Il ritorno dell`altro nel discorso che lo interdice. Vie d`uscita a partire

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Il ritorno dell`altro nel discorso che lo interdice. Vie d`uscita a partire
Il ritorno dell'altro nel discorso che lo interdice.
Vie d'uscita a partire dalla riflessione di Michel
de Certeau
Sara De Carlo
Università Federico II, Napoli
[email protected]
ABSTRACT: The text - analyzing de Certeau trough crucial moments and characters reflects on impossibility of reproduce the other's voice, searching instead the other
in the interdict speech, doing exavation in all survivals that power represses. And
than we want return to the other by the otherness of his own voice, because the
margin is also in the heart of downtown, the primitive even in the heart of the
present.
Io sono solamente un negro rosso che ama il mare,
ho avuto una buona educazione coloniale,
ho in me l’olandese, del negro e dell’inglese,
sono nessuno, o sono una nazione.
Derek Walcott
Si tratta di imparare a vedere come estranei quello che è nostro,
e come nostro quello che ci era estraneo
Maurice Merleau-Ponty
Tzvetan Todorov ne La conquista dell’America individua nel 1492 l’anno di una
débâcle, quella dell’Occidente nel proprio rapporto con l’altro. È su due fronti
che questa sconfitta si dipana: su un versante interno si realizza infatti una
volta per tutte la cacciata di ebrei ed arabi dalla Spagna, epilogo della
Reconquista; su uno esterno, oltremare si compie, a seguito della scoperta del
nuovo continente, il più grande genocidio della storia. Tra le svariate figure
utilizzate per declinare i termini di questa relazione monca, di quest’incontro
mancato, Todorov si dilunga su quella di Colombo; è in termini primariamente
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linguistici che inizia, per mano dell’ammiraglio del mare Oceano, l’alienazione
identitaria del nuovo mondo, dei suoi luoghi e dei suoi abitanti: adorando il
nome proprio come fosse un feticcio, è il navigatore stesso a ribattezzarsi
Cristóbal Colón (il primo termine vuol dire ‘portatore di Cristo’, il secondo
‘ripopolatore’) per meglio denotare la propria opera di evangelizzatore e
colonizzatore. È ossessionato poi dalla scelta di nomi da assegnare ai luoghi
vergini che gli si parano dinanzi, «come Adamo nel paradiso terrestre» 1. Con la
nominazione, Colombo prende possesso, chiama come per la prima volta le
nuove terre e le soggioga linguisticamente alla Spagna: a nulla vale la
consapevolezza del fatto che quei posti abbiano già un nome dato loro dagli
altri, egli si convince di essere colui al quale spetta il compito di assegnare
nomi più consoni, più giusti. Colombo impone il proprio flatus vocis sulla pelle
dell’altro, altro che egli non riesce ad ascoltare: il poliglotta europeo non arriva
a immaginare la possibilità che gli indigeni posseggano una loro lingua, del
tutto diversa dalla propria, così pensa finanche di stare ascoltando uno
strampalato e mal pronunciato spagnolo. «Colombo disconosce dunque la
diversità dei linguaggi per cui, dinanzi a una lingua straniera, non gli restano che
due comportamenti possibili e complementari: riconoscere che è una lingua, ma
rifiutarsi di credere che è diversa; oppure riconoscere la differenza, ma negare che
si tratta di una lingua»2.
L’11 ottobre 1492, al primo incontro con gli indiani, il navigatore sbarca da
una nave adornata da vessillo reale, con al seguito due capitani e un notaio,
armato di calamaio, che redigerà il primo atto ufficiale della conquista. È con
un calamaio che inizia dunque la conquista dell’altro; la lunga storia
dell’inchiostro che vien fuori da questo calamaio è ciò che interessa a Michel de
Certeau.
Negli anni ’70 quest’ultimo, mutuando da Raymond Aron e Michel Foucault
l’idea che ad ogni storiografia sia sottesa una precipua filosofia della storia,
elabora una disamina fortemente debitrice alle teorie lacaniane ed affronta una
serie d’interrogativi relativi alla genesi della scrittura della storia: il discorso
della storia non si dà mai come neutro, ma è sempre precipitato di un luogo e di
un tempo. Compito dello storico è infatti innanzitutto marcare frontiere,
definire il proprio presente differendo il passato, creando faglie, fratture, tagli;
«presente e passato diventano così due “luoghi” distinti: attraverso la
produzione dell’uno, il passato, si ottiene la produzione dell’altro, il presente» 3.
Per far sì che la distanziazione sia efficace è necessario che il passato sia
1
2
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TODOROV 1984, 33.
TODOROV 1984, 36.
TARIZZO 2003, 150.
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restituito con parvenze di opacità e parziale incomprensibilità, come
l’inconscio; la storia dev’essere in definitiva l’altro della ragione. Ciò che la
storiografia produce è un negativo significativo, presa com’è dal suo evocare
un’assenza, dal suo lavorare di denegazione (dénégation).
Una volta portata a termine la produzione di un luogo, rigettando il passato
in un ginepraio inesplicabile, si tratterà poi di sbrogliare quella matassa,
avviando un processo di riconquista e comprensione, ritessendo le fila del
tempo; il tempo dunque, con quest’ulteriore operazione, viene prodotto. È a
partire da una schisi che però questo stesso tempo ha ad essere: quella tra
oralità e scrittura. Da un lato la voce dei morti, di chi non ha più parola,
dall’altro la scrittura della storia, la storiografia, che si fa eco di quella voce
persa. La scrittura esorcizza la morte, riempie il vuoto dell’angoscia che si
radica ontologicamente nel soggetto, vuoto che si dichiara a piena voce
nell'irrappresentabile relazione con l’altro assoluto (e qui sono fin troppo
evidenti le incursioni nel pensiero di Jacques Lacan).
In questo snodo centrale, de Certeau avvia una disamina critica delle
modalità in cui l’Occidente ha tentato di declinare le grane della voce
dell’assente, fin dal XVI secolo, quando gli etnologi di ritorno dalle terre
conquistate iniziano a narrare il ‘primitivo’: ricacciato in un orizzonte di
inconsapevolezza, di assenza di giudizio, l’altro è incatenato nell’afasia, il
senso dei suoi comportamenti può essere fornito dal solo etnologo. Questi è
l’unico addetto a decifrare i segni, le tracce che l’altro, come ridotto
all’animalità, semplicemente sparge.
Non è quindi a un’ermeneutica dell’alterità – evidentemente fallimentare che occorre appellarsi per cortocircuitare la mortificazione operata, a spese
dell’altro, dalla storiografia, bensì a un’eterologia. Ci si deve incamminare alla
volta di un metodo eversivo che Foucault ci ha insegnato a chiamare
“genealogico”. Acquisito col Roland Barthes de Il discorso della storia il dato – da
molti storici, come Pierre Vidal-Naquet o Carlo Ginzburg, però fortemente
messo in discussione – che la storia lavora su artifici, su finzioni, su effetti di
realtà, de Certeau non accetta però che questo equivalga a una definitiva
rinunzia a qualsivoglia riferimento alla realtà: è possibile infatti, defalcando un
mero rimando all’oggetto narrativamente ricostruito, riferirsi alla creazione di
modelli narrativi e al loro incontrare intralci, materiale residuale, opere di
resistenza da parte di chi in questi stessi modelli viene ingabbiato. Bisogna
lavorare sul limite, scovare «il ritorno dell’altro nel discorso che lo interdice» 4,
camminare tra le incrinature del testo, scrivere il margine nel suo fuggire,
4
DE CERTEAU 2001, 74.
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operando di scavo e intercettando storie a pendenza lieve5, modelli subalterni
prodotti nello stesso alveo della cultura egemone: andranno formulate ipotesi
fittizie sul senso degli eventi e queste andranno verificate lavorando sulle
resistenze che si incontrano; solo così sarà possibile formulare nuove ipotesi,
destrutturare i pregiudizi. «Il lavoro dello storico, che ha l’aspetto di un
andirivieni tra sé e sé, è un approfondimento continuo e complicato della
nostra identità, ogni volta determinata dalla nostra differenza rispetto al
passato e ogni volta rimessa in discussione dalla segreta continuità tra il
presente e il passato»6.
Nel 1980 il pensatore francese dà alle stampe il primo volume de L’invenzione
del quotidiano. Come a ragione evidenzia Paola di Cori7, qui ritroviamo un de
Certeau assai più prossimo alle posizioni dell’ultimo Foucault, impegnato a
denunciare in forma più schietta le capacità dei soggetti di decentrarsi dal
potere. Ciò che gli interessa è il modo in cui i soggetti navigano, seppure
inconsciamente, attraverso le cose dell’everyday life; la vita di ogni giorno, nei
margini, è un fenomeno di bracconaggio (parruque) che ricombina dettami già
dati da quella foucaultiana diade di potere/sapere, spariglia le carte, facendo e
disfacendo il gioco di cui non si è deciso le regole. Lungi dal pensare a un
radicale determinismo calato sui soggetti dall’alto, de Certeau si limita a
descrivere una certa influenza da cui è possibile divincolarsi: alle strategie delle
istituzioni - basate su un calcolo cartesiano e sulla manipolazione dei rapporti
di forza e che presuppongono luoghi propri e isolabili – vengono opposte le
tattiche degli individui, camminanti e lettori, cacciatori di frodo che non
obbediscono alle leggi del luogo e, col proprio lavoro, segnano il contrappunto
della catena di montaggio, «inventori di sentieri nelle giungle della razionalità
funzionalista»8. Le tattiche, diversamente dalle strategie, sono prive di un luogo
proprio, si organizzano quasi clandestinamente, fantasmaticamente, «circolano
senza essere viste, segnate soltanto dagli oggetti che spostano e fanno
scomparire»9; de Certeau le paragona al motto di spirito analizzato da Freud,
che crea crepe, pieghe nel linguaggio e spiazza il destinatario.
Esiste una moltitudine di soggetti che riesce a forzare il non normato delle
istituzioni, contrasta la verticalità imposta dalla pianificazione urbanistica, lo fa
grazie al proprio essere portatrice di orizzontalità, nel proprio passeggiare e
insinuarsi tra i vuoti e i pieni di dedali, scorciatoie, traiettorie e percorsi
5
6
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8
9
FOUCAULT 1971, 6.
TARIZZO 2003, 154
DI CORI 2002.
DE CERTEAU 2001, 69.
DE CERTEAU 2001, 79.
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desueti. Essa inventa nuovi modi di fare, stili di azioni, di produzione, di
linguaggio, di lettura, nuove maniere di camminare, flussi liquidi che eludono
le statistiche. Dai propri margini essa procede per enunciazioni podistiche che
inseguono moti browniani incontrollabili e aleatori: «abitare la città significa
per de Certeau concepire lo spazio attraversato giorno per giorno come se si
trattasse di utilizzare la scrittura; è un modo per sfuggire alla pianificazione e
al controllo di chi l’ha disegnata mediante l’attuazione di tattiche
deambulatorie ‘astute’, e per contribuire a una incessante riformulazione della
sua storia»10. Sono molteplici i corpi di questa moltitudine: essa ha i piedi di chi
nei giorni di protesta calpesta le piazze del Sud America, delle madri e delle
nonne che in Argentina si riuniscono ogni giovedì a ricordare i desaparecidos
della dittatura militare, nella Plaza edificata intorno al 1580 dai coloni, che nel
suo ventre accoglie il simbolo del potere, la Casa Rosada, e che nel suo nome
ricorda quel Mayo rivoluzionario del 1810 a partire dal quale si avviò il
processo di indipendenza dalla Spagna. Ancora, questa moltitudine ha la voce
del poeta caraibico Derek Walcott, della scrittrice chicana Sandra Cisneros,
della scrittrice cilena Diamela Eltit 11 e di tanti altri. Ha le braccia dei contadini
brasiliani di Pernambuco, che negli anni ’70 cantavano la perenne repressione
della propria sommossa e intessevano le miracolose gesta dell’eroe Frei
Damiano, eludendo l’ordine costituito attraverso l’appropriazione di un
linguaggio ricevuto dall’alto e però mutato in centro di resistenza,
riutilizzando un sistema religioso imposto dall’esterno e però ricreato con
un’opera di stratagemma (trampolinagem): nei racconti dei contadini scoprivamo
che se da un lato vi era il linguaggio dei vincitori, dall’altro «vi era uno spazio
utopistico dove si affermava, attraverso racconti religiosi, un possibile per
definizione miracoloso»12.
Questa moltitudine ha la ridondante fantasia e la perspicacia attenta dei
proverbi popolari, che inscenano un’arte ordinaria, l’arte quotidiana di dire che
fa sì che al suo interno sopravviva il rimosso estirpato dal potere. Ha la
fisionomia di quei nuovi mostri (nel senso etimologico del termine) che
incarnano il soggetto postmoderno e che James Clifford scorge nell’attuale
panorama mondiale, finanche nel grembo delle società occidentale: la cultura
translocale che definisce le travelling cultures è fenomeno relazionale, di scambi e
conflitti fisici e virtuali, che, con le sue nuove strategie rappresentative, s’inalvea
10 DI CORI 2002, 143.
11 Di Cori avanza un interessante parallelo tra l’opera di de Certeau e la proposta estetica
portata avanti in Cile, dalla metà degli anni ‘70, dalla Eltit e dal suo gruppo
d’avanguardia di riferimento, il CADA.
12 DE CERTEAU 2001, 46.
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nella porosità del potere e lo apre a processi dinamici, ad affrontare viaggi e
traduzioni13.
In definitiva, a corpi, a piedi, a braccia, a proverbi, a racconti, a mostri, de
Certeau cerca di far ritorno, a quelle pratiche che «malgrado tutto, offrono al
possibile un luogo inespugnabile, perché è un non-luogo, un’utopia» 14; per
mezzo di manipolazioni di conoscenze e simbolismi, ibridazioni, viene
organizzata una resistenza di cui talvolta l’occupante non coglie neppure le
dimensioni. Spesso, seppure in forma caricaturale, il basso deride le architravi
verticali, il potere dominante della produzione.
Ma per tornare a tutto questo bisogna innanzitutto operare una rinuncia,
dichiarando l’impossibilità di riprodurre fedelmente la voce d’altri ma
cercando di restituire a questi stessi altri l’alterità stessa della propria voce;
siamo qui distanti da quella che era stata la tendenza delle scienze sociali della
fine degli anni ’60, che aveva pensato di far parlare gli altri «alimentando una
onnipotente fantasia ventriloqua che consentirebbe ad alcuni intellettuali
militanti di dare voce (e scrittura) a indigeni e analfabeti» 15. In punta di piedi,
de Certeau ci consegna frammenti e domande, impegnandoci a valicare il
crinale di una frontiera che troppo spesso tende a “tenerci buoni” in spazi
immuni e razionalizzati, a neutralizzare il conflitto, a mistificare la complessità:
è ai pazzi, ai posseduti, ai mistici che siamo invitati a prestare ascolto. E non
solo. Forse oggi più che mai occorre spendersi a cercare il folle, lo straniero, il
reietto negli spazi più prossimi, dove la marginalità soffre ancora di più nel
tentativo di dichiarare la sua istanza più vera. Oggi, la cosa più difficile che
siamo chiamati a fare è incamminarci verso quel lavoro di straforo sollecitato da
de Certeau, cercare il margine nel cuore del centro, scovare il “primitivo” nel
cuore dell’economia più avanzata, e ascoltarlo. Esso va scovato, sulla scia
dell’insegnamento di Clifford, di Appadurai e di tanti altri esponenti della
critica post-coloniale, nella piena consapevolezza che le culture non vanno
pensate in maniera sostanzialistica, dal momento che non sono mai separate e
autosufficienti, esse emergono piuttosto da snodi relazionali; il margine va
riconosciuto ben oltre i perimetri dei luoghi esotici, al di là della sineddoche
villaggio/cultura, ostacolando il pericoloso congelamento metonimico che ha a
lungo incancrenito l’altro nella categoria di ‘nativo’ 16. Dobbiamo cercarlo nelle
13 Lo stesso Clifford, del resto, si riferisce esplicitamente a de Certeau, parlando di tattiche
diasporiche e di pratica spaziale: cfr. CLIFFORD 1999.
14 DE CERTEAU 2001, 48
15 DI CORI 2002, 146.
16 CLIFFORD 1999, 33.
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frontiere17, e far sì «che approcci etnografici-storici differenti possano lavorare
insieme sulla complessità della localizzazione culturale nelle situazioni post- o
neocoloniali, sui processi di migrazione e immigrazione, sulle diaspore, sulle
diverse vie che portano a sperimentare la “modernità”» 18.
Quest’operazione va portata avanti nella consapevolezza che, fatto tesoro
delle predicazioni di certa riflessione post-coloniale, occorra tener presenti i
limiti di quella stessa riflessione 19 ed elaborare un nuovo (post)universalismo
contro-egemonico, in grado di combinare cosmopolitismo e globalizzazione; e
così evitare il rischio di un relativismo assoluto, «che ci priverebbe della
possibilità di mettere a fuoco quella dimensione ‘negoziale’, ‘interattiva’ e
‘dialogica’ che sta alla base di ogni processo culturale» 20. In questo sforzo è
importante ribadire che ogni incontro, come ogni traduzione, non può essere
un pacifico processo dove ci si scopre in un punto medio, ma è anche conflitto,
è anche fatica che porta con sé talvolta fallimenti, rinunce, crisi mimetiche per
dirla con René Girard Eppure è forse dalla rinuncia a una coincidenza e a una
pacificazione definitiva che possono aprirci nuove brecce, rinnovati spazi di
confronto che non operino in direzione di una riduzione dell’altro al potere,
che non mettano in campo riconoscimenti ipocriti e non effettivi, volti
semplicemente a mistificare – sotto la retorica del mea culpa e la politica del
sentimento – azioni che di fatto continuano a preservare lo status quo di pochi21.
Dobbiamo quindi, a partire da questi presupposti, impegnarci a cercare le
lucciole che non sono solo un residuo del passato ma anche una nuova forma
del presente e che, al di là di quanto Pier Paolo Pasolini aveva premonizzato,
coi loro barlumi, con le loro intermittenze, creano intralci, malgrado tutto, alla
moderna barbarie; per chiudere con George Didi-Huberman: «sta a noi non
vedere scomparire le lucciole. Ma per fare ciò dobbiamo acquisire la libertà di
17 Così Clifford: «dobbiamo escogitare nuove localizzazioni, come per esempio la
18
19
20
21
“frontiera”», CLIFFORD 1999, 49.
CLIFFORD 1999, 49.
Richiamandosi agli spunti critici offerti dal pensatore sloveno Slavoj Žižek, Manuel
Mellino, pur riconoscendo i numerosi meriti della teoria post-coloniale, mette in guardia
dall’evitare quel passaggio – che potrebbe essere scontato – dalla vecchia eurocentrica
filosofia del soggetto, propria dell’umanesimo moderno, a un’altra differente ma
altrettanto pericolosa filosofia, quella dell’anti-umanesimo postmoderno: «Enfatizzando
flessibilità, sradicamenti, transnazionalismi, nomadismi, ibridismi, mobilità e flussi vari
in modo acritico e astratto, il pensiero postcoloniale, come il postmoderno più
compiacente, rischia di divenire un’altra apologia del tardocapitalismo globale». Cfr.
MELLINO 2005, 145.
FABIETTI 2015, 6-7.
Cfr. TAMISARI 2008, 219-45.
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movimento, il ritirarsi [retrait] che non sia ripiegamento su noi stessi, la facoltà
di fare apparire scintille di umanità, il desiderio indistruttibile. Noi stessi – in
disparte [en retrait] rispetto al regno e alla gloria, nella lacuna aperta tra il
passato e il futuro - dobbiamo dunque trasformarci in lucciole e riformare, così,
una comunità del desiderio, una comunità di bagliori, di danze malgrado tutto,
di pensieri da trasmettere. Dire sì alla notte attraversata da bagliori, e non
accontentarsi di descrivere il no della luce che ci rende ciechi»22.
Bibliographie
CLIFFORD, J. 1999. Culture in viaggio in Strade. Viaggio e traduzione alla fine del
secolo XIX. Torino: Bollati Boringhieri.
DE CERTEAU, M. 2001. L’invenzione del quotidiano. Roma: Edizioni Lavoro.
— 2005. La scrittura dell’altro. Milano: Cortina.
DI CORI, P. 2002. « Margini della città. Lo spazio urbano decentrato di Michel de
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Annuario di Antropologia, 138-161.
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FABIETTI, U. 2015. «Culture e riconoscimento» in Lo spazio sociale della ragione. Da
Hegel in avanti, a cura di L. Ruggiu e I. Testa, in corso di pubblicazione
(manoscritto consultato grazie alla cortesia di U. Fabietti).
FOUCAULT, M. 1971. L’archeologia del sapere. Una metodologia per la storia della
cultura. Milano: Rizzoli.
MELLINO, M. 2005. «La teoria postcoloniale come ricerca culturale» in La critica
postcoloniale. Decolonizzazione, capitalismo e cosmolpolitanismo nei postcolonial
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MERLEAU-PONTY, M. 1967. Segni. Milano: Il Saggiatore.
TAMISARI, F. 2008. «I limiti del riconoscimento delle popolazioni indigene
australiane. La politica del sentimento e la costruzione della volontà
nazionale australiana», in ZAGATO, L. (a cura di). 2008. Le identità culturali nei
22 DIDI-HUBERMAN 2010, 92.
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nuovi strumenti UNESCO: un approccio nuovo alla costruzione della pace.
Padova: CEDAM, 219-245.
TARIZZO, D. 2003. Il pensiero libero. La filosofia francese dopo lo strutturalismo,
Milano: Cortina.
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Einaudi.
WALCOTT, D. 1992. Mappa del nuovo mondo. Milano: Adelphi.
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