giovedi 19 gennaio 2017
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Spedizione in abbonamento postale Roma, conto corrente postale n. 649004 Copia € 1,00 Copia arretrata € 2,00 L’OSSERVATORE ROMANO POLITICO RELIGIOSO GIORNALE QUOTIDIANO Non praevalebunt Unicuique suum Anno CLVII n. 14 (47.448) Città del Vaticano giovedì 19 gennaio 2017 . All’udienza generale Papa Francesco ricorda l’inizio della settimana dedicata all’ecumenismo Avvio dell’uscita dall’Unione a marzo L’unità è possibile May detta la linea sulla Brexit E nella catechesi dedicata al profeta Giona spiega il legame tra preghiera e speranza «Comunione, riconciliazione e unità sono possibili»: nel giorno in cui ha inizio la settimana ecumenica Papa Francesco ha ribadito la necessità di pregare affinché i cristiani ritrovino la piena unione, sottolineando come «in Europa questa comune fede in Cristo è come un filo verde di speranza». Salutando come di consueto i gruppi di fedeli al termine dell’udienza generale del 18 gennaio, con quelli di lingua tedesca presenti nell’aula Paolo VI il Pontefice ha ricordato «con commozione la preghiera ecumenica a Lund, in Svezia, il 31 ottobre scorso». Da qui l’esortazione «nello spirito di quella commemorazione comune della Riforma», a guardare «più a ciò che unisce che a ciò che divide» e a continuare «il cammino insieme, per approfondire la comunione e darle una forma sempre più visibile». Auspici rinnovati sull’account @Pontifex: «Dall’intimo della nostra fede in Gesù Cristo — ha twittato — sgorga l’esigenza di essere uniti in lui». In precedenza il Papa aveva proseguito il ciclo di riflessioni sul tema della speranza cristiana alla luce della Scrittura. Sullo sfondo della catechesi la figura biblica del profeta Giona «che tenta di sottrarsi alla chiamata del Signore». Ma la sua vicenda — narrata «in un piccolo libretto di soli quattro capitoli» — costituisce secondo Francesco «una sorta di parabola portatrice di un grande insegnamento, quello della misericordia di Dio che perdona». Egli è infatti «un profeta in uscita che Dio invia “in periferia”, a Ninive», per convertirne gli abitanti; però cerca di sottrarsi al compito e fugge. Così entra in contatto con dei pagani, i marinai della nave su cui si era imbarcato. Ma nel corso della traversata «scoppia una tremenda tempesta», durante la quale il profeta «riconoscendo le proprie responsabilità, si fa gettare in mare per salvare i compagni di viaggio». Ecco allora la le- Donald Liu, «La preghiera di Giona» (2008) zione tratta da Francesco: «La morte incombente ha portato quegli uomini pagani alla preghiera» e «ha fatto sì che il profeta vivesse la propria vocazione al servizio degli altri accettando di sacrificarsi». Di conseguenza, ha concluso il Papa aggiungendo una considerazione al testo scritto, occorre invocare il Signore affinché «ci faccia capire questo legame fra preghiera e speranza». Anche perché «la preghiera ti porta avanti nella speranza e quando le cose diventano buie, occorre più preghiera! E ci sarà più speranza». PAGINA 8 Jet militare colpisce per errore un campo nel nordest Strage di profughi in Nigeria y(7HA3J1*QSSKKM( +_!z!#!#!;! ABUJA, 18. Un jet militare nigeriano ha bombardato ieri per errore un campo profughi che assiste centinaia di persone in fuga dai massacri dei terroristi di Boko Haram, provocando decine di vittime. Lo riferiscono fonti ufficiali della Nigeria. Alcune fonti parlano di 150 morti. Il caccia dell’aeronautica era in missione proprio contro postazioni dei jihadisti di Boko Haram nell’area nordorientale di Rann, nello stato di Borno, vicino al confine con il Camerun. Il generale Lucky Irabor, responsabile dell’operazione contro Boko Haram, ha detto che tra i morti e i feriti ci sono anche operatori umanitari e nigeriani, che lavorano per Medici senza frontiere (Msf) e per il comitato internazionale della Croce rossa. È la prima volta — rilevano gli analisti — che i militari ammettono di avere colpito un obiettivo civile, benché già in passato testimoni avessero denunciato simili incursioni dei caccia. Ma quella di ieri è una strage senza precedenti, dalle dimensioni enormi. Il generale ha detto di avere ordinato la missione basandosi su informazioni relative a un raggruppamento di Boko Haram proprio in un’area con quelle coordinate. E ha dichiarato che è presto per sapere se si è trattato di un errore tattico o geografico. In ogni caso, ha sottolineato, l’aereo militare non ha volutamente preso di mira i civili. Sulla vicenda è stata aperta un’inchiesta. Il governo ha inviato nella regione, isolata e difficile da raggiungere, elicotteri che fanno la spola per cercare di portare via i feriti, che potrebbero essere curati nei confinanti Camerun e Ciad, dove sono operativi ospedali da campo e strutture sia di Msf che della Croce rossa. Dopo avere ammesso che aerei militari hanno «accidentalmente» bombardato il campo profughi, il presidente della Nigeria, Muhammadu Buhari, ha espresso il proprio sgomento per la perdita di vite umane e ha invitato alla calma la popolazione e le autorità. Tuttavia, il direttore delle operazioni locali di Msf, Jean-Clement Cabrol, non ha risparmiato parole di condanna. «Questo attacco su larga scala contro persone inermi e vulnerabili, che già erano state costrette a fuggire da situazioni di violenza estrema, è scioccante e inaccettabile» ha detto. Il campo colpito dal raid aereo era infatti stipato da sfollati costretti ad abbandonare i loro villaggi per le sanguinarie incursioni di Boko Haram. Sin dal 2009 sono 14.000 le persone morte in attentati e attacchi armati a opera dei jihadisti, il cui raggio di azione si è esteso dal nord est della Nigeria fino ai confinanti Ciad, Niger e Camerun. Nell’area, almeno 2,7 milioni di persone sono state costrette a lasciare le loro abitazioni per sfuggire al gruppo terrorista, noto anche per rapimenti di massa, come quello delle studentesse di Chibok. BRUXELLES, 18. Il governo britannico di Theresa May chiarisce i prossimi passi sulla Brexit, sottolineando che «Londra non cercherà di restare nel mercato unico europeo». In un discorso tenuto ieri alla Lancaster House, mentre a Davos il presidente cinese Xi Jinping parlava dell’inutilità delle guerre commerciali e dell’isolazionismo, May ha dettato la linea dell'uscita del Regno Unito dall'Unione, impegnandosi a sottoporre un piano omogeneo al parlamento di Westminster, che si potrà esprimere sull’accordo finale. Il premier ha assicurato che attiverà la procedura definita dall’articolo 50 del Trattato di Lisbona entro marzo e ha spiegato che Londra non difenderà la sua permanenza nel mercato unico europeo, perché significherebbe accettare altre condizioni sulla libera circolazione delle persone, come specificato più volte dalle autorità europee. Un altro punto essenziale è che «il governo britannico vuole negoziare allo stesso tempo l’uscita dall’Unione e i nuovi trattati che consentiranno di stabilire nuovi rapporti commerciali con i vari paesi». In questo modo, ha spiegato May, «si eviteranno accordi temporanei e di transizione che potrebbero rivelarsi dannosi per l’economia» e potrebbero lasciare il paese «in un purgatorio politico permanente». Al momento May non ha potuto aggiungere altro, se non che si cercherà di «rendere meno macchinoso possibile lo scambio delle merci». In sostanza — come sottolineano gli analisti — l’obiettivo del governo del Regno Unito è quello di recuperare il controllo dei suoi confini, non essere più soggetto alle decisioni della corte di giustizia dell’Unione europea e modificare la gestione della circolazione delle merci. Anche sullo spinoso tema dello stato giuridico dei cittadini dell’Unione in Gran Bretagna, al momento non c’è una proposta precisa, ma solo l’auspicio di trovare «accordi soddisfacenti per entrambe le parti». May ha spiegato che il Regno Unito vuole «continuare a essere un buon amico e un buon vicino dell’Unione europea», dicendo apertamente di «sapere Di fronte alla violenza in occidente Sperare ancora in mezzo al tumulto JEAN-CLAUDE GUILLEBAU A PAGINA 5 Ai prossimi colloqui ad Astana sulla crisi siriana Teheran si oppone alla partecipazione statunitense TEHERAN, 18. «L’Iran è contrario alla partecipazione degli Stati Uniti al vertice di Astana del 23 gennaio prossimo per i colloqui di pace in Siria». Questa la posizione espressa oggi dal ministro degli esteri iraniano, Mohammad Javad Zarif, riportata dall’agenzia Tasnim. «Non abbiamo invitato gli Stati Uniti e ci opponiamo alla loro presenza ai colloqui di Astana» come invece proposto nei giorni scorsi da Mosca e Ankara. Ieri il ministro degli esteri russo, Serghiei Lavrov, aveva annunciato l’invito di una delegazione della nuova amministrazione statunitense ai negoziati di Astana, in programma il 23 gennaio. Sempre ieri il presidente iraniano, Hassan Rohani, aveva definito il summit «un preludio alla soluzione definitiva della crisi in corso nel paese». Rohani aveva rimarcato la positività della tregua in atto in Siria, sottolineando che «ora gli sforzi devono essere concentrati sulla protezione del cessate il fuoco», pur tenendo presente che questo è stato concordato tra il governo siriano e un certo numero di gruppi di opposizione, ma non da gruppi jihadisti come il cosiddetto stato islamico (Is). Intanto, il Pentagono ha annunciato di voler presentare a breve un piano per accelerare la lotta all’Is in Siria. Piano che prevede anche opzioni militari come l’invio di ulteriori truppe da combattimento. Centinaia di soldati in più per rafforzare l’offensiva verso Raqqa. Lo affermano fonti del dipartimento della difesa riportate dalla Cnn. Il piano sarà portato sul tavolo dello Studio ovale il prima possibile, dopo l’insediamento del presi- Sulla base di una comune eredità ANDREA PALMIERI A PAGINA 6 dente eletto Donald Trump alla Casa Bianca. A presentarlo il nuovo segretario alla difesa, James Mattis, e il capo di stato maggiore, il generale Joe Dunford, dopo che avranno dato il via libera a tutti i dettagli. Tra le opzioni, ci sarebbero anche una serie di proposte per limitare la crescente influenza nella regione di altri paesi. In particolare i vertici militari vorrebbero più autorità per fermare il traffico di armi nella regione. NOSTRE INFORMAZIONI Sinodalità e primato Il campo profughi nigeriano dilaniato dalle bombe (Epa) che ci sono alcuni che chiedono un accordo punitivo nei confronti della Gran Bretagna». In definitiva, il premier ha chiarito che «nel caso in cui il governo non fosse in grado di ottenere ciò che vuole, l’assenza di un accordo sarebbe meglio di un cattivo accordo». E dunque, occorre in tutti i modi evitare soluzioni come quelle «ibride che hanno permesso all’Unione europea di mantenere rapporti più stretti con alcuni paesi extracomunitari». Un esempio è la Norvegia. Molti osservatori politici hanno definito il discorso di May ancora troppo vago e hanno sospeso il loro giudizio. Il quotidiano «The Guardian» ha scritto invece che il premier col suo discorso ha fatto un po’ più di chiarezza e che quindi «ora si sa qualcosa su che cosa non sarà la Brexit, ma poco su che cosa sarà effettivamente». D all’opposizione, Jeremy Corbyn, leader dei laburisti, ha commentato: «Il primo ministro ha fatto tutte queste dichiarazioni ottimistiche, ma ogni indicatore economico ci dice che il Regno Unito sta andando nella direzione sbagliata». Guardando a Bruxelles, ci si aspetta che oggi, nel discorso previsto all’assemblea parlamentare a Strasburgo, il presidente della commissione europea, Jean-Claude Juncker, in qualche modo dia una sua risposta alle parole di May. In modo informale, invece, si è pronunciato subito, via twitter, il presidente del consiglio Ue, Donald Tusk, facendo sapere che «finalmente c’è un po’ più di chiarezza sui piani britannici». Tusk ha comunque parlato di «processo triste, tempi surreali ma almeno annunci più realistici». E ha ribadito che l’Europa è «unita» e pronta a negoziare. Gruppo di ribelli siriani nella città di Al Bab (Reuters) Il Santo Padre ha accettato la rinuncia al governo pastorale dell’Arcidiocesi di Aracaju (Brasile), presentata da Sua Eccellenza Monsignor José Palmeira Lessa. Gli succede Sua Eccellenza Monsignor João José da Costa, O.CARM., finora Arcivescovo Coadiutore della medesima Arcidiocesi. L’OSSERVATORE ROMANO pagina 2 giovedì 19 gennaio 2017 Migranti in fila per ricevere cibo in un campo in Serbia (Reuters) Mattarella chiede più impegno dell’Europa sull’immigrazione Ne parla a Davos il direttore del Fondo monetario Crisi economica e ruolo della politica BERNA, 18. «È tempo che i leader politici ripensino profondamente le politiche economiche e monetarie, di fronte alla chiara protesta e delusione della classe media che arriva dagli Stati Uniti e dall’Europa». Sono parole del direttore generale del Fondo monetario internazionale (Fmi) Christine Lagarde, che, intervenendo a Davos, ha chiesto «una maggiore redistribuzione dei redditi di quanta ne abbiamo oggi». Il direttore dell’Fmi ha richiamato i politici alla responsabilità di studiare azioni con uno sguardo a lungo termine, in grado di dare risposte efficaci. Lagarde, in particolare, è intervenuta nella discussione sulla crisi della classe media, esortando i leader politici ad ascoltare meglio «i forti segnali di scontentezza che vengono dagli elettori», e a mettere in conto «coraggio e fatica». Alla stessa tavola rotonda ha preso parte, tra gli altri, il ministro dell’economia italiana, Pier Carlo Padoan, secondo cui «la classe media europea è disillusa sul futuro, delusa sul lavoro per i figli e per la sicurezza del welfare ed esprime questo dicendo no a tutto quello che i politici propongono». Nel suo intervento Padoan ha esortato tutti a riflettere sul fatto che «è molto più difficile fornire e attuare una soluzione che dire semplicemente no», facendo intendere che i nuovi partiti populisti sono chiamati ad avere «un progetto credibile che assicuri sostegno alle necessarie riforme». Il ministro italiano si è poi detto «preoccupato perché l’Europa non ha una strategia su come affrontare la nuova globalizzazione». Al World Economic Forum, in corso nella cittadina svizzera, dopo che il presidente della Cina, Xi Jinping, ha definito ieri «inevitabile» la globalizzazione e «inutili» i tentativi di isolazionismo, oggi si è tornati a parlare di risposte da dare alla crisi economica e dei limiti del protezionismo. Il vicepresidente uscente degli Stati Uniti, Joe Biden, ha parlato della «battaglia per difendere i valori di una crescita più equa, e inclusiva», chiarendo il «ruolo guida» che spetta a Washington e Bruxelles. E a proposito di Europa, ha voluto ribadire «la capacità dell’Unione di generare prosperità e pace», definendo tutto ciò «una conquista inestimabile». Biden ha sottolineato che «il populismo in risposta alle paure e alle sfide della globalizzazione e della tecnologia non è niente di nuovo nella storia», che «a intervalli regolari ha riproposto pericolosi demagoghi che istillavano paura e seminavano divisione». Biden si è detto certo che «chiudere i cancelli e alzare i muri è esattamente la risposta sbagliata e non risolverà le ragioni alla base di queste paure». Inoltre, interpellato sul nuovo corso della Casa Bianca, il vice del presidente Obama si è espresso a proposito della Nato, affermando che «il principale bastione di difesa dell’Alleanza atlantica è l’impegno degli Stati Uniti» che quindi questo impegno «non potrà mai essere messo in dubbio». Il traffico di esseri umani frutta dai tre ai sei miliardi di dollari Fare soldi sui migranti BRUXELLES, 18. «Abbiamo stimato che nel 2015 le organizzazioni attive nel traffico di migranti hanno fatturato tra i 3 e i 6 miliardi di dollari: si tratta senza dubbio del settore criminale in maggiore crescita in Europa». L’impressionante stima è stata divulgata questa mattina dal vicedirettore di Europol, Wil Van Gemert, in un’audizione davanti al Comitato Schengen. «Ci sono gruppi specializzati — ha spiegato Van Gemert — nel fornire L’OSSERVATORE ROMANO GIORNALE QUOTIDIANO Unicuique suum POLITICO RELIGIOSO Non praevalebunt Città del Vaticano [email protected] www.osservatoreromano.va servizi (mezzi di trasporto, passaporti, trasferimenti di denaro) di cui beneficia mediamente il novanta per cento dei migranti, di regola reclutati attraverso i social media ed esposti al rischio di sfruttamento come manodopera illegale o nei circuiti della prostituzione o dello spaccio di droga». Abbiamo individuato «250 località chiave per il traffico di migranti, 170 in Unione europea e 80 fuori» ha spiegato Van Gemert. Ieri intanto, la giustizia italiana ha disposto la custodia cautelare in carcere per Osman Matammud, ventiduenne somalo, gestore in Libia di un centro che organizzava traversate verso l’Europa. Il ragazzo — fermato nel settembre scorso dalla polizia a Milano — è stato accusato di quattro omicidi, violenze sessuali su decine di donne e sequestro di persona a scopo di estorsione di centinaia di persone. «Un sadico» lo hanno definito gli inquirenti. Circa 88 milioni di tonnellate di cibo finiscono nella spazzatura Nessuna vittima ma diversi crolli Poco efficace la lotta allo spreco alimentare Forti scosse di terremoto in Italia centrale BRUXELLES, 18. Le iniziative contro lo spreco alimentare nell’Unione europea sono frammentate e intermittenti e la commissione non svolge pienamente il suo ruolo di coordinamento. Lo afferma in un rapporto la corte dei conti europea. Secondo i giudici, nonostante il tema sia discusso da anni nelle istituzioni europee e non solo, l’assenza di una definizione comune di "spreco alimentare" e di parametri condivisi per misurarlo, così come la presenza di barriere amministrative che limitano le possibilità di donazione, ostacolano un’azione coerente e chiara contro lo spreco di cibo a livello Ue. E le politiche che dovrebbero interessarsene, come quelle agricole, della pesca e dell’ambiente, continua la relazione, non agiscono in modo coordinato. La corte dei conti europea rileva che va perso, o sprecato, un terzo degli alimenti. In cifre, in media ogni anno circa 88 milioni di tonnellate di alimenti finiscono nel cestino, e si stima che lo spreco alimentare complessivo nell’Ue salirà a circa 126 milioni di tonnellate entro il 2020, a meno che vengano prese ulteriori azioni o misure preventive. «La commissione Ue — si legge nel documento — dovrebbe quindi riflettere su come utilizzare le politiche esistenti per meglio lottare contro lo spreco alimentare» Tajani eletto presidente del parlamento europeo STRASBURGO, 18. «Ringrazio tutti anche, chi ha votato per gli altri candidati in questo grande confronto democratico: sarò il presidente di tutti, rispetterò tutti i deputati di tutti i gruppi politici. Voglio dedicare questo risultato alle vittime del terremoto che ha colpito il mio paese, che stanno ancora vivendo momenti di grande difficoltà». Queste le prime parole di Antonio Tajani, eletto ieri presidente del parlamento europeo al quarto turno di voto. Il candidato del Partito Popolare europeo ha ottenuto al ballottaggio 351 voti contro i 282 dell’avversario socialdemocratico, Gianni Pittella. Questa mattina c’è stato il passaggio di consegne formale tra Tajani e il suo predecessore Martin Schultz. I due hanno ricevuto una telefonata del presidente della Repubblica italiana, Sergio Mattarella. Soddisfazione è stata espressa anche dal presidente del consiglio italiano, Paolo Gentiloni. La Commissione degli episcopati della Comunità europea (Comece) ha diffuso un comunicato salutando l’esito della votazione e auspicando di continuare il dialogo con il parlamento «per permettere alle nostre Chiese di offrire un contributo alla costruzione europea». ROMA, 18. «È giusto che l’Europa chieda agli stati membri di avere conti in ordine e finanze a posto, ma lo stesso rigore dev’essere utilizzato anche quando gli Stati sono inadempienti sull’immigrazione e altri dossier. Il medesimo impegno ci sia insomma per favorire la crescita e l’occupazione». Questo il messaggio espresso ieri dal presidente della Repubblica italiana, Sergio Mattarella, nel corso di una visita in Grecia, all’indomani della lettera con cui la Commissione europea ha chiesto all’Italia misure aggiuntive per la riduzione del debito. «Da troppo tempo — ha sottolineato il titolare del Quirinale — attraversiamo gravi difficoltà, che creano povertà e mettono a rischio il nostro modello di convivenza sociale. Siamo convinti, greci e italiani insieme, che l’Ue debba dare primaria importanza a occupazione e crescita. E concentrarsi in particolare sulle prospettive dei giovani». Mattarella ha poi definito la Nato «un’organizzazione di straordinaria importanza per la pace e la stabilità». Stato di emergenza nel Gambia BANJUL, 18. Precipita la situazione in Gambia dove il presidente Yahya Jammeh — ininterrottamente al potere dal luglio del 1994 — ha dichiarato lo stato d’emergenza per tre mesi, a poche ore dalle sue teoriche dimissioni, a rigore di legge. Le nazioni dell’Africa occidentale — riunite nel forum economico Ecowas, sostenute dalle Nazioni Unite — hanno ripetutamente chiesto a Jammeh di accettare l’esito del voto e di farsi da parte, concedendo la vittoria al presidente eletto, Adama Barrow. GIOVANNI MARIA VIAN direttore responsabile Giuseppe Fiorentino vicedirettore Piero Di Domenicantonio Servizio internazionale: [email protected] Servizio culturale: [email protected] Servizio religioso: [email protected] caporedattore Gaetano Vallini segretario di redazione Servizio fotografico: telefono 06 698 84797, fax 06 698 84998 [email protected] www.photo.va te attivate tutte le procedure di emergenza». Nelle zone terremotate, nei comuni di Amatrice e Accumoli sepolti dalla neve sono stati segnalati alcuni crolli. Ad Amatrice è venuto giù quel poco che restava del campanile della chiesa di Sant’Agostino. Difficilissimo, al momento, fare una stima dei danni perché i collegamenti sono impossibili. Preoccupazione anche a Roma, dove è stata bloccata la metropolitana e sono stati fatti evacuare scuole e uffici. Autobomba nel Mali colpisce una base militare Il presidente uscente si è rifiutato di cedere il potere per non meglio precisate «straordinarie interferenze straniere dopo le elezioni di dicembre negli affari interni del Gambia». Lo stato d’emergenza, che vieta ogni manifestazione, può durare massimo 7 giorni se dichiarato solo dal presidente, 90 se avallato dal parlamento. Alle elezioni, Barrow, che attualmente si trova in Senegal, ha ottenuto il 43 per cento dei consensi, contro il 39,6 per cento dei voti del presidente uscente. Servizio vaticano: [email protected] ROMA, 18. Tre forti scosse di terremoto in poco meno di un’ora, tutte sopra la magnitudo 5, hanno colpito l’Italia centrale, tra L’Aquila e Rieti, ancora vicino ad Amatrice. Luoghi già profondamente segnati dal sisma del 24 agosto e che in questi giorni sono in piena emergenza a causa della neve. La prima scossa delle ore 10.25 tra il Lazio, l’Abruzzo e le Marche è stata avvertita anche a Roma, Firenze, Napoli e in Emilia. La magnitudo è stata di 5.3, secondo le stime dell’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia (Ingv). L’epicentro è stato individuato tra L’Aquila e Rieti a una profondità di circa 10 chilometri. Una seconda forte scossa è avvenuta alle 11.14, con magnitudo intorno a 5.5. Undici minuti dopo, la terza, con magnitudo pari a 5.3. «Per fortuna al momento non risultano vittime, ma il susseguirsi di scosse di tale entità è fattore di allarme per le popolazioni» ha dichiarato il presidente del consiglio italiano, Paolo Gentiloni, nel corso di una conferenza stampa a Berlino con il cancelliere tedesco, Angela Merkel. Quest’ultima ha assicurato «qualsiasi tipo di aiuto alle popolazioni colpite». Il capo della protezione civile italiana, Fabrizio Curcio, ha detto che «sono già sta- BAMAKO, 18. Un’autobomba è esplosa stamane in un campo militare nei pressi di Gao, nel nord del Mali, provocando la morte di una quarantina di persone. La struttura ospita truppe governative e membri di diverse fazioni armate che, congiuntamente, effettuano pattugliamenti nella città sotto l’egida dell’O nu. La notizia dell’esplosione è stata riferita da un giornalista della Reuters, che al momento della potente deflagrazione si trovava sul posto. È poi stata confermata da fonti dell’Onu. Mancano, al momento, Segreteria di redazione telefono 06 698 83461, 06 698 84442 fax 06 698 83675 [email protected] Tipografia Vaticana Editrice L’Osservatore Romano don Sergio Pellini S.D.B. direttore generale notizie sull’esatto numero delle vittime e dei feriti e sul tipo di mezzo impiegato per l’attentato, nonché eventuali rivendicazioni della strage. Nel 2013, un intervento militare delle Nazioni Unite a guida francese aveva permesso di isolare militanti del cosiddetto stato islamico (Is) e di Al Qaeda. Ma questi stessi elementi sembrano oggi essere tornati a colpire nel nord del paese africano. Ad aumentare la tensione nella regione, anche i continui scambi di colpi di arma da fuoco tra gruppi di ribelli e milizie filogovernative. Tariffe di abbonamento Vaticano e Italia: semestrale € 99; annuale € 198 Europa: € 410; $ 605 Africa, Asia, America Latina: € 450; $ 665 America Nord, Oceania: € 500; $ 740 Abbonamenti e diffusione (dalle 8 alle 15.30): telefono 06 698 99480, 06 698 99483 fax 06 69885164, 06 698 82818, [email protected] [email protected] Necrologie: telefono 06 698 83461, fax 06 698 83675 Mosca sulle tensioni tra Serbia e Kosovo MOSCA, 18. Sul riaccendersi delle tensioni tra Serbia e Kosovo, è intevenuto ieri il ministro degli esteri russo, Serghei Lavrov. In una conferenza stampa a Mosca, il titolare della diplomazia russa ha ricordato come i Balcani siano stati «più di una volta fonte di conflitti molto gravi». Proprio per questo, ha precisato, «tutti capiscono la necessità di prevenire un confronto militare» nella regione. I già tesi rapporti diplomatici tra Serbia e Kosovo si sono ulteriormente deteriorati nei giorni scorsi a causa del collegamento ferroviario tra Belgrado e Kosovska Mitrovica (la parte a maggioranza serba della città), che domenica scorsa i serbi avrebbero voluto riaprire per la prima volta a 18 anni dalla fine del conflitto. Ma il convoglio — decorato con scritte nazionalistiche e patriottiche serbe — è stato bloccato dalle autorità kosovare, che hanno parlato di «provocazione». Le cause di tensione, ha aggiunto Lavrov, «sono provocate dalle politiche perseguite da coloro che impongono i cosiddetti valori europei». Concessionaria di pubblicità Aziende promotrici della diffusione Il Sole 24 Ore S.p.A. System Comunicazione Pubblicitaria Ivan Ranza, direttore generale Sede legale Via Monte Rosa 91, 20149 Milano telefono 02 30221/3003, fax 02 30223214 [email protected] Intesa San Paolo Ospedale Pediatrico Bambino Gesù Società Cattolica di Assicurazione Credito Valtellinese L’OSSERVATORE ROMANO giovedì 19 gennaio 2017 pagina 3 Agenti della polizia messicana in azione a Cancún (Ansa) Militari israeliani uccidono un palestinese che aveva assaltato un posto di blocco Ancora sangue in Cisgiordania Tel Aviv, 19. Ancora violenze in Cisgiordania. Ieri sera un palestinese ha cercato di accoltellare alcuni soldati israeliani dislocati in un posto di blocco presso Tulkarem (Cisgiordania). L’uomo è stato colpito dal fuoco di reazione ed è stato ucciso. Si tratta del secondo palestinese colpito a morte in Cisgiordania nelle ultime 24 ore. Ieri un adolescente palestinese era stato ucciso a Takua, in prossimità Catturato il reclutatore dell’Is nello Yemen SANA’A, 18. La polizia yemenita ad Aden ha catturato ieri il principale responsabile dell’arruolamento per il cosiddetto stato islamico (Is). È quanto riporta l’agenzia turca Anadolu, citando un comunicato dell’unità antiterrorismo yemenita. «Le forze di sicurezza — recita il testo del comunicato — hanno arrestato il principale responsabile dell’arruolamento di attentatori suicidi a favore dell’Is» si legge nella nota. L’arresto è avvenuto «nel corso di un’operazione nel quartiere Inmaa, a nord di Aden, dopo una serie di inseguimenti e monitoraggi». L’accusato «reclutava ragazzi giovanissimi attraverso lezioni nelle moschee o per mezzo dei social network con la scusa del jihad e di instaurare la sharia, poi venivano indirizzati a eseguire attacchi per conto dell’Is», afferma il comunicato, sottolineando poi che «l’operazione di polizia è stata compiuta con la sovrintendenza diretta delle forze della coalizione internazionale a guida saudita e del direttore della sicurezza di Aden, Shallal Ali Shayee». L’uomo accusato «ha poi confessato di aver reclutato 25 elementi per l’Is, cinque dei quali si sono fatti esplodere ad Aden, altri venti sono ancora all’interno della città», così come ha ammesso di «aver sfruttato i suoi contatti con alcuni imam delle moschee per fare il lavaggio del cervello a questi giovani, soprattutto quelli che vivono in condizioni difficili». Intanto, si continua a combattere. Ufficiali della sicurezza yemenita hanno riferito che un razzo lanciato dai ribelli huthi ha ucciso ieri, nel sud della provincia di Taez, sei civili, tra i quali anche donne e bambini. L’ordigno ha anche distrutto diverse abitazioni. di Betlemme, durante scontri con i militari. L’agenzia di stampa palestinese Maan precisa che l’uomo ucciso al posto di blocco è stato identificato come Nidal Daud Mahdawi, 44 anni. L’uomo era sposato con un’araba israeliana, era detentore di una carta d’identità israeliana ed era padre di cinque figli. Secondo un testimone, avrebbe estratto un coltello a breve distanza dai militari e di conseguenza sarebbe stato colpito. La Maan aggiunge che in quel momento nelle vicinanze del posto di blocco erano in corso disordini, con lanci di sassi verso i militari. È invece di due morti il bilancio di incidenti avvenuti tra ieri e oggi nel villaggio beduino di Um el-Hiran, nel deserto del Neghev, dove reparti della polizia israeliana sono giunti per assicurare la demolizione di 14 case illegali. Secondo la polizia, gli incidenti sono iniziati quando un «terrorista islamico» alla guida di un veicolo ha attaccato gli agenti. L’uomo è stato ucciso. Anche un agente è morto. All’origine Arrestati altri 243 militari turchi ANKARA, 18. La procura di Istanbul ha emesso oggi mandati d’arresto per altri 243 militari, accusati di legami con la presunta rete golpista di Fethullah Gülen, considerato la mente del tentato colpo di stato del 15 luglio dello scorso anno. Lo riferisce l’agenzia di stampa statale Anadolu, secondo cui la polizia antiterrorismo ha avviato operazioni in 54 province per cercare di catturare i sospetti. I soldati ricercati sono accusati di aver utilizzato ByLock, una app di messaggistica per smartphone che, secondo gli investigatori, veniva impiegata da decine di migliaia di golpisti per scambiarsi informazioni criptate. Il procuratore capo di Diyarbakir ha frattanto chiesto una condanna fino a 142 anni di detenzione per Selattin Demirtas, segretario e leader del partito filocurdo Hdp, e dai 30 ai 83 anni di reclusione per la cosegretaria, Figen Yuksekdag. Per Demirtas — ex candidato alla presidenza della repubblica — il pubblico ministero ha chiesto il massimo della pena prevista, accusandolo di vari reati, tra cui «dirigere una organizzazione terroristica», «incitare all’odio e alla violenza», «avere mostrato solidarietà nei confronti di criminali». Demirtas è stato arrestato lo scorso novembre, insieme ad altri nove deputati del partito Hdp. L’Asia produce 12 milioni di tonnellate di rifiuti elettronici TOKYO, 18. La crescita economica dei paesi dell’est e del sudest asiatico procede, ma insieme al benessere e ai consumi a crescere sono anche i rifiuti, in particolare quelli elettronici, che in cinque anni sono aumentati di almeno due terzi, per un totale di oltre 12 milioni di tonnellate nel 2015. Il quadro emerge da un rapporto pubblicato dall’università delle Nazioni Unite, il braccio accademico e per la ricerca dell’Onu con sede a Tokyo. Nel 2015, si legge nel documento, i dodici paesi asiatici oggetto dello studio (Cambogia, Cina, Hong Kong, Indonesia, Giappone, Malaysia, Filippine, Singapore, Corea del Sud, Taiwan, Thailandia e Vietnam) hanno prodotto una quantità di rifiuti elettronici (e-waste) pari a quasi due volte e mezzo l’altezza della piramide di Cheope, registrando in media un aumento del 63 per cento tra il 2010 e il 2015. Per i ricercatori, i trend responsabili di questo grave aumento sono principalmente quattro: la maggiore disponibilità di nuovi dispositivi, soprattutto di quelli dell’elettronica di consumo come tablet, smartphone e smartwatch; l’aumento dei consumatori; i cicli di vita di utilizzo dei prodotti sempre più brevi e le importazioni di apparecchiature elettriche ed elettroniche anche di seconda mano. Il boom asiatico di e-waste è preoccupante perché secondo le stime Onu questa crescita supera perfino quella della stessa popolazione. Un aumento, sottolineano i ricercatori, che impone un urgente giro di vite contro attività di riciclaggio improprio (soprattutto discariche illegali e roghi), che mettono a rischio la salute delle persone e l’ambiente. delle tensioni vi sarebbe la decisione delle autorità di sgomberare il villaggio per costruire nelle stesse terre un insediamento ebraico. Secondo il ministro della sicurezza interna, Ghilad Erdan, per i beduini del Neghev sono stati però approntati estesi piani di sviluppo in altre zone. Sul piano diplomatico, a pochi giorni dalla conferenza di Parigi, l’Unione europea ha rilanciato l’allarme sulla possibilità di un innalzamento delle tensioni in seguito alla proposta del presidente eletto statunitense, Donald Trump, di spostare l’ambasciata da Tel Aviv a Gerusalemme. L’Alto rappresentante per la politica estera e di sicurezza, Federica Mogherini, è tornata ieri a evocare esplicitamente «i timori» che l’iniziativa di Trump possa innescare disordini. «Credo che sia molto importante per tutti noi astenerci da azioni unilaterali, specialmente da quelle che potrebbero avere gravi conseguenze nell’opinione pubblica mondiale» ha detto Federica Mogherini. All’origine dell’attacco alla procura di Cancún un possibile scontro tra bande criminali Messico ostaggio dei narcos CITTÀ DEL MESSICO, 18. Uomini armati hanno attaccato ieri l’ufficio della procura statale a Cancún in Messico e quattro persone sono rimaste uccise. L’episodio segue di un giorno la sparatoria nella vicina Playa del Carmen dove sono morte cinque persone, tra cui l’italiano Daniele Pessina. Le vittime dell’ultimo attacco nella località turistica sono un poliziotto e tre degli assalitori. Altri cinque attentatori sono stati arrestati. Le autorità dello stato di Quintana Roo affermano che è troppo presto per sapere se i due attacchi siano collegati. L’assalto al locale notturno di Playa del Carmen è stato intanto rivendicato dal gruppo di narcotrafficanti Los Zetas. In un cartello appeso in una strada della località messicana, e subito rimosso dalla Boris Johnson nella capitale indiana per rilanciare il dialogo Se Londra guarda a New Delhi polizia, gli attentatori hanno minacciato nuovi attacchi scrivendo «ormai siamo anche qui. Questo è l’inizio». Secondo i media locali, la rivendicazione conferma che l’irruzione di un uomo armato nel locale fa parte di un regolamento di conti nella lotta tra gruppi di narcos. Gli esperti della lotta alla droga sottolineano che Los Zetas hanno perso potere e che ormai sono un cartello frammentato in piccoli gruppi, in lotta tra di loro per il controllo dei territori del nordest e sudest del paese. «Quanto successo al Blue Parrot fa pensare a una lotta di potere interna per il controllo della distribuzione delle droghe a Playa del Carmen», ha commentato il quotidiano «El Universal». Gli esperti non escludono, inoltre, che l’esposizione del cartello possa in realtà essere una manovra per provocare confusione. A seguito degli attacchi le autorità locali hanno d’altra parte deciso di cancellare tutti i festival musicali in programma nelle prossime settimane. Obama grazia la talpa di Wikileaks Il ministro degli esteri britannico Johnson a New Delhi (Ap) NEW DELHI, 18. Il ministro degli esteri britannico, Boris Johnson, è a New Delhi in visita ufficiale. Previsti numerosi incontri politici ed economici legati anche alla strategia di Londra per compensare gli effetti della Brexit. Lo riferisce l’agenzia di stampa indiana Ani. Oltre a incontrare il premier, Narendra Modi, il sottosegretario agli esteri M.J. Akbar, e il ministro delle finanze, Arun Jaitley, Johnson dedicherà la seconda parte del suo viaggio a incontri politici, economici e commerciali nello stato orientale di West Bengala. Nel suo atteso intervento sulla Brexit, la premier britannica, Theresa May, ha citato per due volte l’India come uno dei principali paesi con cui la Gran Bretagna firmerà un accordo di libero scambio, rivelando che i negoziati in questo ambito sono già in fase avanzata. Gli analisti ricordano che la Brexit preoccupa il governo indiano perché esistono circa 800 compagnie che usano la Gran Bretagna come base per esportare in Europa. Molte di esse sono già al lavoro per cercare alternative. Concluse le ricerche dell’aereo malese scomparso dai radar nel 2014 Nessuna traccia KUALA LUMPUR, 18. Tre anni di tentativi infruttuosi, e ora la resa. La ricerca dei resti del volo Malaysia Airlines 370, scomparso nel nulla nella notte dell’8 marzo del 2014 e verosimilmente precipitato nell’oceano Indiano con 239 persone a bordo, è stata dichiarata conclusa. Uno dei più grandi misteri nella storia dell’aviazione civile resterà quindi tale, nonostante circa 150 milioni di dollari spesi per la massiccia task force di recupero. I governi di Malaysia, Cina (che perse oltre 150 passeggeri) e Australia (la più vicina al punto delle ricerche) hanno ammesso di non potere fare più nulla, dopo avere perlustrato invano oltre 120.000 chilometri quadrati di oceano. Il Boeing 777 sparì dai radar mentre era in volo tra Pechino e Kuala Lumpur. Al momento sono stati recuperati solo sette detriti dell’aereo. Operatori durante le ultime ricerche dei resti del volo Malaysia Airlines Flight 370 (Ap) WASHINGTON, 18. A tre giorni dalla fine del suo mandato, il presidente degli Stati Uniti Barack Obama ha graziato Bradley Manning, 29 anni, il caporale dell’esercito statunitense che passò nel 2010 a Julian Assange circa 700.000 documenti segreti del dipartimento di stato e della difesa che Wikileaks rivelò al mondo nel 2010. Manning, che doveva scontare una pena a trentacinque anni di reclusione per spionaggio, sarà liberato il prossimo 17 maggio, dopo aver trascorso in totale sette anni tra detenzione preventiva e pena seguita alla condanna nel 2013. Il caporale è stato l’unico a finire in carcere per la più grande fuga di notizie fino allo scandalo Nsa-gate di Edwaerd Snowden. Durante la detenzione, Manning ha tentato per due volte di suicidarsi nel carcere militare di Fort Leavenworth in Kansas. Julian Assange, co-fondatore di Wikileaks, ha ringraziato gli attivisti che hanno sostenuto la sua campagna per ottenere la grazia, ma non ha fatto alcun accenno alla sua promessa di consegnarsi alla giustizia statunitense in cambio della clemenza per la cosiddetta talpa. «Grazie a tutti voi che avete sostenuto la campagna per la grazia di Manning. Il vostro coraggio e determinazione hanno reso possibile l’impossibile», ha detto Assange secondo quanto riferito da WikiLeaks. Al momento Assange resta nel suo rifugio nell’ambasciata ecuadoregna a Londra dove risiede da giugno 2012 per sfuggire alla richiesta di estradizione per stupro avanzata dalla giustizia svedese dopo la denuncia presentata da due donne. Assange ha sempre rifiutato di recarsi in Svezia perché ritiene che si tratti di un escamotage per estradarlo negli Stati Uniti dove deve rispondere di accuse molto pesanti che riguardano la divulgazione di documenti segreti e rischia decine di anni di carcere. L’OSSERVATORE ROMANO pagina 4 giovedì 19 gennaio 2017 di NATALIE ZEMON DAVIS ichel de Certeau è conosciuto in Nord America solo nell’ambiente universitario, ma in Francia era una celebrità, considerato un insigne critico culturale, un innovativo storico della religione di inizio modernità nonché un pensatore religioso che nella vita e nel lavoro perseguiva una forma di cattolicesimo particolarmente impegnata, aperta e generosa. Al suo funerale a Parigi, nel 1986, tra i banchi della chiesa gesuita di Sant’Ignazio e tra le centinaia di persone in lutto stipate nella piazza antistante, si diffuse dagli altoparlanti la voce di Edith Piaf: Non, je ne regrette rien (“No, non rimpiango niente”). La canzone era stata preceduta dalla lettura sia della Prima Lettera ai Corinzi, nella quale Paolo afferma che «Dio ha scelto ciò che nel mondo è stolto per confondere i sapienti», sia della poesia di un mistico del XVII secolo a proposito di un’“anima vagabonda” alla ricerca dell’amore divino in ogni parte del mondo. Questi versi, che erano stati richiesti dallo stesso Michel de Certeau, suggeriscono quanto singolare fosse la sua visione spirituale e accademica. Che scrivesse di follia e misticismo nel XVII secolo, dei movimenti di resistenza sudamericani di ieri e di oggi o della pratica della vita quotidiana nel XX secolo, de Certeau aveva sviluppato uno stile peculiare nell’interpretazione delle relazioni sociali e personali. A differenza di quanti descrivevano le società evocando quelle che egli chiamava le loro omogeneità ed egemonie — ciò che le unificava e le controllava — de Certeau intendeva identificare, all’interno dei sistemi di potere e di pensiero, la presenza creativa e perturbatrice dell’“altro”: l’estraneo, lo straniero, l’alieno, il sovversivo, l’elemento radicalmente differente. Lo individuò non solo nei modi in cui le persone immaginavano figure distanti da loro M Michel de Certeau e la mistica Il teologo perturbante cui opere e riflessioni si sono parimenti concentrate sull’analisi del potere e delle linee di confine fra le istituzioni. Tutti e tre furono toccati dalle proteste del Sessantotto. Il concetto chiave nell’interpretazione foucaultiana delle relazioni sociali e della comunicazione era il potere: appannaggio delle autorità centrali — monarchi, esperti di medicina, preti — riproduceva il proprio messaggio nella mente e nella coscienza degli individui. Quanto a Ratzinger, i movimenti studenteschi del Sessantotto lo portarono a precisare la sua posizione sul concilio Vaticano II. Dal suo punto di vista, la dottrina della Chiesa non doveva cedere alle false influenze di secolarismo, relativismo, pluralismo religioso, soggettivismo e radicalismo economico. Nato nel 1925 in Savoia, de Certeau da adolescente ne aveva percorso i sentieri montani portando messaggi ai combattenti della Resistenza contro l’occupazione tedesca. Nel 1944 intraprese gli studi per il sacerdozio e nel 1950 entrò nell’ordine gesuita scrivendo a un amico «Credo che Dio mi stia chiamando Anticipiamo ampi stralci di un articolo tratto in Cina». Tempo addiedall’ultimo numero di «Vita e pensiero». Di tro il celebre padre geMichel de Certeau è appena uscita la suita Pierre Teilhard de traduzione italiana del secondo volume di Chardin aveva scritto i Fabula mistica. XVI-XVII secolo (Milano, Jaca suoi libri di geologia e Book, 2016, pagine XXXVII + 309, euro 30) teologia proprio dalla curata da Silvano Facioni. Secondo l’edizione Cina, ma nel 1949 il stabilita da Luce Giard e pubblicata nel 2013 paese era stato occupato da Gallimard, il libro raccoglie testi inediti o dai comunisti e ai gesuiparzialmente dati alle stampe e analizza le ti era stato ordinato di “scritture mistiche”, trattando del Cusano, di andarsene. Questa diffiGiovanni della Croce, Surin e Pascal e coltà aveva forse reso la arrivando alle glossolalie studiate da partenza per la Cina anSaussure. cor più allettante agli occhi di de Certeau, che però non riuscì mai a recarvisi. I suoi studi lo condussero nel pieno dell’esplosione del rinstesse (come nel celebre saggio di Michel novamento teologico guidato da Henri de de Montaigne sui “cannibali” dell’Amaz- Lubac, eroe della Resistenza cattolica, di zonia), ma anche in comportamenti e cui divenne uno degli studenti prediletti a gruppi vicini e familiari, nelle onnipresenti Lione. De Lubac scuoteva alla base i pretensioni al centro dell’intera vita sociale, supposti più rigidi e sfidava di continuo i dalla scuola alle istituzioni religiose, ai confini convenzionali. In un saggio del mass media. 1946 in cui seguiva i mutamenti di signifiCerto, negli anni sessanta e settanta, cato della parola “soprannaturale” da quando de Certeau stava acquisendo noto- Agostino in poi, arrivò a sfidare la netta rietà, in letteratura, filosofia e psicanalisi distinzione fra il regno della natura umacomparivano di continuo nozioni di “alte- na e del mondo naturale, da un lato e, rità”: la sua originalità consistette nei molteplici modi in cui concepì le figure dell’“altro” e la loro applicazione in numerosi contesti. Coniò il termine “eterologie” per descrivere le discipline nelle quali esaminiamo noi stessi in relazione all’alterità: la storia e l’etnografia, ad esempio, potrebbero essere “scienze dell’altro” se si confrontassero con le supposizioni spesso deformanti che includiamo nella nostra comprensione di epoche e luoghi diversi. Si occupò delle istituzioni accentratrici del passato per mostrare come definissero se stesse escludendo le voci e le convinzioni divergenti oppure fagocitandole. Stato e Chiesa, tuttavia, non sono mai state le uniche fonti di potere e autorità nel medioevo e in epoca moderna. In movimenti religiosi come il misticismo o nel persistente sapere popolare, de Certeau vide sempre alternative vitali a quei due ambiti normativi. I suoi eroi sono spesso vagabondi, pellegrini, missionari e nomadi, come il visionario seicentesco Jean de Labadie, che iniziò da gesuita, passò poi a predicare in Francia e Svizzera una propria radicale forma di religione riformata e finì col fondare nei Paesi Bassi una comunità protestante. Questa prospettiva e la vita stessa di de Certeau si prestano a interessanti confronti con quelle di due suoi contemporanei, Prima pagina di «Catéchisme spirituel» di Jean-Joseph Michel Foucault e Joseph Ratzinger, le Vita e pensiero dall’altro, l’ordine soprannaturale e il divino. Il desiderio di Dio era “naturale” negli esseri umani, scriveva, ma solo perché Dio lo aveva infuso: un “prerequisito divino”. Per quanto soddisfacente questa visione potesse apparire agli occhi dei cattolici, membri importanti della gerarchia vaticana temettero che potesse indebolire la distinzione fra la Chiesa spirituale e i problemi mondani della quotidianità. Nel 1950 Pio XII ordinò a de Lubac di interrompere l’insegnamento pubblico e censurò il suo libro sul soprannaturale, cosa che tuttavia non impedì allo studioso di affermare, con una frase che de Certeau non dimenticò mai: «La Chiesa deve sempre lasciare tutte le porte aperte affinché persone di differenti opinioni possano arrivare alla verità». De Certeau cominciò a scrivere ai tempi del seminario e sin dalle pubblicazioni iniziali emergono i suoi passi verso la “scienza dell’altro”. Poneva l’esperienza al cuore della vita religiosa, ma notava come vi fosse un profondo divario fra esperienza e desiderio spirituale: i credenti aspirano ad avvicinarsi a Dio, ma spesso lo sentono assente. Tale alienazione è inevitabile: nella concezione di de Certeau, la presenza di Dio può essere solo «imperfetta ed effimera», e nondimeno riconoscibile, se si comprende come i sentimenti umani mutino di minuto in minuto e come gli uomini fatichino nel trovare le parole per catturare quell’esperienza sino in fondo. Inoltre ogni esperienza religiosa, non importa quanto solitaria, è pervasa dalla presenza di altri, nella storia che ciascuno ha assorbito come nel linguaggio col quale si pensa e si prega. De Certeau scoprì che l’esperienza di questa ricerca attraversava il diario spirituale del gesuita rinascimentale Pierre Favre, scritto durante i suoi viaggi di predicazione in Europa negli anni quaranta del Cinquecento, mentre cercava in se stesso segni dell’amore di Dio. Oggetto della sua dissertazione dottorale e da lui tradotto in francese dal latino e dallo spagnolo, il pellegrinaggio interiore di Favre esemplificava agli occhi di de Certeau «il sentimento del mistero che scaturisce dall’esperienza». Per de Certeau, tuttavia, quel mistero non era abbastanza profondo: fu perciò attratto dai “mistici selvaggi” del XVII secolo, in particolare dal gesuita Jean-Joseph Surin, che divenne — disse egli stesso — il suo “compagno”, «il fantasma che abita la mia vita». Surin non era un compagno tranquillo: predicatore errante e direttore di anime, alla ricerca di segni di Dio fra gli umili, nel 1634 Surin era stato chiamato a Loudun per praticare a Giovanna degli Angeli, priora delle Orsoline, un esorcismo contro i demoni che la possedevano. Riuscì a curarla ma al costo, volontariamente offerto, del suo stesso, fragile equilibrio emotivo. Soffrì in silenzio per quasi vent’anni in un’infermeria gesuita. Ne emerse nel 1656 e iniziò a scrivere con impeto sulla ricerca mistica, proclamando: «Vorrei la voce di una tromba, una penna di bronzo», «Vorrei che dalla mia penna si sprigionassero fiamme». De Certeau passò al setaccio varie biblioteche per ritrovare i manoscritti delle opere di Surin, assieme alle sue lettere di confessione privata e di guida spirituale: le pubblicò nel 1963 e nel 1966, accompagnate da ampi commenti e riflessioni. Gli anni sessanta portarono altre scoperte: Surin (1654) nella speranza di collegare teologia e psicologia, assieme a un piccolo gruppo di altri gesuiti de Certeau si volse allo studio della psicanalisi diventando, nel 1964, uno dei membri fondatori dell’École freudienne di Parigi, l’istituto di Jacques Lacan. De Certeau elaborò però una propria versione dei concetti sociali e storici di “altro”, superando gli esempi e le rigide categorie di Lacan. Alla morte nel 1981 del grande psicanalista, de Certeau lo descrisse come un girovago stravagante, che dava il proprio meglio nell’espressione delle proprie idee e nella pratica della psicanalisi, ma si rivelava un fallimento quando si lasciava prendere dalle faide infuocate delle istituzioni che aveva fondato. Di particolare importanza, in quegli anni sessanta, furono i cambiamenti introdotti dal concilio Vaticano II. Da Parigi, de Certeau rispose con entusiasmo: a suo avviso le riforme sostenute dal concilio co- lavoravano a contatto con i poveri e ritenevano che la Chiesa dovesse lottare contro la miseria sociale nella stessa misura in cui si impegnava per salvare le anime. Rimase molto colpito dalle forme di spiritualità popolare osservate durante i suoi viaggi e in quei movimenti messianici ed estatici non vide comportamenti aberranti che la Chiesa dovesse estirpare, bensì «la voce interiore di un continente ancora culturalmente cattolico». Scrisse anche parole di condanna per la pratica della tortura sotto la dittatura militare in Brasile. Nel 1968 de Certeau interpretò il movimento studentesco con un’altra “rottura” creativa e nell’estate scrisse su un periodico gesuita: «Lo scorso maggio la parola è stata presa come nel 1789 è stata presa la Bastiglia. La piazzaforte occupata è quel sapere detenuto dai dispensatori di cultura, destinato a mantenere l’integrazione o la reclusione degli studenti lavoratori e operai entro un sistema che prestabilisce la loro funzione» (in La prise de parole. Pour une nouvelle culture, 1968; trad. it. La presa della parola e altri scritti politici, 2007, pp. 37-38). Come aveva visto i mistici del XVII secolo alla difficoltosa ricerca di una lingua che potesse comunicare la loro esperienza, e così come aveva sollecitato la Chiesa a sviluppare forme molteplici di espressione per dar voce alla spiritualità moderna, allo stesso modo avvertiva ora che gli studenti protestavano per ampliare il proprio diritto di parola, in alcuni casi «mettendo in discussione l’intero sistema». Questo discorso venne però presto “ricatturato” dalle istituzioni governative e Maximino Cerezo, «Cena» (XX secolo) stituivano una “rottura” creativa con gli inflessibili schemi gerarchici del passato. Per esprimere l’esperienza delle persone, esse invocavano «molteplici linguaggi di fede» invece del remoto linguaggio clericale. De Certeau riteneva che il Vaticano II avrebbe dovuto portare la Chiesa a immergersi completamente nelle tematiche del mondo moderno, riconoscendo quanto ancora avesse da imparare su guerra e violenza, controllo delle nascite, tutto ciò che accadeva nelle città e su stampa e televisione (le reazioni di de Certeau al concilio Da adolescente aveva percorso i sentieri della Savoia portando messaggi ai combattenti della resistenza contro l’occupazione tedesca Vaticano II sono state pubblicate nella rivista gesuita «Christus», 12, 1965, pp. 147163, e 13, 1966, pp. 101-119; una sintesi si trova in François Dosse, Michel de Certeau: le marcheur blessé, 2002, cap. 8). Questo doveva essere il compito della Chiesa, non solo in Europa ma in tutto il mondo. Questo, pensava de Certeau, era stato lo spirito di Ignazio di Loyola e dei suoi compagni gesuiti all’inizio del XVI secolo. E tale sarebbe stato anche l’obiettivo di de Certeau fra il 1966 e il 1968 e negli anni successivi, durante i quali viaggiò spesso in America latina — soprattutto in Brasile e in Messico — attirato dai sacerdoti della teologia della liberazione, che accademiche che, disse de Certeau, invece di creare quella struttura pluralistica «invocata dagli eventi [del Maggio]», ovviamente restaurarono l’ordine gerarchico. Tuttavia, sosteneva, lo storico potrebbe tener viva la speranza di cambiamento, fornendo un resoconto lucido delle relazioni fra le istituzioni esistenti e gli studenti “altri”. Nel 1971 fu chiesto a de Certeau di inviare all’Institut Catholique di Parigi alcuni testi per un dottorato in teologia (ne possedeva già uno in studi religiosi): il suo saggio sul significato del cristianesimo fu respinto ma, invece di modificarlo per soddisfare i requisiti della facoltà, de Certeau lo pubblicò col titolo La rupture instauratrice. Seguirono altri saggi e persino un dibattito radiofonico con l’intellettuale cattolico progressista Jean-Marie Domenach. Gesù Cristo, sosteneva de Certeau, è la figura centrale, l’Altro, presente ma anche assente; la sua venuta e la sua morte hanno fondato il cristianesimo, ma l’evento significativo non è la crocefissione bensì il sepolcro vuoto. «Il “seguitemi” di Gesù viene da una voce eclissata, ormai irrecuperabile per sempre». Eppure il cristiano vuole credere, vuole correre il rischio, e così intraprende un percorso verso Cristo: il carattere della vita cristiana, tuttavia, dev’essere compreso alla luce delle circostanze storiche. Nel mondo secolarizzato del tardo XX secolo — spiegava de Certeau — con strutture non religiose ovunque dominanti, le istituzioni della Chiesa non potevano essere il solo luogo dell’azione cristiana nel mondo. giovedì 19 gennaio 2017 L’OSSERVATORE ROMANO pagina 5 Femke Hiemstra «Gufo e pappagalli» (XX secolo) Una risposta alla fragilità psichica dell’occidente di fronte alla violenza Sperare ancora in mezzo al tumulto di JEAN-CLAUDE GUILLEBAUD on il ritorno del terrorismo e della guerra, i «discorsi sulla guerra» si moltiplicano, fino a produrre una scoraggiante cacofonia. Ci spiacerebbe aggiungere un’analisi a questa superfluità di “raccomandazioni”. Ci limitiamo quindi a ricordare due elementi che, riflettendoci bene, ci danno un motivo per sperare. Persino in mezzo a simili abomini. Lo scrivo senza il minimo buonismo. C Persone riunite davanti al memorial effimero per le vittime della strage Constatiamo innanzitutto che, da settant’anni, noi europei ci eravamo abituati a considerare la pace come la condizione naturale di una società. Di fatto, se si escludono le — ormai lontane — guerre coloniali degli anni cinquanta e sessanta e Da lungo tempo abbiamo disimparato a pensare la guerra al fine di fronteggiarla Tutto ciò ha permesso che venisse alla luce l’incredibile vulnerabilità delle nostre società le tragiche ma brevi atrocità nell’ex-Jugoslavia tra il 1992 e il 1995, è da sette decenni che l’Europa non conosce la guerra sul proprio suolo. Improvvisamente, con l’Ucraina, la Siria, l’Iraq e il jihadismo omicida in mezzo a noi, varie tragedie intricate ci riportano con i piedi per terra. La violenza, soprattutto quella bellica, ridiviene brutalmente quel che è: una componente “naturale” delle nostre società, a cui il filosofo cristiano René Girard ha dedicato l’intera sua opera. Diciamolo chiaramente, abituati alla pace qui da noi, abbiamo finito col pensare che fosse la condizione naturale di una società. Girard ci ricorda che, proprio al contrario, è la violenza a essere effettivamente la condizione “naturale” del mondo, e che va dunque contenuta, combattuta (anche in noi stessi), scongiurata, “guardata a vista”. Questo ritorno della guerra in Europa ha preso alla sprovvista i dirigenti del vecchio continente. Questi hanno a volte esitato nelle loro prime reazioni, che sono state disordinate. Invece di rassicurare i cittadini, hanno a volte — involontariamente — contribuito a spaventarli ancora di più come ha fatto la grande stampa. Da lungo tempo, abbiamo “disimparato” a pensare la guerra al fine di fronteggiarla. Tutto ciò ha permesso che venisse alla luce l’incredibile vulnerabilità delle nostre società. Resta da capire perché questa fragilità, soprattutto psichica, si sia aggravata così tanto. In Francia, tanto per fare un esempio, i crimini orribili del Bataclan (13 novembre 2015) o di Nizza (14 luglio 2016) sono bastati a far vacillare per un momento lo stato. Eppure, in passato, violenze dieci volte o cento volte più grandi furono vissute con immenso dolore ma con più sangue freddo. Penso ai bombardamenti su Londra nel 1941 da parte della Luftwaffe nazista che ogni notte mietevano diverse centinaia di vittime. E che non hanno mai piegato gli inglesi. Una costatazione analoga si può fare comparando i bilanci di due guerre molto lunghe: quella del Vietnam che è durata dieci anni (1965-1975) e quella dell’Iraq che ne è durata undici (20032014). Eppure, la comdel Bataclan mozione, il dolore, il lutto, la collera suscitati negli Stati Uniti dalla conta delle vittime — civili e militari — da una parte e dall’altra è stata di un’intensità analoga. Anche se il costo della guerra del Vietnam è stato dodici volte più alto di quello dell’Iraq, trent’anni dopo. Ciò significa che in Occidente la sensibilità collettiva alla violenza bellica è cresciuta considerevolmente. Ora ci commuove e ci indigna molto più che in un vicino passato. Benché a volte ci siano delle interruzioni, anzi delle brevi marce indietro, il senso di questa evoluzione è chiaro: stiamo diventando allergici alla violenza. Incluso alla violenza quotidiana, urbana, quella di tutti i giorni. Anche se nel lungo termine sta diminuendo — come osservano gli storici — abbiamo la sensazione che stia aumentando. È la nostra “percezione”, non la realtà, a essere cambiata. Perché? Fedelmente a René Girard (scomparso il 5 novembre 2015), suggerisco una spiegazione. Anzi riprendo la terminologia di questo grande filosofo: è l’azione costante, permanente, impercettibile del “fermento evangelico” a salvarci poco a poco dalla violenza sfrenata, sia essa vendicatrice o semplicemente barbara. Questa “buona novella” è tanto più preziosa in quanto, ovunque attorno a noi, Dio viene strumentalizzato dai violenti o arruolato a forza in barbari massacri. Dal medioevo all’età moderna Il bestiario del Papa di GIOVANNI CERRO egli ultimi decenni la ricerca storiografica ha compiuto notevoli passi in avanti nell’analisi della ricca simbologia degli animali in relazione al papato. Un contributo determinante in questa direzione è stato offerto dagli studiosi italiani, tra i quali occupa un posto di rilievo Agostino Paravicini Bagliani, autore del recente Il bestiario del papa (Torino, Einaudi, 2016, pagine 378, euro 32), in cui attraverso la rilettura di un ampio ventaglio di fonti testuali e iconografiche esplora il rapporto simbolico e metaforico che unisce papato e animali tra medioevo ed età moderna. Il lettore è accompagnato in un percorso strutturato in tre parti. Nella prima ci si occupa N pappagallo che l’avevano acclamato vincitore e imperator. Stando a una cronaca del X secolo, persino l’imperatore di Bisanzio era solito farsi accompagnare a banchetti e cerimonie ufficiali da un pappagallo. Con l’alto medioevo l’eloquenza di questo animale diventa oggetto di elogi anche in ambiente cristiano: Teodolfo di Orléans, abate di Fleury, lo ritiene in grado di rivaleggiare con le muse di Omero e l’anonimo monaco autore dell’Ecbasis captivi, una parodia epica sul mondo animale, paragona la voce del pappagallo alla melodia dell’arpa di Davide. Nella Roma papale il pappagallo fa la sua comparsa intorno al 1280 negli affreschi dell’ala del Palazzo apostolico fatta costruire co, dono del re del Portogallo Manuele I. Sbarcato a Roma dopo un avventuroso viaggio in nave, accompagnato da un ammaestratore indiano e un custode saraceno, il pachiderma restò per lungo tempo impresso nella memoria dei romani per la sua bellezza e maestosità. Il Papa era particolarmente attento all’incolumità di Annone — questo è il nome che fu assegnato all’elefante — e per non procurargli danni alle zampe si rifiutò di inviarlo alla corte medicea di Firenze e presso il re di Francia in visita a Bologna. Se il pappagallo e l’elefante possono apparire animali esotici, un quadro più intimo e familiare ci giunge da Musetta, la cagnolina di Pio II. Un rex Dalamarcie donò a Leone IX un pappagallo in grado di ripetere la frase «vado dal Papa» e di chiamarlo per nome di due figure la cui connotazione simbolica pare essere molto antica, come la colomba e il drago, mentre nella seconda si prendono in considerazione gli animali tradizionalmente legati all’autorappresentazione del ruolo dei Pontefici, il cavallo e l’elefante su tutti. La terza, infine, è dedicata al rovesciamento parodico e polemico subito da alcuni di questi simboli tanto nelle cosiddette profezie papali quanto nelle satire nate in ambito protestante. Curiosa e forse poco nota è la storia del pappagallo, le cui origini risalgono all’XI secolo. In una delle Vitae di Leone IX, attribuita a Guiberto di Toul, si racconta che un certo “rex Dalamarcie” — forse identificabile con Stefano I re di Croazia e di Dalmazia — inviò al Papa in dono un pappagallo, in grado non soltanto di ripetere la frase «vado dal Papa», ma anche di chiamarlo per nome. E questo senza che nessuno glielo avesse insegnato. Quando il Papa rientrava nel suo appartamento privato, la compagnia del pappagallo lo rincuorava e lo confortava, dandogli sollievo rispetto alle gravose preoccupazioni quotidiane. Se è difficile rintracciare un antecedente storico in cui sia assegnata al pappagallo la funzione di consolare l’uomo, nella letteratura latina esistono invece esempi in cui gli è riconosciuta la capacità di annunciare personaggi di rango: Marziale celebra l’abilità del volatile nel salutare l’imperatore e Macrobio narra che Augusto, dopo la battaglia di Azio, acquistò un corvo e un Raffaello Sanzio, «Dio crea gli animali» (1518-1519) e decorare da Niccolò III e che poi prenderà il nome di Sala vecchia degli svizzeri. Con Bonifacio VIII l’utilizzo del pappagallo come motivo decorativo si intensifica, tanto che in alcuni pregiati tessuti in seta di Lucca il suo stemma è rappresentato tra pappagalli verdi e l’animale si ritrova in molti paramenti da lui donati alla cattedrale di Anagni, sua città natale. All’inizio del Quattrocento si ha per la prima volta notizia di una sala del pappagallo nel Palazzo apostolico, in cui il Papa riuniva i cardinali in concistoro, si preparava prima di partecipare a cerimonie solenni, riceveva principi e sovrani e impartiva benedizioni. La funzione del pappagallo rinvia dunque a gesti e rituali di sovranità, che hanno lo scopo di separare la sfera privata da quella pubblica. Sarà con Leone X che questo simbolismo raggiungerà il suo apogeo: basti pensare alla rappresentazione sulla porta della Sala del pappagallo, opera di Raffaello e della sua scuola, in cui Giovanni Battista ha lo sguardo rivolto verso un piccolo pappagallo sudamericano. Si tratta evidentemente di un riferimento al Papa come rappresentante di Cristo sulla terra. A Leone X si deve non solo l’istituzione di un vero e proprio serraglio nel cortile del Belvedere, ma anche l’introduzione alla corte papale di un elefante bian- Secondo la testimonianza dello stesso Enea Silvio Piccolomini nei suoi Commentarii, la cucciola amava mettersi nei guai. Un giorno, mentre il Papa era impegnato in giardino ad ascoltare delle ambascerie, cadde in una cisterna e fu tratta in salvo con difficoltà; l’indomani fu morsa da un grosso cercopiteco, che la lasciò in fin di vita. Musetta morì una decina di giorni dopo cadendo da una finestra della residenza papale e Pio II trasse spunto dalla sua storia per richiamare, con un efficace exemplum, alla virtù della prudenza. D all’originale disamina di Paravicini Bagliani emerge tanto la persistenza di alcuni animali simbolici, che nel corso del tempo hanno assunto funzioni diverse, quanto la transitorietà di altri, che con il mutare delle pratiche istituzionali e politiche e delle sensibilità religiose si sono avviati verso un declino a volte repentino, a volte graduale, fino a scomparire del tutto. La lunga tradizione del rapporto tra Pontefici e animali sembra oggi aver messo da parte le complesse elaborazioni simboliche del passato per guadagnare invece una connotazione più concreta, improntata all’impegno e al rispetto verso il creato, come dimostra la recente enciclica Laudato si’ di Papa Francesco. L’OSSERVATORE ROMANO pagina 6 giovedì 19 gennaio 2017 Dipinto nella chiesa Stavropoleos a Bucarest raffigurante il primo concilio di Costantinopoli tenutosi nel 381 di ANDREA PALMIERI* Dal 15 al 22 settembre 2016 ha avuto luogo a Chieti — su invito dell’arcivescovo di Chieti-Vasto, monsignor Bruno Forte, membro della commissione, e con il sostegno della Conferenza episcopale italiana — la quattordicesima sessione plenaria della Commissione mista internazionale per il dialogo teologico tra la Chiesa cattolica e la Chiesa ortodossa. Alla vigilia regnava un clima di attesa e di incertezza. A distanza di quasi nove anni dall’ultimo documento della Commissione mista internazionale, molti desideravano che si giungesse alla pubblicazione di un nuovo testo che mostrasse che il dialogo teologico non si era arenato. Tuttavia, visto il risultato deludente delle ultime tre precedenti sessioni plenarie (Paphos 2009, Vienna 2010 e Amman 2014), ci si chiedeva se la bozza di documento, redatta nel corso della sessione plenaria di Amman e rivista dal Comitato di coordinamento della commissione riunitosi a Roma nel 2015, avrebbe ottenuto il consenso di tutti i membri. Nella riunione di Chieti, i cui lavori sono stati presieduti dall’arcivescovo di Telmessos, Iob Getcha, del patriarcato ecumenico di Costantinopoli, e dal cardinale Kurt Koch, presidente del Pontificio consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani, erano presenti due rappresentanti delle quattordici Chiese ortodosse autocefale (fatta eccezione del patriarcato di Bulgaria, assente) e ventisei rappresentanti cattolici provenienti da diversi Paesi. Con il consenso di tutti i partecipanti (soltanto la Chiesa ortodossa di Georgia ha espresso il proprio dissenso su alcuni paragrafi), è stata decisa la pubblicazione del testo, che dal luogo dove si sono svolti i lavori verrà chiamato “Documento di Chieti”. Il testo, intitolato Sinodalità e primato nel primo millennio. Verso una comune comprensione nel servizio all’unità della Chiesa, contiene una presentazione condivisa da cattolici e ortodossi delle modalità con le quali sinodalità e primato si articolavano nella vita della Chiesa del primo millennio. In tal modo, il testo prosegue la riflessione sul tema del primato nella Chiesa universale, inaugurata con il documento dal titolo Le conseguenze ecclesiologiche e canoniche della natura sacramentale della Chiesa. Comunione ecclesiale, conciliarità e autorità, approvato nella sessione plenaria di Ravenna (2007), dove cattolici e ortodossi affermavano insieme, per la prima volta, la necessità di un primato al livello di Chiesa universale e concordavano sul fatto che questo primato spettasse alla sede di Roma e al suo vescovo, mentre riconoscevano ancora aperta la questione relativa alla modalità di esercizio del primato, ai fondamenti scritturistici e alle interpretazioni storiche. Il documento di Chieti, per la sua brevità (comprende solo ventuno paragrafi) e per il suo stile, per così dire, pragmatico, potrebbe apparire teologicamente povero. Tuttavia — attraverso alcuni riferimenti impliciti a principi teologici ampiamente trattati in documenti approvati in anteriori sessioni plenarie (si vedano, a esempio, le riflessioni sulla teologia trinitaria del documento di Monaco 1982 e sulla teologia eucaristica del documento di Bari 1987) — il testo mostra di radicarsi solidamente nelle fondamenta teologiche e sacramentarie dei precedenti documenti. Particolarmente evidente è il rapporto del documento di Chieti con quello di Ravenna. Il nuovo testo non solo riprende i temi centrali (la relazione di interdipendenza fra sinodalità e primato nella vita della Chiesa), ma ripropone la medesima struttura del testo antecedente. La definizione di sinodalità e di primato offerta nei numeri 3 e 4 del documento di Chieti riecheggia senza dubbio quella proposta in maniera decisamente più articolata dal documento di Ravenna. La triplice attualizzazione del Sinodalità e primato nel documento di Chieti Sulla base di una comune eredità rapporto tra sinodalità e primato a livello locale, regionale e universale, compiuta dal documento di Ravenna, è ripresa dal testo di Chieti con delle significative precisazioni. In quest’ultimo, infatti, si preferisce non parlare più di tre livelli, ma si si specifica che la triplice attualizzazione del rapporto tra sinodalità e primato si realizza nella Chiesa locale, nella comunione regionale delle Chiese e nella Chiesa universale. L’adozione di un linguaggio teologico più preciso per descrivere le molteplici espressioni della vita della Chiesa ha il grande merito di rendere più chiaro che tra le diverse realtà di Chiesa prese in esame esiste solo una debole analogia e che l’interdipendenza fra sinodalità e primato, indubbiamente presente in ciascuna delle tre realtà, si concretizza in forme molto diverse. Una novità di rilievo nel documento di Chieti rispetto al testo di Ravenna è quella di descrivere come l’interdipendenza tra sinodalità e primato si sia realizzata di fatto nelle strutture della Chiesa del primo millennio. La preoccupazione di attenersi strettamente ai dati storici del primo millennio pervade tutto il testo, nel quale si evita accuratamente di usare espressioni che si riferiscono piuttosto all’evoluzione del secondo millennio, quali a esempio primato di giurisdizione, autocefalia, eccetera. Gli aspetti della realtà ecclesiale del primo millennio vengono citati nel documento come mere testimonianze storiche senza aggiungere alcuna interpretazione di carattere dogmatico, sulle quali cattolici e ortodossi spesso divergono. Tutto ciò però non consente di definire il documento di Chieti come un testo esclusivamente storico. Assolutamente centrale nella dinamica di tutto il testo è l’affermazione presente nel numero 6, con la quale si sostiene la necessità di riflettere sulla storia, perché in essa Dio rivela se stesso, e si ricorda che la liturgia, la spiritualità, le istituzioni e i canoni della Chiesa hanno sempre una dimensione sia storica sia teologica. Se è vero che il primato appartiene all’essere della Chiesa così come è stata voluta da Dio, e non si fonda semplicemente su una mera opportunità pratica finalizzata al buon funzionamento delle istituzioni ecclesiastiche, è altrettanto vero che lo sviluppo storico delle istituzioni ecclesiastiche non è privo di valore teologico. Poiché, per noi cristiani, il fatto che Dio si rivela nella storia è un dato di fede, dobbiamo saper cogliere i segni della sua presenza e della sua azione nella storia della Chiesa. Soltanto integrando l’approccio storico e quello teologico-speculativo è possibile individuare nella prassi, secondo la quale il primato della Chiesa di Roma era esercitato nel primo millennio, alcuni elementi non solo ispirativi ma normativi circa la modalità di esercizio di un primato universale che possa essere accettato oggi sia dai cattolici sia dagli ortodossi. In tale prospettiva, la parte più delicata del documento di Chieti è proprio quella che riguarda il rapporto tra sinodalità e primato nella Chiesa a livello universale (cfr. n. 15-19), perché tocca le questioni ecumenicamente più rilevanti. Si può facilmente comprendere la difficoltà con la quale la commissione abbia raggiunto un consenso su questo punto. La tematica in oggetto è al cuore stesso del contenzioso storico tra cattolici e ortodossi, soprattutto per come esso si è sviluppato nel secondo millennio. Il lavoro della Commissione mista internazionale è in qualche modo condizionato da secoli di dispute e polemiche sulla questione del primato del vescovo di Roma, nel corso dei quali le posizioni si sono radicalizzate finendo con l’apparire quasi inconciliabili. Tali posizio- ni radicali sono spesso ancora vive nella coscienza di una parte di pastori e fedeli, che, per questo motivo, guardano con grande sospetto il lavoro della Commissione mista internazionale. Evitando accuratamente di aggiungere una valutazione, il documento di Chieti registra il fatto che, tra il quarto e il settimo secolo, viene riconosciuto, e stabilito anche attraverso alcuni canoni dei concili ecumenici, un ordine fra le cinque sedi patriarcali, tra le quali la sede di Roma occupava il primo posto esercitando un primato di onore (cfr. n. 15). Inoltre, si afferma che, a partire dal quarto secolo, in occidente il primato del vescovo di Roma veniva compreso sempre più decisamente come una prerogativa legata al suo essere successore di Pietro, il primo degli apostoli. Il documento riconosce che questa interpretazione non fu mai adottata dalle Chiese di oriente, che su questo punto avevano una lettura differente della Scrittura e dei Padri (cfr. n. 16). Apparentemente, qui ci si trova di fronte a una divergenza sostanziale di interpretazioni, il cui riconoscimento non farebbe che ampliare la distanza che separa cattolici e ortodossi su tale questione. In realtà, il prendere atto da parte dei cattolici e degli ortodossi della coesistenza nel primo millennio di due diverse tradizioni che giustificavano diversamente il primato della sede di Roma e del suo vescovo, senza che ciò per molti secoli causasse una rottura della comunione tra le Chiese di oriente e occidente, è un significativo passo in avanti. Naturalmente, alcune questioni meritano di essere ulteriormente approfondite insieme da cattolici e ortodossi, in particolare quella del vero significato dell’espressione “primato d’onore” nelle fonti del primo millennio e quella del fondamento scritturistico del primato di san Pietro nella letteratura patristica di oriente e occidente. Dopo l’affermazione del primato della sede di Roma, il documento di Chieti presenta sinteticamente le forme concrete di esercizio di tale primato nel primo millennio. Innanzitutto, nel numero 17 si ricorda la prassi di nominare nei dittici liturgici i nomi dei patriarchi secondo il loro ordine. Ciò presuppone il diritto del vescovo della prima sede di presiedere nel caso di concelebrazione liturgica tra i vescovi delle principali sedi. In secondo luogo, è riconosciuto che il vescovo di Roma ha esercitato un ruolo essenziale di cooperazione per la ricezione dei concili come ecumenici attraverso il suo accordo, espresso per mezzo dei suoi legati o post factum (cfr. n. 18). Infine, è menzionata la possibilità della sede di Roma di ricevere appelli provenienti anche da Chiese dell’oriente, non giudicando in merito alla questione dell’appello ma rimandando il giudizio di merito al sinodo delle Chiese vicine di colui che si riteneva ingiustamente condannato dal proprio sinodo, così come regolato dal canone 3 del concilio di Sardica (cfr. n. 19). È importante sottolineare che il documento di Chieti afferma con chiarezza che queste prerogative della sede di Roma erano esercitate dal vescovo di Roma sempre nel contesto della sinodalità, ossia in stretta relazione con i vescovi delle altre sedi principali del primo millennio oppure insieme al sinodo della Chiesa di Roma (cfr. n. 17-19). In tal modo, si riconosce che anche nella Chiesa a livello universale durante il primo millennio la sinodalità e il primato erano legati da un nesso inscindibile. In conclusione, il documento presenta la comune eredità dei principi teologici, delle istituzioni canoniche e della pratica liturgica del primo millennio come necessario punto di riferimento e fonte di ispirazione per il superamento della divisione esistente tra cattolici e ortodossi (cfr. n. 20-21). Il primo millennio, dunque, non è visto come “l’età d’oro” alla quale tornare. Questo sarebbe un obiettivo ingenuo e irrealizzabile. La vera sfida che attende i cristiani di oriente e occidente è quella di capire come, sulla base di questa eredità comune, sia giusto esercitare oggi e in futuro sinodalità e primato, rispettando la loro reciproca interdipendenza. Da questo punto di vista, lo studio realizzato a Chieti dalla Commissione mista internazionale costituisce un significativo passo in avanti in quanto favorisce una più profonda riflessione sui temi della sinodalità e del primato, e della loro reciproca relazione, sia nel mondo cattolico che nel mondo ortodosso. In entrambi i casi, alcune recenti esperienze concrete, come la celebrazione del concilio panortodosso con tutte le difficoltà della vigilia, da un lato, e l’impegno profuso da Papa Francesco per ridare nuovo impulso alla sinodalità all’interno della Chiesa cattolica, dall’altro, mostrano quanto sia importante e urgente tale riflessione. *Sotto-segretario del Pontificio consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani Ufficio delle celebrazioni liturgiche del Sommo Pontefice Conversione di san Paolo Vespri presieduti da Papa Francesco INDICAZIONI Mercoledì 25 gennaio 2017, alle ore 17.30, nella Basilica di San Paolo fuori le Mura, il Santo Padre Francesco presiederà la celebrazione dei Secondi Vespri della solennità della Conversione di San Paolo Apostolo, a conclusione della Settimana di Preghiera per l’Unità dei Cristiani sul tema: «L’amore di Cristo ci spinge verso la riconciliazione» (cfr. 2 Cor 5, 14-20). Prenderanno parte alla celebrazione i Rappresentanti delle altre Chiese e Comunità ecclesiali presenti a Roma. Sono invitati, in modo particolare, il clero e i fedeli della diocesi di Roma. I Cardinali, i Vescovi, i Sacerdoti e i Religiosi, che desiderano partecipare alla celebrazione, indossando l’abito corale loro proprio, sono pregati di trovarsi per le ore 17 presso l’Altare della Confessione per occupare il posto che verrà loro indicato dai cerimonieri pontifici. Città del Vaticano, 18 gennaio 2017 Mons. Guido Marini Maestro delle Celebrazioni Liturgiche Pontificie Per i componenti la Cappella Pontificia sarà a disposizione un servizio pullman, con partenza dalla piazza antistante l’ingresso dell’Aula Paolo VI, alle ore 16.30. Quanti desiderano usufruire del servizio sono pregati di darne comunicazione all’Ufficio delle Celebrazioni Liturgiche del Sommo Pontefice, entro lunedì 23 gennaio. Attiva dopo la rivoluzione del 1917 La commissione pro russi del circolo San Pietro Un angolo di Russia nel cuore di Roma: anzi due. Grazie al circolo San Pietro, infatti, nei primi anni Venti del secolo scorso furono aperte nell’Urbe due case per accogliere le persone in fuga dalle persecuzioni conseguenti alla rivoluzione bolscevica del 1917. Lo racconta l’ultimo numero della pubblica semestrale dell’antico sodalizio («Bollettino del Circolo San Pietro», 2016, secondo semestre), ricordando la storia e l’attività della commissione pro russi, istituita per diretto impulso di Papa Pio XI, che diede seguito anche al desiderio del predecessore Benedetto XV di alleviare le pene di quelle popolazioni che subivano le conseguenze del primo conflitto mondiale. L’autore dell’articolo, Davide Ciotola, partendo dalle carte della XIV sezione dell’archivio storico del circolo San Pietro, vi racconta come il “motore” della struttura che gestiva gli aiuti fosse Paolo Croci, diciassettesimo presidente del sodalizio. Fu lui infatti a garantirne il pieno funzionamento fino al 1934. Una quindicina di anni di attività in tutto, durante i quali i profughi vennero registrati nei fascicoli dell’accoglienza e valutati nei loro bisogni urgenti o essenziali, e, di conseguenza, ricevettero aiuti commisurati alle concrete esigenze effettive, coerentemente con l’economia delle risorse assegnate alla commissione. Tra queste, appunto, anche due residenze, donate da Giovanni Torlonia per intercessione del cardinale Pietro Gasparri: la prima, attiva dal 1921 al 1926, a Villa Albani, sulla via Salaria; la seconda — venuta meno l’altra struttura a causa di una demolizione effettuata per far posto a una nuova linea tramviaria — in alcuni locali di Salita di Sant’Onofrio, dal 1926 al 1934. Tra i personaggi che raccomandavano gli esuli all’attenzione del circolo vi furono alti prelati vaticani, generali di ordini monastici e madri superiore, suore o sacerdoti, funzionari laici, politici, ambasciatori, medici e professionisti o persone semplicemente interessate alle condizioni in cui vivevano alcune persone o intere famiglie. Si creò così una circolazione di informazioni, che ebbe i propri cardini in alcuni personaggi come il principe Aleksandr Michajlovic Volkonskij (1866-1934), ufficiale fino al grado di colonnello e diplomatico di carriera; in Italia per rappresentanza, allo scoppiare della Rivoluzione di Ottobre vi rimase da esule. Divenne uno dei responsabili del Circolo russo, all’epoca in via delle Colonnette, e allacciò relazioni col sodalizio cattolico romano cercando di aiutare i suoi compatrioti. Alcuni dei quali presero da lui le distanze nel momento in cui decise di convertirsi al cattolicesimo, facendosi ordinare sacerdote di rito bizantino il 6 luglio 1930. Altra persona molto attiva fu il gesuita francese MichelJoseph Bourguignon d’Herbigny (1880-1957): preside del Pontificio istituto orientale, poi consacrato in segreto vesco- vo di Ilio dall’allora nunzio in Germania, Eugenio Pacelli, e infine presidente della Pontificia commissione per la Russia, fu uno dei principali protagonisti della politica del Vaticano nei confronti dell’Unione Sovietica nella prima metà del Novecento. Tra gli aiuti offerti dalla commissione del circolo San Pietro, i più richiesti furono naturalmente quelli in denaro, soprattutto per pagare l’affitto delle abitazioni. Gli istituti religiosi da parte loro accolsero gli esuli in dormitori e per strappare dalla strada i più giovani offrirono il sostegno necessario per portare a compimento tutto il ciclo di studi. E nel 1927, in uno di questi casi, ci fu la diretta richiesta di sussidio a beneficio di un giovane russo da parte dell’assistente ecclesiastico nazionale della Federazione universitaria cattolica italiana (Fuci) Giovanni Battista Montini. Da parte loro i profughi più adulti si ingegnarono come possibile per poter lavorare e si ritrovarono, senza guardare all’originaria classe sociale, a impegnarsi nelle occupazioni più diverse, nei cantieri edili e nella muratoria in genere, negli alberghi come portieri o custodi, e qualcuno riuscì anche a iniziare un’attività imprenditoriale. Le donne cercarono impiego come segretarie, dattilografe o magari insegnanti di lingue, altre facendosi assumere come dame di compagnia nelle famiglie romane più abbienti. L’OSSERVATORE ROMANO giovedì 19 gennaio 2017 pagina 7 Impegno pastorale in Bangladesh Incontro alle famiglie più lontane MANILA, 18. Un invito a compiere atti di misericordia è stato rivolto dall’arcivescovo di Manila, cardinale Luis Antonio G. Tagle, agli oltre cinquemila partecipanti al IV Congresso apostolico mondiale della Misericordia (Wacom4), in corso di svolgimento nella capitale delle Filippine, Manila. Un «pellegrinaggio di misericordia», durante le giornate del congresso, condurrà i numerosi delegati a visitare diversi luoghi santi dell’arcipelago asiatico, da Manila a Batangas, da Bulacan a Bataan, oltre a orfanotrofi, centri di accoglienza, popolazioni indigene, bambini di strada, anziani, donne e tossicodipendenti. «Non siete voi a compiere gli atti di misericordia — ha detto il porporato rivolgendosi ai presenti — ma è opera di Gesù. Quindi, non ci si deve vantare di compiere tali atti. L’unica cosa di cui ci si può vantare è di avere bisogno della misericordia di Dio». L’arcivescovo di Manila ha esortato i partecipanti al Wacom4 a non avere paura di aprire il proprio cuore a Cristo. «Non c’è alcun bisogno di nascondersi o di vergognarsi». E ha invitato tutti i presenti a essere come Maria, «attenta verso chi ha bisogno». Durante il Congresso, che si concluderà venerdì prossimo, si parlerà non solo di «devozione per la Misericordia Divina», ma anche della difficile situazione in cui versa il paese, che sta vivendo una crisi «in tema di diritti umani». Il riferimento di monsignor Ruperto C. Santos, vescovo di Balanga, è alle vittime della campagna contro il narcotraffico lanciata dalle autorità, che ha fat- Il cardinale Tagle al quarto Congresso apostolico della Misericordia Carità e attenzione alla vita to registrare migliaia di morti. «La misericordia — ha spiegato monsignor Santos — è legata alla vita e la vita è legata all’ambiente. In generale, si deve sempre amare la vita. Essa va vissuta fino in fondo e va anche difesa, promossa e rispettata». Il Wacom4 si svolge ogni tre anni e riunisce personalità ecclesiastiche, intellettuali e semplici fedeli. A Manila stanno prendendo parte all’evento vescovi, sacerdoti, religiosi, suore e battezzati di tutto il mondo. Papa Francesco ha nominato il cardinale Philippe Barbarin, arcivescovo di Lione, come inviato speciale. La Chiesa ha presentato l’incontro mondiale come occasione per compiere un «pellegrinaggio della misericordia», che porterà i parteci- panti ogni giorno in un luogo sacro diverso. Per il vescovo Santos, responsabile della commissione per i migranti della Conferenza episcopale filippina, questo evento globale garantirà anche e soprattutto un «processo di cicatrizzazione» per il Paese, diventando «fonte di speranza per quelli che sono considerati i più piccoli, i perduti, gli ultimi». In apertura dei lavori congressuali, è intervenuto anche monsignor Broderick S. Pabillo, vescovo ausiliare di Manila, il quale ha sottolineato che la Chiesa nelle Filippine non può restare silente e inerme di fronte alla conta governativa delle vittime della guerra al narcotraffico, che ha ormai superato quota seimila in cinque mesi. La Chiesa, ha avvertito il presule, è vicina al dolore delle loro famiglie, in particolare quelle povere, che hanno perduto i loro cari senza poter nemmeno contare su un giusto processo. «Non possiamo restare muti — ha spiegato il vescovo ausiliare — perché questo è un altro modo per terrorizzare le persone. Adesso, è davvero giunto il momento di farsi sentire» e ha invitato anch’egli i fedeli e le persone di buona volontà «ad agire contro la violazione dei diritti umani, senza aspettare che la conta aumenti». Il presule si augura che il paese abbia imparato qualcosa dalle esperienze del passato e che quindi non ripeta gli stessi errori commessi allora. Appello dell’episcopato del Kenya al personale sanitario in sciopero Il diritto all’assistenza sanitaria va garantito NAIROBI, 18. Un nuovo appello a medici e infermieri affinché assicurino i servizi essenziali ai pazienti in pericolo di vita e a tutti quelli che necessitano di cure urgenti è stato diffuso nei giorni scorsi dai vescovi del Kenya. Il personale sanitario delle strutture pubbliche, infatti, è in sciopero dal 5 dicembre scorso e la situazione non accenna a placarsi. La protesta del personale sanitario sta causando gravissime sofferenze ai pazienti e molte persone — riferisce il blog di Amecea News — sono decedute a causa della mancata assistenza. La situazione peggiore è quella che si vive nei villaggi distanti alcuni chilometri dai presidi ospedalieri, dove la gente non riesce a ricevere alcun tipo di servizio, con conseguenze drammatiche per i più deboli. L’episcopato keniano aveva già rivolto un pressante appello agli operatori sanitari affinché vengano garantiti i servizi essenziali. Alla base della protesta c’è il mancato aumento dello stipendio previsto dal contratto nazionale siglato nel 2013. I sindacati hanno minacciato di prolungare ulteriormente lo sciopero ed I vescovi sugli scontri fra agricoltori e pastori Per ristabilire la pace sociale in Nigeria ABUJA, 18. «I continui scontri tra agricoltori e pastori sono un chiaro segno che il vecchio metodo di allevamento, attraverso le cosiddette “vie del bestiame” e le riserve di pascolo, è obsoleto e insostenibile. Da qui la necessità urgente che i proprietari terrieri affittino le loro terre ai pastori per poter creare degli allevamenti». Lo ha affermato monsignor Mathew Man-oso Ndagoso, arcivescovo di Kaduna (Nigeria), intervenendo sulla grave crisi in corso nella regione di Kaduna sconvolta da mesi dalle razzie perpetrate dai pastori fulani nei confronti delle popolazioni sedentarie. Monsignor Ndagoso, parlando durante la cerimonia di ordinazione e di insediamento del vescovo di Shendam, Philip Davou Dung, ha sottolineato come l’origine delle violenze vada individuata nella ricerca di pascoli per il bestiame. E, come riferisce l’agenzia Fides, ha esortato «tutte le parti coinvolte a fare il necessario per consentire la creazione di un ambiente favorevole per la graduale istituzione di fattorie da parte di autorità locali, comunità e singoli individui, e per contribuire a contenere la violenza che minaccia quotidianamente l’esistenza sociale del nostro Paese». Ricordando una recente dichiarazione congiunta dei vescovi cattolici della provincia ecclesiastica di Kaduna Monsignor Ndagoso ha detto: «Il dibattito sul conflitto in corso è in sostanza un dibattito sul futuro della nostra sopravvivenza umana e dell’ambiente, oltre che del nostro Paese. Dobbiamo abbandonare la vecchia pratica di pastori che si muovono in massa in tutto il paese, soprattutto in considerazione delle violenze che comportano. Oggi, intere comunità sono state distrutte e la rabbia nel Paese è palpabile. Siamo convinti che l’unica via da seguire da parte del governo è quella di arrestare il movimento dei pastori e dei loro animali, esplorando le opzioni per la creazione di ranch invece di riserve di pascolo». Negli ultimi tre mesi, in più della metà del territorio della parte meridionale dello stato di Kaduna si è registrata un’intensificazione degli attacchi da parte del Fulani Herdsmen Terrorist (Fht), gruppo terroristico di etnia fulani. «In occidente — ha dichiarato monsignor Joseph Danlami Bagobiri, vescovo di Kafanchan, nello stato di Kaduna — questo gruppo è quasi sconosciuto, ma è responsabile da settembre ad oggi dell’incendio di cinquantatré villaggi, della morte di oltre ottocento persone, del ferimento di altre cinquantasette, della distruzione di 1422 case e di sedici chiese». estenderlo anche alle strutture private. Profonda preoccupazione per le sofferenze provocate dall’astensione dal lavoro è stata dunque espressa in una dichiarazione a firma di monsignor Philip A. Anyolo, vescovo di Homabay e presidente della Kenya Conference of Catholic Bishops (Kccb). Il presule ha ringraziato il personale delle strutture sanitarie pubbliche e private che, nonostante le difficoltà economiche, continua a rispondere con professionalità alle emergenze mediche. «Siamo consapevoli — ha affermato il vescovo di Homabay — dei turni di lavoro pesanti che state affrontando e che nonostante tutto continuate ad aiutare chi ha bisogno. Ringraziamo anche le istituzioni sanitarie private e quelle non statali che continuano a rispondere alle emergenze mediche, salvando vite umane nonostante le sollecitazioni sulle vostre risorse, specialmente quando le persone colpite non possono pagare completamente i costi delle cure». I vescovi keniani hanno rivolto un pressante appello anche a governo, sindacati e lavoratori perché «facciano delle scelte e intraprendano delle azioni per far sì che il normale servizio sanitario sia ristabilito senza ulteriori ritardi». In un precedente messaggio rivolto ai medici e diffuso dall’agenzia Fides, i vescovi avevano sottolineato «di condividere» la delusione «sul mancato rispetto del contratto collettivo», ma avevano anche ricordato che «non è giusto da parte loro abbandonare i pazienti innocenti a una tale sofferenza». Per questo, il mese scorso, i presuli hanno invitato «i medici che hanno giurato di proteggere la vita a riconsiderare la loro posizione e a non impegnarsi in azioni che la minacciano. È molto doloroso il fatto che non abbiamo ancora visto alcun piano coerente da parte delle autorità per far interrompere lo sciopero». DACCA, 18. «Il nostro principale obiettivo pastorale è prenderci cura delle famiglie, perché la famiglia è una piccola Chiesa, è la radice della Chiesa». Parole di Patrick D’Rozario, arcivescovo di Dhaka, presidente della Conferenza episcopale del Bangladesh e primo cardinale del paese asiatico, il quale incontrando un gruppo di operatori pastorali diocesani — una cinquantina di sacerdoti, venti suore e una trentina di fedeli laici — ha rilanciato con vigore lo spirito missionario. «Andate alla ricerca delle case dei cristiani più lontane dalle vostre parrocchie e fategli visita», ha detto il porporato ricordando in particolare, come riferisce l’agenzia AsiaNews, l’importanza fondamentale della pastorale familiare. Tanto più in un Paese a maggioranza islamica, dove i cristiani rappresentano appena lo 0,6 per cento della popolazione — su un totale di oltre 160 milioni di abitanti — e numerosi sono i matrimoni misti. «Portate la gioia del Vangelo nelle famiglie. I suoi membri — ha detto — hanno bisogno di vicinanza e consiglio spirituale». Il cardinale arcivescovo di Dhaka ha invitato a riscoprire il significato autentico del legame matrimoniale. «Molte persone — ha detto — pensano che il matrimonio sia solo una tradizione sociale. Essi non sanno che è una chiamata di Dio. La famiglia è lo specchio dell’amore di Dio. Per questo non è solo un fatto di tradizione, ma segno tangibile di Dio». Il porporato ha sottolineato che «ci sono molte famiglie cristiane ferite. Esse hanno bisogno di amore e compassione. Perciò voi — sacerdoti, fratelli e suore — dovete far loro visita, ascoltare e condividere le loro parole». Allo stesso tempo i fedeli «vogliono ascoltare parole di speranza. C’è bisogno di persone religiose che si prendano cura di loro». La famiglia infatti costituisce le fondamenta della Chiesa. Il cardinale D’Rozario ha osservato come nel Paese asiatico servano «molti più operatori formati a rispondere al meglio ai bisogni del nostro popolo». E ha poi ricordato le parole di Papa Francesco: «Tutti noi dobbiamo pregare almeno due minuti al giorno in famiglia; il marito pregherà per la moglie, la moglie pregherà per il marito, i figli pregheranno per i loro genitori. Tutti devono pregare l’uno per l’altro e sentire la presenza di Dio nella propria vita». Una preoccupazione, quella della pastorale familiare che, non va dimenticato, deve fare i conti anche con le gravi necessità e le condizioni di estrema povertà di larghe fasce di popolazione. In particolare, come evidenziato da una recente ricerca, i bambini delle baraccopoli bengalesi spesso sono costretti a lavorare più di sessanta ore alla settimana nelle fabbriche tessili di grandi marche internazionali. Il 15 per cento dei minori tra 6 e 14 anni dei quartieri più poveri di Dacca non va a scuola perché lavora a tempo pieno. E la cifra sale al cinquanta per cento tra i ragazzi con più di 14 anni. Gruppi di fedeli nell’aula Paolo VI All’udienza generale di mercoledì 18 gennaio, nell’aula Paolo VI, erano presenti i seguenti gruppi: Dall’Italia: Pellegrinaggio delle Suore Agostiniane Serve di Gesù e Maria; Associazione italiana Notai cattolici, con l’Arcivescovo di Assisi, monsignor Domenico Sorrentino; Associazione Stella Maris, di Cervia e Milano Marittima; Associazione volontari ospedalieri, di Taranto; Associazione Evento People Dance, di Vibo Valentia; Federazione nobili europei uniti, di Roma; Istituti riuniti di assistenza sociale, di Roma; Collegio geometri e geometri laureati, di Potenza e Matera; Soci Circolo Unione, di Bari; Liceo Amaldi, di Alzano Lombardo; Istituto Fermi, di Barcellona Pozzo di Gotto; gruppi di fedeli da Santo Stefano di Magra, Acicatena. Texas; Priests and deacons from St Paul Seminary, St Paul, Minnesota; Students and faculty from: Catholic Theological Union, Chicago, Illinois; California State University, San Marcos; St Mary’s College, Moraga, California; Loras Catholic College, Dubuque, Iowa; Wellesley College, Massachusetts; St Augustine High School, San Diego, California. Dalla Germania: Società sportiva Lupi, di Wolfsburg. Dalla Bosnia ed Erzegovina: Bambini ospiti dell’Associazione «Luciano Lama», di Enna. Coppie di sposi novelli. I polacchi: Pracownicy Liceum Ogólnokształcącego nr 1 w Łukowie; osoby niepełnosprawne z Warsztatu Terapii Zajęciowej w Kuźnicy Grabowskiej; pielgrzymi indywidualni. De France: Lycée du SacréCœur, d’Aix-en-Provence; Collège Vauban, de Strasbourg; groupe de pèlerins de Nouvelle Caledonie. From New Zealand: Pilgrims from St John the Evangelist Parish, Otara, Auckland. From the United States of America: Pilgrims from: Diocese of Palm Beach, Florida; Diocese of Lansing, Michigan; St Paul Apostle Parish, California; Cathedral of St Augustine, St Augustine, Florida; St Jude Parish, Peoria, Illinois; St John Vianney Parish, Houston, Aus der Bundesrepublik Deutschland: Pilgergruppe aus der Pfarrgemeinde St. Klara, Neustadt an der Weinstrasse; Delegation der Evangelischen Kirche in Deutschland. De España: Instituto «Italica», de Santiponce; Instituto Maestro Don José Jurado Espada, de Sevilla; Instituto Profesor Andrés Bojollo, de Puente Genil; Instituto La Granja, Heras Cantabria; Alumnos del Master en Radio de la Fundación Cope, de Madrid. De Argentina: grupos de peregrinos. Do Brasil: The Brazilian Tropical Violins, do Rio de Janeiro. L’OSSERVATORE ROMANO pagina 8 giovedì 19 gennaio 2017 All’udienza generale Papa Francesco parla del profeta Giona La preghiera dei pagani «Quando le cose diventano buie, occorre più preghiera! E ci sarà più speranza». È la lezione tratta dalla rilettura della vicenda del profeta Giona offerta da Papa Francesco all’udienza generale di mercoledì 18 gennaio, nell’aula Paolo VI. Cari fratelli e sorelle, buongiorno. Nella Sacra Scrittura, tra i profeti di Israele, spicca una figura un po’ anomala, un profeta che tenta di sottrarsi alla chiamata del Signore rifiutando di mettersi al servizio del piano divino di salvezza. Si tratta del profeta Giona, di cui si narra la storia in un piccolo libretto di soli quattro capitoli, una sorta di parabola portatrice di un grande insegnamento, quello della misericordia di Dio che perdona. Giona è un profeta “in uscita” ed anche un profeta in fuga! È un profeta in uscita che Dio invia “in periferia”, a Ninive, per convertire gli abitanti di quella grande città. Ma Ninive, per un israelita come Giona, rappresentava una realtà minacciosa, il nemico che metteva in pericolo la stessa Gerusalemme, e dunque da distruggere, non certo da salvare. Perciò, quando Dio manda Giona a predicare in quella città, il profeta, che conosce la bontà del Signore e il suo desiderio di perdonare, cerca di sottrarsi al suo compito e fugge. Durante la sua fuga, il profeta entra in contatto con dei pagani, i marinai della nave su cui si era imbarcato per allontanarsi da Dio e dalla sua missione. E fugge lontano, perché Ninive era nella zona dell’Iraq e lui fugge in Spagna, fugge sul serio. Ed è proprio il comportamento di questi uomini pagani, come poi sarà quello degli abitanti di Ninive, che ci permette oggi di riflettere un poco sulla speranza che, davanti al pericolo e alla morte, si esprime in preghiera. Infatti, durante la traversata in mare, scoppia una tremenda tempesta, e Giona scende nella stiva della nave e si abbandona al sonno. I marinai invece, vedendosi perduti, «invocarono ciascuno il proprio dio»: erano pagani (Gn 1, 5). Il capitano della nave sveglia Giona dicendogli: «Che cosa fai così addormentato? Alzati, invoca il tuo Dio! Forse Dio si darà pensiero di noi e non periremo» (Gn 1, 6). La reazione di questi “pagani” è la giusta reazione davanti alla morte, davanti al pericolo; perché è allora che l’uomo fa completa esperienza della propria fragilità e del proprio bisogno di salvezza. L’istintivo orrore del morire svela la necessità di sperare nel Dio della vita. «Forse Dio si darà pensiero di noi e non periremo»: sono le parole della speranza che diventa preghiera, quella supplica colma di angoscia che sale alle labbra dell’uomo davanti a un imminente pericolo di morte. Troppo facilmente noi disdegniamo il rivolgerci a Dio nel bisogno come se fosse solo una preghiera interessata, e perciò imperfetta. Ma Dio conosce la nostra debolezza, sa che ci ricordiamo di Lui per chiedere aiuto, e con il sorriso indulgente di un padre, Dio risponde benevolmente. Quando Giona, riconoscendo le proprie responsabilità, si fa gettare in mare per salvare i suoi compagni di viaggio, la tempesta si placa. La morte incombente ha portato quegli uomini pagani alla preghiera, ha fatto sì che il profeta, nonostante tutto, vivesse la propria vocazione al servizio degli altri accettando di sacrificarsi per loro, e ora conduce i sopravvissuti al riconoscimento del vero Signore e alla lode. I marinai, che avevano pregato in preda alla paura rivolgendosi ai loro dèi, ora, con sincero timore del Signore, riconoscono il vero Dio e offrono sacrifici e sciolgono voti. La speranza, che li aveva indotti a pregare per non morire, si rivela ancora più potente e opera una realtà che va anche al di là di quanto essi speravano: non solo non periscono nella tempesta, ma si aprono al riconoscimento del vero e unico Signore del cielo e della terra. Successivamente, anche gli abitanti di Ninive, davanti alla prospettiva di essere distrutti, pregheranno, spinti dalla speranza nel perdono di Dio. Faranno penitenza, invocheranno il Signore e si convertiranno a Lui, a cominciare dal re, che, come il capitano della nave, dà voce alla speranza dicendo: «Chi sa che Dio non cambi, [...] e noi non abbiamo a perire!» (Gn 3, 9). Anche per loro, come per l’equipaggio nella tempesta, aver af- frontato la morte ed esserne usciti salvi li ha portati alla verità. Così, sotto la misericordia divina, e ancor più alla luce del mistero pasquale, la morte può diventare, come è stato per san Francesco d’Assisi, “nostra sorella morte” e rappresentare, per ogni uomo e per ciascuno di noi, la sorprendente occasione di conoscere la speranza e di incontrare il Signore. Che il Signore ci faccia capire questo legame fra preghiera e speranza. La preghiera ti porta avanti nella speranza e quando le cose diventano buie, occorre più preghiera! E ci sarà più speranza. Grazie. Nei saluti ai fedeli il Pontefice ricorda l’inizio della settimana ecumenica «Comunione, riconciliazione e unità sono possibili»: lo ha ribadito il Pontefice salutando come di consueto i gruppi di fedeli al termine dell’udienza generale del 18 gennaio, giorno in cui ha inizio la settimana dedicata alla preghiera per l’unità dei cristiani. Saluto cordialmente i pellegrini di lingua francese, in particolare i giovani venuti dalla Francia e i pellegrini della Nuova Caledonia. Oggi inizia la Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani. La nostra speranza di unità si esprime attraverso la nostra preghiera, è una speranza che non delude. Vi invito a pregare per questa intenzione. Dio vi benedica. Saluto i pellegrini di lingua inglese presenti all’odierna Udienza, specialmente quelli provenienti da Nuova Zelanda, Filippine, Canada e Stati Uniti d’America. Su tutti voi e sulle vostre famiglie invoco la gioia e la pace del Signore nostro Gesù Cristo. Dio vi benedica! Rivolgo un saluto ai pellegrini di lingua tedesca. All’inizio della Settimana di Preghiera per l’Unità dei Cristiani, in particolare do un cordiale benvenuto alla delegazione dell’Itinerario Europeo Ecumenico, guidata dalla Signora Preside Annette Kurschus. Cari fratelli e sorelle, la vostra tappa a Roma è un importante segno ecumenico, che esprime la comunione raggiunta tra noi attraverso il cammino di dialogo nei decenni scorsi. Il Vangelo di Cristo è al centro della nostra vita e unisce persone che parlano lingue diverse, abitano in Paesi diversi e vivono la fede in comunità diverse. Ricordo con commozione la preghiera ecumenica a Lund, in Svezia, il 31 ottobre scorso. Nello spirito di quella commemorazione comune della Riforma, noi guardiamo più a ciò che ci unisce che a ciò che ci divide, e continuiamo il cammino insieme per approfondire la nostra comunione e darle una forma sempre più visibile. In Europa questa comune fede in Cristo è come un filo verde di speranza: apparteniamo gli uni agli altri. Comunione, riconciliazione e unità sono possibili. Come cristiani, abbiamo la responsabilità di questo messaggio e dobbiamo testimoniarlo con la nostra vita. Dio benedica questa volontà di unione e custodisca tutte le persone che camminano sulla strada dell’unità. Saludo cordialmente a los peregrinos de lengua española, en par- Unità possibile ticular a los grupos provenientes de España y Latinoamérica. En la oración, nuestra esperanza no se ve defraudada. En esta Semana de oración que hoy iniciamos pidamos insistentemente al Padre por la unidad de todos los cristianos. Que Dios los bendiga. Con sentimenti di grata stima vi saluto, carissimi pellegrini di lingua portoghese, in particolare voi, giovani del gruppo «The Brazilian Tropical Violins», ricordando a tutti che oggi inizia l’Ottavario di Preghiera per l’Unità dei Cristiani, un motivo in più di appello alla nostra comunione di preghiere e di speranze. Il movimento ecumenico va fruttificando, con la grazia di Dio. Il Padre celeste continui a riversare le sue benedizioni sulle orme di tutti i suoi figli. Sorelle e fratelli carissimi, servite la causa dell’unità e della pace! Rivolgo un cordiale benvenuto ai pellegrini di lingua araba, in particolare a quelli provenienti dal Medio Oriente! Cari fratelli e sorelle, la preghiera è la chiave che apre il cuore misericordioso di Dio. È la più grande forza della Chiesa, che non dobbiamo mai lasciare. Siate “perseveranti e concordi nella preghiera” come la Madonna e gli Apostoli! Il Signore vi benedica! Saluto cordialmente i pellegrini polacchi. Fratelli e sorelle, oggi inizia la Settimana di Preghiera per l’Unità dei Cristiani, il cui motto è per noi una sfida: L’amore di Cristo ci spinge verso la riconciliazione. Preghiamo il Signore affinché tutte le Comunità cristiane, conoscendo meglio la propria storia, teologia e diritto si aprano sempre di più alla riconciliazione. Ci pervada lo Spirito di benevolenza e comprensione, come anche la voglia di collaborare. A Voi qui presenti e a coloro che si uniscono attraverso la preghiera, imparto di cuore la Benedizione. Saluto i pellegrini croati! Con particolare gioia sono lieto di accogliere i bambini e i giovani della Bosnia ed Erzegovina, insieme con le famiglie ospitanti della Sicilia. Cari ragazzi, trascorrendo il tempo insieme come fratelli e sorelle nelle famiglie che vi ospitano, avete l’opportunità di crescere in un clima di speranza. Solo così, voi giovani cattolici, ortodossi e musulmani, potrete salvare la speranza per vivere in un mondo più fraterno, giusto e pacifico, più sincero e più a misura d’uomo. Rimanete sempre saldi nella fede e pregate per la pace e l’unità del vostro Paese e del mondo intero. Ringrazio di cuore le famiglie ospitanti per l’esempio di amore e di solidarietà cristiana: gli orfani vanno sempre difesi, protetti e accolti con amore. Vi assicuro la mia spirituale vicinanza e imparto a tutti voi la Benedizione Apostolica. Rivolgo un cordiale benvenuto ai pellegrini di lingua italiana. Saluto il pellegrinaggio delle Suore Agostiniane Serve di Gesù e di Maria, i Religiosi Agostiniani e l’Associazione Notai Cattolici, accompagnata dall’Arcivescovo di Assisi, Mons. Domenico Sorrentino. A tutti formulo l’auspicio che la visita alla Città Eterna stimoli ciascuno ad approfondire la Parola di Dio per poter riconoscere in Gesù il Salvatore. Saluto infine i giovani, i malati e gli sposi novelli. Oggi inizia la Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani, che quest’anno ci fa riflettere sull’amore di Cristo che spinge alla riconciliazione. Cari giovani, pregate affinché tutti i cristiani tornino ad essere un’unica famiglia; cari ammalati, offrite le vostre sofferenze per la causa dell’unità della Chiesa; e voi, cari sposi novelli, fate esperienza dell’amore gratuito come è quello di Dio per l’umanità. Michelangelo, «Il profeta Giona» (1512, Cappella Sistina) In aiuto delle vittime della tratta Una residenza in stile casa-famiglia ospiterà dal prossimo aprile a Baton Rouge, in Louisiana, ragazze minori vittime della tratta di esseri umani. Il progetto “Metanoia manor” è stato presentato a Papa Francesco durante l’udienza generale, svoltasi nell’aula Paolo VI alla presenza di circa seimila fedeli. Se ne occuperanno la parrocchia di Zachary e quattro suore Ospedaliere della misericordia: Norma, Alexandrine, Ann Maria e Ruth. Le religiose si prenderanno cura delle adolescenti in modo da offrire loro un luogo sicuro dove superare i traumi subiti e ritrovare la speranza. Ad affiancarle una équipe di professionisti, formata da medici, infermieri, assistenti sociali, educatori e volontari che presteranno servizio nella struttura, il cui nome “Metanoia” richiama il cambiamento di vita, di mentalità, di cuore. L’opera vuole essere un segno tangibile di misericordia in ricordo dell’anno giubilare appena concluso. Il governatore della Louisiana, John Bel Edwards, ha presentato al Papa il progetto e ha chiesto la benedizione di una targa che verrà collocata nella struttura. Erano presenti anche padre Jeff Bayhi e suor Paola Iacovone, superiora generale delle Ospedaliere della misericordia, con alcuni volontari. Un’altra opera di carità illustrata al Pontefice riguarda i minorenni. Si tratta del progetto di accoglienza dell’associazione Luciano Lama, che da venticinque anni offre una vacanza umanitaria ai bambini vittime della guerra nelle zone della ex-Jugoslavia che si trovano negli orfanotrofi della Bosnia ed Erzegovina. I ragazzi vengono ospitati per un mese, due volte all’anno. Infine, tra gli altri gruppi presenti all’udienza, da segnalare i 350 membri dell’Associazione italiana notai cattolici, che ha sede nell’Istituto serafico di Assisi. Ad accompagnarli l’arcivescovo-vescovo di Assisi - Nocera Umbra - Gualdo Tadino, monsignor Domenico Sorrentino, con il presidente del sodalizio Dante Cogliandro. Due camper per bambini e anziani di periferia Ha il nome di un fiore, il “nontiscordardime”, l’iniziativa promossa da Vicariato di Roma, ospedale pediatrico Bambino Gesù e Cooperativa operatori sanitari associati (Osa) in collaborazione con l’Università cattolica del Sacro Cuore. Si tratta di due unità mobi- li che si occupano di portare informazione, prevenzione e cura ai bambini e agli anziani nelle periferie romane. Papa Francesco le ha benedette — alla presenza dell’arcivescovo Angelo Becciu, sostituto della Segreteria di Stato — prima dell’udienza generale di mercoledì 18, nel cortile alle spalle dell’aula Paolo VI. L’unità mobile per gli anziani entrerà in servizio effettivo il 28 gennaio, nella parrocchia di San Filippo Neri alla Pineta Sacchetti, ed è stata donata dal Papa grazie ai fondi dell’obolo di San Pietro. L’altra unità, alla quale il Pontefice ha in parte contribuito, è già in servizio dall’anno scorso e ha assistito fino a oggi 983 bambini. Come spiega la dottoressa Rosaria Giampaolo, responsabile del dipartimento pediatrico dell’ospedale Bambino Gesù, il camper ha già visitato circa diecimila ragazzi delle parrocchie romane delle zone della Tiburtina, Borghesiana, Casilina e Castel Romano. In particolare nelle parrocchie di Santa Maria della Fiducia e Santa Maria dell’Ospitalità, i medici del nosocomio pediatrico e gli infermieri della cooperativa Osa hanno prestato un servizio di prevenzione capillare, individuando cento adolescenti bisognosi di ulteriori esami diagnostici in ospedale. Alcuni di loro sono stati ricoverati e salvati proprio grazie al pronto intervento. Il progetto è stato reso possibile attraverso il sostegno della Banca di credito cooperativo di Roma e del Fondo sviluppo Confcooperative. Esso trova ispirazione proprio dalle parole pronunciate da Papa Francesco in occasione dell’udienza del 28 febbraio scorso alle Confcooperative: «Come sarebbe bello se, partendo da Roma, tra le cooperative, le parrocchie e gli ospedali, penso al Bambino Gesù, potesse nascere una rete efficace di assistenza e di solidarietà». Si tratta quindi, ha spiegato don Andrea Manto, direttore del centro per la pastorale sanitaria e familiare del Vicariato di Roma, di due iniziative nate come espressione concreta delle opere di mi- sericordia raccomandate durante il giubileo conclusosi lo scorso novembre. L’unità mobile destinata ai bambini svolge ogni settimana attività di presidio sanitario territoriale e di assistenza medica primaria per tutti i minori. Ma non solo: gli operatori aiutano anche le loro famiglie in difficoltà, soprattutto quelle che non hanno assistenza sanitaria o hanno perso il lavoro. Il camper per gli anziani è la naturale prosecuzione dei centri di ascolto socio-sanitari già operanti in alcune parrocchie della periferia romana, dove psicologi, assistenti sociali e volontari parrocchiani e della cooperativa Osa prestano servizio. Entro l’anno l’unità mobile girerà per venti parrocchie, promuovendo dodici campagne di medicina preventiva a tema. Se ne occuperanno medici, infermieri della cooperativa e specializzandi dell’Università cattolica del Sacro Cuore. Alla benedizione dei camper erano presenti Giuseppe Milanese, presidente della cooperativa Osa e di FederazioneSanità Confcooperative, Maurizio Gardini, presidente di Fondosviluppo, ed Eugenio Saputo, vicesindaco di San Felice al Circeo.