recensione I ragazzi di Polcenigo
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recensione I ragazzi di Polcenigo
RECENSIONE SU RAGAZZI DI POLCENIGO DI RENATO CAMILOTTI E RENZO PERESSIN E ALTRE COSE ANCORA Gli itinerari della memoria sono importanti come sono importanti gli itinerari che gli storici compiono negli archivi, là dove si scoprono le premesse dei fatti cui noi abbiamo partecipato o assistito. La cultura storica si nutre dell'una e dell'altra ricerca, quella basata sulle fonti orali e quella basata sulle fonti scritte, oppure su altre fonti ancora che vanno dall'archeologia al paesaggio, dai monumenti sepolcrali ai centri storici: il problema è quello di mirare a una certa completezza che dovrebbe essere conseguita nel quadro della cultura storica nel suo insieme. Nella prefazione a Ragazzi di Polcenigo1 Vittorio Pianca scrive che dalle pagine del libro emerge “[...] il contesto di violenza diffusa in cui vivevano allora i partigiani, i nazifascisti e la popolazione”. La verifica di questa affermazione la si ha puntualmente nelle interviste rilasciate dai partigiani Raimondo Zanolin (Lupo) e Andrea Bravin (Capriolo). Zanolin racconta del rapporto di sopraffazione che vigeva nell'esercito italiano regio tra soldati più anziani e le reclute, il nonnismo, rapporto duro a morire anche oggi in settori delle forze armate più “tecnologiche”. Si tratta dell'atteggiamento inquietante dei penultimi sugli ultimi, registrabile non solo nelle caserme, ma anche nella società. I nostri più disagiati se la prendono con gli ultimi immigrati. Bravin dal canto suo descrive in modo puntiglioso la punizione del palo applicata, da quel che mi risulta, sia nelle formazioni garibaldine che in quelle osovane della nostra zona. Quella del palo era una punizione diffusa nella prima guerra mondiale in tutti gli eserciti: il soldato punito veniva legato a un palo per ore fuori dalla trincea in posizione esposta in prima linea al fuoco nemico. 1 Renato Camilotti, Renzo Peressini, Ragazzi di Polcenigo. La lotta partigiana nel racconto di due protagonisti, Vittorio Veneto, Istituto per la Storia della Resistenza e della Società Contemporanea del Vittoriese, 2011. 1 Ma vigeva la consuetudine rispettata dalla truppa dall'una e dall'altra parte di non sparare all'uomo colpito dal rigore disumano di un suo superiore. Restavano comunque il terrore e l'umiliazione. In questa e altre pratiche mise le sue radici l'antimilitarismo del primo dopoguerra, un atteggiamento giustificato dalle politiche degli stati maggiori, soprattutto di quelli che erano più inficiati di “cadornismo”. Meno razionale invece quello che facevano dopo il 1918 i socialisti massimalisti del tricolore, suscitando la risposta esasperata dei nazionalisti. Così si è avvitata la spirale della violenza di quegli anni. Le dure punizioni entro il proprio campo sono per un verso la riprova della difficoltà di mantenere la disciplina degli uomini che hanno le armi, per altro verso l'applicazione di questi sistemi punitivi stimolano la ferocia. Basti leggere le battute relative al modo di legare un punito: chi lo lega prova soddisfazione a stringere con il fil di ferro. Ci sarà la pietas e comunque piuttosto di rado e sulla quale è meglio non contarci. Nella prima guerra mondiale i governi diffondono una sterminata letteratura a favore della violenza bellica (un testo su tutti è I valori della guerra di Antonio Renda, Milano, Treves, 1917). Già tutta la poesia di D'Annunzio dei primi anni del '900 rappresenta, con uno stile tutto personale, una sfacciata esaltazione della violenza militare che raggiunge il suo apice con l'aggressione italiana alla Libia nel 1911 condotta da Giolitti, il quale era contrario, ma la decise pensando di rabbonire i militari. Ottenne proprio l'effetto contrario perché li eccitò a nuove “imprese”. Di tal contesto di violenza diffusa bisogna dar conto e il conto ce lo dà il bilancio della II guerra mondiale che conta 55 milioni di morti. I tedeschi subiscono 3.760.000 morti tra i militari, più mezzo milione sepolte sotto i bombardamenti. Molto peggio le cose sono andate per uno stato aggredito come l'URSS, la cifra ufficiale è stimata in 7 milioni di morti, tra militari e civili. Le statistiche non ufficiali invece parlano di 14 milioni di morti, addirittura di 20 milioni. È probabile che le cifre ufficiali siano inferiori al vero per non rendere troppo evidenti le responsabilità di Stalin. 2 Tutto il '900 è sotto il peso della violenza, la prima metà per guerre combattute, la seconda metà sotto la minaccia atomica e la tensione tra i due blocchi contrapposti. Però esiste anche un momento particolare e lo troviamo collocato tra il 1943 e il 1945, quando la Germania nazista dopo Stalingrado proclama la guerra totale e occupa anche l'Italia dopo l'8 settembre 1943. In questa fase i nazifascisti hanno alzato ulteriormente il livello della repressione, che pur era già cominciata con lo sterminio degli ebrei, degli zingari, dei commissari politici sovietici, anche dei semplici prigionieri di guerra russi. La causa di tal brutale scatenamento di violenza va individuato nello sviluppo ineguale dei principali paesi capitalisti. La Germania provoca la prima guerra mondiale perché è in concorrenza con Francia e Inghilterra, ma viene sconfitta e deve riconoscere la sua colpa. Una parte della società tedesca non accetta un nuovo rapporto e prepara la rivincita. La conduce sotto l'egida del nazismo, una teoria razzista, in particolare antisemita, politicamente antibolscevica, antiparlamentare, una teoria che raccoglie forze in tutta Europa di analogo indirizzo, alimentato anche da una componente antislava (un forte spirito antislavo lo si trova negli Ungheresi). Le iniziali campagne fortunate di Hitler portano sotto la Germania una larga parte d'Europa. Man mano che queste conquiste si realizzano si chiarisce cosa ci sarebbe stato nell'Europa nazista: – violenta repressione militare e poliziesca; – dominio tedesco, pensandosi i tedeschi razza superiore; – assoggettamento delle culture nazionali; – eliminazione delle libertà borghesi. Questa concezione si riflette anche sul piano economico: l'industria pesante va ai tedeschi; gli altri paesi devono essere fornitori di materie prime e devono limitarsi a economie basate sull'agricoltura. I nazisti vogliono realizzare un rapporto ineguale di scambio per dominare l'Europa e trattare con gli USA da posizioni di forza dopo la vittoria. Nel conflitto la Germania è di fatto isolata: rastrella tutte le risorse per la sua guerra e perché il livello di vita del popolo tedesco non subisca limitazioni rilevanti. 3 Questa è la demagogia di Hitler: burro e cannoni. Si rastrellano anche risorse umane come soldati (come àscari: ungheresi, romeni, italiani) e come lavoratori forzati (polacchi e francesi) per mantenere efficiente la macchina economica tedesca: ai tedeschi è riservato il ruolo di soldati veri perché essi rappresentano la razza dei dominatori. Da ciò nasce la Resistenza in ogni paese: polacchi – nazionalisti (attaccati anche dai russi), ma anche cechi – che si legano a Londra, poi francesi gollisti che non accettano l'armistizio, poi Jugoslavia e URSS: con diverse parti monarchici serbi, comunisti, liberali, ma con l'attacco all'URSS entrano in lotta sia i comunisti francesi che quelli polacchi. Nell'agosto 1944 insorgono gli slovacchi. Bisogna tener conto che in Polonia l'armata nazionale è diversa dall'armata popolare. In Italia abbiamo diverse brigate, pur sotto la direzione del CLN, quali la Garibaldi, la Osoppo, etc. Piuttosto forti sono le differenze tra le varie partigianerie: i partigiani polacchi non erano partigiani ucraini, comunque ebbero 10.000 morti nei relativi conflitti. Non dimentichiamo quanto in Friuli avvenne con l'eccidio di Porzûs, uno dei più complessi e tragici episodi della Resistenza italiana, in cui un gruppo di partigiani comunisti ebbe l'obiettivo di arrestare e fucilare partigiani della Brigata Osoppo. Due tratti comuni unificano le diverse resistenze: l'unità fino alla caduta del nazismo; l'aspirazione al cambiamento. Neppure i partigiani polacchi dell'Armata nazionale dipendenti da Londra volevano più i colonnelli del 1920/30, così anche i partigiani della Osoppo intendevano riformulare la mezzadria, come scrivevano nei loro volantini. Per quanto ci riguarda come popolo, noi italiani possediamo la Costituzione, frutto di quella volontà di non tornare al regime liberale che in fondo aveva aperto le porte a Mussolini. Pertanto lo spirito della Resistenza deve essere tenuto vivo perché rappresentativo di un periodo storico europeo, quindi anche italiano, nel quale si manifesta l'aspirazione al cambiamento economico, sociale, politico. L'aspirazione a una società più giusta rispetto a quella che aveva generato il fascismo e il nazismo. 4