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SENTENZE IN SANITÀ – CORTE DI CASSAZIONE
CASSAZIONE PENALE - Sezione IV - sentenza n. 1489 del 14 gennaio 2010
ATTIVITÀ IN PRONTO SOCCORSO: LA SPECIALIZZAZIONE NON GIUSTIFICA GLI ERRORI DIAGNOSTICI
Il medico di Pronto Soccorso nell’intento di giustificare il proprio operato affermava che pur essendo
specialista in pneumologia ("e quindi di una branca per nulla affine a quelle che interessavano la persona offesa ..."), aveva visitato la paziente una prima volta, "in assenza di segni oggettivi", e una seconda
volta; aveva fatto eseguire una TAC, con esito negativo, ed aveva fatto trasferire la paziente al più vicino
ed attrezzato nosocomio.
Hanno sostenuto i giudici che, se sin dall'inizio i segni sintomatici erano del tutto inequivocamente indicativi della reale patologia dalla quale era stata attinta la paziente, nulla di comprensibile e giustificabile poteva aver legittimato il medico di P.S. a formulare una diagnosi di "nevrosi d'ansia" (la prima volta)
e di "psicosi acuta" (la seconda volta), tanto sostanziando la colpa addebitatagli. Né vale addurre a contrario, la prospettazione del sanitario di essere specialista in pneumologia: tale specializzazione non lo
abilitava di certo a svolgere il suo lavoro di pronto soccorso esclusivamente nei confronti di pazienti con
patologie riconducibili solo a tale area specialistica; egli assumeva, nei confronti di tutti i pazienti sottoposti alle sue cure, una piena posizione di garanzia, versando in colpa (quanto meno colpa per assunzione) nell'omettere di svolgere appieno i suoi compiti e nel diagnosticare (in un primo tempo) una ingiustificata diagnosi di "nevrosi d'ansia", con la conseguente prescrizione di un farmaco ad hoc e nel confermare (in secondo tempo) la patologia psichica con diagnosi di "psicosi acuta".
La corretta diagnosi, nel caso specifico, veniva considerata comune appannaggio di ogni esercente l'attività medica, secondo le più comuni e generalizzate leges artis.
Svolgimento del processo
1.0. Il 12 luglio 2005 il Tribunale di Como - Sezione distaccata di Erba - assolveva B.M. (ed altri coimputati) da imputazione di cui agli artt. 113 e 590 c.p. e art. 583 c.p., comma 2, perché il
fatto non sussiste.
A tale imputato (per quel che in questa sede residualmente rileva), si contestava, quale medico
di guardia dell'ospedale di X., di aver cagionato, per colpa, a T.T. lesioni personali, consistite in
"afasia di tipo non fluente", dalla quale derivava una malattia insanabile, omettendo di diagnosticare correttamente la patologia dalla quale la stessa era affetta, cioè una lesione cerebrale
dell'emisfero sinistro di natura ischemica, sottoscrivendo, invece, un referto medico che diagnosticava "nevrosi d'ansia", prescrivendo una terapia farmacologica ansiolitica ed omettendo, conseguentemente, di intraprendere ulteriori accertamenti tecnici diagnostici e rinviando la paziente
al domicilio; e diagnosticando successivamente una "psicosi acuta", trasferendo la paziente
presso l'ospedale X. .
1.1. Ricostruì va in fatto il giudice del merito che T. T. era incorsa in un grave incidente stradale
trovandosi in auto in compagnia del marito, N.C., e della diciassettenne figlia S.: mentre
quest'ultima era deceduta, la T. aveva riportato "trauma cranico commotivo, contusione facciale con
escoriazioni multiple al volto e al braccio destro" ed era stata ricoverata presso il nosocomio di X..
Rientrata a casa, il X., mentre si trovava con un'amica, si era sentita male ("mi sono sentita male
... non riuscivo a parlare"): fino ad allora la donna non aveva accusato "problemi di linguaggio"
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o motori, mentre quella mattina, conversando con l'amica, "rimaneva in silenzio e non rispondeva alle domande ..., e poi aveva iniziato ad emettere suoni ed a dire frasi sconnesse ed infine a
rispondere solo con cenni del capo". Condotta al pronto soccorso dell'ospedale di X., ivi il medico di guardia, dott. B. M., aveva diagnosticato "nevrosi d'ansia" e prescritto l'assunzione di un
farmaco (Lexotan). Dimessa dall'ospedale e rientrata in casa, il marito aveva riscontrato che la
donna "bavava dalla bocca, la mano destra quasi immobile e trascinava la gamba destra... la
bocca era storta completamente, diciamo che era proprio come se ce l'avesse girata". Riportata
all'ospedale di X., era stata nuovamente visitata dal dott. B.; era stata sottoposta a TAC dell'encefalo, risultato normale; il dott. B. aveva formulato diagnosi di "psicosi acuta" ed inviata la T.
all'ospedale X.. Qui era stata visitata dal dott. Be.Gi.Gu., psichiatra, e dal dott. D.P.F., neurologo: anche qui era stata formulata "ipotesi diagnostica: psicosi acuta". Rientrata in casa e visitata
dal medico di famiglia, dott.ssa D., questa aveva ritenuto che "deve essere assolutamente ricoverata, non può stare in queste condizioni ...".
Il X. la T. era stata ricoverata presso altra clinica, X., ove era stata visitata dal dott. To.Ma.Se.:
dalla cartella clinica risultava che alla paziente erano stati somministrati "antidepressivi triadici,
SSRI, neurolettici, benzodiazepine, regolatore dell'alvo, complessi vitaminici"; dalla lettera di
dimissioni risultava consigliata l'assunzione di farmaci analoghi (Mutabon, Anafranil, Tavor,
Diagran); il X. era stata sottoposta a visita neurologica dal dott. S. ed il X. a visita otorinolaringoiatrica di controllo; il X. aveva iniziato ad articolare qualche parola, ma il X. si annotava:
"non proferisce ancora alcuna parola ..."; il X. era stato riscontrato "un eloquio lievemente più
comprensibile".
Nel corso della degenza presso la clinica Villa X., la dott.ssa M.W., tra l'altro, aveva "escluso la
presenza dei sintomi tipici riconducibili ad un insulto vascolare di natura ischemica ...". Dal nosocomio la paziente era stata dimessa il X., con diagnosi di "episodio depressivo maggiore con
manifestazioni catatoniche" e successivamente più volte era stata sottoposta a visite di controllo
presso lo stesso nosocomio. "Qualche mese dopo, in un lasso di tempo compreso tra il X.", la
donna era stata visitata dal dott. P.L. presso l'ospedale civile di X.; acquisiti anche gli esiti di
una risonanza magnetica, la donna aveva iniziato una terapia riabilitativa, seguita da vari logopedisti per circa tre anni, ed aveva riacquistato "un accettabile eloquio e la funzionalità del braccio e della gamba".
Circa la causa delle lesioni riportate dalla T., riferiva il giudice che il consulente tecnico del
P.M., dott.ssa R.L. M.T., neurologa, aveva "individuato le cause della lesione in un infarto ischemico a carico dell'emisfero cerebrale di sinistra, non correlato con l'episodio traumatico accaduto il X.";
la stessa aveva ritenuto che "i sintomi rilevati dai sanitari che visitarono la T. il X. e presso la
clinica Villa X. nei giorni successivi ... erano chiaramente riconducibili ad una lesione corticale
sinistra, anche in considerazione della insorgenza improvvisa degli stessi ..."; i medici che avevano avuto in cura la donna, invece, erano pervenuti a conclusioni diverse, individuando l'origine dei sintomi in cause di natura psichica: "la diagnosi formulata aveva determinato la somministrazione di terapie psichiatriche ... che ... possono avere in qualche modo contribuito ad una
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prognosi meno favorevole ..., mentre il mancato tempestivo trattamento con delle terapie specifiche ..., sebbene non sia sempre garanzia di recupero ..., non poteva che costituire un elemento
prognostico favorevole". Richiamate le diverse conclusioni cui erano giunti il consulente tecnico di alcuni coimputati ed il consulente tecnico della persona offesa, il giudice aveva disposto
perizia al riguardo. I periti avevano ritenuto che "sin dalla prima visita al pronto soccorso di X.
... fossero emersi sintomi significativi, che avrebbero dovuto suggerire una maggiore cautela nel
formulare una diagnosi che individuava la causa delle condizioni della paziente in problemi di
natura psichica ...", con diagnosi di "nevrosi d'ansia" o "psicosi acuta"; avevano rilevato che
"non si può (non) rimanere sorpresi dalla totale assenza di riferimenti essenziali dell'anamnesi:
nessuno si è preoccupato di prendere in considerazione che anamnesticamente, oltre alla perdita
della figlia, la paziente aveva avuto una improvvisa perdita del linguaggio e una emiparesi dx. È
stata questa grave lacuna ad orientare verso una genesi della sintomatologia come psichica, del
tutto ingiustificata in prima istanza". Avevano conclusivamente ritenuto che, "in sostanza, non
sembrano sussistere in nessun momento della storia (in fase acuta e durante il ricovero stesso)
elementi che rendano comprensibile e giustificabile l'errore diagnostico".
Avevano anche ritenuto che "il decorso del quadro clinico anche correttamente interpretato sarebbe stato non molto diverso, in quanto non c'è una terapia risolutiva in senso stretto di un accidente cerebrovascolare acuto ... e la stessa terapia riabilitativa ... produce i suoi effetti nel medio-lungo periodo ... Analogamente non risolutive sono le terapie farmacologiche ...". Uno dei
periti, il prof. D.S., aveva riferito, nel corso della sua audizione, che "le terapie riabilitative del
linguaggio potevano essere effettivamente iniziate nel mese di X. ... e che qualora tali terapie
fossero state attuate tempestivamente certamente avrebbe potuto avere un non quantificabile aiuto in più...". 1.2. Conclusivamente, il giudice riteneva sussistenti i profili di colpa contestati
all'imputato; ma, quanto al nesso di causalità tra le condotte dallo stesso serbate e l'evento prodottosi, rilevava che "è evidente in primo luogo che ... l'evento lesivo non è affatto dipeso dalle
condotte omesse, in quanto la afasia di tipo non fluente (tipo Broca) con anormale capacità di
eloquio e lieve ipostenia dell'arto superiore destro, indicate nel capo di imputazione, sono evidentemente ... conseguenti ad una lesione cerebrale dell'emisfero sinistro di natura ischemica e
non alle condotte dei medici. Tutt'al più ..., è il perdurare delle lesioni stesse ad essere eziologicamente connesso alle condotte omissive dei medici, ma su questo profilo non è stato acquisito
alcun dato scientifico certo che possa far sostenere che l'effettuazione di una terapia riabilitativa
o di farmaci antiaggreganti o anticoagulanti avrebbe cambiato il decorso della malattia ..."; richiamata la sentenza delle Sezioni Unite di questa Suprema Corte n. 30328/2002, rilevava che,
in sostanza, non si era raggiunta alcuna "certezza processuale al riguardo" e che il nesso causale
in questione non era "rinvenibile nelle stesse relazioni della R. e del L. poste a fondamento della
formulazione dell'imputazione, in quanto i consulenti si sono sempre espressi in termini di probabilità di una prognosi meno favorevole e mai in termini di certezza": da qui, l'assoluzione
dell'imputato (e dei coimputati) perché il fatto non sussiste.
1.3. Sui gravami del P.M. e della parte civile, e su quello incidentale del B., la Corte di Appello
di Milano, con sentenza del 22 febbraio 2007, dichiarava non doversi procedere nei confronti
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del B. (e degli altri coimputati) perché estinto il reato per prescrizione; dichiarava "ai fini unicamente civili la responsabilità dei predetti appellati, in via solidale, condannandoli al risarcimento dei danni in favore della p.c. da accertarsi in separata sede ed assegnando alla stessa una
provvisionale ... di Euro 20.000,00". 1.4. Rilevavano i giudici dell'appello che, "dovendosi... accertare la responsabilità penale degli odierni appellati... ai fini civili..., è innanzitutto emerso
pienamente l'errore diagnostico da tutti effettuato ...", che "ha altresì comportato per la T. sia il
mancato (rectius molto ritardato) ricorso a cure specifiche ed appropriate ..., sia l'erronea connessa somministrazione per un prolungato periodo di terapie psichiatriche con alti dosaggi di
antipsicotici ed antidepressivi, che ben possono negativamente influire sul decorso della malattia, specie sotto l'aspetto della motricità". Ritenevano che, "diversamente da quanto ritenuto in
1^ grado, non può nella specie escludersi il nesso causale ... Se è vero che gli appellati non hanno direttamente cagionato alla p.o. l'afasia e l'ipostenia e se è vero altresì che non v'è piena prova che una corretta e tempestiva diagnosi, con cure appropriate, avrebbe determinato un più favorevole esito della malattia ..., è però altrettanto vero che i contestati errori ed omissioni ... e
l'errata terapia hanno avuto le negative ripercussioni sul decorso della malattia della T. ... senza
determinare invece una favorevole evoluzione, a rilievo giudiziale". In sostanza, "l'erronea individuazione dell'origine dei sintomi in cause di natura psichica ... e il conseguente trattamento
farmacologico tranquillante antidepressivo prescritto hanno ritardato la guarigione della p.o.
protraendone l'alterazione dello stato di salute ..."; ed inoltre "la somministrazione di farmaci
antidepressivi alla T. ha determinato anche effetti collaterali, quali una crisi dislettica, pur rapidamente risolta".
Ricordavano, ancora, i giudici del merito che, alla stregua della suindicata pronuncia delle Sezioni Unite di questa Suprema Corte, "il nesso causale può ravvisarsi anche quando si accerti
che, ipotizzandosi come realizzata la condotta doverosa impeditiva dell'evento, questo si sarebbe verificato in epoca significativamente posteriore o con minore entità lesiva ..."; e rilevavano
che "la p.o. ha potuto iniziare detta cura solo nel X. , dopo quasi un anno dunque dal fatto ischemico ... e sicuramente un tempestivo supporto serve ad accorciare i tempi nel raggiungere il
massimo risultato. Pertanto l'errore e il ritardo hanno protratto per la p.o. l'intensità lesiva della
malattia, determinando conseguenze dannose, quanto meno sotto l'aspetto psicologico, biologico ed esistenziale, a prescindere dagli inutili costi sotto più profili assunti dalla p.o.". Ricordato,
poi, "l'effetto collaterale derivato alla p. o dall'errata terapia con psicofarmaci, la crisi dislettica
e il problema della motricità", rilevavano che a tanto "va aggiunto quanto confermato anche dal
consulente della difesa, secondo cui la T. è andata incontro a effetti collaterali come una forte
salivazione, una scaialorrea, lo spasmo dei muscoli dell'orofaringe, sintomi tutti indesiderati e
nella specie ampiamente documentati.
Anch'essi suscettivi di danno e di valutazione economica", posto che "la malattia rilevante ai fini del reato di lesioni va riferita ad ogni alterazione anatomica o funzionale dell'organismo" e di
questa "non appare dubbia nella specie la ... sussistenza, sotto il duplice profilo del ritardo nella
guarigione con sua protrazione e della causazione di comprovati non dovuti effetti collaterali,
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connessi all'erronea terapia prescritta". 2.0 Avverso tale sentenza ha proposto ricorso il B., per
mezzo del difensore, denunziando:
a) il vizio di motivazione.
Ricorda il ricorrente che egli, specialista in pneumologia ("e quindi di una branca per nulla affine a quelle che interessavano la persona offesa ..."), aveva visitato la paziente una prima volta,
"in assenza di segni oggettivi", e una seconda volta; aveva fatto eseguire una TAC, con esito
negativo, ed aveva fatto trasferire la paziente al più vicino ed attrezzato nosocomio, l'ospedale
X., ove poi la paziente era stata visitata dal neurologo e dallo psichiatra:
"dopo di che ... il dott. B. nulla ha più saputo della paziente, che, per quanto lo riguardava, era
in cura presso i competenti colleghi di area specialistica". Rileva, quindi, che, "in estrema sintesi, gli argomenti dell'appello incidentale erano: il medico di pronto soccorso, specialista in area
che nulla ha a che vedere con la patologia della paziente, bene ha fatto gestendo il suo trasferimento in altro ospedale", posto che in quello in cui operava non vi era il reparto corrispondente
di neurologia e psichiatria.
Essendo la Corte territoriale pervenuta alla declaratoria di prescrizione del reato anche in riferimento alla condotta del medico di pronto soccorso, il ricorrente richiama il capo di imputazione,
rileva che l'errore e l'omissione nella diagnosi e nella cura erano state ritenute ininfluenti in sede
peritale e richiama le considerazioni svolte dal perito prof. D.S.A.; lamenta che "le risultanze
processuali sono state misconosciute dalla Corte, in assenza di una motivazione che di ciò desse
conto", ed evoca, tra l'altro, anche le sostanzialmente adesive considerazioni del c.t. del P.M.
dott.ssa R., unitamente a quelle del dott. Bi. del pronto soccorso dell'ospedale X. , del dott. L.,
consulente della persona offesa, del "consulente del giudice di primo grado". "Tutti questi preziosi elementi valutativi ... sono elusi nella motivazione della Corte, senza motivare il perché...";
b) il vizio di violazione di legge, in relazione all'art. 40 c.p..
Richiamato il passo della motivazione della sentenza impugnata "sul punto della posizione del
B.", si chiede il ricorrente "come è possibile imputare ad un soggetto una condotta omissiva
quando questi è nella impossibilità di ottemperare?". In sostanza, "si incolpa il medico dell'omissione di un'attività inaccessibile (eseguire la risonanza magnetica presso l'ospedale di X. ,
che non la possiede) e lo si incolpa, altresì, di aver omesso la corretta diagnosi in un momento
in cui la stessa era impossibile, proprio in mancanza della risonanza e della seconda TAC che ...
andava eseguita a distanza di tempo dalla prima, quando la paziente era già stata trasferita in altro ospedale". Soggiunge che la sentenza è viziata anche laddove da rilevanza, "nella costruzione del nesso causale", alla ritardata esecuzione della risonanza magnetica "che in fatto era preclus(a) al dott. B.", posto che " B. non era nella possibilità di effettuarla perchè il macchinario
non era in dotazione all'ospedale di X. ...".
Motivi della decisione
3.0. Quanto ai fini civili, congiuntamente esaminando i motivi di ricorso proposti per la interdipendenza argomentativa che li connota, il primo profilo di doglianza (afferente alla ritenuta colpa del ricorrente), è infondato.
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Deve rilevarsi, infatti, che i giudici del merito, di ambedue i gradi del giudizio, hanno ritenuto la
sussistenza dei contestati profili colpa con argomentazione congrua ed immune da rinvenibili
vizi di illogicità, che la norma, peraltro, vuole dover essere manifesta, cioè coglibile immediatamente, ictu oculi.
Ha, difatti, rilevato il primo giudice che "i sintomi che presentava la T. sin dalla prima visita al
pronto soccorso di X. erano particolarmente significativi e riconducibili ad un problema di natura vascolare e non potevano essere interpretati quali alterazioni di natura psichica", all'uopo
evocando le "annotazioni provenienti dagli stessi medici" e le "conclusioni a cui sono pervenuti
i periti del giudice": icastica e conclusiva si appalesa al riguardo la conclusione peritale secondo
cui "... non sembrano sussistere in alcun momento della storia (in fase acuta e durante il ricovero stesso) elementi che rendano comprensibile e giustificabile l'errore diagnostico".
Annotano, dal canto loro, i giudici del gravame che "è innanzitutto emerso pienamente l'errore
diagnostico da tutti effettuato, senza adeguata considerazione degli evidenti sintomi riscontrabili
nella persona offesa, riconducibili ad un attacco ischemico ... quali il trascinamento della gamba
destra e la rima labiale storta".
Se, dunque, sin dall'inizio quei segni sintomatici erano del tutto inequivocamente indicativi della reale patologia dalla quale era stata attinta la paziente, nulla di comprensibile e giustificabile
poteva aver legittimato il dott. B. a formulare una diagnosi di "nevrosi d'ansia" (la prima volta)
e di "psicosi acuta" (la seconda volta), tanto sostanziando la colpa addebitatagli. Né vale addurre a contrario, come prospetta il ricorrente, che egli era specialista in pneumologia: tale specializzazione non lo abilitava di certo a svolgere il suo lavoro di pronto soccorso esclusivamente
nei confronti di pazienti che accusassero patologie riconducibili solo a tale area specialistica;
egli assumeva, nei confronti di tutti i pazienti sottoposti alle sue cure, una piena posizione di garanzia, versando in colpa (quanto meno colpa per assunzione) nell'omettere di svolgere appieno
i suoi compiti e nel diagnosticare (in un primo tempo) una ingiustificata diagnosi di "nevrosi
d'ansia", con la conseguente prescrizione di un farmaco ad hoc (Lexotan), e nel confermare (in
secondo tempo) la patologia psichica con diagnosi di "psicosi acuta", ancorché ne abbia allora
disposto il trasferimento all'ospedale X.. D'altronde, appare evidente dalla motivazione dei due
distinti provvedimenti di merito che la corretta diagnosi a tal riguardo dovesse essere comune
appannaggio di ogni esercente l'attività medica, secondo le più comuni e generalizzate leges artis.
Né vale addurre che, in ogni caso, la paziente era stata, poi, trasferita ad altro nosocomio, che,
se si vuole in tal guisa evocare il cd. principio di affidamento, v'è da rilevare che, in tema di
colpa e di rapporto di causalità, non può parlarsi di affidamento quando colui che si affida sia in
colpa per aver violato determinate norme precauzionali o per aver omesso determinate condotte,
confidando che altri - un terzo che gli succeda nella posizione di garanzia - rimuova quella situazione di pericolo o adotti comportamenti idonei a prevenirlo: in tal caso, difatti, l'omessa attivazione del terzo non si configura affatto come fatto eccezionale ed imprevedibile, sopravvenuto, da solo sufficiente a produrre l'evento.
3.1 Con un secondo profilo di censura si lamenta, come s'è visto, che l'errore nella formulazione
della diagnosi era stato ritenuto ininfluente in sede peritale, quanto al nesso causale tra lo stesso
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e l'evento prodottosi; si richiamano, al riguardo le conclusioni del perito prof. D.S.A. (unitamente a quelle del ct. del P.M. dott.ssa R., del dott. Bi. del pronto soccorso dell'ospedale X. , del
dott. L., consulente della persona offesa) e ci si duole che "tutti questi preziosi elementi valutativi ... sono elusi nella motivazione della Corte, senza motivare il parchè...".
Il rilievo è questa volta fondato.
Occorre, invero, innanzitutto considerare che, come si è sopra già riportato, nel capo di imputazione si contestava al ricorrente e agli altri coimputati di avere, in cooperazione fra loro, cagionato alla persona offesa "una lesione personale consistita in afasia di tipo non fluente (tipo Broca) con anormale capacità di eloquio e lieve ipostenia dell'arto superiore destro conseguenti ad
una lesione cerebrale dell'emisfero sinistro di natura ischemica, dalla quale derivava una malattia probabilmente insanabile ...". Si è già ricordato che ha al riguardo osservato il primo giudice
che, "per come è formulato il capo di imputazione, le lesioni riportate dalla T. sono state ricondotte integralmente alle condotte degli imputati, mentre è evidente ... che le stesse sono gli effetti immediati dell'insulto ischemico e che le condotte dei medici potrebbero al più averne modificato, in senso negativo, il decorso, impedendo in ipotesi una guarigione completa o un più rapido recupero". Ha più oltre confermativamente rilevato che "l'evento lesivo non è affatto dipeso
dalle condotte omesse, in quanto l'afasia ... e lieve ipostenia dell'arto superiore destro sono evidentemente ...conseguenti ad una lesione cerebrale dell'emisfero sinistro di natura ischemica e
non alle condotte dei medici. Tutt'al più ... è il perdurare delle lesioni ad essere eziologicamente
connesso alle condotte omissive dei medici ...". In siffatto puntualizzato contesto, ha ritenuto
quel giudice che "su questo profilo non è stato acquisito alcun dato scientifico certo che possa
far sostenere che l'effettuazione di una terapia riabilitativa avrebbe cambiato il decorso della
malattia...".
Tale divisamente è preceduto dai riportati esiti delle indagini tecniche eseguite. In particolare,
ha ricordato il giudice (pagg. 26 e ss. della relativa sentenza) che, alla stregua delle conclusioni
rassegnate dal perito, "il decorso del quadro clinico anche correttamente interpretato sarebbe
stato non molto diverso, in quanto non c'è una terapia risolutiva in senso stretto di un accidente
cerebro-vascolare acuto ... e la stessa terapia riabiliti va, che non poteva essere iniziata se non
dopo il superamento della fase di afasia globale ... produce i suoi effetti nel medio-lungo periodo ...". Inoltre, "l'andamento e i disturbi... sono da attribuire alla natura dell'affezione da cui la
paziente è stata colpita e non sono riconducigli alla terapia farmacologica somministrata alla T.,
né si sono manifestati i possibili effetti negativi ventilati dal consulente del P.M. (alterazioni di
ipotensione ortostatica)". Ancora: il perito "ha invece evidenziato come i farmaci antidepressivi
potrebbero aver avuto anche un effetto favorevole per la T., essendo tipica l'insorgenza di uno
stato depressivo a seguito di insulti cerebro-vascolari con perdita di linguaggio. Come tutti i
farmaci, però, anche quelli somministrati alla T. hanno effetti collaterali, che si sono difatti manifestati con una crisi dislettica, rapidamente risolta senza lasciare alcuna sequela ...". Infine,
aveva anche chiarito il perito che "le terapie riabilitative del linguaggio potevano essere effettivamente iniziate nel mese di X. (in periodo ben antecedente vengono collocate le due visite del
dott. B.), in quanto la T. già nel corso della degenza aveva manifestato una progressiva uscita
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dalla fase globale dell'afasia (si è sopra riportato che il perito aveva riferito che la terapia riabilitativa non poteva essere iniziata se non dopo il superamento della fase di afasia globale) e che
qualora tali terapie fossero state attuate tempestivamente certamente avrebbe potuto avere un
non quantificabile aiuto in più, di difficile valutazione e verosimilmente limitato ad una più rapida ripresa (non quantificabile e non valutabile ... però è possibile che si accelera non tanto il
risultato finale, ma i tempi in cui avrebbero raggiunto quel risultato)...".
Ebbene, deve a tal punto richiamarsi il consolidato principio di questa Suprema Corte, secondo
cui, in tema di motivazione della sentenza, il giudice di appello che riformi totalmente la decisione di primo grado ha l'obbligo di delineare le linee portanti del proprio, alternativo, ragionamento probatorio e di confutare specificamente i più rilevanti argomenti della motivazione della
prima sentenza, dando conto delle ragioni della relativa incompletezza o incoerenza, tali da giustificare la riforma del provvedimento impugnato (Cass., Sez. Un., 12.7.2005, n. 33748).
A tale principio non appare essersi sostanzialmente uniformata la sentenza impugnata.
Essa, difatti, ha innanzitutto confermativamente ritenuto che "gli appellati non hanno direttamente cagionato alla p.o. l'afasia e l'ipostenia e ... che non vi è piena prova che una corretta e
tempestiva diagnosi, con cure appropriate, avrebbe determinato un più favorevole esito della
malattia ...". Ha nondimeno affermato che, tuttavia, "non può nella specie escludersi il nesso
causale", giacché "è altrettanto certo che i contestati errori ed omissioni degli appellanti (senza,
quindi, discriminazione alcuna tra gli stessi) e l'errata terapia hanno avuto le negative ripercussioni sul decorso della malattia della T., richiamate in contestazione, senza determinare una favorevole evoluzione, a rilievo giudiziale. Ed invero l'erronea individuazione dell'origine in cause di natura psichica ... e il conseguente trattamento farmacologico tranquillante antidepressivo
prescritto hanno ritardato la guarigione della p.o. protraendo l'alterazione dello stato di salute".
Colta la intrinseca contraddittorietà ed il valore di mero enunciato di tale argomentare, a fronte
del diverso articolato apparato motivazionale del primo giudice, afferma ancora la sentenza impugnata che "è risultato che effettivamente, in caso di corretta e tempestiva diagnosi il ricorso
alla terapia riabilitativa del linguaggio avrebbe potuto essere iniziata prima (circa un anno prima), nel X., con un non quantificabile aiuto in più, di difficile valutazione e verosimilmente limitato ad una più rapida ripresa... e inoltre che la somministrazione di farmaci antidepressivi
alla T. ha determinato anche effetti collaterali, quali una crisi dislettica, pur rapidamente risolta
..."; richiama "l'effetto collaterale derivato alla p.o. dall'errata terapia con psicofarmaci, la crisi
dislettica e il problema della motricità ... una forte salivazione, una scaialorrea, lo spasmo dei
muscoli dell'orofaringe ..."; sicché, in definitiva, deve ritenersi la sussistenza di una malattia,
"sotto il duplice profilo del ritardo nella guarigione con sua protrazione e della causazione di
comprovati non dovuti effetti collaterali, connessi all'erronea terapia prescritta...".
Tale assunto si appalesa, per vero, ancora una volta meramente enunciativo ed immotivamente
confliggente con le argomentazioni espresse dal primo giudice.
Sugli effetti indotti dal ritardato avvio della terapia riabilitativa la sentenza di primo grado aveva espresso il convincimento su riportato, ricordando che, secondo il perito, "il decorso del quadro clinico anche correttamente interpretato sarebbe stato non molto diverso ... e la stessa tera-
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pia riabilitativa, che non poteva essere iniziata se non dopo il superamento della fase di afasia
globale ... produce i suoi effetti nel medio-lungo periodo ..."; e che, quanto alle terapie riabilitative del linguaggio, qualora le stesse fossero state attuate tempestivamente certamente avrebbero
potuto avere "un non quantificabile aiuto in più, di difficile valutazione e verosimilmente limitato ad una più rapida ripresa (non quantificabile e non valutabile ... però è possibile che si accelera non tanto il risultato finale, ma i tempi in cui avrebbero raggiunto quel risultato)...": dato,
questo, certamente inidoneo a fondare la ritenuta sussistenza di un rapporto di causalità processualmente accertato.
Quanto alla terapia farmacologica, i giudici del gravame hanno omesso del tutto di considerare
che la sentenza di primo grado aveva richiamato l'affermazione del perito, secondo cui "i farmaci antidepressivi potrebbero aver avuto anche un effetto favorevole per la T., essendo tipica l'insorgenza di uno stato depressivo a seguito di insulti cerebrovascolari con perdita di linguaggio".
La crisi dislettica, quale effetto collaterale della terapia farmacologica, si è "rapidamente risolta
senza lasciare alcuna sequela...".
La "forte salivazione", la "scaiarollea", lo "spasmo dei muscoli" vengono meramente enunciati,
senza spiegazione del loro rapporto eziologico con le circostanze tutte rappresentate nell'unitario contesto della patologia in questione e nel contesto della imputazione contestata: e se pur essi si fanno derivare dalla instaurata terapia farmacologica, vale quanto a proposito di questo ha
rilevato il perito ed ha richiamato il giudice di prime cure.
3.2 La sentenza impugnata va, dunque, annullata con rinvio, ai predetti effetti civili.
4.0. Per quanto riguarda gli effetti penali, deve rilevarsi che, secondo quanto più volte chiarito
da questa Suprema Corte, in presenza di una causa di estinzione del reato (nella specie la prescrizione), non possono apprezzarsi in sede di legittimità vizi di motivazione inducenti all'annullamento con rinvio del provvedimento impugnato, giacché l'inevitabile rinvio del procedimento al nuovo esame del giudice del merito è del tutto incompatibile con l'obbligo di immediata declaratoria della causa di estinzione, salva la sussistenza di ipotesi sussumibili nella previsione di cui al secondo comma dell'art. 129 c.p.p., che nella specie non si ritengono sussistenti
(cfr. ex plurimis, da ultimo, Cass., Sez. 4^, 18 settembre 2008, n. 40799).
4.1. Il ricorso va, quindi, rigettato ai fini penali.
5. Conclusivamente: la sentenza impugnata va annullata ai fini civili, con rinvio al giudice civile
competente per valore in grado di appello. Il ricorso va rigettato ai fini penali.
P.Q.M.
La Corte annulla la sentenza impugnata ai fini civili con rinvio al giudice civile competente per
valore in grado di appello. Rigetta il ricorso ai fini penali.
Così deciso in Roma, il 20 novembre 2009.
Depositato in Cancelleria il 14 gennaio 2010
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