Campo di concentramento di Tambov n°188

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Campo di concentramento di Tambov n°188
IL Lager degli Italiani nel Paese dei Lupi – 1943 –
60 anni dopo. Inverno 2003
Rada. Casella postale 188, Unione Sovietica -. L'aria è gelida. Il sole splende, ma non
scalda. La neve arriva in certi punti quasi alle ginocchia. Aleksandra Stepanova
Krushatina avanza senza indugio in questa foresta fittissima di querce e di pini.
Malgrado i suoi 79 anni, il passo è sicuro, grazie anche ai “valienki” neri, tipici
stivaloni russi di feltro, che ha ai piedi. <<Ecco, i prigionieri di guerra dormivano
lì>>, ci indica rossa in volto per il gelo, dopo cinque minuti di passeggiata, un fossato
pieno di neve, dove sono ancora visibili dei pali piantati nel terreno. Qui, a sei
chilometri dal lager, si fermava per la notte una delle tante squadre che tagliavano le
querce, il cui legno serviva all'Armata rossa per costruire ponti o veniva utilizzato
nelle miniere del bacino carbonifero del Donbass in Ucraina orientale.
Sessanta anni fa avveniva in Russia il più grande disastro della storia militare italiana
e la maggiore ecatombe di nostri soldati di tutti i tempi. In tre fasi, tra il novembre '42
ed il gennaio '43, l'esercito sovietico circondò e mise fuori combattimento le truppe
dell'Asse a Stalingrado e sul Don. Solo parte del Corpo d'armata alpino riuscì a
ripiegare, rompendo l'accerchiamento a Nikolajewka il 26 gennaio '43. L'avventura
dell'Armir finiva lì, col successivo rimpatrio in primavera: secondo dati sovietici, in
quei terribili mesi, morirono combattendo o di stenti circa 25mila soldati italiani,
mentre approssimativamente 70mila furono fatti prigionieri. Per quest'ultimi iniziò
un'odissea infernale. Solo 10.030 di loro tornarono a casa tra la fine del ‘45 ed il
'54.
<<Non capivamo cosa dicevano i prigionieri. Ce ne erano di tutte le nazionalità>>,
racconta Aleksandra, ancora molto lucida nei suoi ricordi, nella sua isba di legno,
arredata come se il tempo non fosse mai passato. Alcuni prigionieri in divise gialle”
lavoravano con la popolazione civile. <<Ma perché dovevano scappare? E poi dove?
Dopo tutto avevano da mangiare>>, dice la donna seduta vicino ad alcune immagini
sacre. <<I rapporti con loro – aggiunge Aleksandra – erano buoni: vi era anche un
piccolo commercio di oggetti che venivano scambiati per cibo>>. Episodi particolari?
<<Una volta ero con la mia amica Julia vicino alla stazione. Alcuni dei prigionieri ci
gridavano in russo di avvicinarci ai vagoni. Volevano abbracciarci e proponevano di
baciarci. Dopo tutto anche loro erano dei ragazzi giovani>>.
L'ecatombe per gli italiani si ebbe nei primi 6 mesi di prigionia. La mancanza di
ferrovie a scartamento ridotto obbligò i sovietici a sgomberare a piedi i prigionieri per
centinaia di chilometri su strade innevate durante la stagione dei “morozy” (gelo) con
temperature glaciali. Tanti sono i racconti tragici dei nostri sopravvissuti delle “marce
del davai (in russo: forza, avanti)”, che si portarono dietro una spaventosa scia di
sangue con soldati esausti, morti per la fame e gli stenti, o fucilati dalle guardie
sovietiche. Una volta giunti alla ferrovia, i prigionieri venivano stipati come sardine
in vagoni bestiame. Il viaggio durava giorni o settimane con scali eterni, quasi senza
cibo ed acqua. Quando il treno raggiungeva i campi di smistamento e venivano aperti
i vagoni piombati, erano più i morti che quelli rimasti vivi.
E' proprio in questa foresta che verso il Natale del '42 arrivarono, mezzi congelati e
vestiti di cenci, i primi fanti dell'Armir, riempiendo uno dei più grandi campi di
concentramento dell'Urss, il lager 188 di Rada, nei pressi di Tambov, circa 480
chilometri a sud-est di Mosca. Accanto alla stazioncina ferroviaria c'è la prima fossa
comune.
In sei mesi, dal dicembre del '42 entrarono a Rada 24mila prigionieri, di cui 10.118
italiani. Il lager non era attrezzato per accogliere tanti uomini, gli stessi carcerieri
dormivano in ricoveri di fortuna. La mortalità era altissima: 1.464 a gennaio, 2.581 a
febbraio, 2.770 a marzo. In 10 mesi sono state registrate 14.433 morti. La percentuale
dei deceduti fra gli italiani del campo 188 è spaventosa: oltre il 70%.
I racconti dei sopravvissuti di quel periodo sono semplicemente agghiaccianti: fame,
freddo, malattie. Mancava tutto, fino alle cose più elementari. Le risse per un pezzo
di pane erano frequentissime. I morti non venivano nemmeno sepolti, così gli uomini
del bunker avevano una porzione in più da mangiare. L'abbrutimento era completo. Il
lager diventò presto un letamaio ed un lazzaretto: la dissenteria faceva strage insieme
al tifo petecchiale. I pidocchi non davano tregua e non si riusciva in nessun modo a
debellarli.
Il campo di concentramento di Rada venne creato alla fine del '41: i sovietici
avevano bisogno di un luogo per filtrare i propri soldati o partigiani “liberati”,
sospettati di collusione col nemico per il solo fatto di essere stati catturati. I
prigionieri vivevano in specie di bunker, grandi buche nel terreno (13 metri per sette)
e una tettoia appena fuori terra, in grado di ospitare 80 uomini. Col tempo, il campo si
allargò e le condizioni di vita decisamente migliorarono. Si riuscirono a celebrare
persino le Sante messe a Pasqua e Natale. Nel '47 Rada venne chiusa.
<<Probabilmente per un litigio tra Stalin ed il generale De Gaulle – sostiene la nostra
guida, Evghenij Pisarev -. E' qui che erano tenuti prigionieri gli alsaziani e i loreni
che Hitler aveva reclutato con la forza. Alcuni di loro furono spediti a combattere in
Africa>>.
L'Nkvd, la polizia segreta sovietica, distrusse il campo, cancellando ogni traccia, e la
zona rimase chiusa, segreta, anche per la presenza nelle vicinanze di un poligono di
tiro. <<Dimenticate!>> fu l'ordine impartito dalla Lubjanka. Tutte le cartelle
personali dei prigionieri di Rada furono spedite all'Archivio militare di Mosca, dove
rimangono gelosamente custodite. Ed <<è quasi impossibile consultarle – mette in
chiaro lo storico moscovita Nikita Okhotin, che ha condotto studi sui comunisti
italiani uccisi da Stalin -. Il ministero della Difesa italiano ha comunque ricevuto, agli
inizi degli anni Novanta, delle microfiche con alcuni elenchi dei vostri militari>>.
Elenchi che sono purtroppo in cirillico ed i cognomi sono difficili da decifrare e
spesso non corrispondono a quelli dei soldati dell'Armir. A Tambov, città famosa per i
lupi, all'archivio regionale è rimasto un fondo, dimenticato dal solito
pressappochismo russo. <<Vi sono 44 cartelle con dati generali: ordini, elenco di
materiale ed equipaggiamento. Le ritrovammo per caso intorno al 1990>>, ci dice
l'archivista Tatjana Krotova, che ci mostra anche il rapporto sulla cattura di due
fuggiaschi italiani, Felice Celoti (classe 1918) – classificato come antifascista – ed
Angelo Calzani (1920), arrestati a 25 chilometri da Rada.
Avanziamo tra la neve, alta un palmo, nel cimitero memoriale, inaugurato nell'agosto
'98, sul lato esterno del campo. Dopo decenni la memoria ha avuto finalmente il
sopravvento sull'oblio. E lo storico pellegrinaggio di Carlo Azelio Ciampi, il 29
novembre 2000, ha contribuito enormemente a ricordare quei tragici anni. I cittadini
di Tambov non dimenticano e parlano del presidente italiano con grande
ammirazione. <<Qui – sottolinea Pisarev – non è mai venuto nessuno: né Eltsin né
Putin né altri leader stranieri. Il vostro presidente sì>>. Il futuro capo dello Stato fu
mandato nell'autunno '42 a combattere in Albania nel corpo degli autieri, ma avrebbe
potuto essere dirottato in Russia, proprio quando il fronte del Don crollava.
E' l'una. La temperatura è ben oltre i 20 gradi sottozero. Insomma sono le stesse
condizioni climatiche trovate dai nostri militari 60 anni fa. Vi sono vari cippi
commemorativi a ricordo delle migliaia di soldati, appartenenti a 29 nazionalità
differenti (molti erano anche alleati dei sovietici: inglesi, americani, polacchi!),
passati per Rada o sepolti qui intorno nelle gigantesche fosse comuni. Qui riposano
per sempre tra 10 e 15mila nostri ragazzi. Di molti di loro non si conosce nemmeno il
nome.
Scopriamo dalla neve il cippo italiano. Il luogo lascia il visitatore senza parole ed
incute commozione. Nella mente tornano le parole pronunciate da Ciampi a Tambov
due anni fa: <<Gli Stati multietnici sono uno scudo contro le barbarie. Se non si tiene
viva la memoria ogni cosa terribile del passato può tornare a ripetersi>>.
Il personaggio: Pisarev
Tambov – <<Spesso non c'è una logica>>. Evghenij Pisarev è il massimo studioso
russo del campo di Rada. La sua curiosità l'ha frequentemente messo nei guai
soprattutto con l'omertoso potere sovietico locale, a metà degli anni Ottanta. La verità
doveva, però, venire a galla ed il suo contributo è stato rilevante. <<Secondo me –
afferma il 56enne giornalista, autore di un libro sul campo 188, – nelle fosse comuni
di Rada ci sono almeno 50-60mila morti. Ufficialmente ce ne sono molti meno, ma
quei documenti non sono veritieri. Per coprire l'alta mortalità, l'Nkvd diede ordine di
utilizzare la dicitura “trasferito”;
La presenza dei nostri militari è stata segnalata in oltre 400 lager dislocati su tutto il
territorio sovietico. Continue furono le loro peregrinazioni, quasi senza senso, per
l'Urss: dalla gelida Siberia all'afoso Uzbekistan, dal confine cinese all'Ucraina. Ai
soldati dell'Armir, catturati sul Don, bisogna aggiungere anche i nostri militari, fatti
prigionieri dai tedeschi su altri fronti e “liberati” dall'Armata Rossa, ma finiti nei
campi di concentramento di Stalin. In totale, dai dati del Commissariato del ministero
interno dell'Urss, dai 5mila luoghi di detenzione passarono 6 milioni di persone
provenienti da 30 Paesi.Nell'inverno '42 i sovietici non erano assolutamente pronti a
dover gestire in poche settimane ben mezzo milione di prigionieri. Vi era in loro una
volontà distruttiva sui vinti? <<No – dice Pisarev -. Non c'è mai stata. Ad esempio, il
lasciare giornate intere i treni fermi sui binari con la gente pigiata nei vagoni senza
cibo ed al gelo è un elemento tipico del solito casino russo, della disorganizzazione,
del menefreghismo. L'unica attenuante è la guerra>>. I prigionieri stranieri hanno
provato sulla propria pelle, né più né meno, quello che vivevano quotidianamente i
cittadini sovietici. Ed è andata loro ancora bene. <<Non bisogna dimenticare –
continua il nostro interlocutore, spesso balbettando, – che, negli anni Trenta, Stalin ha
ucciso forse 20 milioni di persone. I prigionieri sovietici dei tedeschi, una volta nelle
mani dell'Armata Rossa, sono finiti nei lager. Molti sono stati fucilati come
traditori>>. Perché ci sono stati così tanti morti fra i militari italiani? <<Siete gente
del sud – sostiene Pisarev -, non abituati al nostro clima ed alla nostra alimentazione.
Per di più senza nemmeno il vestiario adatto. Hitler è stato un pazzo a volere gli
italiani in Russia. Per fortuna la popolazione locale vi ha ben accolto ed aiutato,
altrimenti quei poveracci morivano tutti>>. ;
Testimoni scomodi
Tambov – Basta visitare il sito Internet dell'Associazione nazionale reduci di
Russia per capire il perché l'Italia ha sempre cercato quasi di minimizzare la tragedia
di 60 anni fa: non si volevano aprire ulteriori ferite. Poco chiaro è, infatti, il ruolo
avuto dai fuoriusciti italiani sia nei campi di detenzione sia a Mosca, nel perorare la
causa dei propri connazionali presso il potere sovietico. Alcuni di loro sono stati
deputati e senatori della Repubblica nel dopoguerra. I francesi hanno messo da parte
le dispute ideologiche passate, riuscendo a farsi un quadro preciso della tragedia in
Russia con tanto lavoro negli archivi. Gli italiani, invece, non ancora. Il
quindicennale “L'Alba” e Radio Mosca sono stati a lungo per i nostri prigionieri
l'unico mezzo per sapere cosa succedeva nel mondo. Nei campi si trovavano solo
pubblicazioni e libri comunisti in italiano. <<Nei lager – ci spiega Pisarev – vi erano
agenti infiltrati, che cercavano potenziali futuri adepti da mandare alla scuola
antifascista di Mosca e poi all'estero>>.
Nelle cartelle personali vi era la voce sull'appartenenza politica e non erano pochi i
documenti, ancora in archivio, in cui i sovietici segnalavano il numero dei militari
convertiti o potenzialmente sulla via della conversione e gli agenti attivi. Da una nota
del libro di Pisarev: <<Situazione al 1° ottobre 1944: (a Tambov) 4522 antifascisti, in
particolare tra gli italiani 1700; tra loro attivi 42. Domande per la formazione per la
lotta antifascista: tra gli italiani 1940 soldati, di cui 4 sono ufficiali>>. <<Secondo
me, però, – sostiene il giornalista di Tambov – sono cifre inventate>>.
La caduta del fascismo, il 25 luglio '43, e l'8 settembre cambiarono molte delle
convinzioni politiche dei nostri prigionieri. Il problema era, come scrive Carlo
Vicentini in un suo libro, che <<non bastava essere antifascisti, bisognava essere
comunisti>>. <<I contrari – aggiunge Vicentini al telefono – venivano isolati
dall'Nkvd. A parte i capi, i commissari politici italiani erano dei poveracci. Spesso
erano reduci della guerra di Spagna. Erano gli unici che parlavano l'italiano ed
avevano il compito di fare propaganda. All'epoca del fascismo noi non sapevamo
niente di cosa avvenisse al di fuori nel mondo. I sovietici non ci dovevano, però,
obbligare a cambiare idea>>. A volte avvenivano lunghi interrogatori e nei campi era
segnalata la presenza di delatori fra i nostri militari.
I soldati vennero rimpatriati alla fine del '45, mentre gli ufficiali, per ragioni
politiche, ben dopo lo svolgimento del referendum del giugno '46. L'opinione
pubblica italiana era rimasta scossa dai racconti sulla prigionia in Urss dei primi
sopravvissuti arrivati in Patria. Gli ultimi 28, rei non si di che cosa, furono liberati
soltanto nell'inverno '54.
Giuseppe D'Amato