La crisi religiosa e politica di Girolamo De Rada
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La crisi religiosa e politica di Girolamo De Rada
1 LA CRISI RELIGIOSA E POLITICA DI GIROLAMO DE’ RADA Ricorda il de’ Rada che, con Domenico Mauro, “rimpatriato da Napoli in S. Demetrio”, nel 1837, ogni giovedì, “smessa ogni rivalità” di quando erano studenti, si incontravano a metà strada tra Macchia e S. Demetrio, “conferendo il compito della settimana”, per leggere, cioè, le rispettive composizioni e per scambiarsi pareri ed opinioni. Proprio nel giugno di quell’anno, il de’ Rada con una propria squadra di dieci insorti, partecipò alla cospirazione che avrebbe dovuto scoppiare a Cosenza in concomitanza con l’epidemia di colera che aveva in qualche modo scosso la fiducia delle plebi nel governo. Il moto, com’è noto, non riuscì: “fu saputo poi – ricorda il de’ Rada nell’Autobiologia – che, nel giorno stesso, poco lungi da noi a sinistra del Crati, stava Giovanni Mòsciari con venti suoi compagni di S. Benedetto. Soli dunque due Albanesi avevan tenuto il campo del pericolo”. Il tentativo di insurrezione fu ferocemente represso dall’Intendente De Liguoro. Tra gli altri furono arrestati e condannati a morte con l’accusa calunniosa di spargitori di veleno i calabro-arbresh Benigno Botta e Francesco Franzese, di Cerzeto, e Costantino Pugliese, di S. Basile. Il de’ Rada riuscì a sfuggire alla polizia, vivendo in campagna da latitante per diversi mesi, portandosi appresso “per vademecum la Letteratura di Federico Schlegel”. Finalmente scagionato da ogni accusa, potè riprendere la via per Napoli, tutto preso dai “due fantasmi” della fama – che si riprometteva di raggiungere con la poesia – e della “rivoluzione”, attraverso la quale gli 2 sembrava di intravvedere “un avvenire di fortune a perdita di veduta”. Ed era tanto “affascinato dal miraggio della libertà greca e romana” che gli appariva “arbitraria ed oppressiva ogni monarchia assoluta”. Si trattava, però, di una generica, momentanea infatuazione. Il fatto di essere partito per Napoli con una lettera di raccomandazione di Raffaele Anastasio per Benedetto Musolino, fondatore della sètta dei Figliuoli della Giovane Italia; che sia stato aspettato, in Napoli, nel novembre 1838, dallo stesso Musolino e da Achille Frascini e Demetrio Strìgari, suoi ex compagni nel Collegio italo-greco; che, infine, Raffaele Anastasio fosse il responsabile per la provincia di Cosenza dei Figliuoli della Giovane Italia, che era organizzazione diversa e più radicale di quella mazziniana; non dovrebbe indurre a ritenere che il de’ Rada avesse conoscenza piena , come l’avevano sicuramente i suoi amici, del programma e delle finalità della sètta, abbastanza diffusa in Calabria. Qualificando, infatti, Benedetto Musolino come “Rappresentante di Mazzini nel Napolitano”, dimostrava all’evidenza che non ne conosceva il programma politico e gli orientamenti, verosimilmente anche se il de’ Rada può considerarsi una sorta di “compagno di strada” di quei settari della Calabria Citeriore, che costituivano, in verità, un “variopinto mondo” di liberali e di antiborbonici, non disciplinatamente schierati con le sètte, ma delle quali condividevano l’obiettivo immediato dell’azione rivoluzionaria ed erano pronti e disposti a battersi con loro. 3 E questa doveva essere all’organizzazione organigramma settaria, la posizione del de’ Rada in seno della quale non conosceva il reale ed il vero obiettivo politico. Per tale motivo l’aspro, ingiusto ed avventato giudizio che dà su Giuseppe Mazzini (“conobbi presto l’ambizione cadaverica(?) e l’imbecillità (!) di Mazzini e dei militi suoi”), è soltanto frutto di prevenzione ideologica, non potendo derivare dalla conoscenza diretta del Mazzini e di esponenti del movimento mazziniano. De’ Rada confondeva chiaramente la setta dei Figliuoli della Giovane Italia con la mazziniana Giovane Italia, fra loro assai differenti sia per organizzazione che per programma ed obiettivi politici. L’astioso, ma generico giudizio sui “politici Speranzoni, i quali patria da amare non ebbero mai” e che “come facienti-vece delle plebi…reputansi padroni, già non di altro, ma dell’avere e del fare delle medesime, ed in universo concedonli in usufrutto ai seguaci suoi” (31), è piuttosto da riferirsi a certi esponenti politici del periodo postrisorgimentale, come, per esempio, i fratelli Vincenzo e Francesco Sprovieri, che, nel Parlamento nazionale, si schieravano con la sinistra liberale e davano a vedere di essere progressisti ed, invece, nell’ambito del loro collegio elettorale – che comprendeva anche Macchia e S. Demetrio -, coltivavano il loro orticello, distribuendo sinecure, prebende, favori ai propri clienti, calpestando ogni più elementare principio morale e giuridico. Il fatto vero è che il de’ Rada, dopo i primi bollori, abbandonò gradualmente lo schieramento rivoluzionario per passare dalla parte dei 4 moderati, com’egli stesso ricorda. “E la mia anima era sì conversa al Costituzionalismo che una mattina d’Aprile di quello stesso anno (1838, ndr.) Emmanuele Bidera – che vollemi bene sempre – ebbe a riprendermene seriamente nella Carteria di Fabris: “ Ma tu de Rada (mi si volse) che avesti un Dio che ti parla nel seno, ti accomuni a famelici che non han di che vivere e cospirano ad impadronirsi della cosa che dicon pubblica”. Benchè invitato dal Comitato Costituzionale di Napoli, rifiutò di prendere parte al tentativo rivoluzionario di Cosenza del 1844 ed, anzi, dissuase gli altri – compreso lo stesso Domenico Mauro – dal parteciparvi sia perché Giovanni Mosciaro, di ritorno dalla Calabria, gli aveva riferito che, nel Cosentino, “gli Italiani dormono profondamente; fra gli Albanesi esservi qualche (?) animi liberali e risoluti”, sia perché egli “là non conosceva persona che amasse l’Italia da porre per essa in pericolo la vita e le sostanze sue”. Intorno al 1840, il de’ Rada – che, in quell’anno, faceva il precettore in casa del marchese Spiriti - in seguito ad una malattia, che lo aveva lasciato indebolito nel fisico e depresso, ebbe una crisi religiosa che determinò tutto il successivo orientamento della sua vita. Sin dai primi anni del Collegio, aveva dimostrato una certa tendenza al misticismo: “ai digiuni della Chiesa Ortodossa- scrive - aggiunsi orazioni e mortificazioni alla vita. Smisi ogni libro che non fosse sacro, preferendo i manuali di storia religiosa”. Arrivò fino al punto di chiedere insistentemente al padre di chiuderlo in “alcun monastero”. 5 A questo fervore religioso fece seguito – per sua stessa ammissione – “l’appassimento della fede mancata a Gesù” e, cioè, un lungo periodo di scetticismo e di indifferenza religiosa, durante il quale aveva abbracciato gli ideali e la filosofia stessa del liberalismo. Ora, la crisi mistica lo faceva regredire ad un cupo pessimismo ed a forme di ascetismo orientale, costituendo essa un punto di rottura anche con forme di cattolicesimo liberale moderato. Da qui tutta la sua polemica contro Mazzini ed i “militi suoi” e l’evidente fastidio, che trapela dall’Autobiologia, verso sistemi filosofici, come quello del Condillac, “in quel tempo in voga a Napoli” e dal quale lo “rimoveva la fede cristiana e il chiaro discernimento natìo”. Il de’ Rada venne gradualmente maturando la consapevolezza di dovere portare a compimento una missione, affidatagli da Dio. Tale sembrerebbe il senso dell’oscura e contorta prosa di un brano dell’Autobiologia, in cui rileva che “in sé gli eventi della mia vita sono assolutamente di nessun prezzo per altrui, né hanno di che me invanire…espongo i casi della mia vita pel pregio incomparabile del contenere qua e là testimonianze veraci del Regno de’ cieli, dentro cui la mia azione si svolse”. Dopo avere ricordato che, nel 1827, mentre passeggiava con i compagni di Collegio, li aveva lasciati per un momento per rivolgere all’immagine “di Maria SS.” la pressante preghiera di essere sempre attratto e salvato dalla Vergine, prosegue: “Uom non sa, né dirà mai se allora era quivi chi, non che esaudirmi, pur m’ascoltasse: pure 6 resterebbero indici del sì due Felicità: l’una, se nei pericoli eccessivi alcuna Potenza invisibile invocata, trassemi poi costantemente in liberazione…L’altra testimonia sarebbe, alcuna mia Conversione dai disviamenti sì obliosi; ma questa non è nell’ora presente; le Ore appresso restano nel non essere; se pure non vi auspicano già la morte di tre incliti figli e della dolce lor madre che mi legavano al mondo e La Vita costrettami nel deserto da cui niente ho, se nol chieggo al Padre ne’ cieli; e la longevità sana e quasi serbata a destini non ancora forniti”. VI La “conversione” o, meglio, la crisi mistica ebbe come conseguenza l’isolamento del de’ Rada ed il suo definitivo distacco dalle correnti politiche democratiche fino a costringerlo a richiudersi in sé stesso nell’angusto, ristretto e soffocante ambiente paesano di Macchia. Ad un attento esame della struttura del Milosao e dell’ideologia in essa sottesa si possono trovare già presenti le premesse di una simile scelta intellettuale regressiva. Nel poemetto deradiano – come giustamente aveva sottolineato Vincenzo Torelli – sotto la parvenza albanese del secolo XV” , di “poesia è idealizzato il piccolo mondo agreste e contadino di Macchia, ne è riprodotto quell’ambiente fisico e umano, in cui nasce e si sviluppa l’idillio – reale ed autentico – tra il poeta, giovane figlio del parroco greco e signore rispettato del luogo, con Kalogrea, la figlia del colono di casa de’ Rada. A questo fondo realistico di un amore, sicuramente contrastato per la differente posizione sociale dei protagonisti, fa difetto –com’è stato 7 osservato – “ogni minimo richiamo alle difficili condizioni sociali della vita comunitaria, alle sofferenze quotidiane legate alla misera economia di sopravvivenza (elementi invece di fortissimo richiamo ideologico in ogni espressione del verismo e naturalismo della letteratura meridionale), nonché a questioni inerenti alla vita politica e civile del tempo”. Viene, cioè, preso in considerazione un mondo di sogno, di pura fantasia, in cui le dimensioni reali, pur sussistenti, si illanguidiscono e si perdono nel mito e nella leggenda di un “giovan signore” che, dopo traversie e drammi famigliari, morirà per la libertà della patria albanese, esistente solo nell’immaginazione, nel rimpianto di non potersi più “destare alle pianure di fiori / cui com’onda intemerata moveano i zefiri” e, mentre i suoi “compagni si saranno ritirati nei focolari”, egli “vi è dileguato come sogno”. La predilezione per questo piccolo mondo Macchia – - che era quello reale di economicamente e socialmente arretrato - con i suoi rapporti umani arcaici, idealizzato fino ad apparire un mitico mondo di serenità, non identificato nella sua reale ed ingiusta gerarchia sociale, sottintendeva una scelta di vita, che corrispondeva - anche se ancora in modo inconscio - alla visione filosofica e politica, a cui approderà il de’ Rada dopo la “conversione” mistica. Ha giustamente rilevato Costantino Marco che “la proiezione cronologica del medioevo, in cui è ambientato il poema, non è da vedersi come esotico artificio romantico, bensì come indicazione della inattualità (ovvero anti-modernità) della condizione spirituale particolare di un 8 popolo dalla cultura antica, che non ammette lacerazioni intellettuali intestine, in quanto, per definizione ideologica e poetica, la sua vita coincide con la condizione stessa della felicità di un mondo miticamente armonioso, e in questo senso classico”. Questo tipo di romanticismo medievaleggiante ed oggettivamente conservatore era l’esatto contrario di quel romanticismo d’avanguardia, in cui la figura dell’intellettuale o del poeta romantico coincideva e si identificava con quella del democratico e del ribelle politico. E tale fu Domenico Mauro, che mai si trasformò in portavoce della reazione. In de’ Rada è dato riscontrare una evidente cesura tra le sue giovanili aspirazioni, alimentate dal desiderio di gloria per mezzo della poesia e dagli ideali rivoluzionari, e l’approdo effettivo della sua opera poetica e della sua azione pratica.. Mauro e gli altri giovani romantici calabresi, ma anche i maggiori intellettuali italiani, come il Manzoni ed il Leopardi, e gli intellettuali europei, come V. Hugo, Lamartine, Shelley, Pushkin ed altri, erano tutti schierati dalla parte delle forze del rinnovamento e si battevano per valori etici e politici, opposti a quelli della conservazione. L’apologia della tradizione, della Chiesa, lo stesso interesse per il Medioevo, ravvivato da certi romanzi storici e dagli scritti di Federico Schlegel – tanto caro al de’ Rada forse anche perchè deciso avversario del liberalismo – avevano un evidente contenuto politico reazionario, che era assai differente dalla riscoperta del valore della storia e delle tradizioni popolari, pure patrimonio del movimento romantico. Ormai, tra il 1830 ed il 1848, la letteratura e l’arte romantica si intrecciavano con i 9 movimenti di opposizione politica e sociale ed erano permeati da sentimenti rivoluzionari. Il de’ Rada, come si è già sottolineato, al tema della democrazia, della partecipazione dei cittadini al governo della cosa pubblica, alla elaborazione delle leggi ed al controllo dei rappresentanti, non presta alcuna attenzione e, dopo, la “conversione”, anzi, guarda con diffidenza e disprezzo, scambiando le rappresentanze popolari come semplici strumenti di rapina, non di altro capaci che di impadronirsi dei beni pubblici: “E tale (è acclarato oggi) la fingono gli scaltri successori dei Re, e di cui or costa (?) lo Stato…come facienti-vece delle plebi, questi reputansi padroni…dell’avere e del fare delle medesime” e, dopo essersi impadroniti della cosa pubblica, la distribuiscono alle proprie clientele. Così il suo mondo poetico, tutto proiettato verso fatti ed avvenimenti medievali, diventa strumento di esaltazione del potere politico dello Stato, del predominio della Chiesa e dei signori feudali, appesantito da considerazioni religiose, il più delle volte inutili ed inopportune, dominato dal suo fervore religioso che, col progredire degli anni, diventa sempre più cupo, pessimistico ed intollerante. “Molte fresche concezioni dell’età più verde” – ha rilevato il Gualtieri - subiscono profonde alterazioni “sotto l’incubo di quelle preoccupazioni che travagliarono l’infelicissimo Torquato, con risultati, nell’arte, assolutamente identici; e gli fa abusare di quelle “interrogazioni ed esclamazioni frequenti” di quell’”alternarsi delle riflessioni soggettive con ciò che si viene descrivendo, 10 raccontando”…facendogli appesantire le più belle pagine con astruse digressioni moraleggianti o addirittura catechistiche”. Il carattere mistico della sua religiosità, che lo induceva a ritenere di avere ricevuto la missione della rinascita cristiana dell’Albania, è elemento di equivocità perchè tende alla identificazione fra politica e religione, fra storia e teologia, e costituisce contestualmente una posizione di oggettiva arretratezza culturale sotto diversi profili. Intanto, bisogna dire che se è vero che il romanticismo tendeva alla valorizzazione della religiosità medievale, ciò faceva entro certi limiti, considerando la religione storicamente come un aspetto dello svolgimento spirituale dell’uomo e non come una sorta di perennis religio, di fatto totalizzante. In secondo luogo, la marcata ispirazione messianico-religiosa, in cui nazione e religione tenderebbero ad unificarsi, porta a fare della nazione albanese una entità puramente astratta ed ideale, prescindendo dal dato storico dell’irreversibile secolare processo di islamizzazione, subìto dalla popolazione d’Albania, e di italianizzazione e di occidentalizzazione degli italo-albanesi. Nazionalista alla ricerca di una patria, mai conosciuta, avvolta nel mito e nella leggenda, il de’ Rada col suo misticismo era ovviamente portato ad avere una visione passatista della storia che inevitabilmente lo destinava all’emarginazione, relegandolo ad una sterile funzione di “missione profetica”. Si vide chiaramente, nei fatti del 1848, che con questo armamentario ideologico non poteva andare da nessuna parte. 11 Sfuggiva, infatti, al de’ Rada – com’è assai chiaro dal quarto libro dell’Autobiologia - il vero significato dei fatti del ’48 nel Napoletano. Fallita l’impostazione moderata e neoguelfa del movimento nazionale, non restava che l’unica alternativa possibile, di fronte alla seria minaccia reazionaria di ripresa dell’assolutismo: quella, cioè, di affidarsi ad un movimento di popolo per sopperire al venire meno della guerra regia. Fu subito chiaro, nell’Italia meridionale, che i circoli reazionari, tutti “i vecchi servitori” dei Borboni consideravano lo Statuto, appena concesso, nient’altro che uno strumento finalizzato al mantenimento dei vecchi equilibri del potere. Domenico Mauro, nel suo proclama Ai vecchi e nuovi moderati del 9 febbraio 1848 evidenziava che o lo Statuto era un nuovo patto “tra il popolo e il re”, che richiedeva la costruzione di un nuovo Stato, oppure sarebbe stato necessario fare affidamento su di una “forza nuova cittadina libera” per spazzare la vecchia impalcatura illiberale. I nuovi moderati, alla ricerca di alleanze con i vecchi gruppi dirigenti, costituivano un oggettivo elemento di pericolosità perché non erano impegnati nella costruzione del nuovo e nell’abbattimento del vecchio sistema politico. Diventava, così, la consorteria moderata assolutamente inutilizzabile per la costruzione di un nuovo sistema politico liberale con base democratica. Ed, in effetti, il de’ Rada – a differenza del Mauro, diventato “l’idolo della gioventù”a Napoli – non si era neppure reso conto che la pressione reazionaria, a Napoli, stava per travolgere tutte le pur fragili speranze di rinnovamento. Come puntualmente avvenne dopo i 12 fatti del 15 maggio del 1848. Il Parlamento fu sospeso e di fatto sciolto, lo Statuto – pur formalmente mantenuto - non garantiva alcuna libertà di opinione, di espressione e di associazione; tutte le garanzie costituzionali furono calpestate dalla monarchia borbonica. A questo punto, ai liberali meridionali non restò che fare affidamento sulla guerra di popolo e su quei moti contadini che erano scoppiati in Calabria, che in buona parte facevano capo a Domenico Mauro. Anche i fratelli Silvio e Bertrando Spaventa sul giornale Il Nazionale, da loro diretto, conducendo una difficile battaglia in difesa delle garanzie costituzionali, non mancarono di esprimere il loro apprezzamento per l’insurrezione calabrese, vista come estrema difesa dello Stato costituzionale. Domenico Mauro, Cesare Marini, Giuseppe Masci, tutti eletti deputati al Parlamento napoletano, e gli altri ex studenti del Collegio italo-greco, erano protagonisti nella difesa delle libertà costituzionali. Dov’era il de’ Rada? Egli “orava al Padre nei cieli, col Salmo Benedic, anima mea, Dominum”. Dopo la concessione dello Statuto, fondava con lo studente abruzzese, Nicola Castagna, il giornale l’Albanese d’Italia, con la finalità – com’egli stesso scrive – di separare “il bisogno della patria da quello de’ chiedenti una mercede”, conducendo, in un grave momento di fibrillazione politica, una astratta battaglia di pubblica moralità, erigendosi a censore, ritenendo che il suo giornale – di cui pochissimi” - “i mezzi erano potesse assurgere a cattedra di rettitudine (“ma baldo costituivalo la Rettitudine”). Con tale presa di posizione politica 13 ambivalente, fu inevitabile la rottura con i suoi ormai ex amici: “Ai miei ex Colleghi io consigliava quel che parevami onesto; essi invece aspettavansi suoi utili; e presto mi si alienarono. In un convenio che avemmo insieme, fino insorsero contro me in coro: fu chi mi disse: “tu fai lo spartano perché hai un impiego! – Quello, io risposi, ch’è pervio a tutti; vendo la mia opera e del suo prezzo vivo”. Considera il de’ Rada la giornata del 15 maggio 1848 come la tragica conseguenza di una “notte d’insania”, dovuta a “delle mediocrità di presunzione nauseante, Petrucelli della Gattina, Zuppetta, La Cecilia e simili”, che impedirono “il consentimento del Re a che la Costituzione si svolgesse”. E lo svolgimento della Costituzione si doveva concretizzare “nella applicazione sincera, ed al popolo benefica, della Costituzione, (in cui) consisteva lo svolgersi serio e leale della medesima. Giurando modifiche, e svolgimenti che mutassero, si giurerebbe l’inesistente”. La responsabilità, per conseguenza, del fallimento dell’esperimento liberale, appena iniziato, ricadeva tutta – secondo il Nostro – sul movimento liberale e democratico, intestarditosi nel chiedere “modifiche” e “svolgimenti che mutassero” ed escludeva qualsiasi elemento di colpa nella forte ed evidente pressione reazionaria dei circoli della stessa corte borbonica. Tace il de’ Rada sulla sospensione del Parlamento, appena eletto e di fatto sciolto, e di tutte la garanzie costituzionali, di fatto revocate perché non operanti, anche se formalmente ancora esistenti. E’, perciò, vero che al de’ Rada sfuggiva il senso reale dello scontro del 15 maggio, che era di fondamentale interesse per il Mezzogiorno in 14 quanto erano in gioco non gli interessi personali di alcuni dirigenti politici, ma un nuovo, moderno e liberale ordinamento, che avrebbe sicuramente consentito – se attuato – il decollo del Regno di Napoli. E tanto non avvenne non a causa del “buon senso volato via”, come scrive il de’ Rada, ma per esclusiva responsabilità della monarchia che non fu in grado di portare, o non volle, ad attuazione – come andavano facendo i Savoia - il processo di trasformazione del regno in monarchia costituzionale. Il de’ Rada sembra non volere attribuire alcun peso al fatto oggettivo che Ferdinando II, come già il suo avo Ferdinando I, venne meno al giuramento fatto di osservare la costituzione e, subito dopo il 15 maggio, diede inizio alla persecuzione giudiziaria, conclusasi con pesanti condanne contro tutti gli esponenti liberali meridionali, che erano anche le maggiori intelligenze del Mezzogiorno, rinchiuse nei bagni penali o costrette all’esilio. All’indomani del 15 maggio, mentre si recava nel Parlamento per assistere ai lavori, si imbattè nelle barricate di via Toledo e del largo della Carità, dove si battevano anche molti studenti calabresi; tornò indietro inorridito: “a me inerme non restava che ritirarmi dal campo, ove non m’era più posto”. Il mattino del giorno seguente, “fidente in Dio”, visitò la città, trovandola naturalmente in disordine, piena di gendarmi e con i negozi chiusi. “Rinvenuto che fui nella mia camera, non potei acquiescere all’idea che la disfatta di una setta, avesse ad aversi per disfatta del paese liberale; e stesi una narrazione del fatto, viva, veridica, piena di luce, ma franca in faccia ai vincitori cui io non obbediva”. 15 Ma il de’ Rada si sbagliava. I fatti dimostrarono che non della sconfitta di “una setta” o di un partito politico si era trattato, ma proprio di quel “paese liberale”, ch’egli diceva di avere a cuore. La soppressione delle garanzie costituzionali e della libertà aveva condannato il regno di Napoli alla regressione ed all’arretramento generale. Errata l’analisi delle ragioni dello scontro, anche la successiva “narrazione” dei fatti accaduti non poteva essere tanto veritiera, “veridica” e “piena di luce”, altrimenti non sarebbe stata apprezzata solo dalla parte borbonica. La poetessa Giuseppina Guacci Nobile, infatti, come lo incontrò, gli rinfacciò il tenore della “narrazione”, dicendogli chiaramente : “Avete, De Rada, ferito la patria nel cuore”. Il De’ Rada, a sua giustificazione, distinse tra “patria leale” e “sleale” senza, peraltro, specificare il senso reale delle parole, aggiungendo di averlo fatto per “togliere alla Reazione il pretesto degl’insorgimenti delle provincie, fuochi fatui che essa conobbe di potere estinguere agevolmente”. Né è dato vedere come, com un articolo di giornale, si sarebbe tolto alla reazione borbonca il “pretesto” d’intervenire militarmente contro le insurrezioni nelle province, particolarmente, in Calabria, nella provincia di Cosenza, dove era stato riconvocato il parlamento nazionale. L’errore, che gravemente inficiò il giudizio del de’Rada, fu quello di farsi condizionare da valutazioni moralistiche su singoli personaggi tralasciando dal considerare che il movimento liberale e democratico, a Napoli, nel suo complesso, rappresentava l’avvenire, il progresso, la linea di continuità con la tradizione della più elevata intellighenzia 16 napoletana e meridionale, costantemente in minoranza tra un popolo di analfabeti e di superstiziosi ed in un regno, il cui lo stesso re disprezzava la cultura ed i letterati col chiamarli pennaruli e riteneva – con l’aristocrazia napoletana – essere necessari solo i medici per la salvaguardia della salute e gli ingegneri per la progettazione delle opere pubbliche. Quelli che veramente rappresentavano la “patria leale” erano tutti quei democratici e liberali e quegli intellettuali, che avevano difeso la costituzione e la libertà innalzando anche le barricate e che Ferdinando avrebbe costretto all’esilio o tenuto negli ergastoli. Sfuggiva, dunque, al Nostro che il processo di rinnovamento politico, culturale e sociale, iniziato almeno da un secolo e più nel mezzogiorno d’Italia, era irreversibile ed in oggettivo contrasto con le istituzioni borboniche che, con Ferdinando II, incarnavano l’espressione dell’odio per la cultura e la libertà. Tali errori di valutazione degli avvenimenti di quel tempo portarono il de’ Rada all’autoemarginazione. Non gli rimase che scegliere di ritornare nella sua “bella Makj, di 600 anime, senza Giudice, senza Sindaco, senza gendarmeria, ov’era nato libero e schivo d’imperio”. DOMENICO A. CASSIANO [email protected]