi chiedo: perché il 5%, è questo il peso della popolazione cantonale su quella svizzera, di quei 650 miliardi non sono affidati, una volta fatta la dovuta selezione tra i gestori, ad istituti della Svizzera italiana? Avessimo 35-40 miliardi potremmo parzialmente colmare il vuoto lasciato dalle perdite di capitali, contribuire a mantenere localmente competenze e avviare quella tanto decantata diversificazione facile da proclamare ma difficile da realizzare. I politici potrebbero dare un segnale chiaro e concreto in questa direzione. La seconda cosa? Il secondo tema riguarda il fatto che sulla piazza finanziaria abbiamo 350-400 fiduciari finanziari con una dimensione media molto ridotta sia in termini di persone che patrimoni in gestione. Queste strutture a seguito delle regolamentazioni in essere o future vedranno i costi aumentare in un contesto in cui i patrimoni e quindi ricavi si ridurranno. Sarà opportuno favorire processi di aggregazione al fine di mantenere in Ticino la conoscenza del cliente, che è un patrimonio fondamentale, senza aspettare che arrivino società di oltre Gottardo ad “usurpare” questo settore importante e strategico. Ritengo siano necessarie misure fiscali e normative per facilitare il consolidamento del settore. «Un settore fragile perché è stato abituato troppo bene» Ci sono novità positive? Negli ultimi 20 anni ci sono state due innovazioni significative nel “sistema” finanziario cantonale, cui si sono aggiunte le riorganizzazioni fatte dai singoli istituti. La prima è stata la creazione del Centro Studi Bancari. Luigi Generali ha avuto un’intuizione geniale nel comprendere l’importanza della formazione e dare avvio, con l’ABT, ad un’iniziativa che ancora oggi è una fucina di professionalità. La seconda è stata la creazione di B-Souce, società che offre IT ed altri servizi amministrativi alle banche, e che contribuisce a trattenere posti qualificati in Ticino. Molti ritengono che gli stipendi dei bancari sono troppo alti, è vero? Quel che emerge dai numeri è che lo stipendio medio del personale bancario è l’unica variabile che nel periodo considerato ha segnato un trend positivo. Si è passati da 105mila franchi svizzeri lordi a 130mila. L’occupazione si è ridotta del 13% e la massa salariale è aumentata dell’8%: è un elemento che dà un’idea della situazione paradossale della piazza. Perché costituisce una fragilità? La fragilità è duplice. Il datore di lavoro si trova ad avere la voce di spesa più importante in crescita, e il collaboratore rimane abituato a salari che, sommati agli altri cosiddetti “benefit” (l’ipoteca a tassi vantaggiosi, …), riducono di molto la disponi- bilità e l’incentivo ad affrontare nuove sfide professionali. “Rubik” quanto inciderà? Nel grafico riportato, elaborato de Helvea nel 2009, si indicano i capitali in gestione e la quota fiscalmente dichiarata e non. Si vede che per l’Italia l’ammontare “non dichiarato” è quasi il 100%, mentre per Germania è Regno Unito è intorno al 30%. Le mie ipotesi sono più realistiche: ho società che godono di uno statuto fiscale privilegiato, occupano 20 mila posti di lavoro (8,1% sul totale dei posti a Ginevra) e producono 576 milioni di imposte cantonali e comunali (il 35% del totale). In Ticino l’impatto potrebbe essere una contrazione nel gettito cantonale di 50 milioni. Speriamo davvero che il senso di urgenza cui fa- cevo riferimento all’inizio mobiliti tutti gli attori in uno sforzo comune di rinascita. La crisi orologiera degli anni ’70 ha completamente rinnovato un settore tradizionale svizzero che è uscito da una grave crisi con l’invenzione di un prodotto rivoluzionario. Sicuramente anche la piazza finanziaria ticinese troverà il suo Swatch! IL PROBLEMA È PIÙ VECCHIO DI RUBIK La piazza ticinese è rimasta immobile E nell’ipotesi peggiore, quanto viene a pesare “Rubik”? Se i clienti dovessero decidere nel contesto di “Rubik” per rimpatriare denaro da utilizzare in Italia a fronte di necessità aziendali o altro, potremmo avere una perdita di 66 miliardi, 1.800 posti di lavoro e 33 milioni di imposte. Poi ci sono gli effetti indiretti, e non ho stimato la riduzione della redditività. Oggi i patrimoni della clientela privata rendono tra 0,90 e 1.20%. I clienti fiscalmente trasparenti eserciteranno una pressione per ridurre questo margine, che potrà contrarsi anche del 50%. Sarebbe necessario coinvolgere dei professionisti che possano, come fa ad esempio il BAK di Basilea con gli studi sui centri finanziari svizzeri, realizzare un’analisi del settore, dell’evoluzione e delle prospettive. Il problema è “Rubik”? Si parla molto di “Rubik”, ma il problema non questo. La crisi è iniziata prima e continuerà dopo. A fronte degli eventi degli ultimi anni la struttura della piazza finanziaria non è cambiata. È evidente che “Rubik”, se arriverà, sarà un grosso problema: nell’ipotesi peggiore è come se sparisse un istituto come la BSI. Ma arriverà la “Strategia del denaro pulito”, che cambierà e renderà speriamo stabile l’intero approccio alla clientela privata transfrontaliera. E poi ci saranno anche altri cambiamenti. Pensiamo ad esempio alla tassazione delle società estere, che a livello nazionale comporterà una riduzione delle entrate fiscali stimata in 4 miliardi di franche svizzeri. La società KPMG ha valutato che nella sola Ginevra ci sono un migliaio di In realtà per l’Italia con ben 4 scudi, le stime di Helvea sono decisamente penalizzanti sulle regolarizzazioni. assunto che i 2/3 dei circa 250 miliardi di franchi svizzeri mediamente presenti nelle banche ticinesi negli ultimi 8 anni sono capitali italiani non dichiarati. L’accordo “Rubik” con l’Italia potrebbe nell’ipotesi migliore far perdere 500 posti di lavoro, patrimoni per circa 16 miliardi di franchi svizzeri e imposte per 8 milioni. Questo considerando solo il pagamento dell’imposta liberatoria!