Pagano. La PAIDEUSIS dell`uomo in Gregorio di Nissa

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Pagano. La PAIDEUSIS dell`uomo in Gregorio di Nissa
UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI MACERATA
____________________________
DIPARTIMENTO DI STUDI UMANISTICI
Lingue, Mediazione, Storia, Lettere, Filosofia
CORSO DI DOTTORATO DI RICERCA IN
SCIENZE LINGUISTICHE, FILOLOGICHE, LETTERARIE
E STORICO-ARCHEOLOGICHE
CURRICULUM
POESIA E CULTURA GRECA E LATINA IN ETÀ TARDOANTICA E MEDIEVALE
CICLO XXV
La παίδευσις dell’uomo in Gregorio di Nissa
TUTOR
Chiar.ma Prof.ssa Maria Grazia BIANCO
DOTTORANDO
Dott. Vincenzo PAGANO
COORDINATORE
Chiar.mo Prof. Roberto PALLA
ANNO 2013
1
2
Indice
Introduzione
7
Cenni biografici
21
Per un lessico dell’educazione in Gregorio
31
1.
La famiglia riconducibile a παιδεύειν
32
2.
La famiglia riconducibile a διδάσκειν
39
3.
La famiglia riconducibile a µανθάνειν
42
3.1.
Termini paideutici riferiti alle eresie
45
4.
I termini della sequela: χειραγωγεῖν e χειραγωγία
46
5.
I termini della sequela: ὑφηγεῖσθαι e ὑφήγησις
49
6.
La famiglia riconducibile a µαρτυρεῖν
50
Cap. I
I.1
57
Ἐπιθυµία
57
I.1.1
Ἐπιθυµία κατὰ θεόν
64
I.1.2
Desideri ingannevoli
69
I.2
La conoscenza
78
I.2.1
Esperienza
82
I.2.2
Il criterio della verità
86
I.3
Conoscenza di sé
92
I.4
Conoscenza di Dio
98
I.4.1
I.5
La religione
Possibilità della conoscenza
Cap. II
106
108
113
II. 1
La guida e la sequela
113
II.2
La Scrittura
123
II.2.1 Il libro dei Salmi
127
II.2.2 I Proverbi, l’Ecclesiaste e il Cantico dei Cantici
131
3
II.3
La necessità dell’esegesi
II.3.1 L’ἱστορία
II.4
L’esegeta
II.4.1 L’utilizzo della parola rivelata
Cap. III
III.1
141
143
147
153
La συνανάκρασις compimento di conoscenza e desiderio
153
III. 2 Gli apostoli
162
III.3
165
La tradizione apostolica
III. 4 La Chiesa
172
III.4.1 Le immagini della Chiesa
174
III.4.2 I pastori
181
III.4.3 Le eresie
184
Cap. IV
IV.1
187
La dinamica dell’imitazione
187
IV.1.1 Imitazione e sequela
193
IV.1.2 Il De professione christiana
195
IV.1.3 Il De perfectione
198
IV.1.4 Altre opere
202
IV.2
La προαίρεσις
IV.2.1 Il male
IV.3
Ἀρετή ed ἐπέκτασις
207
214
223
IV.3.1 Preghiera
229
IV.3.2 Obbedienza
235
Cap. V
V.1
4
134
239
La testimonianza
239
V.1.1 Nelle opere
240
V.1.2 Corpo e anima
244
V.1.3 Le età spirituali dell’uomo
247
V.2
Passato e presente
252
V.3
Il διδάσκαλος
255
V.3.1 L’Oratio catechetica magna
261
V.3.2 Il pedagogo e le punizioni
270
V.3.3 L’Adversus eos qui castigationes aegre ferunt
V.4
Il rapporto con la παίδευσις antica
Cap. VI
274
279
291
VI.1
Figure esemplari
291
VI.2
L’Antico Testamento
295
VI.2.1 Davide
297
VI.2.2 Mosè
300
VI.3
Paolo
302
VI.4
Gregorio il Taumaturgo
309
VI.5
Macrina
316
VI.6
Basilio
325
VI.7
I martiri
331
Conclusione
341
Bibliografia
361
A. Opere di Gregorio di Nissa
361
B. Traduzioni utilizzate
364
C. Supporti Lessicografici, Dizionari e Antologie
366
D. Monografie e articoli
366
5
6
Introduzione
«La storia dell’educazione nell’antichità non può lasciare indifferente la cultura moderna,
perché essa delinea le origini dirette della nostra tradizione pedagogica. Noi deriviamo dai
Greci-Latini: se tutta l’essenza della nostra civiltà è uscita dalla loro, ciò si verifica in un
grado eminente nel nostro sistema educativo» 1.
Così Henri-Irénée Marrou introduceva, a metà del secolo scorso, la sua opera sulla storia
dell’educazione nell’antichità, destinata a diventare una irrinunciabile pietra miliare negli
studi sul tema. Nel rapidissimo excursus che lo storico propone sui modelli educativi dei
secoli successivi, l’autore si sofferma quindi sulla feconda ricchezza delle innovazioni
medioevali in materia paideutica, che pur hanno continuato a guardare alla classicità come
modello principale di imitazione; l’Umanesimo e il Rinascimento hanno riproposto
programmaticamente un ritorno volontario alla più stretta tradizione classica; da tale eredità,
conclude Marrou, nasce il mondo moderno e la sua concezione di scuola ed educazione,
abbastanza diversa da quella dei greci da permettere un riferimento al mondo antico come
altro da sé con cui è possibile un fecondo dialogo che mira alla conoscenza delle proprie
origini e allo stesso tempo propone un modello rispetto al quale l’autore esorta a confrontarsi
e imparare2.
Non è possibile tuttavia guardare all’evoluzione storica del concetto occidentale di
educazione senza riferirsi al passaggio obbligato di quella che fu efficacemente riassunto
nell’icastica espressione «cristianizzazione dell’ellenismo»3, vale a dire il processo attraverso
il quale il mondo cristiano fece proprie le categorie della riflessione ad esso precedente
risignificandole dall’interno e conferendo allo stesso tempo ad antiche espressioni nuove
connotazioni di significato. Non si può delineare un termine entro cui contenere il confronto
che si istituì tra queste due Weltanschauungen così diverse; vero è che lo scontro più acceso e
l’incontro più fecondo tra esse si ebbe nei primi secoli dell’era cristiana, l’epoca cosiddetta
dei Padri. La παιδεία può anzi essere considerata quasi un «unico denominatore comune» che
permise «il fondersi della religione cristiana con l’eredità del pensiero greco»4. Lo studio del
concetto di educazione si mostra quindi un punto di osservazione privilegiato per chi voglia
1
MARROU 1948, p. 12.
Cf. MARROU 1948, pp. 12-13
3 Cf. MICAELLI 2005, p. 7. L’apporto alla storia dell’educazione nell’antichità di questo passaggio cruciale è
analizzato ad esempio in MARROU 1948, pp. 411-429.
4 JAEGER 1961, p. 84.
7
2
approfondire le modalità dell’incontro tra le istanze generatrici di quella che fu chiamata la
civiltà occidentale.
La παιδεία antica, fondata sulla centralità dell’uomo e sulla coscienza delle leggi universali
sottese alla sua natura e quindi al suo essere nel κόσµος, mirava alla formazione di un
soggetto capace innanzitutto di interrelazioni sociali (il πολίτης), capace di condurre secondo
giustizia e nella prosperità la sua famiglia e, come ultima propaggine e nuovo fondamento di
essa, la sua πόλις5. Questo era uno tra gli scopi principali delle prime emergenze letterarie
della cultura greca6 ed elemento imprescindibile di quelle successive7 , oltre che delle
tradizioni cittadine, le più importanti delle quali furono istituzionalizzate nella religio8.
Solo in un secondo momento le virtù che tale formazione predicava, essenzialmente
politiche, si riverbereranno in un concetto di ἀρετή più complesso e completo; concorsero a
ciò la caduta di Atene a seguito della guerra del Peloponneso nel 404 a.C., data che sancì un
periodo di decadenza istituzionale dalla quale la città che aveva guidato la cultura ellenica non
si risolleverà, ed anzi sarà portata all’asservimento macedone, e la nuova concezione
dell’uomo che stava nascendo a seguito della ricerca socratica per le vie della città. Fu questo
il momento della nascita della filosofia per come la conobbero i posteri: essa, soprattutto una
volta che le conquiste di Alessandro renderanno più deboli le istituzioni cittadine, assurse per
gli uomini più propensi a seguirla a condotta per l’esistenza. Come ben riassume Desalvo9,
«nell’antichità la filosofia ebbe valore e senso di vera e propria “forma di vita”, modo di
condotta del vivere che oltre a tematizzare gli interrogativi che l’esistenza pone si propose di
rispondervi, immaginando e perseguendo una certa via salutis. Questo suppone e consacra il
fatto che la filosofia nasce come riflessione sull’esperienza (perché è nel concreto del vivere
che si impone alla coscienza la necessità di una “salvezza”) e che come esperienza si propone
all’uomo che domanda». Essa veniva a proporsi come una condotta di vita rinnovata,
5
Cf. JAEGER 1944, p. 18: «L’uomo la cui immagine si rivela nelle opere dei grandi Greci è l’uomo politico.
L’educazione greca non è una somma d’arti e di imprese private, avente per fine il perfezionamento
dell’individuo, pago di se stesso. Così non prese ad intenderlo che l’età di decadenza della tarda grecità, priva di
Stato, dalla quale discende in linea diretta la pedagogia dell’età moderna».
6 La disamina più attenta e puntuale di questo tema si ritrova in JAEGER 1944, pp. 25-416.
7 Altrettanto imprescindibile si mostra a tal proposito l’analisi di JAEGER 1944, pp. 419-688.
8 Le religioni antiche, specialmente nel mondo greco e romano, sono legate in maniera indissolubile all'ambito
familiare e civico. Politica e religione sono strettamente connesse: il magistrato pubblico ha funzioni
strettamente religiose e la stessa appartenenza all'identità cittadina ha un suo riflesso nella possibilità di
partecipare alle cerimonie sacre della polis. Tra i tanti riferimenti possibili, si è scelta la sintesi presente in
BARDY 1947, pp. 17-52.
9 DESALVO 1996, p. 7. Sulla stessa linea HADOT 1998, p. 5: «una scuola filosofica corrisponde dunque, prima di
tutto, alla scelta di un certo modo di vivere, a una certa scelta di vita, a una certa opzione esistenziale che esige
dall’individuo un totale cambiamento di vita, una conversione di tutto l’essere».
8
organizzata intorno a princìpi ontologici, gnoseologici ed etici10 , che si realizzava attraverso
un rapporto educativo, imperniato sulla figura di un maestro. Rispetto a questo tema, risulta
nuovamente imprescindibile la figura di Socrate, che creò intorno a sé una folla di discepoli
affascinati dal suo esempio11 : «con Socrate», scrive Borghesi12 , «la filosofia si fa
testimonianza e questo in un duplice significato: testimonianza di fronte alla polis,
testimonianza di fronte agli dèi». La vita dell’ateniese e la sua morte mostrarono infatti «la
portata vitale della sua ricerca del τί ἐστίν delle cose»13. Bastò tuttavia una sola generazione, e
la viva speculazione del suo discepolo più geniale, Platone, perché venisse meno la
«dimensione esteriore, “visibile” quale veicolo della testimonianza morale-religiosa»14,
“filosofica”, secondo la più lata accezione antica: come ancora scrive Borghesi15
sottolineando un nodo essenziale della riflessione platonica, «la figura di Socrate, centrale nei
dialoghi del primo e medio periodo, tende ad arretrare e a diventare meno significativa nelle
opere della maturità. Ciò che conta non è la “sequela” di Socrate e delle sue virtù, come per i
Cinici, ma, a partire dall’equazione virtù-conoscenza, l’“imitazione” delle idee cui si deve il
ridestarsi dell’anima nella memoria della sua origine divina. L’imitazione platonica
presuppone il superamento della sequela. Non la persona, ma l’idea, la conoscenza
dell’universale è l’autentica forma di salvezza. Questo πάθος dell’universale a cui l’io
particolare deve “elevarsi” porta ad una sorta di obliterazione dell’io, ad un ἦθος
dell’impersonale». Il maestro può solo mostrare una strada che il discepolo deve percorrere
autonomamente, superando i limiti della figura che la sua guida incarna per giungere
all’universale, unica meta veramente degna dell’intelletto.
Eredi dello spirito con il quale Socrate proponeva la propria filosofia ad Atene possono
essere invece considerati i cinici, quindi gli stoici: l’austerità e ricerca delle virtù nella vita
concreta da parte di alcuni di essi susciteranno l’ammirazione di molti, tra i quali anche di
alcuni cristiani16. La propaganda dei filosofi era la più varia, ma per lo più consisteva in un
insegnamento privato o in conferenze pubbliche. La dottrina che essi professavano fondava il
suo seguito, per lo più aristocratico, sul fatto che proponeva «una spiegazione chiara e sicura
del mondo»17 e in forza di questo creava un sistema etico; a fronte delle molte e diverse teorie
esplicative dei vari orientamenti, ben presto l’uomo antico si risolse a chiedere le sole pratiche
10
Scrive DESALVO 1996, pp. 161-162 che «l’ascesi filosofica mira a ripristinare la corretta relazione delle
diverse sfere d’essere che costituiscono la persona (corporeità-sensibilità, intelletto-spiritualità) come anche la
totalità del mondo, e che nella coscienza umana vengono alla luce».
11 Cf. BARDY 1947, pp. 59-61.
12 BORGHESI 2012, p. 179.
13 DESALVO 1996, p. 137.
14 BORGHESI 2012, p. 181.
15 BORGHESI 2012, p. 181.
16 Cf. BARDY 1947, pp. 61-70.
17 BARDY 1947, p. 73.
9
comportamentali che avrebbero potuto orientare la sua vita. Non bisogna però correre il
rischio di assolutizzare questo riverbero nella vita concreta delle idee che venivano professate:
scrive Bardy 18 rispetto ai filosofi cinici e soprattutto stoici come «non si chiedesse loro [...] di
vivere in maniera conforme ai propri principi e la saggezza di cui facevano professione non
costituisse, ai loro occhi, l’impegno irrevocabile di tutta la persona. L’essenziale per essi era
di insegnare». Icasticamente si potrebbe dire che i filosofi dell’età ellenistica e imperiale
offrivano «dei buoni consigli piuttosto che dei buoni esempi». La setta degli epicurei, ultima
grande scuola del tempo, fu sempre mal considerata dall’ambiente colto, specialmente
romano, e ebbe meno seguito delle due precedenti filosofie. Nel tardo impero romano,
all’epoca di Gregorio, la filosofia cui i pagani dell’epoca prestavano più attenzione era il
neoplatonismo. In esso si raccolgono le istanze educative presenti nelle tradizioni precedenti,
vale a dire la figura del maestro come testimone, ma questi è sublimato e idealizzato
attraverso la visione platonica dell’esistenza.
L’incontro dei primi seguaci della nuova religione con il mondo greco affonda le sue radici
nel giudaismo ellenizzato di cui rappresentante per eccellenza è Filone di Alessandria; Paolo
di Tarso accostò i gentili facendo uso della lingua greca, e la natura stessa del mezzo fece sì
che la predicazione cristiana sin nel suo sorgere assumesse nel suo proporsi caratteristiche del
pensiero filosofico ellenico, di categorie e di principi derivati dalla riflessione precedente19.
Allo stesso tempo, il kerygma era presentato come qualcosa di qualitativamente diverso da
qualsiasi altro annuncio, facendo di Cristo il centro indiscusso di una nuova cultura nella
quale ogni aspetto dell’essere e dell’agire umano era rinnovato20: da questa concezione viene,
in Clemente Romano, l’espressione τῆς ἐν Χριστῷ παιδείας µεταλαµβανεῖν 21. L’espressione
sottende, neanche troppo velatamente, un clima di acceso confronto che sin dai primordi si
istituì con la formazione dell’uomo proposta fino allora. Come bene ha commentato
Lugaresi22: «il problema del rapporto con il sistema educativo non poteva non porsi, perché
esso è in un certo senso coessenziale al cristianesimo, che si presenta, sin dalla sua origine, di
per se stesso come una ‘scuola’».
18
Cf. BARDY 1947, p. 65, da dove si traggono le successive citazioni.
Con questo non si vuole sostenere uno snaturamento del kerygma dovuto all’utilizzo e all’assunzione di
categorie greche, bensì un approfondimento, anche dal punto di vista filosofico, di un messaggio originale.
20 JAEGER 1961, p. 53: «L’incontro positivo del cristianesimo con [le] idee costanti nella tradizione greca deve
aver dato alla mente del cristiano la sicurezza della sua universalità (cioè, cattolicità). Questo diritto di essere la
Verità era stato sin dall’inizio rivendicato e costantemente sostenuto dalla religione cristiana e una siffatta
asserzione non poteva mancare di commisurarsi con la cultura e il pensiero che soli nel mondo avessero avuto
per mèta e avessero raggiunto l’universalità, voglio dire la cultura greca, che dominava sul mondo
mediterraneo».
21 Cf. Clem. Rom. I Cor. 21, 8: τὰ τέκνα ἡµῶν τῆς ἐν Χριστῷ παιδείας µεταλαµβανέτωσαν.
22 LUGARESI 2004, p. 787.
10
19
«Discorso didattico» è anche la modalità scelta da gran parte dell’apologetica cristiana per
confutare le obiezioni e le insinuazioni dei gentili nei confronti del culto che si andava
diffondendo ed era già così fieramente avversato; la forma razionale del discorso e spesso la
stessa qualità argomentativa richiama da vicino la passata cultura retorica e filosofica, base
della παιδεία antica23. Ciò non deve destare meraviglia: i pensatori cristiani dei primi secoli
erano infatti dei convertiti che si erano formati nell’educazione antica e attraverso essa
articolano il loro pensiero, anche quando nelle loro opere paiono rigettarla24; anzi, come ben
scrive Lugaresi25 , «benché i contenuti culturali, e soprattutto l’orizzonte ideologico
dell’insegnamento impartito nelle scuole profane dovessero presentare indubbiamente molti
aspetti fortemente problematici per i cristiani, di questo argomento la letteratura patristica non
si occupa molto, e, in generale, da parte cristiana non si è avvertita una vera e propria
incompatibilità fra cristianesimo e istruzione profana»26 . Come scrive icasticamente Jaeger
infatti, il desiderio delle due culture di compenetrarsi divenne negli autori cristiani vivo e
fecondo27.
Non bisogna inoltre dimenticare che diversamente dall’esempio delle scuole rabbiniche, i
cristiani non crearono mai una scuola religiosa per loro uso, separata da quella pagana
(sempre che non si trovassero in paesi barbari, dove non fosse giunta la cultura classica)28 , ma
la accettarono quasi per osmosi, non proibita dal fatto che l'educazione classica non proibiva
l'annuncio a fronte di uomini già formati29 .
Benché silenziosamente accettasse in parte la παιδεία antica, non bisogna dimenticare che
sin dai suoi primordi il cristianesimo rivendicò per sé la qualifica di vera “filosofia”, di reale
strada al compimento, instaurando una feroce dialettica con i pensatori pagani, che non
23
Cf. JAEGER 1961, pp. 35-47.
Commenta giustamente LUGARESI 2004, p. 784 che normalmente le «manifestazioni di rifiuto della paideia
classica, per quanto ostentate, vengono espresse (tra l’altro di solito in forma tutt’altro che sprovvista degli
artifici della retorica scolastica) da uomini che già l’hanno acquisita, proprio attraverso un percorso formativo
che, nella gran parte dei casi, sarà stato del tutto identico a quello comune a tutte le persone colte del tempo».
25 Cf. LUGARESI 2004, pp. 781-783.
26 Cf. però anche SIMONETTI 1984, p. 276: «L’atteggiamento dei cristiani anche colti verso la filosofia greca fu
caratterizzato sempre da incertezze e ambiguità, pur là dove l’apertura era più sensibile. A prescindere infatti da
chi, come Taziano o Tertulliano, la giudica del tutto negativa (salvo poi servirsene in abbondanza), anche chi come Giustino, Clemente, Origene - è meglio disposto nei suoi confronti non dimette mai un atteggiamento di
diffidenza: infatti, se da una parte la filosofia pagana veniva considerata utile per l’approfondimento razionale
delle verità della fede e per la stessa comprensione delle sacre Scritture, dall’altra essa presentava molte dottrine
inconciliabili col dogma cristiano. [...] Anche Gregorio, la cui apertura alla filosofia greca è particolarmente
significativa, non abbandona questa tradizionale ambiguità».
27 Cf. JAEGER 1961, p. 52: «In realtà gli ideali greci di cultura e la fede cristiana si mescolano, per quanti sforzi
noi possiamo fare di mantenere puro ciascuno di questi due elementi. Nelle due parti c’era un potente desiderio
di compenetrarsi, senza considerare quanto repugnanti all’assimilazione fossero questi due linguaggi, ognuno di
essi possedendo diversi modi di sentire e di esprimersi metaforicamente».
28 Cf. MARROU 1948, pp. 413-416; in part. si legga a p. 416: «per tutto il tempo che dura l’antichità, salvo alcuni
casi eccezionali e limitati, i cristiani non hanno creato scuole loro; si sono accontentati di mettere la loro
formazione specificamente religiosa [...] accanto alla istruzione classica che ricevevano con lo stesso diritto dei
pagani nelle scuole di tipo tradizionale».
29 Cf. MARROU 1948, pp. 416-417.
11
24
accettavano tale pretesa30 . Elevare la religione cristiana ad un simile rango necessitava
tuttavia di una riflessione più matura e fondata; seguirono le opere degli apologeti, dunque,
personalità intellettuali più altamente formate che espressero il messaggio evangelico in una
forma più pienamente comprensibile alla razionalità greca, evidenziandone la portata
conoscitiva e divenendo così promulgatori di una speculazione razionale acutissima che
conferisse pieno valore alla religione rivelata. Possono essere considerati veri fondatori di una
«filosofia cristiana», a detta di Jaeger, Clemente Alessandrino e Origene31 .
Gli scritti di Clemente devono essere attentamente considerati da chi voglia esaminare la
concezione che ebbero i cristiani di educazione e il loro rapporto con la παιδεία antica.
L’Alessandrino nel suo Paedagogus propugna l’idea del Cristo come divino e sommo
educatore e mette a confronto il suo insegnamento con il «concetto greco di cultura
integrale»32. Il Padre rimarca con forza la maggiore antichità della sapienza d’Israele, di cui
Platone deve considerarsi debitore: la filosofia greca, che riconobbe parte della verità, non fu
guidata dal caso, ma dalla provvidenza divina33 . Essa ebbe come funzione l’essere una prepaideia34 rispetto alla rivelazione della sapienza divina, che sola è vera gnosi35, laddove il
Logos è vero διδάσκαλος36. Bene riassume tale ideale Völker37: «se la filosofia deve costituire
un ponte verso il cristianesimo e deve essere usata con profitto, allora bisogna giudicarne i
singoli concetti dal saldo punto di vista della Chiesa, e servirsene solo fin quando concordino
con la dottrina biblica»
Solo con Origene si giunge alla coniazione di un più compiuto progetto educativo cristiano
che parta dalla concezione di filosofia come preparazione38. Il suo pensiero può essere letto
infatti come una filosofia (o teologia) della storia, fondata sulla dialettica tra il libero arbitrio
dell’uomo, segno della sua dignità secondo platonici e stoici, e l’economia della salvazione
divina39. Negli scritti origeniani, se si tralasciano i Sermones, si nota per lo più un
ragionamento di stampo prettamente filosofico basato sull’esegesi dei due Testamenti40 ; tale
lettura slegata dall’antropomorfismo consentì il recupero delle convinzioni dell’ultimo
Platone e la ricostruzione di un quadro storico di manifestazione del Logos divino nel quale
30
Cf. JAEGER 1961, pp. 38-44. Allo stesso modo anche l’ebraismo aveva ricevuto una simile qualifica attraverso
la mediazione di Filone.
31 Cf. JAEGER 1961, p. 63.
32 JAEGER 1961, p. 80-81, n. 29.
33 Cf. Clem. Al. Strom. I 19 (II 60, 12 Stählin).
34 Cf. Clem. Al. Strom. I 20 (II 63, 8 Stählin).
35 Cf. JAEGER 1961, pp. 80-83.
36 Cf. Clem. Al. Paed. III, 98, 1: διδασκαλεῖον δὲ ἡ ἐκκλησία ἥδε καὶ ὁ νύµφιος ὁ µόνος διδάσκαλος.
37 VÖLKER 1955, p. 145.
38 Cf. GALLINARI 1974, pp. 25-26.
39 Cf. JAEGER 1961, pp. 83-89.
40 Jaeger sottolinea la profonda importanza dell’opera dell’esegeta sostenendo che la lettura origeniana, che volle
trasferire il significato letterale della Bibbia in quello spirituale, «salvò quella che noi potremmo chiamare la
paideia cristiana e i suoi fondamenti» (JAEGER 1961, p. 67).
12
«gli eventi della storia biblica e della storia del pensiero greco vengono racchiusi e fusi in
unità»41 . In questo modo la παιδεία diventa per lui «l’adempimento della divina
provvidenza»42.
Nel metodo paideutico proposto da Origene, per come lo conosciamo dall’elogio operatone
dal Taumaturgo (o chi per lui)43, il discepolo, accompagnato dal forte carisma del maestro,
veniva condotto attraverso le varie scuole filosofiche acquisendo i contenuti che esse
promettevano, ma evitando quel legame troppo personale che tali dottrine avrebbero preteso;
tale coinvolgimento esistenziale e affettivo era invece dirottato sul rapporto di φιλία tra
maestro e discepolo, una relazione non tra pari in cui «sin dall’origine del percorso formativo,
l’attaccamento al maestro e alla filosofia [erano] un’unica cosa»44 e che aveva il suo punto
sorgivo nel fatto che la guida stessa era legata all’amicizia con il Logos, vero διδάσκαλος.
Sotto la guida di Origene un giovane compiva una vera e propria revisione della sua
precedente formazione; veniva insegnata quindi la fisica e l’etica, e solo a questo punto si
introducevano le varie filosofie, tra le quali erano tralasciate solo quelle che predicassero
l’assenza del divino. La sequela del maestro diventava così per il discepolo introduzione ad
un esercizio della ragione conforme al Logos, che permetteva un giusto κρίνειν e lasciava il
discepolo libero dall’aprioristica accettazione di dogmi filosofici che altrimenti lo avrebbero
condizionato in modo decisivo45: in tal modo il maestro poteva anche mostrare le acquisizioni
positive e le mancanze di ogni via, con uno sguardo critico impossibile dal di dentro del
sistema filosofico46.
La scuola origeniana, tentativo affascinante di rispondere al problema del rapporto tra
l’educazione classica e quella antica, non ebbe seguito, forse proprio perché troppo legata al
carisma del singolo Origene. Il seme di una possibile concordia tra le due Weltanschauungen
era stato tuttavia piantato; esso diede i suoi frutti circa un secolo dopo, per tramite
dell’evangelizzazione di un discepolo di Origene, Gregorio il Taumaturgo, nella regione della
Cappadocia e del Ponto. In tale contesto si situa infatti l’esperienza dei tre Padri Cappadoci:
Basilio, Gregorio di Nazianzo e Gregorio di Nissa.
41 JAEGER
42 JAEGER
1961, p. 88.
1961, p. 89.
43 Cf. LUGARESI 2004, pp. 795-804.
44 LUGARESI 2004, p. 798.
45 Cf. LUGARESI 2004, p. 800: «Al modello comune di scuola filosofica, in cui studiare filosofia significa
scegliere un maestro che professa una dottrina, mettersi alla sua sequela e poi eventualmente giudicare le altre
teorie a partire da quella particolare precomprensione, Origene contrappone un metodo in cui la sequela del
maestro è sì presente (anzi viene ancora più esaltata e posta al centro di tutto l’agire scolastico), ma nel quale il
διδάσκαλος non propone un sistema, ma semmai una modalità di esercizio della ragione, conforme al Logos, con
cui accostare i diversi sistemi, attraversarli e superarli».
46 Cf. LUGARESI 2004, p. 801: «Dietro il progetto formativo della scuola di Cesarea c’è l’intuizione che le
filosofie in quanto sono dei sistemi chiusi e autoreferenziali, non possono condurre al di là di se stesse».
13
All’inizio del IV sec. per la religione si affacciava ormai la conclusione del periodo delle
persecuzioni: il rescritto di tolleranza promulgato a Milano nel 313 sancì la liceità del culto
che permise alla Chiesa di precisare le dottrine minate dagli influssi ereticali, rinsaldando in
via definitiva la sua gerarchia interna. La paideia classica divenne in questa situazione per
gran parte della aristocrazia ultimo baluardo culturale nei confronti di una religio che avrebbe
potuto soppiantarla, così come già scriveva l’anonimo autore degli Acta Philippi, che con
sguardo retrospettivo già metteva in bocca all’apostolo Filippo la convinzione che il
messaggio evangelico sarebbe stato la nuova educazione che avrebbe rinnovato (e sostituito)
quella antica47. A fronte di tale pretesa, «la paideia greca diventò una religione e un articolo di
fede»48: solo in quest’ottica si comprende la reazione di Giuliano, che tentò di soffiare un
nuovo afflato vitale nella cultura pagana, escludendo allo stesso tempo i «Galilei»
dall’insegnamento delle scuole. Giuliano aveva compreso con acutezza come questi ultimi
infatti stessero facendo propria e modificando in funzione cristiana l’educazione tradizionale,
e stessero costruendo una rinnovata visione dell’uomo attraverso una nuova paideia
cristiana49 . La storia della generazione di questa civiltà mostra già una dicotomia tra
Occidente e Oriente; protagonisti del confronto in Oriente furono i tre Padri cappadoci, in
Occidente Agostino. Dopo queste personalità si può forse considerare concluso quel processo
che ha portato alla sintesi tra il pensiero classico e quello cristiano.
È noto che Basilio e Gregorio di Nazianzo si formarono, oltre che in Cappadocia, anche ad
Atene; più discusso è il fatto che questa pratica al tempo fosse comune o ancora abbastanza
inusuale. Certo è che i due frequentarono le lezioni di Proeresio, unico maestro cristiano che
insegnava in quegli anni. La maturazione di quegli anni fu decisiva, sia dal punto di vista
conoscitivo sia da quello umano: se però Gregorio, rimasto quasi un decennio in quella
scuola, non sentì obiezioni, ritornato in patria, ad una vita religiosa, Basilio dovette avere di
fronte il fulgido esempio della sorella Macrina che lo distogliesse da vani propositi50 . Anni
dopo entrambi, ormai versati nella loro missione pastorale, si interrogarono sulla loro
formazione o sull’utilità dell’educazione antica in un contesto che ormai si preparava a
divenire latamente cristiano; non bisogna poi dimenticare che entrambi vissero le
recrudescenza pagana che volle portare Giuliano, e che anzi deve aver influito non poco sulle
loro scelte. Basilio scrisse una Oratio ad adulescentes, nella quale tentò di esplicitare nella
ἀπάθεια un indirizzo critico che permettesse di muoversi nella cultura profana la ricerca della
vita vera; i giovani tuttavia, proprio a causa della loto età e della mancanza di formazione, non
47
Acta Philippi c. 8 (3): Καὶ γὰρ παιδείαν ὄντως νέαν καὶ καινὴν ἤνεγκεν ὁ κύριος µου είς τὸν κόσµον, ἵνα
πᾶσαν ἐξαλείψῃ κοσµικὴν παίδευσιν.
48 JAEGER 1961, p. 95.
49 Cf. JAEGER 1961, pp. 95-99.
50 Cf. LUGARESI 2004, pp. 804-807.
14
conoscono ancora questa vita aliena dalle passioni: ecco perché a loro è ancora permesso
indulgere alla letteratura profana, solo però per ricercare quegli esempi che offrono beni e
virtù. Il discorso di Basilio, a detta di Lugaresi51, è spesso astratto e tautologico: pur
postulando la necessità del κρίνειν, esso non offre nel dettaglio il criterio per cui questa
pratica possa attuarsi; manca inoltre nel testo un riferimento concreto ad un ambiente
scolastico, e il discorso procede «senza contestualizzare il problema della lettura dei classici
nella realtà concreta della didattica tardoantica» 52.
Diverso è il testo che ci ha lasciato Gregorio di Nazianzo, l’Oratio 43, un epitafio dedicato
a Basilio che ricorda le esperienze comuni degli anni ateniesi. In essa emerge con chiarezza
come la formazione cristiana dei due futuri vescovi attraversasse le diverse opzioni filosofiche
sulla base della «scoperta dell’amicizia cristiana come canone, regola di vita»53: Basilio era
infatti considerato, dal Nazianzeno come dal Nisseno negli anni successivi, un modello e un
esempio nel quale βίος e λόγος si compenetravano mirabilmente, secondo una impostazione
che il giovane aveva ricevuta dal padre, Basilio retore54. La sezione dell’orazione che
comprende i capp. 14-24 vuole proprio descrivere questa συµπνοία o συµφυία che
caratterizzò i due giovani, approdati in un luogo inquinato secondo il Nazianzeno dalla
sofistomania, un amore perverso per discorsi caratterizzati dalla vanitas e dalla fictio; tale
accusa si appunta inizialmente «non sui contenuti culturali di queste scuole, sui programmi o
sui metodi di insegnamento, ma sul tipo di vita sociale che attorno ad esse si sviluppa»55,
quasi a rimarcare ancor di più la necessità di un contesto amicale che indirizzi alla virtù,
fondata nell’unico Dio, come quello instauratosi tra Basilio e Gregorio56. Educazione classica
e cristiana sono in una simile esperienza ancora divise, ma nei due amici, e in coloro che
furono affascinati da questa comunionalità, «è la loro unità di vita che fa convergere, in un
certo senso, le due strade in un unico percorso formativo, nel quale l’identità cristiana non è
affatto appannata dalla accettazione delle regole e delle opportunità formative offerte dalla
scuola pagana: la cosa più importante per Basilio, Gregorio e i loro amici era di essere
riconosciuti come cristiani, di nome e di fatto»57 . Tale παίδευσις era dunque fondata non più
sulla sequela di un maestro carismatico, ma sulla φιλία di condiscepoli, alla sequela dell’unico
vero διδάσκαλος.
51
Cf. LUGARESI 2004, pp. 807-813, in part. p. 809: «Il principio-guida di ogni azione del cristiano, e quindi
anche dello studio, infatti, viene identificato dall’autore nella ricerca dell’altra vita, quella vera [...] , ma a ben
vedere esso in realtà non può essere applicato dai giovani studenti destinatari del discorso basiliano, in quanto
essi – è sempre Basilio a dirlo esplicitamente, a 2,4 – a causa della loro giovane età e della mancanza di
formazione, non sono ancora in grado di capire che cosa sia questa vera vita».
52 LUGARESI 2004, p. 811.
53 LUGARESI 2004, p. 817.
54 Cf. LUGARESI 2004, pp. 817-818.
55 LUGARESI 2004, p. 823.
56 Cf. LUGARESI 2004, pp. 823-829.
57 LUGARESI 2004, p. 826.
15
Ciascuno dei tre Cappadoci potrebbe costituire un valido esempio di come l’idea educativa
sottesa al loro pensiero fondi ormai i presupposti classici e cristiani; forse però il pensatore
più completo, che con più profonda speculazione ha guardato alla filosofia antica come
massimo strumento teologico, ponendo fondamenti irrinunciabili alla concezione cristiana di
Dio, dell’uomo e del mondo, è Gregorio di Nissa. Per ricondurre il discorso al solo pensiero
educativo, si può dire che il Nisseno, dei tre autori, affronta la questione forse in modo più
globale, quasi incarnando nelle sue opere le istanze che si ritrovano separate nel pensiero di
Basilio e del Nazianzeno58. Forse più che questi ultimi Gregorio riuscì a concepire la παιδεία
come una unità formante la personalità del singolo, in linea con il pensiero greco, che aveva
distinto l’essere dell’uomo dalla sua personalità e si era rivolto a quest’ultima59.
Jaeger, nella sua opera che mette a confronto il cristianesimo primitivo e l’educazione
classica60 , ha mostrato efficacemente come la personalità del Nisseno e il suo pensiero
mostrino l’avvenuta compenetrazione tra educazione classica e cristiana. L’esimio studioso
tuttavia mostra una lettura dell’autore forse troppo legata al suo desiderio di fondare un «terzo
umanesimo» che avesse come base la cultura di Atene ed in special modo Platone61 : Gregorio,
specialmente nella sua concezione di educazione, è profondamente impregnato di istanze che
travalicano tale cultura. Lo sguardo che il critico ha portato nel valutare la figura del
Cappadoce sembra invece troppo spesso orientato dalla precedente opera monumentale,
Paideia: dai suoi scritti invece Gregorio appare prima cristiano che greco.
A titolo di esempio si vuole citare l’incipit del capitolo VII di Cristianesimo primitivo e
Paideia greca, dedicato al nostro autore: in esso si afferma che le opere del Nisseno
mostrerebbero un «ripetersi insistente» del concetto di µόρφωσις (e derivati) in ottemperanza
all’idea del Cappadoce per la quale un’immagine che descriverebbe appieno l’educazione
58
Cf. JAEGER 1961, p. 108: «In Gregorio Nazianzeno la rinascita delle antiche forme letterarie dei Greci con
l’infondervi dello spirito cristiano dà per risultato la creazione di una letteratura cristiana capace di competere
con quanto di meglio veniva prodotto da quella pagana contemporanea e persino di superarla in vitalità e potenza
di espressione. Basilio sostenne fermamente doversi accettare direttamente nelle scuole cristiane, che erano
ancora in statu nascendi, l’antica poesia greca come strumento di una educazione superiore. Quando veniamo a
Gregorio di Nissa, vediamo che questi affronta il problema in un modo nuovo. Praticamente scrive lui stesso
come un classico».
59 Cf. JAEGER 1961, p. 111: «La via che [scil. Gregorio] intraprende mostra che egli è immerso nella grande
tradizione filosofica greca e legato ai suoi ideali di cultura, ma anche che muove originalmente il passo in
direzione di un’educazione cristiana e incontro alle sue esigenze. Con questo non intendiamo semplicemente
l’insegnamento della dottrina cristiana, bensì lo sforzo consapevole di giungere a una concezione dello sviluppo
della personalità umana che potesse rispondere alle esigenze più alte della filosofia greca dell’educazione». Sul
pensiero greco precedente, cf. JAEGER 1944 passim. Cf. anche VON BALTHASAR 1942 pp. XV-XVI, dove si legge
che Gregorio, magari meno brillante e fecondo del suo maestro, Origene, meno acculturato del suo amico
Nazianzeno, meno pratico di suo fratello Basilio, ebbe il grande pregio di sorpassare tutti costoro per la
profondità del suo pensiero, attraverso cui meglio di ogni altro seppe interiorizzare e riproporre nel nuovo
mondo cristiano la grande eredità dell’antica Grecia.
60 JAEGER 1961, passim.
61 Cf. G. Reale, La figura di Werner Jaeger e la sua opera «Paideia» come grandioso manifesto del «terzo
umanesimo», introduzione a JAEGER 1944, pp. VII-XXXI.
16
sarebbe quella plastica dell’artista (pittore o scultore)62 . Tale tesi rispecchia il pensiero
dell’autore greco nei contenuti ma non nei termini63 : in tali passi, come si argomenterà in
seguito, si ritrova piuttosto la famiglia lessicale legata all’idea della µίµησις, dell’imitazione.
Tale precisazione riveste un profondo significato esistenziale: secondo Gregorio l’uomo non è
chiamato a formare la propria personalità, a dare ad essa una forma da solo, bensì ad imitare
una Alterità che riconosce come la vera essenza di sé. L’immagine che meglio caratterizza
l’uomo, secondo Gregorio, è dunque quella dello specchio che riflette la luce del sole, e in
questo riflettere assume piena consapevolezza di sé64. Allo stesso modo, non basta affermare
che, come per la Grecia la paideia indicava un essere plasmato dalle parole di Omero e dei
poeti, così per i cristiani essa consisteva nel conformarsi alla Bibbia, in quanto parola ispirata
e divina che educa (παιδεύειν) 65: i Testamenti infatti per Gregorio non rappresentano la
perfetta immanenza della divinità, se non solo a seguito dell’incarnazione e del dono dello
Spirito: solo in questo modo le ombre della Legge antica si sono diradate per rivelare il
giardino del Cantico, dove attende lo Sposo66. L’uomo deve dunque conformarsi a Cristo («la
paideia del cristiano è l’imitatio Christi»67); la Scrittura diviene il mezzo, principale forse ma
non unico, attraverso cui questa si attua.
Il concetto di educazione del Nisseno è dunque ben più articolato e complesso di quanto
sia stato finora presentato, nulla togliendo alle preziosissime indagini di Jaeger, che si
presentano già programmaticamente come molto compendiose.
Da questa considerazione nasce il presente lavoro.
Gregorio di Nissa non ha consegnato scritti che trattino di educazione in senso stretto, né
che descrivano esperienze scolastiche (un breve accenno al διδασκαλεῖον è solo nell’Adversus
eos qui castigationes aegre ferunt). Per studiare la sua concezione di educazione occorre
rifarsi all’idea classica di παιδεία come µόρφωσις, formazione completa di un uomo che si
riverbera nella sua condotta di vita. Per il Nisseno infatti la παίδευσις coincide con la
62
Cf. JAEGER 1961, pp. 111-113.
Base per queste affermazioni è una ricerca condotta sul BRILL e sul TLG. Il termine è per lo più presente nel
participio aoristo passivo del verbo corrispondente (ad es. DB 124, 26; 148, 20; ; IC 159, 4; 445, 1; IE 380, 9; DI
46, 5; DPer 195, 3; IPS 101, 20)
64 Cf. ad es. IC 439, 11-440, 7.
65 Cf. JAEGER 1961, pp. 118-125.
66 Cf. ad es. IC 148, 7-20.
67 JAEGER 1961, p. 119.
17
63
φιλοσοφία, con un sistema razionale ontologico, gnoseologico ed etico che orienti il βίος; ci si
è dunque interrogati su quali fondamenti essa si basi, si approfondisca e si trasmetta68 .
L’opera di Gregorio ha nel suo complesso, come si vedrà, una finalità educativa e
pastorale, che non raramente indulge alle esortazioni e al desiderio di guidare l’interlocutore.
Innanzitutto si è cercato di precisare, per quanto possibile, i termini che nel vocabolario del
Nisseno pertengono al lessico paideutico; tale ricerca ha necessitato evidentemente, di fronte
ad una congerie di opere così vasta e varia, di una previa scelta metodologica: è sembrato
dunque opportuno basarsi sulle famiglie lessicali che accompagnavano termini chiave
evidentemente legati all’educazione quali παιδεύειν e διδασκαλία, per riscontrare altri
sostantivi o verbi che incarnassero tale idea.
Sono stati quindi raccolti secondo un ordine tematico consequenziale alcuni passi
estrapolati da quasi tutte le opere di Gregorio che contenessero tali termini, per provare a
ricostruire le linee della concezione educativa del vescovo di Nissa e dei suoi rapporti con la
παιδεία a lui precedente, di cui egli fu erede, continuatore e innovatore. Sono state
inizialmente privilegiate le ultime opere della riflessione del Cappadoce, che hanno offerto i
punti di arrivo della sua concezione; l’analisi testuale ha però rivelato come per quanto
riguarda il pensiero educativo, esso può considerarsi presente, in nuce o già esplicitato, sin dai
primi scritti. Tale tema si interseca con tutti gli argomenti intorno cui si sviluppa la filosofia
del Cappadoce, toccandoli ora tangenzialmente ora nello specifico: scrive giustamente
Desalvo69 che «seguire la riflessione di Gregorio sull’uomo [e dunque sull’educazione]
significa anche necessariamente in certa misura seguirlo nella sua vicenda di uomo e di uomo
cristiano». La ricchezza di filoni che si è sfiorata ha fatto capire che ogni nodo meriterebbe
una particolareggiata esemplificazione dal punto di vista diacronico; ci si è in questo basati
sulle molte e valide opere di altri specialisti. Negli studi su Gregorio la tematica educativa
occupa una strana posizione: pur essendo un tema cardine della riflessione del Nisseno, in
quanto gran parte del suo pensiero ne è attraversato come da un filo rosso, non riceve una
trattazione specifica da parte dell’autore; si potrebbe quasi dire, parafrasando Desalvo 70, che
analizzare la concezione educativa del Nisseno significa «chiarire» una tra le «concrete
premesse [...] di un testo, quelle cioè di cui un autore non parla perché sono per lui
semplicemente ovvie».
68
TARANTO 2009, p. 664 scrive: «Il lettore, che si accosta agli scritti di Gregorio, deve dunque nutrire la
consapevolezza che non si trova davanti a testi meramente parenetici o edificanti, bensì di fronte ad un’opera
impregnata profondamente di cultura filosofica e letteraria. Tale opera si propone come un tentativo di
investigazione delle verità più intime dell’uomo e della storia». Ibidem il critico si premura di ricordare come «la
ragione di fondo che lo muove [sia] la ricerca continua e la ferma volontà di apprendere trasmettendo».
69 DESALVO 1996, p. 7.
70 Cf. DESALVO 1996, p. 6.
18
Forse per questo, dopo la particolareggiata esposizione di Werner Jaeger, dei cui pregi e
mancanze si è già fatta menzione, il tema non ha ricevuto ulteriori contributi. Questo lavoro
vuole provare a rispondere a tale lacuna.
La lettura qui condotta, necessariamente anche descrittiva a causa di un terreno
interpretativo da svelare quasi ex novo, prende le mosse dall’analisi di opere come il De vita
Moysis e le Omeliae in Canticum Canticorum; si è cercato quindi di ricostruire un ordine
tematico che, quando non segue “diegeticamente” una singola opera, ha preso a modello nei
suoi passi iniziali il discorso (di stampo pastorale, ma profondamente filosofico) presente nel
De instituto christiano; un posto altrettanto di spicco per l’organizzazione della materia merita
anche il piccolo trattato, questo di argomento nettamente più pastorale, Adversus eos qui
castigationes aegre ferunt. Alcune tematiche, infine, di cui era rimarcabile l’importanza
educativa, ma che non venivano toccate in questi scritti, hanno richiesto di affidarsi man
mano ad opere diverse, mettendole a confronto con altre e arricchendo le suggestioni che in
esse si riscontravano.
19
20
Cenni biografici
Gregorio nacque a Cesarea, in Cappadocia, tra il 332 e il 335; suoi genitori furono Basilio
il retore ed Emmelia, che lo introdussero profondamente alla religione cristiana1.
La regione della Cappadocia vanta una storia dell’evangelizzazione di prim’ordine e fu
terra che regalò alla Chiesa schiere di santi e dottori. L’annuncio in queste terre risale al III
sec., ad opera di Gregorio il Taumaturgo, un promettente allievo della scuola alessandrina di
Origene; un ottimo quadro del suo ministero è offerto proprio dal Nisseno, che gli dedicò una
Vita. Il Taumaturgo fu iniziatore della fede nella famiglia paterna del vescovo di Nissa, per
tramite dalla nonna Macrina; è probabile anzi che il Nisseno debba il suo nome in onore
proprio di questo personaggio2. Sia la famiglia paterna che quella materna furono colpite dalla
persecuzione di Decio all’inizio del IV sec.: Macrina e il marito, insieme a pochi servi, non
avendo abiurato, furono costretti all’esilio nelle selve della Cappadocia3 ; il padre di Emmelia
fu invece messo a morte per la sua fede nella regione del Ponto4. Tali forti convinzioni
familiari giovarono profondamente ai figli della coppia, che le respirarono sin dai primissimi
anni5 e instillarono in Gregorio la convinzione di una continuità quasi “di sangue” nella
santità6 . Benché vi sia qualche perplessità tra gli studiosi7 , se si accettano le parole attribuite
alla stessa Emmelia riportate nella Vita Sanctae Macrinae, la coppia ebbe dieci figli, dei quali
si conoscono i nomi di Macrina, Basilio, Naucrazio, Gregorio e Pietro, la “decima” che
Emmelia chiede a Dio di accettare, insieme a Macrina, la sua “primizia”8 . I desideri della
madre furono esauditi: la figlia fu profonda asceta e badessa di un monastero femminile, nel
quale risiedette anche la Emmelia stessa; Basilio fu vescovo di Cesarea, Gregorio di Nissa e
Pietro di Sebaste; anche Naucrazio si era ritirato in solitudine per vivere da asceta. È singolare
il fatto che Gregorio non citi mai il nome della madre, che conosciamo solo grazie grazie
all’Or. 43 del Nazianzeno, ma si riferisca a lei usando sempre l’appellativo affettuoso che la
contraddistingue ai suoi occhi, µητήρ: forse in questo si deve vedere un riconoscimento alla
1
Gregorio di Nazianzo parla della famiglia di Gregorio come di un “esercito celeste”: cf. Gr. Naz. Epigr. 54 =
161 Waltz.
2 Cf. GIANNARELLI 1988, p. 20.
3 Cf. Greg. Naz. Or. 43, 5-8.
4 Cf. VSM 393, 6-9.
5 La famiglia di Gregorio fu, a detta di Mattioli, «veramente unica nello storia del Cristianesimo: aveva già dato
dei confessori, come l’ava paterna di cui Macrina ripeteva il nome, che al tempo delle persecuzioni aveva lottato
confessando più volte Cristo, e dava nella presente generazione tre santi, di cui due dottori della chiesa, Basilio
di Cesarea e Gregorio di Nissa» (MATTIOLI 1980, p. 169)
6 Cf. ALEXANDRE 1984 pp. 33-37.
7 Cf. PFISTER 1964, passim.
8 Cf. VSM 384, 26-385, 15.
21
perfezione che raggiunse la donna, che non si poté esprimere nell’ascesi verginale, come pure
lei avrebbe voluto, bensì nella maternità. Tale connotazione va letta tuttavia innanzitutto dal
punto di vista della generazione spirituale: in questi anni infatti «siamo di fronte ad uno dei
fenomeni più interessanti del cristianesimo del IV secolo in Oriente e in Occidente: intere
famiglie, soprattutto aristocratiche, dedite alla ascesi all’interno delle loro case, nelle quali
l’elemento femminile ha funzione trainante»9. Simili considerazioni portano a ritenere che la
prima istruzione di Gregorio, di stampo religioso, dovette essergli impartita dalla madre e da
Macrina (se non anche dalla nonna, così come per Basilio); Gregorio non ne fa tuttavia cenno,
limitandosi, nella Vita Sanctae Macrinae, a descrivere l’impegno della sorella profuso verso il
fratellino più piccolo, Pietro.
Se la madre instillò nei figli la tensione alla vita ascetica, il padre Basilio, retore affermato
di Neocesarea, trasmise soprattutto al figlio che portava il suo stesso nome e probabilmente
(almeno per poco tempo) anche a Gregorio (benché si debba collocare la sua morte intorno al
345, appena dopo la nascita di Pietro) un profondo rispetto per la cultura profana.
Gregorio non frequentò come Basilio le migliori scuole del tempo (tra cui spiccava,
naturalmente, Atene, culmine della formazione del fratello): influì su questa scelta la morte
del padre, che avvenne quando il Nisseno non aveva ancora l’età per gli studi superiori e la
decisione della madre, ormai vedova, di stabilire la famiglia a Cesarea, per affidare
l’educazione e la tutela dei figli al vescovo Gregorio, suffraganeo di quella città, che non deve
essere confuso con il padre di Gregorio di Nazianzo. Il futuro vescovo di Nissa compì i suoi
studi in questa città: lì ebbe come maestro suo fratello Basilio che, una volta conclusi gli
studi, insegnò a Cesarea negli anni 357/358. Non conosciamo altre personalità che
influenzarono direttamente l’educazione del Nisseno; nell’Ep. 13 Gregorio afferma di non
riconoscere nessun altro maestro (eccettuata la Scrittura) se non il solo fratello. Dal suo
epistolario emerge tuttavia come la sua educazione fosse arricchita da varie personalità insigni
come Libanio, Imerio e il cristiano Proeserio; da questi Gregorio trasse i frutti della παιδεῖα
antica e ricavò conoscenze tratte dalle più svariate discipline. Tra gli scrittori cristiani il punto
di riferimento più presente (dopo Basilio) è sicuramente Origene e la scuola alessandrina,
come ben dimostrò Völker10; nell’ambito della cultura profana egli conosce soprattutto
Platone e Plotino, ma non mancano riferimenti a Posidonio, Numenio e Filone, oltre che agli
9
GIANNARELLI 1987, p. 226. Cf. anche GIANNARELLI 1988, p. 13, dove si legge che la conversione delle classi
sociali più elevate dell’impero spesso è debitrice dell’«apporto fondamentale dell’elemento femminile, più
aperto e disponibile ad accogliere novità religiose», soprattutto «quando queste diano dignità e valore nuovi ad
una categoria definita dalla tradizione ebraica e pagano-classica come sinonimo di debolezza».
10 Cf. soprattutto VÖLKER 1955, pp. 249-263. In part. si legge a p. 249: «conformemente allo spirito della sua
famiglia e alla sua istruzione, la persona e l’opera di Origene lo influenzarono al massimo, e tramite la
mediazione di Origene, Gregorio è giunto alla più stretta relazione con il mondo alessandrino, cosa che si
realizza fin nei minimi particolari, persino nell’uso degli stessi termini e degli stessi passi della Bibbia addotti
come dimostrazione».
22
stoici e ad Aristotele, soprattutto per quanto riguarda le scienze naturali, da cui il Nisseno
trasse paragoni e spunti che utilizzò anche con fini esegetici.
Basilio era tornato da Atene entusiasta della cultura classica, e certo ne aveva rinfocolato
l’amore anche nel fratello minore; se pure si crede che il futuro metropolita di Cesarea ebbe
intenzione di dedicarsi esclusivamente alla professione di retore, si è certi che fu ricondotto ai
suoi propositi ascetici dalla sorella, che lo accompagnò ormai ventisettenne al battesimo;
contestualmente egli fu iniziato da Macrina e da alcuni amici, tra cui Eustazio, vescovo di
Sebaste, al monachesimo11. L’adesione di Basilio a tale forma di vita non suscitò tuttavia in
Gregorio tanto fascino quanto era stato quello per la παίδευσις antica: nel 359 infatti il futuro
vescovo di Nissa non ascoltò l’invito del fratello maggiore ad abbracciare la vita monastica;
sembra anzi da collocarsi proprio in questo periodo il suo (presunto) matrimonio12.
Interessante a questo proposito si rivela l’ipotesi di Aubineau13 , secondo cui Gregorio in
questo periodo non si allontanò dalla spiritualità del fratello, della sorella e della madre
compiendo viaggi frequenti nei luoghi dove essi si erano ritirati, acquisendo così oltre alla
competenza retorica anche una profonda conoscenza dei Padri della Chiesa. Gregorio, come il
fratello Basilio prima di lui, ricevette il battesimo, intorno alla trentina14.
In questi anni la Cappadocia registrò, forse più di tutte le altre regioni dell’impero, la
reviviscenza della religione e della retorica pagana portata da Giuliano, in quanto l’imperatore
vi aveva soggiornato per molti anni; questi luoghi sentirono forse più duro (per la forte
presenza cristiana sancita dal ministero di Gregorio il Taumaturgo15) il tentativo giulianeo di
istituire sacerdoti pagani e di restaurare il culto idolatrico; in particolare, l’imperatore tentò di
rimuovere dalla regione il culto dei martiri, espressione di una religiosità popolare profonda
che si sentiva ispirata dalla concretezza di quelle figure e dai loro resti mortali, fatto che
costituisce un riferimento necessario per le orazioni martirologiche composte da Basilio16,
base imprescindibile di quelle del Nisseno. In tale situazione Basilio fu ordinato sacerdote
(362) su invito pressante di Eusebio, nuovo vescovo della metropoli di Cesarea, che si sentiva
minacciato da tale recrudescenza pagana, e gli fu affidato un ruolo preminente
nell’educazione dei giovani17. Contestualmente, nel 365, Gregorio abbandonò il suo posto di
lettore per dedicarsi assiduamente alla retorica - forse per influsso di Libanio, conosciuto a
11
Cf. GIANNARELLI 1988, p. 21.
Per una bibliografia aggiornata sul problema, cf. BANDINI 2003, p. 12 n. 3.
13 Cf. AUBINEAU 1966, pp. 54-56.
14 Cf. POUCHET 2001, pp. 38-39 Cf. anche p. 39: «per loro il battesimo ricevuto nel pieno della maturità, dopo
esser stato vivamente desiderato, fu il sigillo della conversione alla vita ascetica e resterà, per tutta la vita, la
fonte e il riferimento al quale incessantemente faranno ricorso».
15 Cf. RIGGI 1985, pp. 49-52.
16 Cf. RIGGI 1985, pp. 66-68; cf. in part. p. 68: «Ad un ambiente avvelenato dalla recrudescenza pagana, e
particolarmente alla reazione subdolamente persecutoria del filosofo coronato, il vescovo di Cesarea ricordò che
vera saggezza è quella che scaturisce dalla testimonianza umano-divina del Cristo e dei suoi atleti».
17 Cf. GALLINARI 1974, p. 17.
23
12
Cesarea -, fatto che suscitò lo sdegno di Gregorio di Nazianzo18 . Il giovane tuttavia non
voleva abbandonare la propria religione, bensì probabilmente desiderava «realizzare una
sintesi tra retorica e Cristianesimo, come già aveva fatto suo padre» 19. Particolarmente
significativo per la formazione umana del Nisseno dovette rivelarsi l’impegno caritatevole del
fratello, di Macrina e di Pietro di fronte ai bisognosi della terribile peste del 368 nella
Cappadocia e nel Ponto; alla fine di questo anno o all’inizio del successivo si colloca la morte
della madre e forse una visita di Gregorio nel monastero della sorella, che probabilmente ne
approfittò per richiamarlo ad una vita più spirituale20 .
Nel 370 Basilio diventò vescovo di Cesarea e cominciò a rispondere ai movimenti ereticali
che si stavano diffondendo in Cappadocia, così come all’ascetismo eccessivo di alcuni tra gli
stessi pastori (in particolare lo stesso Eustazio); in tale ottica, egli elevò al collegio vescovile
suo fratello e l’amico Gregorio di Nazianzo (terminus ante quem dell’elezione del Nisseno
diventa quindi la Pasqua del 372, quando il Nazianzeno divenne vescovo di Sasima21 ), per
non esser privato di suffraganei ortodossi e sicuri a seguito della divisione della Cappadocia
in due regioni, nuova divisione amministrativa che andava consumandosi in quegli anni. Il
fratello Gregorio, avvertono gli autori antichi, accettò con riluttanza tale carica22 , che
probabilmente fu una ordinazione irregolare, in quanto nominato da Basilio ma senza il
concorso del popolo, come invece prevedeva la norma; una volta vescovo tuttavia il Nisseno
si profuse per come poté nel suo nuovo compito. Gregorio tentò ad esempio di arginare la
dilagante eresia ariana attraverso la convocazione di concili ad Ancira, accordandosi però con
i sostenitori di Marcello, metropolita di tale città e sospettato di eresia. Basilio ebbe a
lamentarsi più volte della sua eccessiva ingenuità e semplicità23 , soprattutto nella politica
ecclesiastica; per tale motivo nel 375 si rifiutò di inviarlo in missione presso papa Damaso24.
Gregorio fu, agli occhi del fratello, uno spirito speculativo più che un uomo d’azione: già
nel 371, ad esempio, Basilio gli aveva commissionato il De virginitate, scritto che esalta la
18
Greg. Naz. Ep. 11.
LILLA 1990, p. 10.
20 Cf. FLUERAS 2008, pp. 20-21. Scrive Gregorio nell’Ep. 19, p. 64, 14-19: ἦν ἡµῖν ἀδελφὴ τοῦ βίου διδάσκαλος,
ἡ µετὰ τὴν µητέρα µήτηρ, τοσαύτην ἔχουσα τὴν πρὸς τὸν θεὸν παρρησίαν ὥστε πύργον ἡµῖν ἰσχύος εἶναι καὶ
ὅπλον εὐδοκίας, καθώς φησιν ἡ γραφή, καὶ πόλιν περιοχῆς καὶ πᾶν ἀσφαλείας ὄνοµα διὰ τὴν προσοῦσαν ἐκ τοῦ
βίου αὐτῇ πρὸς τὸν θεὸν παρρησίαν.
21 Cf. Greg. Naz. Or. 11, in cui Gregorio di Nazianzo scrive che il Nisseno era andato a trovarlo alla sua elezione
a Sasima ed era pari in dignità nell’episcopato.
22 Come informa Basilio nell’Ep. 225, Gregorio accettò il vescovado solo per ubbidienza, probabilmente
cosciente del fatto che sarebbe stato un incarico faticoso; non a caso il fratello maggiore usa nella sua lettera il
termine λειτουργία, che, come avverte LOZZA 1991, p. 113, nel greco classico «indica un incarico gravoso e
indesiderato».
23 Cf. Bas. Ep. 58, del 371, in cui Basilio rimprovera il fratello di aver scritto delle false lettere di riconciliazione
attribuendole a suo zio, che aveva votato contro la nomina di Basilio a vescovo di Cesarea del 370. Anche
nell’Ep. 100 a Eusebio di Samosata Basilio fa riferimento alla semplicità (χρηστότης) del fratello.
24 Cf. Bas. Ep. 215, inviata a Melezio; in essa si dice che Gregorio era inesperto di politica ecclesiastica.
24
19
vita filosofica e monastica moderata, con alcuni accenni polemici verso un ascetismo troppo
marcato che ricordasse gli eccessi in cui era incorso Eustazio di Sebaste; a buon diritto esso è
stato definito «il manifesto del nuovo monachesimo basiliano»25 . La personalità del fratello
maggiore fu per Gregorio fonte inesauribile di ispirazione e fonda la sua concezione educativa
- benché, come si vedrà, la reale portata della dinamica a cui così era introdotto diventerà
chiara solo durante l’ultimo decennio della sua vita.
Nel 376 Gregorio si dovette allontanare dalla sua sede vescovile, per evitare di essere
arrestato dal vicario imperiale del Ponto, Demostene, sostenitore degli ariani, che lo aveva
accusato di irregolare ordinazione e di aver dilapidato beni ecclesiastici: tale accusa di
malversazione voleva probabilmente nascondere il desiderio di allontanare un personaggio
divenuto scomodo per l’autorità che stava acquistando. Un sinodo di vescovi omei fedeli
all’imperatore Valente riunitosi ad Ancira, aveva dichiarato decaduti il Nisseno ed altri
presbiteri della regione la primavera di quello stesso anno; furono insediati nelle sedi così
vacanti vescovi favorevoli all’arianesimo. Per evitare gli intrighi dei suoi nemici, Gregorio fu
costretto a continui spostamenti; solo dopo la sconfitta di Valente ad Adrianopoli (9 agosto
378), l’elevazione al soglio imperiale di Teodosio permise al Nisseno di tornare in patria tra la
calorosa accoglienza della folla, come si legge nell’Ep. 6. Di questo periodo sono i primi due
libri del Contra Eunomium.
Basilio morì verso la fine di settembre del 37826 . Questo fatto scosse profondamente
Gregorio, che, pur essendo di indole timida e mite, amante della riflessione quieta e tranquilla,
si vide accollare la responsabilità di difendere l’ortodossia dalle derive eretiche, soprattutto
ariane e apollinariste; a dispetto del suo carattere e di ciò che il fratello aveva detto di lui, si
rivelò un oppositore mai intimorito di tutti i movimenti ereticali e uno strenuo oratore.
Gregorio divenne de facto il successore di Basilio nella controversia eunomiana e nelle
dispute ecclesiastiche del tempo; la sua autorevolezza si estese a molte chiese, che vedevano
in lui un alleato e una guida. Nel settembre o nell’ottobre 379 il Nisseno partecipò al Sinodo
di Antiochia, che riunì i vescovi antiariani esiliati da Valente e dove si combatté
l’Apollinarismo; durante il suo viaggio di ritorno a Nissa, nel dicembre di quello stesso anno,
lo raggiunse la notizia della prossima morte della sorella, che ebbe occasione di rivedere nel
monastero che essa aveva fondato ad Annesi sul Ponto e di accompagnare fino ai suoi ultimi
momenti. A Nissa trovò opposizione dai vicini galati per essere riuscito ad ottenere la
riconciliazione, su mandato del concilio di Antiochia, dei marcelliani di Ancira, come si legge
25
26
LILLA 1990, p. 20.
Per una bibliografia aggiornata sul problema, cf. BANDINI 2003, p. 13 n. 5.
25
in incipit dell’Ep. 5. Gregorio si recò quindi nell’aprile del 380 a Iboria per dirimere delle
controversie e riuscì a far eleggere un vescovo neoniceno, Pansofio; in quella città lo
raggiunse anche la notizia che il vescovo di Sebaste, Eustazio, era morto. La folla aveva
richiesto che lui fosse il nuovo metropolita; il Nisseno dovette dunque recarsi in quella città e
rimanervi alcuni mesi, fino a che non elevò a tale carica, verso la metà di quell’anno, suo
fratello Pietro.
A questi anni, così intensi, risalgono le prime opere del Nisseno, per lo più rivolte
all’esegesi biblica27 , collegate soprattutto ad opere o insegnamenti basiliani, e alla
confutazione di movimenti ereticali28.
Nel 381 Gregorio presenziò al secondo concilio ecumenico di Costantinopoli, presieduto
all’inizio da Melezio, vescovo di Antiochia, per il quale Gregorio comporrà un commosso
encomio funebre, essendo egli morto durante i lavori. Vi pronunciò il discorso De deitate
Adversus Evagrium, e forse collaborò alla stesura del simbolo. La sua indiscussa autorità fu
riconosciuta anche dall’imperatore Teodosio, che lo citò tra i vescovi con i quali qualsiasi
metropolita ortodosso doveva essere in comunione29 .
Si colloca probabilmente nel 382 un viaggio in Arabia (Bostra) su commissione del
Concilio, non si sa se per dirimere un contenzioso tra due aspiranti vescovi o per motivi
dottrinali. Gregorio racconta nelle Ep. 2 e 3 quindi di un pellegrinaggio intrapreso nei luoghi
santi30 ; anche in questo caso il motivo è da ricercarsi, secondo Pietrella31 , in una richiesta
d’aiuto da parte di coloro che erano preposti alla chiesa di Gerusalemme per dirimere delle
controversie religiose. Di questo periodo, che va fino al 385, si ricordano ancora trattati
dottrinali32, ma anche un più sentito impegno pastorale33.
27
Si collocano in questo periodo le seguenti opere (tale ordine si basa sulla cronologia degli scritti del Nisseno
presente in GREG. DIZ., pp. 180-190): De Beatitudinibus; In Inscriptiones Psalmorum; In Sextum Psalmum; De
Oratione Dominica; In Ecclesiasten Homiliae; Apologia in Hexaemeron; De Sancto Theodoro; De Mortuis
Oratio; In XL Martyres II; Contra Fatum; In Sanctum Pascha (vulgo, In Christi Resurrectionem oratio III); De
Hominis Opificio; Contra Usurarios Oratio.
28 Si collocano in questo periodo le seguenti opere: Adversus Arium et Sabellium, De Patre et Filio; Ad
Eustathium, De Sancta Trinitate; Ad Ablabium, Quod Non Sint Tres Dei; Ad Graecos, (Ex Communibus
Notionibus); Ad Simplicium, De Fide.
29 Come si ricava dal Codex Theodosianus XVi 1,3, con uno statuto del 30 luglio 381 Teodosio dichiarava eretici
tutti coloro che non fossero in comunione con undici vescovi, tra cui sono ricordati Elladio di Cesarea, Otreio di
Metilene nella piccola Armenia e Gregorio di Nissa.
30 La consuetudine cristiana dei pellegrinaggi ai luoghi santi incominciò molto presto, intensificandosi dopo il
326, anno del pellegrinaggio dell’imperatrice Elena, madre di Costantino, e l’inventio Sanctae Crucis di cui la
tradizione la fregia.
31 PIETRELLA 1981, passim e p. 150.
32 Si collocano in questo periodo le seguenti opere: Adversus Macedonianos, De Spiritu Sancto; De Deitate
Adversus Euagrium (vulgo, In Suam Ordinationem Oratio); Contra Eunomium Libri, III; Refutatio Confessionis
Eunomii; De Deitate Filii et Spiritus Sancti.
33 Si collocano in questo periodo le seguenti opere: In Basilium Fratrem; De Pythonissa;Vita Sanctae Macrinae;
Oratio Catechetica Magna; Adversus Eos Qui Baptismum Differunt; Oratio Funebris in Meletium Episcopum;
Contra Fornicarios Oratio; Adversus Eos Qui Castigationes Aegre Ferunt; De Beneficentia (vulgo, De
Pauperibus Amandis Oratio I); Epistula Canonica ad Letoium Episcopum; In XL Martyres Ia; In XL Martyres
Ib; In Diem Luminum (vulgo, In Baptismum Christi Oratio); In illud: Quatenus Uni ex His Fecistis Mihi Fecistis
(vulgo, De Pauperibus Amandis Oratio II);
26
Nel 385 morì Teosebia, che taluni hanno identificato con la presunta moglie di Gregorio,
altri con una sorella; l’amico Gregorio di Nazianzo gli scrisse un’epistola consolatoria. Il
Nisseno si ritirò quindi nel monastero sulla riva dell’Ibis fondato dal fratello Basilio, dove
visse fino alla morte. La sua autorità a corte rimase immutata, come si evince dalla
commissione imperiale per i due discorsi consolatori che il Nisseno pronunciò quello stesso
anno in morte di Pulcheria, figlia di Teodosio, e della moglie di questi, Flacilla. La comunità
cristiana doveva fronteggiare in questo periodo controversie cristologiche e riguardanti lo
Spirito Santo; in particolare, Gregorio si trovò a controbattere alle tesi di Apollinare di
Laodicea, che predicava l’unione del Logos ad una carne umana, senza che in tale unione
fosse preso l’uomo nella sua completezza, unendosi indissolubilmente, come invece spiegò
Gregorio, con tutte le componenti dell’essere umano34. Scrive Dattrino35 che «era quella
un’età di grandi discussioni teologiche anche tra i semplici fedeli; era un’età interessata a
numerose scuole filosofiche, e sempre occupata da curiosità e gusti culturali d’ogni genere»;
Gregorio, per questo, «sempre preoccupato del bene spirituale del suo gregge, non poteva
estraniarsi da tale atmosfera; doveva, anzi, dare risposte a quelle attese». Questo periodo fu
per questo caratterizzato, più che da trattati dottrinali36 che comunque raggiungono altissime
vette di speculazione teologica, da omelie e discorsi rivolti ai fedeli37 ; in particolare, si nota in
questi anni una significativa sottolineatura del mistero dell’incarnazione, sulla base
probabilmente della polemica apollinarista.
Fortemente manchevoli sono le notizie relative a quest’ultimo periodo della vita del
Nisseno, che egli molto probabilmente passò in ritiro ascetico; da collocarsi in quest’ultima
parte della sua vita sono due trattati che riguardano la perfezione cristiana (il De Perfectione e
il De Professione Christiana) oltre che i tre ultimi scritti del Nisseno, capolavoro e sintesi del
suo pensiero: il De Instituto Christiano, il De Vita Moysis e le omelie In Canticum
Canticorum, tutte opere da inserire in un contesto monastico.
34
Sul complesso dibattito cristologico con Apollinare di Laodicea, che permise a Gregorio di approfondire il
concetto di incarnazione come assunzione da parte del Verbo dell’umanità intesa nella sua globalità e
completezza, in una mescolanza (κρᾶσις) rispetto alla quale Gregorio attraverso l’uso dei preverbi non cessa di
sottolineare una unione profonda tra le nature (συνανάκρασις), cf. la sintesi presente in MORESCHINI 1992, pp.
71-75.
35 DATTRINO 1992, p. 208.
36 Si collocano in questo periodo le seguenti opere: Ad Theophilum, Adversus Apolinaristas; In Illud: Tunc et
Ipse Filius; Antirrheticus Adversus Apolinarium.
37 Si collocano in questo periodo le seguenti opere: Oratio Consolatoria in Pulcheriam; De Infantibus
Praemature Abreptis; Oratio Funebris in Flacillam Imperatricem; De Tridui Inter Mortem et Resurrectionem
Domini Nostri Iesu Christi Spatio (vulgo, In Christi Resurrectionem Oratio I); In Diem Natalem; In Sanctum
Stephanum I; In Sanctum Stephanum II; In Ascensionem Christi Oratio; In Sanctum et Salutare Pascha (vulgo,
In Christi Resurrectionem Oratio IV); In Sanctam Pentecosten;
27
Si sa che nel 394 partecipò al locale sinodo costantinopolitano convocato da Rufino,
potente prefetto dell’est; dopo questa data non si ebbero più notizie di lui, fatto che induce gli
studiosi a collocarne la morte nello stesso 394 o appena dopo.
La personalità di Gregorio non è facilmente ricostruibile, data la sua poliedricità. Völker38
riconosce in lui un carattere complesso, a volte enigmatico, nel quale sono in egual modo
presenti dolcezza e suscettibilità, tensione ala gioia e malinconia. Spirito che anela
all’infinito, Gregorio ama soprattutto gli aspetti della vita entro cui questa ampiezza si
manifesta, in particolare la bellezza della natura e l’infinità del mare39 . Nelle bellissime
descrizioni che si incontrano qua e là nei lavori del Nisseno, come ad esempio la splendida
Ep. 20, si può facilmente intuire l’affetto profondo che il vescovo provava per la realtà che
aveva davanti agli occhi, la sua curiosità insaziabile per la composizione fisica delle cose,
l’attaccamento ardente per la bellezza che gli si mostrava soprattutto nella perfezione della
natura: a più riprese egli infatti si riferisce ai versetti della Scrittura che inneggiano alla
bellezza e alla perfezione del creato, via analogica verso il creatore; la stessa esperienza della
vanità delle cose che il vescovo analizza nel suo commentario all’Ecclesiaste non intacca il
suo trasporto, invitando egli in prima persona però a travalicare quello che può percepire con i
soli sensi per guadagnare una realtà più profonda, che anzi egli giudica l’unica esistente in
senso proprio e pieno. Tale afflato per il creato, avverte Völker40, è comune a tutti e tre i
Cappadoci che, con diversi mezzi espressivi, furono tutti affascinati dalla realtà che avevano
di fronte. In questo aspetto emerge anche forse l’artista, lo scrittore (le cui doti retoriche, a
causa della complessità del pensiero, sono in tempi moderni criticate41 ); non bisogna però
dimenticare come l’essenza del Nisseno risieda nel suo episcopato, nel suo ruolo di maestro e
teologo, mai slegato da una profonda e concreta attenzione a chi aveva di fronte nel suo
ministero pastorale42, che il Nisseno dovette mutuare da Basilio (l’«uomo della concretezza»,
come lo ebbe a definire Völker43). «Nella predicazione del Nisseno» infatti, come scrive
Dattrino44, «è riscontrabile un indubbio impegno nel sociale». La disfatta di Adrianopoli del
378, che permise al vescovo di Nissa in esilio di ritornare nella sua sede aveva infatti lasciato
dietro di sé uno strascico di conseguenze funeste, la prima delle quali era la povertà di gran
38
Cf. VÖLKER 1955, p. 25.
Cf. ad es. DB 136, 26-138, 24 e IE 413, 5-416, 10.
40 Cf. VÖLKER 1955, p. 26.
41 Cf. Ad esempio MORESCHINI 1992, p. 100.
42 Cf. DATTRINO 1992, p. 199: «Il Nisseno ci si presenta, al tempo stesso, come vescovo, e perciò perfettamente
conscio del suo ministero pastorale; come maestro, perché preoccupato di salvaguardare i suoi fedeli dai
numerosi attacchi degli eretici risorgenti un po’ dovunque; come scrittore, perché impegnato a difendere la fede e
i suoi dogmi, concernenti specialmente la divinità dello Spirito Santo; come esegeta, perché le sue omelie
trovano la loro ispirazione e il loro sostegno nei testi biblici».
43 VÖLKER 1955, p. 129
44 DATTRINO 1992, p. 200.
28
39
parte della popolazione, che per questo necessitava di assistenza45 . Tale bisogno non poteva
essere ignorato da Gregorio che, come si vedrà, poneva nelle opere l’esplicitazione dei
fondamenti della vita cristiana46. Gregorio si mostra un vescovo premuroso: non cessa mai di
rispondere alle necessità del suo gregge, con le parole e (senza dubbio) con le opere, e di
richiamare i propri fedeli alla vera radice di tale compassione e aiuto, la presenza di Cristo in
tutti gli uomini, anche in quelli più martoriati47. Le sue lettere, come quelle del fratello
maggiore, lo mostrano preoccupato nei confronti dei propri fedeli e della Chiesa tutta, sia sul
piano dottrinale che su quello pastorale, per ravvivare il coraggio delle comunità che ancora
conservavano la fede nicena pur nelle difficoltà48 .
Il vescovo di Nissa presenta infine nelle sue pagine una profonda attenzione paideutica:
egli fu profondamente versato nella filosofia e nella conoscenza della natura umana, sorretto
in questo da una sottile acutezza di pensiero e da un forte vigore intellettuale, oltre che da un
profonda sistematicità. Fu anche uno spirito arguto, capace di ironia e sorriso (nella
moderazione propria di tale caratteristica predicata dai Padri) 49; i suoi scritti e le sue lettere lo
dipingono altresì calmo, umile, mite, paziente, gentile, riflessivo, molto più propenso alla
riflessione che all’azione. Le sue pagine sono permeate da profondo equilibrio, fortezza
dell’animo, acuta sensibilità, ma anche da abbattimento, stanchezza e tristezza; queste fatiche
sono tuttavia sorrette da una fede perfetta e una profonda fiducia in Dio, che portarono la sua
natura gentile e ritirata a dimostrare un indomito coraggio una volta chiamato a prendere il
45
Se i Padri della Chiesa, prima del IV secolo, non sembrano preoccupati di un’etica sociale, questo
atteggiamento si chiarifica una volta che il cristianesimo fu proclamato religio licita: dopo il 313 «la Chiesa
venne a trovarsi in mezzo alle istanze responsabili del comportamento morale della società» e dovette
«direttamente occuparsi dell’etica sociale: il ventaglio dei problemi che interessavano la vita cristiana, anche
pubblica, cominciò rapidamente ad allargarsi fino a comprendere i maggiori confini della società» (DATTRINO
1992, p. 203). Tale istanza è evidente nel confronto tra Gregorio e la sua fonte, Origene, allorché i due
commentano nella preghiera del Pater la richiesta del panem cottidianum: se l’Alessandrino aveva rigettato con
forza una interpretazione che vedesse in questa preghiera un riferimento concreto, Gregorio non solo lo
permette, ma sceglie una interpretazione letterale che orienta il comportamento etico dell’uomo anche su questo
punto. A tale proposito, cf. PENATI 1997, pp. 178-179.
46 Le opere che si riferiscono a tale scopo sono senza dubbio il De Beneficentia, il Contra Usurarios Oratio e
l’omelia In illud: Quatenus Uni ex His Fecistis Mihi Fecistis, ma non mancano riferimenti a tale argomento
anche in altri testi.
47 Cf. DATTRINO 1992, pp. 200-206.
48 Cf. DEFERRARI 1926, p. XXXVII: «It was by the letter as a medium of publicity that Athanasius, Basil,
Gregory and others of the Fathers braved the persecutions of the Arian emperors. These letters adressed to
friends or congregations were copied and circulated everywhere by the faithfuk, in spite of the survelliance of
heretics and governors, and thus kept united the ortodox of the Orient. They visited churches isolated amid
Arians, they encouraged exiled bishops, consoled and sustained congregations left without pastors, and
everywhere revived the hope of the weak and strengthened the courage of the strong».
49 Cf. NOVEMBRI 2007, passim.
29
posto del fratello Basilio e che gli valsero riconoscimenti ben oltre la sua morte, in quanto
l’antica tradizione cristiana e bizantina parlò sempre di lui con reverenza50 e ammirazione51.
50
Cf. VÖLKER 1955, p. 263: «Tanto la mistica pratica quanto quella speculativa della Chiesa dell’impero
d’Oriente videro una delle più rilevanti autorità in Gregorio di Nissa, che ancora il secondo concilio di Nicea
(787) celebrò come “Padre dei Padri”».
51 Massimo il Confessore chiamò di Gregorio dottore della terra abitata, µέγας θεολόγος (Maxim. Conf. Opusc.
Theol. PG 91, 61 A); Giorgio di Pisidia disse di lui che fu µυστικώτατος (cf. PG XCII 1649 A).
30
Per un lessico dell’educazione
in Gregorio
Canévet 1 sostiene l’assenza, nei testi di Gregorio, di un preciso vocabolario tecnico in
materia linguistica ed epistemologica; è possibile tuttavia, avverte la studiosa, individuare
alcuni termini «chiave» che ricorrono pressoché con lo stesso significato; tale è lo scopo che
qui ci si prefigge, a partire dalle aree lessicali, sicuramente riconducibili all’ambito educativo,
che gravitano attorno ai verbi παιδεύειν e διδάσκειν.
Si propone in questa un commento ragionato di passi, che aiutino a determinare il
significato di ciascun termine; ulteriori attestazioni degli stessi saranno commentate in
seguito, nella presentazione del pensiero paideutico del Nisseno.
L’incipit della quinta omelia In Ecclesiasten2 presenta in poche righe alcune tra le famiglie
semantiche che si sono riconosciute come riconducibili, nell’opera del Nisseno, all’area
educativa; il riferimento è certo per la presenza del verbo παιδεύειν e del sostantivo
διδασκαλία, ai quali si aggiungono il verbo µανθάνειν e il sostantivo δόγµα. Il passo mostra
dunque come possa essere ascritto a questa area semantica anche il sostantivo ὑφήγησις, che
segue da presso i termini appena ricordati e introduce un breve excursus sull’educazione che
propone Davide nel primo Salmo: essa esemplificherebbe, a detta del Nisseno, l’esortazione
dell’Ecclesiaste secondo cui principio della vita virtuosa è stare lontano dai vizi.
Molti dei termini riferibili all’ambito educativo si riscontrano anche nell’incipit della
quinta omelia del De beatitudinibus 3. In essa Gregorio propone un richiamo all’ascesa
dell’uomo verso Dio attraverso l’immagine della scala di Giacobbe: forse tale enigma aveva
lo scopo di educare (δι' αἰνίγµατος ἐπαιδεύθη: DB 123, 21) il patriarca allo stesso
insegnamento (διδασκαλία: DB 123, 23) proposto dalle Beatitudini, vale a dire la tensione di
una vita di virtù verso altezze sempre più rimarchevoli, affinché dopo aver imparato (µάθοι:
DB 124) tale verità potesse guidare, introdurre (ὑφηγήσαιτο: DB 124, 1) ad essa i suoi
discendenti.
1
Cf. CANÉVET 1983, p. 42.
Cf. IE 353, 17-354, 5: τὸ δὲ τοιοῦτον ὡς ἐν δόγµατι παιδευέσθω ἡ ἐκκλησία, µαθοῦσα διὰ τῆς παρούσης
διδασκαλίας, ὅτι ἀρχὴ τοῦ κατ' ἀρετὴν βίου ἐστὶ τὸ τῆς κακίας ἐκτὸς γενέσθαι. καὶ γὰρ ὁ µέγας ∆αβὶδ
εἰσαγωγικήν τινα πρὸς τὴν καθαρὰν πολιτείαν ὑφήγησιν ἐν ταῖς ψαλµῳδίαις ποιούµενος οὐκ ἀπὸ τῆς
τελειότητος τῶν ἐν τῷ µακαρισµῷ θεωρουµένων τοῦ λόγου ἄρχεται.
3 Cf. DB 123, 20-124, 5.
31
2
L’idea della guida, come si analizzerà in seguito, è aspetto irrinunciabile della teoria
educativa del Nisseno; pertanto non stupisce di trovare spesso, in contesti che a buon diritto si
può definire paideutici data la presenza di termini sicuramente riconducibili a questo ambito,
anche dei composti di ἄγειν. In particolare si mostra legato alla tematica educativa il verbo
χειραγωγεῖν e i sostantivi ad esso legati.
Si scoprirà attinente al tema anche l’idea della testimonianza, espressa dal verbo µαρτυρεῖν
e dai termini ad esso associabili; come si vedrà, tale area semantica sarà in particolar modo
relata alla Scrittura. Il profondo legame che unisce i termini dell’educazione all’insegnamento
delle Scritture è ancora più evidente nell’Ad Graecos4, opera nella quale l’unica sezione che
offre una nutrita presenza di tale area semantica riguarda proprio ciò che si ricava dal testo
sacro; i ragionamenti precedenti e successivi sono costruiti, al contrario, su asserzioni che non
prendono come base il testo ispirato, bensì mostrano delle spiegazioni o una profonda
ἀκολουθία logica; questi passi tuttavia mancano attestazioni del lessico in esame5.
1.
La famiglia riconducibile a παιδεύειν
I termini ascrivibili all’area semantica del verbo παιδεύειν che si ritrovano più
frequentemente nell’opera del Nisseno sono i sostantivi παίδευσις e παιδεία, oltre che il
sostantivo παιδευτής e l’aggettivo ἀπαίδευτος. Essi, fortemente connotati dal significato
classico, sono profondamente relati dal vescovo alla speculazione e all’annuncio cristiano6. Si
rinuncia in questa sede a discutere della famiglia, che condivide la stessa radice, legata al
verbo παιδαγωγεῖν in quanto se ne tratterà più oltre7 .
Dal punto di vista linguistico, il verbo παιδέυειν è per sua natura sbilanciato sull’azione
propositiva dell’educatore, riservando alla diatesi passiva la ricezione di ciò che è trasmesso.
Esso presenta un duplice significato, che rispecchia la suddivisione dei sostantivi ad esso
collegati, παίδευσις e παιδεία.
4
Cf. AdG 26, 6-28, 9. Questi i riferimenti: µαθεῖν: 26, 21; φιλοµαθῶς: 27, 4; δόγµατα: 27, 9.21; µιµουµένη: 27,
11; δογµατίζει: 27, 13; µαθητευοµένους: 27, 14; διδάσκεσθαι: 27, 14; δόγµα: 27, 16; ἐκπαιδεύουσα: 28, 1.
5 Ad esclusione del verbo δογµατίζεσθαι, utilizzato anche in AdG 32, 26.
6 Cf. ad es. Cacace 2006, p. 185: «se il verbo παιδεύω evoca l’orgoglio, tipico dei Greci, per quella cultura
d’impianto razionale, che a lungo li distinse dagli altri popoli del Mediterraneo, l’avvenuta fusione tra
cristianesimo ed ellenismo consente ora di affiancare all’accusativo di relazione τὰ θειότερα persino un termine,
che secoli di uso linguistico hanno connotato in senso così fortemente immanentistico».
7 Cf. Cap. V.3.2. Il termine παιδαγωγός ricorre in IC 252, 15; 336, 1; IE 317, 8; ISS 192, 23; VSM 383, 21; 402,
2; il termine παιδαγωγία in OD 8, 19; VSM 377, 1; il verbo παιδαγωγεῖν in DB 97, 21; DBen 95, 4; IAC 323, 11;
IC 461, 19; 464, 4; IE 315, 22; 317, 12; IPS 43, 22; SST I 86, 13; VG 12, 2; 43, 7; VM I 58, 7; VSM 381, 11. Tali
elenchi non hanno pretesa di esaustività. A questi termini è collegata anche l’espressione di IE 332, 20 ἡ
ἀπαιδαγώγητος ἐπιθυµία.
32
Appoggiandosi all’idea espressa con più evidenza dal nomen actionis, l’azione espressa dal
verbo riguarda l’attività paideutica in senso proprio da parte dell’uomo8 o, più comunemente
nei testi, di Dio9 ; tale educazione può esprimersi nei confronti dell’intera persona o
relativamente ad una specifica disciplina o competenza che l’educando ha ricevuto 10. Anche il
λόγος dell’uomo può portarlo a delle conclusioni che lo educhino11, facendolo crescere nella
consapevolezza dei misteri: è possibile trovare un esempio di ciò ad esempio nel De
perfectione, quando il Nisseno si trova a spiegare l’appellativo che descrive Cristo come il
capo del corpo della Chiesa. Rilevando che la testa non può essere di natura diversa rispetto
alle altre membra, Gregorio introduce le conseguenze logiche che porta questa affermazione
attraverso il verbo παιδεύει (DPe 198, 1)12. Allo stesso modo in DPe 199, 14 il verbo indica
un insegnamento che si deduce dal mero termine κεφαλἠ: come infatti gli animali sono
governati dalla testa, che impartisce loro gli ordini, così anche l’uomo in ogni suo impulso e
attività deve obbedire ai comandi di colui che lo spinge incessantemente a tendere verso
l’alto.
Il secondo significato del verbo παιδεύειν13 si riferisce invece a ciò che esprime il
sostantivo παιδεία, venendo così a indicare l’azione - altrettanto umana e divina - del
correggere. Quando nel primo libro del De vita Moysis14 Gregorio racconta i piaceri della gola
da cui il popolo d’Israele fu irretito durante la sua marcia nel deserto, il Nisseno ad esempio
usa proprio questo verbo per indicare la modalità che la divinità usa per educare gli Israeliti e
nello stesso tempo punirli per le loro mancanze. Allo stesso modo, qualche capitolo oltre15 , si
sfrutta un ulteriore termine corradicale legato a questa sfera semantica (παιδαγωγοῦνται: VM I
63, 5) per introdurre la piaga dei serpenti che, mordendo i più giovani e insubordinati tra gli
Israeliti, li sterminarono fino a che il legislatore non innalzò per la salvezza del popolo un
serpente di bronzo.
8
Il verbo παιδέυειν o i suoi composti sono riferiti ad una educazione che si riferisce essenzialmente all’azione
del testo ispirato, alla divinità o a profeti e apostoli nei seguenti passi (l’elenco non ha pretese di esaustività):
AdG 28, 1; AdvC 329, 11; DB 122, 10; 136, 21; DPe 190, 8; 194, 10; DPr 139, 5; IAC 324, 3; DV 281, 21; IC 5,
3.14; 18, 8; 26, 13; 54, 13; 56, 2; 89, 15; 101, 17-18; 112, 9; 126, 5; 172, 20-21; 228, 20; 243, 17; 266, 8.11; 287,
9; 297, 19; 373, 15; IE 284, 18; 296, 1; 346, 6; 352, 12; 353, 16; 378, 20; 390, 6; 409, 4; 436, 21; IF 484, 4; IPS
47, 5; 71, 27; 148, 2; 154, 4; SP 259, 18; SST I 86, 18; SST II 98, 9; VG 4, 24; 17, 10; VM I 56, 3; I 63, 8; II 15,
1; II 24, 2; II 55, 2; II 125, 1; II 165, 2; II 189, 1; II 217, 4; II 271, 2; II 282, 2; II 303, 1; XLM Ia 137, 19.
9 Il verbo παιδέυειν o i suoi composti sono riferiti ad una educazione che si attua a partire dal’azione di uomini facciano essi parte della Chiesa o meno nei seguenti passi (l’elenco non ha pretese di esaustività): AdvC 332, 11;
AnAp 199, 16; 207, 17; DBen 93, 13; DI 70, 12; DM 46, 4; DV 249, 6; 291, 23; 334, 2; 337, 12; IB 110, 7; 126,
5; IC 65, 10; IDL 229, 20; 240, 12; IE 317, 4; 418, 7; OD 57, 23; ST 69, 22; VG 4, 24; 10, 8; 39, 11; VSM 373,
9.11; 401, 14.
10 Così forse si può intendere il γέγονε παιδευθῆναι di IC 53, 18-19: οἷς γὰρ ἐν ἐπιµελείᾳ γέγονε παιδευθῆναι τὴν
Ἑβραίων διάλεκτον, κτλ. La sollecitudine qui ricordata sarebbe allora forse un apprezzamento per la qualità di
un’istruzione che andava ormai scomparendo.
11 Cf. anche, ad es., IE 319, 5.10; 350, 20; SP 262, 1.
12 Cf. per tutto il passo DPe 197, 19-200,3.
13 Cf. ad es. AdvC 332, 7; DIP 94, 15.
14 Cf. VM I 63.
15 Cf. VM I 67.
33
I sostantivi παίδευσις e παιδεία mostrano nel vocabolario gregoriano, come già si ha avuto
modo di affermare, un preciso significato.
Il termine παίδευσις ha innanzitutto il valore di educazione come “formazione”: nella Vita
Sanctae Macrinae16
Gregorio parla ad esempio della rinomanza del padre nella sua
professione di retore, e adduce come motivazione di quella stima l’espressione κατὰ τὴν
παίδευσιν (VSM 394, 9). Sulla stessa linea si pone un passo della seconda omelia In
Ecclesiasten17 nel quale il termine παίδευσις (IE 312, 9) è utilizzato per indicare il rigore
dell’educazione cui si sottopose Salomone, una volta assaporata la finitezza dei piaceri
terreni, per compiere fino in fondo la strada della conoscenza e allontanare da sé tutto ciò che
era caduco.
Nel proemio dell’orazione In Basilium fratrem18 il Nisseno utilizza il termine ora con
significato più generico, assommando in esso l’educazione profana e quella scritturistica (IB
110, 11), ora con significato più proprio, riferendosi alla sola cultura classica (IB 110, 15)19.
Prima che indicare una certa formazione dunque la παίδευσις è un primo terreno che offre
all’uomo le categorie di pensiero e linguaggio attraverso cui affrontare la realtà: è questo il
senso che Gregorio attribuisce al termine all’inizio del Contra fatum20 di fronte alla prima
risposta del suo interlocutore. In quell’opera il Nisseno racconta di come avesse ingaggiato
una schermaglia dialettica con un rappresentante della filosofia e della cultura profana, che
sosteneva come gli influssi astrali subordinavano secondo necessità l’animo umano;
l’argomento si presentava particolarmente importante, in quanto andava a toccare la
possibilità stessa del desiderio e dell’esercizio della προαίρεσις, elementi cardine del pensiero
del Cappadoce. Dopo che il pensatore ebbe esposto la sua visione, il Nisseno, ritenendo quel
discorso degno di essere compreso (µαθεῖν: CF 34, 20) con più attenzione, aveva chiesto se si
dovesse considerare il fato una divinità; gli fu quindi risposto che il termine invece indicava
un effetto necessario dei concatenamenti astrali. Anche in questo caso il vescovo accusò la
difficoltà di quel linguaggio, adducendo come causa il fatto di non essere stato introdotto ad
una simile educazione: la παίδευσις nel pensiero del Nisseno fonda la cultura di una persona e
16
Cf. VSM 392, 20-394, 20.
Cf. IE 311, 15-312, 17.
18 Cf. IB 109, 4-110, 18.
19 Il termine si riferisce in particolare all’educazione cristiana in IC 270, 8 e VG 23, 9; riguarda invece in
particolar modo la cultura classica in IB 110, 15; VG 10, 10; VM II 37, 2; VSM 373, 11. Diventa infine sinonimo
di conoscenza o di cultura o di educazione in modo più generale in IB 110, 11; 112, 1; 126, 5; IE 307, 6; SST I
79, 8; VSM 381, 16.
20 Cf. CF 31, 3-36, 13.
34
17
la determina, tanto da permettere tra gli uomini un più o meno fecondo commercio di idee,
una più o meno facile comprensione21.
In incipit del De infantibus praemature abreptis22 il termine παίδευσις viene usato per
indicare la cultura profana in base alla quale possono essere costruiti discorsi di efficace
eloquenza, che gareggiano tra loro come in uno stadio, ai quali il Nisseno, con una solita
tapeinosis, contrappone la propria pochezza, dovuta all’età avanzata: lo scopo che perseguirà
tuttavia, ben più arduo, sarà cercare una risposta alla spinosa questione del destino riservato ai
bambini morti prematuramente, problema rispetto al quale i grandi filosofi (tra cui il Nisseno
nomina esplicitamente Platone23 ) non sono riusciti a rapportarsi in modo adeguato. L’apporto
di questi pensatori (che costituisce parte integrante della παίδευσις antica) agli occhi di
Gregorio è da tenere in grande considerazione: chiunque abbia ricevuto una educazione o
meno (κἂν πεπαιδευµένος κἂν ἰδιώτης: DIP 71, 2) può contemplare infatti le meraviglie del
creato, ma il discrimine che porta a fermarsi alle sole sensazioni o ad essere condotti,
purificati e istruiti, ad una comprensione più profonda, passa διὰ παιδεύσεως (DIP 71, 9), che
non deve essere necessariamente identificata con l’annuncio cristiano. La morte prematura dei
bambini tuttavia è stimolo potente a una domanda sul significato della vita umana e sulla
σοφία divina che travalica le conquiste prettamente umane e deve essere affrontata sulla base
della rivelazione.
Come si legge infine nel De vita Moysis 24 l’esame stesso del testo e la sua interpretazione
spirituale costituisce per il vescovo una παίδευσις.
Nell’opera di Gregorio il termine παιδεία mostra di avere per lo più perso il significato che
aveva nell’antichità classica; solo in incipit del secondo encomio In XL Martyres 25 il Nisseno,
durante l’elogio di suo fratello Basilio, ricorda come questi fosse modello certo per
l’educazione di cristiani e pagani e usa a tal proposito παιδείας (XLM II 160, 8); nel Contra
usuraios 26, infine, il termine si riferisce al cursus di studi intrapreso dal Nisseno, in quanto
Gregorio definisce se stesso un uomo abile nel parlare e rinomato per la propria conoscenza,
versato nella pratica (παιδείαν: CU 195, 21) di tutti i discorsi.
21
Cf. CF 35, 17-21: ἐπεὶ δέ µε καὶ τοῦτο πάλιν ἐξένιζεν (οὐ γὰρ συνίειν τῶν λεγοµένων οὐδὲν ἅτε µὴ
πεπαιδευµένος ταύτην τὴν παίδευσιν), ἠξίουν δι' ὧν ἦν µοι δυνατὸν γνῶναι τὴν τῆς εἱ µαρµένης διάνοιαν, διὰ
τούτων µοι φανερὸν ποιεῖν τὸ λεγόµενον.
22 Cf. DIP 67, 4-72, 22.
23 Il riferimento è al mito di Er, per cui cf. Plat. Resp. 614b-615c; in esso «precisamente si parla delle sorti degli
infanti come οὐκ ἄξια µνήµης» (MATURI 2004, p. 99 n. 7); cf. anche Procl. In Plat. Remp. II 175, 10-15 Kroll.
24 Cf. VM II 89, 1-2: ἀλλὰ πρὸς τὰ ἑξῆς τοῦ λόγου προΐωµεν τοσοῦτον παιδευθέντες διὰ τῶν ἐξητασµένων ὅτι
κτλ.
25 Cf. XLM II 160, 4-21; cf. in part. XLM II 160, 8-11: ἀνὴρ οὗ τὸ θαῦµα τῆς οἰκουµένης κοινόν· παιδείας τῆς τε
παρὰ Χριστιανοῖς, καὶ τῆς ἔξωθεν, κανὼν ἀκριβὴς, φιλοσοφίας ἄγαλµα, ἐπισκόπων τύπος καὶ κίνδυνος,
διδάσκαλος ἔργων καὶ λόγων σύµφωνος.
26 Cf. CU 195, 19-196, 2.
35
Nel pensiero del Cappadoce il termine sembra piuttosto aver acquisito la connotazione
specifica di «correzione». Tale uso è comune al cristianesimo primitivo27 e deriva da Prov 3,
11-12 28, laddove si raccomanda di non disprezzare la correzione del Signore, né di perdersi
d’animo di fronte alle tribolazioni, e si manifesta la propria fiducia nella bontà divina pur
nella correzione; Paolo, che cita tale passo in Hebr 12, 5-6, nei versetti successivi (7-1129)
giustifica le tribolazioni sulla base della preferenza del Padre celeste, che vuole rendere
partecipe di sé i propri figli; ogni correzione, continua l’apostolo, sul momento reca tristezza,
per poi diventare frutto di pace. Gregorio, citando più volte l’autorità paolina30 , dimostra di
conoscere bene tale idea e impronta ad essa il suo uso lessicale31 e la sua esegesi: alla fine del
De beatitudinibus 32, ad esempio, il Nisseno cita il passo paolino di Hebr 12, 11 per suggerire
al lettore un’ultima volta, basandosi sull’esempio dei martiri, ossatura di tutta l’ottava omelia,
che l’afflizione è come il fiore che porta ai frutti sperati.
Secondo una linea di pensiero che è possibile spingere fino a Platone il dolore trova una
sua spiegazione nel volere della παιδεία divina, che fa uso anche di tale mezzo per condurre
nuovamente a sé la sua creatura33 . A tal proposito, Gregorio scrive nell’In iscriptiones
Psalmorum 34 che l’uomo non può sopportare la pena che attira su di sé a causa del proprio
peccato; il castigo che viene comunque assegnato, che serve per educare e punire (πρὸς
παίδευσίν τε καὶ τιµωρίαν: IPS 50, 1), è dato per la correzione (πρὸς παιδείαν: IPS 49, 29) del
27
La duplice accezione del termine παιδεία è presente sin nella Epistula ad Corinthos prima di Clemente
Romano. Jaeger 1961, pp. 31-32 n. 15 rileva infatti che nella conclusione dello scritto tale sostantivo e il verbo
παιδεύειν, se relati a passi dell’Antico Testamento, sono da ricondurre all’idea del castigo, mentre in una
occorrenza successiva l’espressione indica «la somma totale dei logia della tradizione scritta, e quest’ultimo uso
corrisponde al senso greco della parola». Per uno studio specifico, cf. RAPALLO 1971, pp. 118 e 131, dove si
legge che la radice ebraica per «educare, castigare, riprendere, avvertire» (con significato mediale di
«correggersi, lasciarsi correggere») è ysr. La lingua greca e latina hanno operato un calco semantico che «nasce
dall’adeguamento del passivo greco e latino al niph‘al ebraico», diatesi semitica con valore essenzialmente
mediale, «contro l’uso tradizionale» delle due lingue classiche (p. 131). Lo studioso ricorda anche come «l’uso
del gr. παιδεύω col significato di « castigare » non è documentato prima dei Lxx. Con significato affine, trascorre
invece dei Lxx al greco più tardo, alle Vit. Aesopi I c. 61 [...] e al NT greco (Lc. 23, 16; cfr. 1 Re 12,11.14; 2 Crn.
10,11.14)» (p. 118).
28 Questo il testo greco: [11] υἱέ µὴ ὀλιγώρει παιδείας κυρίου µηδὲ ἐκλύου ὑπ' αὐτοῦ ἐλεγχόµενος, [12] ὃν γὰρ
ἀγαπᾷ κύριος παιδεύει µαστιγοῖ δὲ πάντα υἱὸν ὃν παραδέχεται.
29 Questo il testo greco: [7] εἰς παιδείαν ὑποµένετε: ὡς υἱοῖς ὑµῖν προσφέρεται ὁ θεός: τίς γὰρ υἱὸς ὃν οὐ
παιδεύει πατήρ; [8] εἰ δὲ χωρίς ἐστε παιδείας ἧς µέτοχοι γεγόνασιν πάντες, ἄρα νόθοι καὶ οὐχ υἱοί ἐστε. [9] εἶτα
τοὺς µὲν τῆς σαρκὸς ἡµῶν πατέρας εἴχοµεν παιδευτὰς καὶ ἐνετρεπόµεθα: οὐ πολὺ [δὲ] µᾶλλον ὑποταγησόµεθα
τῷ πατρὶ τῶν πνευµάτων καὶ ζήσοµεν; [10] οἱ µὲν γὰρ πρὸς ὀλίγας ἡµέρας κατὰ τὸ δοκοῦν αὐτοῖς ἐπαίδευον, ὁ
δὲ ἐπὶ τὸ συµφέρον εἰς τὸ µεταλαβεῖν τῆς ἁγιότητος αὐτοῦ. [11] πᾶσα δὲ παιδεία πρὸς µὲν τὸ παρὸν οὐ δοκεῖ
χαρᾶς εἶναι ἀλλὰ λύπης, ὕστερον δὲ καρπὸν εἰρηνικὸν τοῖς δι' αὐτῆς γεγυµνασµένοις ἀποδίδωσιν δικαιοσύνης.
30 Cf. CU 195, 22; DB 169, 28; TS 296, 21; VM II 193, 11
31 Altre occorrenze del termine non legate alla citazione paolina: AdvC 326, 1; CE III 1, 24, 8.12; III 5, 8, 8; IPS
49, 29.
32 Cf. DB 169, 25-170, 4; si legga in particolare DB 170, 3-4: οὐκοῦν τῶν προσδοκωµένων καρπῶν ἄνθος, ἡ
θλίψις ἐστίν. διὰ τὸν καρπὸν οὖν, καὶ τὸ ἄνθος δρεψώµεθα.
33 «Il concetto del valore educativo dei castighi divini si trova già in Platone (cf. Phaed. 113d; Gorg. 525c; Resp.
380b-c e 615c ss.) ma si può ritrovare anche in qualche passo biblico (cf., ad esempio, Sap. 11, 22ss.) e Filone
(Quaest. In Gen. IV 51). Di qui penetrerà nel cristianesimo (cf. Clem. Aless., Strom. IV 24, 153, 1-6), dove sarà
sviluppata a fondo da Origene (De Princ. I 6, 3; II 5, 3 e 10, 6; Selecta in Psalm., PG 12, 1112C) [...]. Il concetto
è presente anche in Basilio, Hom. in Psalm., PG 29m 315B-D.» TRAVERSO 1994, p. 68 n. 76.
34 Cf. IPS 49, 24-51, 20.
36
singolo e di tutti. La creatura, come però continua il vescovo citando Ps 89, 10-1135, riceve
una educazione (παιδεύσεως: IPS 50, 7) anche attraverso le azioni benevole della divinità
verso di lui: l’uomo infatti ha bisogno di essere educato e corretto, secondo la utile
sovrapposizione che si realizza con il παιδευθῆναι di IPS 50, 17, ma non può sopportare l’ira
divina. Il passo si conclude quindi con la preghiera secondo cui il Signore debba educare
(παιδευσάτω: IPS 50, 17) con la salvezza piuttosto che con la punizione; di seguito si chiederà
alla divinità, in una maniera ancora più enfatica, di condurre (ὁδήγησον: IPS 51, 7) i suoi
figli.
Sulla stessa linea si pone un altro brano, preso questa volta dall’In sextum Psalmum36. In
esso Gregorio afferma che l’uomo cosciente del giudizio che lo aspetterà all’ultimo giorno e
dei castighi infernali non può che domandare a Dio di non ricevere una tale correzione, una
educazione amara (παίδευσιν: ISS 190, 22; τῇ πικρᾷ παιδεύσει: ISS 190, 23) che nasce dal
giudizio dell’ira divina; tale convinzione poteva essere rafforzata da Ps 6, 2, che il Nisseno
cita poco oltre37 .
Utile a questo proposito si ritrova essere anche il commento del Nisseno all’immagine del
melograno che si ritrova nel De vita Moysis38. Il frutto, scrive il Nisseno, possiede una polpa
dolce e molteplice racchiusa da una scorza dura e rugosa. Così occorre, secondo il vescovo,
che sia la vita del fedele in cammino verso la perfezione: il tenore della vita, entro cui si
racchiude la propria anima, deve infatti essere saggio e duro per offrire frutti dolci di virtù.
Citando ancora Hebr 12, 11 Gregorio annota infatti che ogni παιδεία appare sul momento
difficile a realizzarsi e dura, come la scorza del melograno, ma a suo tempo offre il guadagno
sperato.
Il termine παιδευτής appare nel vocabolario di Gregorio come vox media; esso ha solo
quattro occorrenze, due nel Contra Eunomium, due nel De beneficentia.
Nella prima delle due opere παιδευτής riceve una connotazione negativa: esso indica in
una di esse i maestri di iniquità che insegnano dottrine in sé contraddittorie39 , come la
comunanza di essere e non essere, mentre nell’altra è apposizione della προύνικον, la libidine
(CE III 25, 2-3).
35
Questo il testo citato da Gregorio (IPS 9-13): Ὅτι ἐπῆλθε πραότης ἐφ' ἡµᾶς καὶ παιδευθησόµεθα. τίς γινώσκει
τὸ κράτος τῆς ὀργῆς σου, καὶ ἀπὸ τοῦ φόβου σου τὸν θυµόν σου ἐξαριθµήσασθαι; τὴν δεξιάν σου οὕτως
γνώρισόν µοι καὶ τοὺς πεπαιδευµένους τὴν καρδίαν ἐν σοφίᾳ ἐπίστρεψον.
36 Cf. ISS 190, 2-193, 21.
37 Gregorio cita il salmo in ISS 191, 8-9: Μήτε τῷ θυµῷ σου ἐλέγξῃς µε, µήτε τῇ ὀργῇ σου παιδεύσῃς µε.
38 Cf. VM II 192-193.
39 Cf. CE III 37, 6-38, 1: ὢ καινῶν µαθηµάτων, οἷα παιδεύουσιν οἱ παιδευταὶ τῆς ἀπάτης, οἵων δογµάτων
εἰσηγηταὶ τοῖς ἀκούουσι γίνονται. τὸ ἔν τινι ὂν µὴ εἶναι διδάσκουσιν.
37
Nel De beneficentia invece il termine caratterizza gli educatori cui, insieme ai grammatici,
sono avvicinati i maestri della Chiesa40; nella seconda occorrenza infine si ritrova παιδευτής
come apposizione del νοῦς di alcuni uomini, che si distinguono nell’uso della ragione e nella
pratica dell’ermeneutica41, quasi a indicare un approdo naturale di queste qualità.
L’aggettivo ἀπαίδευτος, invece, ricopre senza dubbio una connotazione negativa e indica
coloro che non hanno ricevuto una educazione, per lo più caratterizzata questa volta come
παίδευσις cristiana42.
L’aggettivo è usato, ad esempio, nella quinta orazione del De oratione dominica 43 in un
lungo elenco che mostra come l’anima, i pensieri e le parti del corpo dell’uomo facilmente lo
conducono sulla strada del male; ciò che viene preso in esame è spesso caratterizzato da una
qualificazione e da una azione ad esso pertinenti. Gregorio rapporta ἀπαίδευτος all’orecchio,
il canale attraverso cui un uomo riceve più facilmente le parole che lo istruiscono; la
mancanza di educazione coincide qui con l’impossibilità di essere lontani dal male.
L’aggettivo ricorre anche nella terza omelia In Ecclesiasten44 a caratterizzare il figlio di
Noè che rise della nudità del padre, e indica l’atteggiamento di chi non abbia ricevuto una
necessaria educazione; l’accostamento con i rimanenti παῖδες del patriarca, che lo
commiserarono (ἐλέους: IE 328, 13), indica l’assenza nel figlio scellerato di questa
caratteristica.
Ἀπαίδευτον è anche il sacerdote che, non educato alla retta conoscenza, non accoglie
l’annuncio cristiano, fino al miracolo di cui è testimone; lo stesso si dice (VG 53, 11) del
popolo che non ha ancora compreso l’annuncio cristiano nella sua pienezza e per il quale il
Taumaturgo istituisce la commemorazione dei martiri della persecuzione di Decio, a
rimpiazzare le festività che allontanavano dalla fede45 ; ἀπαίδευτον è anche la minaccia di un
rozzo prefetto che si rivolse a Basilio 46.
40
Cf. DBen 93, 3-6: Ὁ τῆς ἐκκλησίας ταύτης πρόεδρος καὶ οἱ τῆς ἀπλανοῦς εὐσεβείας καὶ τῆς κατ’ ἀρετὴν
πολιτείας διδάσκαλοι πολλὴν ἔχουσι πρὸς τοὺς γραµµατιστὰς καὶ τοὺς παιδευτὰς τῶν πρώτων στοιχείων τὴν
ὁµοιότητα.
41 Cf. DBen 103, 18-19: οὐκοῦν οἱ λογικοὶ κτισθέντες καὶ τὸν νοῦν ἔχοντες τῶν θείων ἑρµηνέα καὶ παιδευτὴν µὴ
τοῖς προσκαίροις δελεασθῆτε.
42 Altre occorrenze del termine rispetto a quelle commentate, senza pretesa di esaustività, sono CE I 1, 660, 6; III
2, 19, 3; III 8, 39, 1; DV 271, 18; IC 259, 6; IE 422, 8; OD 13, 10; 15, 16; VG 38, 9.
43 Cf. OD 68, 9-69, 8. Il termine ἀπαίδευτος è in 68, 25.
44 Cf. per tutto il passo IE 327, 21-329, 13.
45 Cf. VG 52, 24-53, 18.
46 Cf. IB 116, 12-17.
38
2.
La famiglia riconducibile a διδάσκειν
Un collegamento tra il verbo παιδεύειν e il verbo διδάσκειν è presente ad esempio nella
sesta omelia In Ecclesiasten 47, laddove si ricorda come l’educazione del Vangelo ora sia
riproposta nel velo dell’insegnamento attraverso enigmi dell’Ecclesiaste. Tale famiglia viene
usata indifferentemente per indicare l’insegnamento umano48 e quello divino; quest’ultimo
consiste essenzialmente nell’apporto delle Scritture, che assurgono a indiscussa fonte di
διδασκαλία49.
Per citare l’esempio di una sola opera, nel De vita Moysis50 il verbo διδάσκειν è spesso
usato per introdurre l’interpretazione spirituale di un luogo scritturistico: la narrazione storica
infatti è il tramite attraverso cui l’uomo apprende i misteri che si rendono evidenti nel
Vangelo o che conducono ad un passo ulteriore nel cammino delle virtù. Il passo più chiaro a
tal proposito è il commento all’episodio51 che vede Mosè chiedere a ogni tribù d’Israele di
presentare un bastone davanti all’altare di Dio, e che racconta di come tra questi solo quello di
Aronne fiorì e diede come frutto una mandorla (Num 17, 16-25). Il Nisseno in questa
occasione, che evidentemente reputa di particolare importanza, anticipa la tesi che vuole
sviluppare, usando subito il verbo διδάσκει (VM II 284, 6), e lo ripete all’inizio del capitolo
successivo (VM II 284, 1), facendo quindi seguire il racconto dell’episodio, che portò il
popolo ad essere educato (ἐπαιδεύθη: VM II 285, 1): non bisogna infine dimenticare che lo
stesso verbo παιδεύει (VM II 282, 2) apre, qualche capitolo prima, l’insegnamento
sull’orgoglio appena precedente, che fa da preambolo alla discussione sulla dignità
sacerdotale.
La famiglia lessicale legata al verbo διδάσκειν presenta termini per lo più neutri, che non
rivestono una connotazione di valore, ma la ricevono dal contesto entro cui sono inseriti.
47
Cf. IE 382, 18-21: ὅπερ οὖν ἐκεῖ ἐν τῷ εὐαγγελίῳ παρὰ τῆς δεσποτικῆς φωνῆς ἐπαιδεύθηµεν, τοῦτο νῦν καὶ ἐν
τῷ αἰνίγµατι τοῦ ἐκκλησια στοῦ ἐδιδάχθηµεν, ὅτι κτλ.
48 Cf. ad esempio TS 276, 5, dove il termine indica una conseguenza logica, l’azione della ragione; allo stesso
modo in SST I 93, 14 si legge il verbo προδιδάσκω, che vuole indicare un insegnamento che si sarebbe dovuto
ricercare nell’argomentazione precedente.
49 Questi alcuni luoghi - senza ovviamente pretesa di esaustività - in cui il verbo διδάσκειν o il sostantivo
διδασκαλία sono riferiti alle Scritture (ivi comprendendo anche i riferimenti all’autorità Mosaica, a Davide e a
Paolo, oltre che alle citazioni evangeliche): AC 325, 20; AdS 63, 23; AdT 124, 19; AdvM 97, 30; 98, 2; AnAp 141,
20; 164, 15; 163, 12; 164, 15; 192, 2; 209, 8; ApH 32, 11; 33, 19; 55, 17; 58, 16; DB 134, 15; DBen 104, 15; DI
48, 12.15; 54, 17; DPr 141, 27; DV 312, 24; 329, 1; EpC 10, 10; IC 26, 15; 45, 5; 46, 5; 133, 10; 162, 6; 179, 21;
181, 8; 198, 3; 269, 5; 277, 6; 280, 11; 293, 5; 301, 2; 303, 6; 304, 4; 314, 4; 352, 14; 394, 21; 437, 12; 451, 15;
461, 9; 465, 2; IE 305, 16; 314, 12; 384, 18; 399, 7; IPS 62, 26; 63, 24; 69, 13; 88, 22; 89, 1; 93, 5; 96, 19; 106,
10; 110, 1; 126, 7; 134, 2; 155, 18; 173, 12; ISS 188, 1; OD 69, 26; SST I 91, 15. Occorrenze particolarmente
significative sono commentate a parte.
50 Cf. ad es. VM II 21, 1 (seguito in 21, 2 da µυστήριον); II 22, 2; II 152, 6.
51 Cf. VM II 283-284.
39
Il termine διδάσκαλος, ad esempio, indica per lo più un maestro di virtù: nell’orazione
funebre In Flacillam 52 il nome è riferito presumibilmente al vescovo di Costantinopoli del
tempo, Nettario, che sostituì Gregorio di Nazianzo alla guida della chiesa metropolitana dopo
il 381, anno delle dimissioni di quest’ultimo53; διδάσκαλος nell’omelia In diem luminum54 è
invece riferito a Gezabele, che per il suo sposo Acab fu maestra di nefandezze (cf. 1Reg 29
ss.).
Allo stesso modo διδασκαλία può esprimere sia gli insegnamenti della Scrittura (in un
numero di occorrenze in questo senso però nettamente prevalente) sia le opere del nemico. In
quest’ultima accezione il termine è usato, ad esempio, a commento di Num 22, 2-24, 25 nel
quale si narra che il re Moab, che governava sulle terre tra Gerico e il Giordano, avendo paura
degli Israeliti chiese all’indovino Balaam di maledirli. Il racconto biblico presenta questo
indovino come un uomo timorato del Signore: egli infatti inizialmente si rifiutò, per
ispirazione divina, di seguire i messaggeri di Moab; quando si mise infine in cammino, la sua
asina riconobbe sulla strada l’angelo del Signore e, dopo essere stata percossa tre volte, parlò
al suo padrone, che così ebbe la possibilità di vederlo anch’egli. Pur essendogli state promesse
ingenti ricchezze, il saggio veggente le rifiutò, essendogli impossibile pronunciare parole
diverse dalla volontà del Signore. Per tre volte benedisse il popolo di Israele invece che
maledirlo, e fu per questo mandato via. Il Nisseno, raccontando e commentando questo
episodio nel De vita Moysis 55, lo modifica leggermente: il vescovo presenta infatti Balaam
piuttosto come un sacerdote pagano, un uomo che pratica strane pratiche magiche grazie agli
aruspici e all’ausilio di demoni, fatto su cui il testo sacro non si sofferma; il veggente, nel
racconto del Nisseno, sembra piegarsi al volere divino per una violenza piuttosto che per una
accettazione della volontà di questi che gli si rivela. Allo stesso modo, nel commento al passo
la sua figura esemplifica un espediente del nemico che, non riuscendo più a operare danni
tramite assalti frontali, è costretto ad architettare nuove insidie. Riecheggiando testi
apologetici che deprecavano la pratica divinatoria e i sacrifici degli antichi, il Nisseno
polemizza contro coloro che seguono insegnamenti che vengono da animali irrazionali
(διδάσκεται: VM I 73, 13; µαθών: VM I 74, 2; ἐκ τῆς φωνῆς τῶν ἀλόγων διδασκαλίαν: VM II
52
Cf. IF 475, 12; 476, 3.16; 482, 26.
CACACE 2006, pp. 200-201: «Appunto a Nettario sembrano alludere gli appellativi οἰκόνοµος e διδάσκαλος,
che, rinviando anche al contesto della ripresa origeniana, pongono in risalto il compito di depositario e maestro
delle verità di fede, di cui egli era investito in qualità di vescovo della Nuova Roma. Non è peraltro da escludere
che le due definizioni rispondano alla volontà d’ironizzare su questo personaggio, del tutto incolore sotto il
profilo dottrinale – ma proprio per questo gradito ai numerosi ariani della capitale – e che per di più, a differenza
del Nazianzeno, non ebbe fama di oratore particolarmente brillante, ragion per cui la sua elezione non fu in alcun
modo osteggiata neppure dalle sedi ecclesiali, che fieramente contendevano il primato a Costantinopoli».
54 Cf. IDL 234, 3-14.
55 Cf. VM I 73-74 e VM II 291-296.
40
53
293, 11); la divinità tuttavia si serve anche di questo per educare (ἐξεπαιδεύθη: VM II 293, 13)
ad una retta concezione di sé.
In un passo del piccolo trattato Ad Ablabium 56, la διδασκαλία è precisata in maniera
negativa: il Nisseno, trattando dell’uso dei nomi la Scrittura per evitare che a partire da esso si
parli di tre dei invece che della trinità, puntualizza come la parola rivelata non voglia offrire
un insegnamento tecnico sull’uso delle parole (τινα τεχνικὴν περὶ ῥηµάτων διδασκαλίαν: AdA
54, 9-10), quanto piuttosto accolga la consuetudine umana per esprimer un utile nei confronti
di chi la accolga (ἐπωφελὴς [...] τοῖς δεχοµένοις: AdA 54, 12-13): non sarebbe difficile,
afferma Gregorio, citare passi in cui la Scrittura non manifesta una padronanza perfetta della
lingua; il vescovo tiene comunque a precisare che in quei passi la cui comprensione scorretta
potrebbe arrecare danno sono sempre ben ponderati e precisi57 . Come si legge poi nel De
professione, la malvagità insita nell’avidità insegna (διδάσκουσαν: DPr 141, 11) a compiere
ciò che si era solo pensato. Il termine διδασκαλία è utilizzato in riferimento all’insegnamento
dei demoni anche in AdE 9, 19 o in DV 282, 16; sulla stessa linea si colloca l’orazione In
Basilium fratrem, in cui le eresie sono bollate come insegnamento, degno di asini, dei demoni
(τῇ ὀνώδει διδασκαλίᾳ τῶν δαιµόνων: IB 129, 13).
Altrettanto vale per i termini δόγµα58 e δίδαγµα59 : se per lo più essi indicano un
insegnamento rivelato, con il quale confrontarsi razionalmente e di cui proporre un’esegesi,
nell’opera di Gregorio si offrono anche attestazioni rivolte ad altre dottrine; la relazione
educativa tuttavia è sempre immutata.
Nell’Oratio catechetica magna, ad esempio, la parola δόγµα viene utilizzata per indicare
una qualsiasi dottrina, riguardi essa l’ellenismo, il giudaismo o il cristianesimo o una sua
eresia, che attraverso i suoi insegnamenti ha formato un pensiero e una tradizione60 ; nell’Ad
Theophilum lo stesso termine viene usato per lo più per indicare le dottrine professate da
Apollinare, quindi eretiche. Allo stesso modo tuttavia possono indicare gli insegnamenti della
Scrittura. Nell’Antirrheticus adversus Apolinarium con questa parola connota senza
apprezzabili differenze gli insegnamenti veritieri e le dottrine eretiche contro cui Gregorio si
scaglia61.
56
Cf. AdA 54, 4-20.
Cf. AdA 54, 18-20: ἐν οἷς δὲ κίνδυνός ἐστι βλαβῆναί τι τῆς ἀληθείας, οὐκέτι τὸ ἀβασάνιστόν τε καὶ ἀδιάφορον
ἐν τοῖς γραφικοῖς εὑρίσκεται ῥήµασιν.
58 Queste alcune attestazioni del termine (l’elenco non ha pretese di esaustività): AdA 38, 14; 39, 12.17; 41, 15;
42, 2; 47, 2; AnAp 177, 28; 185, 27; 197, 4; 231, 16; DB 108, 16; DDe 335, 17; IC 180, 13; 343, 2; 345, 9; 347,
11; 349, 19; 393, 21; 457, 19; IPS 47, 22; 47, 2; TeI 3, 10; 10, 9; 13, 10; 19, 6; 22, 22; 28, 15.
59 Cf. ad es. IC 42, 1; 98, 2; 126, 1; 176, 5; 196, 5; 224, 6.8; 236, 4; 263, 13; 301, 16; 398, 19; 400, 1; 403, 18.
60 Alcune occorrenze significative nell’opera: OC 13, 26; 13, 26; 14, 4; 26, 17; 27, 17; 30, 1; 46, 16; 52, 24.
61 Cf. AdT 120, 12.18; 121, 9. Con il termine si indicano insegnamenti non conformi alla verità anche in AnAp
142, 23; 143, 5.7; 144, 23; 150, 8.12; 156, 12; 183, 5; 197, 4; 212, 26; 215, 9.
41
57
Mostra un significato più specifico il verbo δογµατίζειν, che indica le conseguenze di un
certo insegnamento, che normalmente62 mostrano una valenza negativa rispetto al più comune
διδάσκειν. Nell’Oratio catechetica magna 63 il Nisseno usa infatti il verbo per indicare ciò che
consegue alle affermazioni che non vedono degni di Dio gli stadi della vita umana. Gregorio
tuttavia ricorda come una sola cosa è male per natura, vale a dire il vizio, la privazione del
bene; la divinità può quindi a buon diritto assumere ciò che non mescola a sé qualcosa di
contrario. Tale insegnamento (δογµατίζοντες: OC 38, 3) va dunque contro l’essenza della
ragione (ἀλογίας: OC 38, 3). Nel trattato Adversus Macedonianos64 i nuovi maestri che
educano a verità eretiche nei confronti dello Spirito sono identificati con il termine
δογµατισταί (AdvM 95, 8); la loro azione è conseguentemente un δογµατίζουσι (AdvM 95, 15;
δογµατιζόντων: AdvM 98, 22), proporre insegnamenti, in questo caso fallaci. Il loro accordo è
tuttavia puramente interno (συµµαρτυροῦντες: AdvM 95, 20), senza estendersi alle Scritture.
Il verbo διδάσκειν può naturalmente essere usato anche in una accezione che tenga meno
conto dell’aspetto educativo, mettendo in risalto piuttosto quello conoscitivo: in IE 304, 8, ad
esempio, si legge come un certo uso della scrittura insegni (διδάσκει) il significato di certi
termini; non si può tuttavia riconoscere nel passo una valenza altra da quello della pura
conoscenza.
3.
La famiglia riconducibile a µανθάνειν
Il dedicatario - non meglio determinabile - dell’In iscriptiones Psalmorum è definito in IPS
167, 18 φιλοµαθής; allo stesso modo, nell’omelia De tridui spatio si legge che per
approcciarsi ai grandi misteri che propongono i racconti evangelici gli uomini devono essere
φιλοµαθεστέρους (TS 290, 19), quanto più possibile amanti dell’imparare. La famiglia
62
Cf. Invece nell’Ad Graecos, dove il verbo può indicare sia la professione di verità conformi alla fede cristiana
che degli insegnamenti da considerarsi eretici. Per i due diversi significati nel trattato, cf. AdG 19, 4 e AdG 32,
26.
63 Cf. OC 37, 16-38, 4
64 Cf. AdvM 95, 1-26.
42
lessicale legata al verbo µανθάνειν65 esprime dunque l’aspetto più recettivo del rapporto
educativo, che tuttavia non prescinde dalla decisione dell’uomo ma necessita di ragione e
desiderio per essere attuato66 . Come per i termini precedenti, l’attuarsi di questa dinamica ha
come secondo protagonista del rapporto o un altro uomo o la divinità, che mostra il suo
insegnamento per lo più attraverso la parola ispirata.
Il verbo µανθάνειν può indicare anche la conclusione di un ragionamento cui si perviene
attraverso l’autorità delle Scritture. Ad esempio, nel trattato trattato In Illud: Tunc et Ipse
Filius67 Gregorio interpreta la ὑποταγή del Figlio al Padre, il versetto paolino di 1Cor 15, 28,
come sottomissione della sua umanità, e quindi del suo corpo mistico; riecheggiando Ps 62, 2,
che riconosce che la salvezza dell’uomo consiste nell’essere sottomesso alla divinità, il
Nisseno dunque afferma imparare (µανθάνοµεν: TeI 21, 3) attraverso questi testi a credere che
non ci sarà nulla al di fuori ciò che sarà salvato, nulla che, al tempo della parusia, non sarà
parte del corpo di Cristo. Il male, ciò che per natura stessa di Dio non può parteciparvi, cadrà
quindi definitivamente nel non essere.
Allo stesso modo, µανθάνειν è riferito anche, più comunemente, alle proprie conoscenze
maturate attraverso le diverse letture: trattando infatti nell’omelia De tridui spatio 68 del
problema della triplice presenza di Cristo durante il triduum mortis nelle braccia del Padre,
nel Paradiso e negli Inferi69, Gregorio afferma di aver appreso (µαθών: TS 291, 11) da altri
una spiegazione che si accinge ad illustrare. Allo stesso modo, il verbo è utilizzato poche
pagine dopo per esprimere un insegnamento (µαθεῖν: TS 302, 19) mutuata dall’esperienza dei
marinai70 : per spiegare l’apice (κεραία), il segno della Legge che Cristo disse che non sarebbe
cambiato a fronte del cambiamento della terra e del cielo (cf. Matth 5, 18), il Nisseno ricorda
come lo stesso termine, nel linguaggio nautico, indichi il pennone, il braccio ligneo
trasversale ad un albero che sostiene una vela. Il simbolo cui ci si richiama e di cui si vuole
65
Questi alcuni passi in cui si riscontra il verbo µανθάνειν (l’elenco non ha pretese di esaustività): AdvM 98, 1;
AnAp 133, 6; 149, 23; 193, 18; 212, 3; ApH 32, 10; DIP 83, 14; 94, 3; DPe 177, 2; 201, 15; 203, 15; DV 313, 4;
316, 14; 327, 15; IC 34, 1; 35, 5; 50, 17; 52, 14.18; 77, 1; 110, 3; 112, 4; 127, 12; 161, 17; 173, 2; 179, 21; 231,
5; 267, 6; 172, 22; 277, 8; 292, 10; 310, 14; 312, 7; 320, 17; 325, 19; 330, 15; 333, 12; 377, 21; 390, 18; 392, 2;
416, 12.15; 436, 5; 437, 12; 444, 11; 459, 5; 464, 5; IE 344, 22; 398, 11; IPS 75, 10; QuEH 113, 16; VM I 5, 8; II
10, 7; II 39, 5; II 75, 2; II 101, 2; II 138, 1; II 196, 1; II 215, 6; II 229, 5; II 248, 6; 303, 1. Occorrenze
particolarmente significative non in elenco sono commentate a parte. Un uso di questo verbo riferito alla
Scrittura non legato propriamente ad un contesto educativo è presente nel passo IC 291, 21: οὐχ ὡς ἐπὶ τοῦ
Παύλου τε καὶ Ἀπολλῶ µεµαθήκαµεν ὡς…, dove si ricorda una storia appresa dalla Scrittura, ma senza che essa
dia adito ad un commento morale. Il verbo lega l’educazione alla conseguenza di un ragionamento ad es. in AdA
42, 8; 45, 5; 47, 22; 49, 8; 57, 3 (seguito da ἐδιδάχθηµεν); AnAp 186, 8; Aph 52, 10.14; 56, 2; TeI 6,9; IPS 91, 8;
94, 22; 129, 1; 140, 28; 154, 14; 159, 1; 163, 15.
66 Cf. TS 280, 14.
67 Cf. TeI passim; per questo passo specialmente cf. TeI 20, 8-21,3.
68 Cf. ad es. TS 290, 18-294, 13, dove il verbo µανθάνειν è usato in rapporto al desiderio di coloro che si
accostano alle parole che Gregorio pronuncerà sul periodo del triduo tra la morte e la resurrezione: l’uomo che
ad esse si avvicina vuole imparare, essere educato.
69 Cf. anche PIETRELLA 2009, p. 136, n. 174.
70 Cf. TS 302, 16-303, 2.
43
spiegare la necessità è dunque, attraverso gli enigmi e lo specchio scritturistici71 , quello della
croce. Affini all’esercizio del “comprendere”, sempre legato però a una previa educazione o
alle conseguenze logiche di un ragionamento, sono anche ad esempio il µαθών di DM 61, 24,
il µαθεῖν di QuEH 122, 16; QuEH 124, 25, l’ἐµάθοµεν di IB 117, 20 e il µεµαθήκαµεν di DM
66, 23.
I composti rispecchiano il valore del verbo semplice, approfondendone il significato; si
richiama in questa sede solo l’uso di καταµανθάνειν, attraverso cui, come si evince ad
esempio da OC 77, 22 o DDe 340, 21, il Nisseno vuole indicare la massima profondità che un
uomo può raggiungere in una dinamica educativa o nella comprensione di un mistero. Esso si
ritrova, ad esempio, in XLM II 161, 4, dove il verbo indica la conoscenza della fede dei
martiri di Sebaste, che fu per il giudice somma testimonianza, benché questo non evitò loro la
condanna; in IC 176, 12 con esso il Nisseno vuole indica un imparare dell’anima che
scaturisce da una previa percezione della bellezza del Logos, che le consente un sempre
continuo progresso. In AnAp 170, 12 infine si legge il composto προκαταµανθάνειν: nel passo
si discute della θαυµατοποιΐᾳ di Elia, nella quale chi fosse stato preventivamente educato con
profondità avrebbe riconosciuto la profonda verità, nascosta nelle ombre delle Scritture.
Legato alla stessa radice di questa famiglia è anche il verbo µαθητεύειν72, che indica
anch’esso un atto di discepolanza; è utilizzato, ad esempio, nel trattato Ad Eustathium 73, dove
si legge che le parole di Cristo diedero la fede salvifica a coloro che furono ammaestrati dalla
sua parola, che rivelò la profonda unità del Figlio, del Padre e dello Spirito.
Il verbo µανθάνειν è usato invece in un contesto molto più slegato dall’ambito
dell’educazione, ma più vicino a quello della sola comprensione intellettuale, in AdvM 113,
24, laddove il Nisseno rivela come sia lecito imparare ancora dagli eretici come essi, nella
loro adorazione del Padre, non tengano affatto presente nella loro mente anche l’Unigenito e
lo Spirito.
Privo di connotazione educativa è anche l’ἐµάθοµεν di IE 298, 5 tramite cui si apre la
seconda omelia dell’opera: il verbo infatti richiama semplicemente a qualcosa che si era
imparato in precedenza. Allo stesso modo, all’inizio della terza omelia74 il verbo è richiamato
71
Cf. TS 303, 6-7, che cita 1Cor. 13, 12.
Questi alcuni passi (l’elenco non ha pretese di esaustività): AdE 7, 18; AdG 27, 14; IB 134, 10; IDL 239, 12;
CE I 1, 89, 1; II 1, 414, 8; III 9, 62, 7; III 10, 13, 8; IC 40, 14; 45, 20; 46, 7; 47, 2; 50, 6; 131, 7; 134, 5; 134, 18;
315, 16; 416, 12.
73 Cf. AdE 7, 17-19: παραδιδοὺς ὁ κύριος τὴν σωτήριον πίστιν τοῖς µαθητευοµένοις τῷ λόγῳ, τῷ πατρὶ καὶ τῷ
υἱῷ συνάπτει καὶ τὸ πνεῦµα τὸ ἅγιον.
74 Cf. IE 314, 12-315, 9. Il verbo ricorre in IE 314, 13.14 e 315, 2.9.
44
72
più volte durante la sintesi dei passi precedentemente compiuti; l’aspetto educativo anche in
questo caso, pur sempre in sottofondo, è sottomesso alla constatazione dell’apporto
conoscitivo che i precedenti discorsi avevano offerto. Indica un puro desiderio di sapere
l’ἡδέως ἂν µάθοιµι di IE 339, 22; così connotabili sono anche tutte quelle forme del verbo che
fungono da raccordo tra le sezioni della stessa opera75 .
Presentano valore di ricapitolazione degli insegnamenti precedenti anche l’ἐδιδάχθηµεν di
IE 404, 17 e l’ἐµάθοµεν di IE 412, 1576; non si esclude che sia presente una sfumatura legata
all’aspetto educativo. Come si potrebbe concludere dalle occorrenze dei due verbi nel De
virginitate, un riferimento meno insistito all’ambito paideutico è un uso semantico legato ad
un minore impegno pastorale.
3.1.
Termini paideutici riferiti alle eresie
Dal punto di vista terminologico, occorre notare come, se anche il lessico paideutico fin
qui analizzato nelle opere del Nisseno è per la maggior parte riferito al buon insegnamento
delle Scritture e della Chiesa, non manca qualche occorrenza che lo colleghi anche agli
eretici. Tale uso è comune per il termine δόγµα; molto meno presente è invece un utilizzo
negativo di διδασκαλία o del verbo παιδεύειν. Questa ultima possibilità trova un riscontro
nelle prime pagine del Antirrheticus adversus Apolinarium 77. L’incipit dell’opera presenta
infatti una insistita ricorrenza del termine διδασκαλία. Esso viene riferito innanzitutto
all’insegnamento evangelico (AnAp 131, 12), che offre un sicuro appiglio sulla base del quale
si può esercitare il proprio giudizio (κατά γε τὴν ἐµὴν κρίσιν: AnAp 131, 13), dando come
pietra di paragone per l’operato di un uomo i frutti che porta (cf. Matth 7, 16); poco più
avanti, l’insegnamento diventa ciò che lascia sull’uomo un segno indelebile, attraverso cui si
può entrare a far parte del gregge divino, così come le verghe che Giacobbe pose vicino al
gregge di Labano gli diedero la possibilità di ingrossare il proprio. Frutto dell’insegnamento è
quindi detto essere l’approfondirsi della verità (ἡ τῆς ἀληθείας ἐπαύξησις: AnAp 132, 3), che
si può verificare solo in una stratta sequela della tradizione dei padri (τῶν πατρικῶν
παραδόσεων: AnAp 132, 10); in caso contrario, tale insegnamento rivelerebbe piuttosto la
natura malvagia, da lupo, di chi lo impartisce. Scopo dell’opera diventa quindi per Gregorio
vedere se l’insegnamento di cui si era fatto carico Apollinare sia in difesa o miri alla
distruzione dell’insegnamento dei padri (τῶν πατρῴων δογµάτων: AnAp 132, 18). Come si
75
Cf. ad es. IE 360, 17; 372, 16.
Così anche i verbi ἐδίδαξεν … µαθόντες di IE 424, 18.
77 Cf. AnAp 131, 1-136, 12. Il termine διδασκαλία è presente in 131, 12.20; 132, 1.12.16; si sottolinea anche la
presenza del termine δόγµα in 132, 18.31; 135, 27; 136, 1.14.
45
76
legge quindi poche pagine più avanti, le sue sono parole eretiche che trascinano nello stesso
errore anche chi si facesse educare (πεπαίδευται: AnAp 135, 26) da esse. Il termine ritorna
molte pagine più avanti, in AnAp 199, 21, dove Apollinare e altri eretici sono detti educare
(πεπαιδευµένων) e insegnare (διδασκέτωσαν: AnAp 199, 16) concezioni lontane dalla verità,
di cui tuttavia chi è attento può comprendere (µάθοιµι: AnAp 199, 20) la falsità. Con tale
accezione, il verbo è usato anche in AnAp 205, 4.11. Anche in seguito Apollinare, avendo
usato per il logos incarnato la caratterizzazione di ἀνθρωπόθεος (AnAp 214, 21), è accusato di
dileggiare il mistero divino alla stregua dei mitografi antichi; questo nuovo creatore di favole
si comporta tuttavia conformemente a coloro che lo hanno educato (κατὰ τοὺς διδασκάλους:
AnAp 214, 29-30) in questa creazione del pensiero; allo stesso modo, poco oltre i Greci
saranno detti falsamente ammaestrati (µάθοντες: AnAp 216, 5) da Apollinare stesso: la
dottrina dell’eretico è costituita comunque da διδάγµατα (AnAp 232, 27). Un simile uso del
lessico educativo raggiunge infine la massima ironia nell’esortazione che Gregorio rivolge ai
discepoli dell’errore, invitandoli ad ascoltare contro chi combatte il loro maestro, e per quali
premi si affatica78. Come si legge nell’Ad Eustathium79 infatti ciò che qualsiasi dottrina
professa deve essere vagliato alla luce della parola ispirata, unica ancora del vero
insegnamento (ἡ τῆς γραφῆς διδασκαλία: AdE 6, 22): ancora nell’Ad Theophilum80 si legge
infatti come l’impossibilità di prendere in considerazione l’ipotesi della separazione tra un
figlio di Dio carnale ed il Logos è determinata dall’assenza di un simile insegnamento (οὔτε
ἐµάθοµεν: AdT 126, 2) nelle Scritture, insieme alla ragione che non è condotta a queste
conseguenze da nessuna necessità logica (οὔτε ἐξ ἀκολουθίας: AdT 126, 2).
4.
I termini della sequela: χειραγωγεῖν e χειραγωγία
Centrale nel pensiero del Nisseno, come si vedrà, è l’introduzione da parte della divinità
alle realtà ineffabili, cui l’uomo non può giungere con le sue sole forze; tale guida è espressa
78
Cf. AnAp 206, 25-26: ἀκουσάτωσαν οἱ µαθηταὶ τῆς ἀπάτης πρὸς τίνα τῷ διδασκάλῳ αὐτῶν καὶ περὶ τίνων ἡ
ἅµιλλα.
79 Il termine o suoi derivati si ritrovano in AdE 6, 4.13.
80 Cf. AdT 125, 22-126, 2.
46
per lo più attraverso l’uso della famiglia lessicale relata al termine χειραγωγεῖν81, un «verbo
[...] caro a Gregorio ad indicare il processo per cui il nostro intelletto si lascia guidare per
mano, cioè docilmente, dalla Scrittura e anche dalla percezione sensibile alla comprensione
delle realtà spirituali, divine»82, che traspone in ambito metafisico e teologico una azione
comune di aiuto a colui che è più debole83.
Nel De beatitudinibus84 Gregorio scrive che il Logos conduce per mano (χειραγωγῶν: DB
110, 13) lungo il cammino consequenziale delle beatitudini evangeliche. Allo stesso modo, il
termine χειραγωγία nella quinta omelia del De oratione dominica85 è usato per indicare
l’aiuto che perviene all’uomo grazie alla comprensione intellettuale delle realtà superiori
verso la vita eterna, la guida che lo conduce per mano ai beni eterni. La contemplazione che
l’uomo compie attraverso realtà convenienti, come si legge nell’Apologia in Hexameron,
conduce infatti per mano (χειραγωγοῦσα: ApH 54, 1) alla verità86 .
Nel De virginitate87 il verbo è utilizzato in correlazione stretta con il sostantivo di cui è
composto, in un gioco retorico che permette di identificare la mano che guida verso la visione
delle realtà superne con la partecipazione alla purezza.
Il χειραγωγεῖν dei Padri permette all’uomo di avere un punto di paragone certo cui
appigliarsi di fronte ai ragionamenti empi degli eretici88. Tale azione del è preoccupazione di
Gregorio stesso, che nell’Oratio catechetica magna89 si preoccupa di mostrare attraverso la
concatenazione logica del suo discorso il motivo dell’incarnazione divina.
81
I termini relativi a questa area lessicale mostrano le seguenti occorrenze (l’elenco non ha pretesa di
esaustività). Per quanto riguarda il verbo χειραγωγεῖν: AdE 8, 11; 11, 2; AnAp 188, 30; 220, 12; ApH 10, 11; 17,
5; CE I 1, 219, 6; I 1, 271, 4; I 1, 545, 9; I 1, 647, 1; II 1, 88, 4; II 1, 102, 7; II, 1, 242, 11; II 1, 419, 15; III 8, 10,
13; DB 110, 13; 138, 8; DB 138, 8; DDe 130, 7; DIP 86, 22; DPr 134, 11; DV 291, 16; 293, 23; DV 291, 16; 293,
23; 334, 23; EpC 1, 15; IAC 327, 10; IC 30, 4; 87, 6; 131, 10; 158, 20; 280, 4.13; 322, 16; 323, 1; 383, 19; IE
431, 18; IPS 89, 5; 110, 4; ISS 187, 6; OC 53, 6; 80, 17; OD 23, 13; QuEH 119, 1; SSP 309, 17; VG 57, 3; VM II
152, 2; II 178, 3; II 242, 5; VSM 372, 6; 397, 22; XLM Ia 139, 11.
Per quanto riguarda i sostantivi χειραγωγίαν e χειραγωγός: CE I 1, 295, 4; II 1, 615, 10; III 1, 76, 9; III 2, 160,
19; III 3, 5, 5; DB 167, 8; DPe 209, 21; DPy 103, 24; IC 4, 7; 10, 4; 62, 20; 178, 1; 218, 7; 304, 20; 386, 8; 429,
14; IP 466, 5; IPS 54, 14; 68, 2.6; OD 36, 11; 62, 19; TeI 8, 7.10; VSM 390, 9.
I termini più significativi saranno comunque commentati a parte.
82 SIMONETTI 1984, p. 306.
83 Tale significato più «concreto» si riscontra ad esempio nell’orazione funebre In Pulcheriam (IP 466, 5); in
essa il termine indica infatti coloro che conducono per mano chi, troppo avanti con gli anni, ha difficoltà
nell’incedere; anche in XLM Ia 139, 11 il verbo è utilizzato per indicare l’azione di un ragazzo che si prende cura
delle necessità di un vecchio, accompagnandolo e donandogli quasi nuovamente le sue capacità.
84 Cf. DB 110, 12-13: προϊὼν δι' ἀκολουθίας ὁ πρὸς τὰ ὑψηλότερα τῆς τῶν µακαρισµῶν κλίµακος χειραγωγῶν
ἡµᾶς λόγος, κτλ.
85 Cf. OD 62, 17-19: ἀλλὰ φιλοπονώτερον τὴν προκειµένην τῆς προςευχῆς ῥῆσιν κατανοήσωµεν, εἴ πως γένοιτό
τις καὶ ἡµῖν διὰ τῆς τοῦ νοήµατος θεωρίας πρὸς τὸν ὑψηλὸν βίον χειραγωγία.
86 Cf. ApH 53, 22-54, 1: πρόεισι διὰ τῶν εἰκότων ἡ θεωρία, χειραγωγοῦσα πρὸς τὴν ἀλήθειαν.
87 Cf. DV 254, 15-16: … ὥσπερ τινὰ χεῖρα τὴν τῆς καθαρότητος µετουσίαν ὀρέξασα [scil. ἡ φιλανθρωπία θεοῦ],
πάλιν ὀρθώσῃ καὶ πρὸς τὰ ἄνω βλέπειν χειραγωγήσῃ.
88 Cf. ad es. AnAp 188, 27-30.
89 Cf. OC 53, 5-7: τίς οὖν ἂν γένοιτο ἡµῖν ἀρχὴ πρὸς τὸν προκείµενον σκοπὸν ἀκολούθως χειραγωγοῦσα τὸν
λόγον;
47
Nel piccolo trattato De professione christiana il verbo χειραγωγεῖν è utilizzato per indicare
l’uso di molti nomi che esprimano in qualche modo la divinità, altrimenti ineffabile da parte
dei profeti e degli apostoli ispirati dallo Spirito Santo: attraverso queste denominazioni gli
uomini che raccolsero una simile tradizione (ἡµᾶς: DPr 134, 11) poterono essere guidati per
mano alla comprensione di concetti altrimenti inarrivabili. Il verbo indica dunque, come si
legge nell’Ad Eustatium, anche il modo in cui le ἐνέργειαι divine offrono all’uomo, per via di
analogia, indizi sulla divinità90 ; pur apprendendo (µαθόντες: AdE 14, 10) i nomi che esse
suggeriscono, occorre tuttavia imparare (ἐδιδάχθηµεν: AdE 14, 10) che la natura divina
rimane estranea a queste designazioni.
Il termine χειραγωγία descrive infine nell’In iscriptiones Psalmorum l’economia divina per
il riscatto dell’uomo: dopo la caduta della creatura e il suo abbandono della retta via, Dio
infatti la guidò per mano (χειραγωγίαν: IPS 54, 18) verso il meglio; in IPS 89, 5 il termine
χειραγογούµεθα indica allo stesso modo la guida alla vita virtuosa che offrono i due sensi in
cui si può intendere la parola ἐξοµολόγησις, vale a dire la dichiarazione dei peccati e il
rendimento di grazie. Nella Epistula canonica91 il Nisseno quindi usa il verbo (EpC 1, 15) per
indicare il cammino cui devono essere condotti i peccatori affinché nel giorno in cui si celebra
il passaggio di Cristo dalla morte alla vita, la Pasqua, non solo i catecumeni siano rigenerati
attraverso il battesimo, ma anche i loro siano ricondotti alla vita.
Tale famiglia lessicale porta in quasi la totalità delle sue occorrenze un valore
profondamente positivo, in quanto legata per lo più all’azione della divinità. Non manca
tuttavia qualche esempio che contempli anche altre possibilità.
Il sostantivo χειραγωγία, ad esempio, è utilizzato nella lettera De Pythonissa (DPy 103, 24)
per indicare la strada delle azioni future che indicherebbe la conoscenza del futuro rivelata
dalla magia, l’unica fonte di sapere che gli empi potrebbero sperare di conseguire: essa infatti,
come spiega il vescovo nella stessa opera, deriva dai demoni92; similmente, nel De virginitate
si afferma che la vanagloria introduce (χειραγωγούσης: DV 273, 16) ad una insaziabile
bramosia di avere sempre di più, che conduce all’ira e agli altri vizi. Da ultimo, in
conclusione dell’ottava omelia In Ecclesiasten il Nisseno passa in rassegna l’esercito delle
tentazioni, giungendo quindi a parlare dei traditori, di uomini che con le loro lusinghe tentano
di portare all’imitazione (πρὸς τὴν … µίµησιν: IE 431, 19) del loro malsano agire; tra costoro
Gregorio annovera anche coloro che conducono per mano (χειραγωγοῦντες: IE 431, 18) verso
90
Cf. AdE 10, 22-11, 3: ἐπεὶ δὲ ἡ µὲν ὑψηλοτέρα τῆς τῶν ζητούντων ἐστὶ κατανοήσεως, ἐκ δὲ τεκµηρίων τινῶν
περὶ τῶν διαφευγόντων τὴν γνῶσιν ἡµῶν στοχαστικῶς ἀναλογιζόµεθα, ἀνάγκη πᾶσα διὰ τῶν ἐνεργειῶν ἡµᾶς
χειρ αγωγεῖσθαι πρὸς τὴν τῆς θείας φύσεως ἔρευναν.
91 Cf. EpC 1, 4-16.
92 Cf. DPy 103, 15-104, 12.
48
i teatri e che fanno vedere la facilità del vizio, offrendo con il loro esempio una educazione al
male.
5.
I termini della sequela: ὑφηγεῖσθαι e ὑφήγησις
In un passo del De virginitate93 nel quale Gregorio si interroga sulla guida divina al
possesso del vero bene sono presenti i termini χειραγωγοῦσαν (DV 297, 14) e ὑφηγήσεως (DV
297, 15), quest’ultimo riferito in special modo alla guida delle Scritture. Il verbo ὑφηγέοµαι94
introduce spesso infatti una citazione biblica, per indicare la conduzione da parte della parola
ispirata95 . Un esempio particolarmente significativo è DV 321, 22, nel quale secondo l’autore
il salmista conduce (ὑφηγούµενος) all’insegnamento (διδασκαλίαν: DV 321, 21) sul
rendimento di grazie. Anche nel De beatitudinibus la parola dei salmi ὑφηγεῖται (DB 89, 10),
guida cioè alla comprensione.
Nella Vita Sanctae Macrinae96 il verbo ὑφηγέοµαι è usato per indicare l’atto del cantore
che conduce per primo alla preghiera e intona per l’assemblea le orazioni del rito, di modo
tale da costituire una guida cui conformarsi. In quel passo il Nisseno descrive la calca della
folla in chiesa per rendere l’ultimo omaggio alla santa; le preghiere suscitavano lamenti e
pianti che disturbavano la funzione. Il silenzio fu imposto a gesti con fatica, fino a che la folla
non fu ricondotta nel consueto ordine dal canto di colui che conduceva le orazioni.
Il termine ὑφήγησις si ritrova anche in DPe 199, 19. Il Nisseno sta delineando le
caratteristiche di Cristo capo della Chiesa e delle sue membra97 ; il sostantivo κεφαλἠ gli
consente anche un veloce parallelo con il mondo animale per sottolineare come la testa
impartisca i movimenti al corpo, utilizzando in particolare gli occhi e le orecchie; ὑφήγησις
evidenzia in questo passo i comandi, le direttive, la direzione che l’orecchio riceve e senza la
quale non può realizzare in modo appropriato ciò che l’animale si propone di fare. Gregorio fa
93
Cf. DV 297, 12-17.
I termini relativi a questa area lessicale mostrano le seguenti occorrenze (l’elenco non ha pretesa di
esaustività): CE I 1, 350, 2; II 1, 239, 5; II, 1, 242, 5; II, 1, 312, 8; II, 1, 398, 1; III, 10, 9, 6; DB 78, 14; 92, 7;
101, 16; 142, 6; DPe 173, 8; 175, 4; DPr 140, 12; DV 318, 25; 333, 22; IC 5,3; 6, 13; 27, 7; 44, 10; 46, 1; 63, 11;
72, 9; 122, 1; 126, 13; 131, 8; 177, 15; 198, 8; 217, 1; 218, 6; 228, 10; 317, 17; 328, 8; 423, 8; IE 280, 1; 292,
22; 350, 5; 354, 3; 371, 2; IPS 27, 3; 81, 26; OC 15, 15; 86, 9; VM I 61, 4; II 39, 1; II 50, 5; II 105, 3; II 273, 7. I
termini più significativi saranno comunque commentati a parte.
95 Cf. Ad es. DV 286, 6; DV 303, 12; DV 304, 22.
96 Cf. VSM 409, 2-8: … καὶ αἱ λοιπαὶ παρθένοι τὸ ἴσον µετ' αὐτῆς ἐξεβόησαν, σύγχυσις ἄτακτος τὴν εὔτακτον
ἐκείνην καὶ ἱεροπρεπῆ ψαλµῳδίαν διέχεε, πάντων πρὸς τὴν τῶν παρθένων οἰµωγὴν ἐπικλασθέντων. µόλις δέ
ποτε καὶ ἡµῶν τὴν σιωπὴν διανευόντων καὶ τοῦ κήρυκος εἰς εὐχὴν ὑφηγουµένου καὶ τὰς συνήθεις ἐµβοῶντος τῇ
ἐκκλησίᾳ φωνάς, κατέστη πρὸς τὸ σχῆµα τῆς εὐχῆς ὁ λαός.
97 Cf. DPe 197, 19-200, 3.
49
94
quindi in questo caso uso del termine per indicare qualcosa di esterno al soggetto che ne
direziona, o quanto meno ne modifica, l’agire.
Il verbo ὑφηγέοµαι non ha invece valore educativo, ad esempio, in incipit della settima
omelia In Ecclesiasten98; il Nisseno, per offrire una interpretazione di Eccl 3, 5 si richiama
infatti al costume ebraico della lapidazione, di cui si trova traccia nella Scrittura, ma che non
ha nessuna spiegazione dal punto di vista della Legge mosaica né è spiegata (ὑφηγεῖται: IE
391, 7) da qualche passaggio della storia di Israele. Significativamente nel passo si ritrova
anche il verbo µεµαθήκαµεν (IE 391, 2) e µάθοιµεν (IE 391, 14) senza sfumatura paideutica,
ma puramente conoscitiva: il discrimine sembra sia dato dall’assenza di riferimenti al campo
etico, necessariamente implicato nella pratica educativa. Tali usi si riscontrano in un contesto
di interpretazione letterale; che sia presente o meno una polemica contro l’esegesi letteralista
degli Antiocheni, come propone Leanza99, è significativo invece il fatto che una volta che
l’autore si riferisca invece ad una interpretazione a lui più congeniale tornino i riferimenti
all’ambito paideutico (διδασκόµεθα: IE 391, 16)
6.
La famiglia riconducibile a µαρτυρεῖν
Come si intuisce da un passo dell’Antirrheticus adversus Apolinarium 100, fondamento della
creazione di un insegnamento (δογµατοποιία: AnAp 191) che eviti derive ereticali è per lo più
la testimonianza (µαρτυρία: AnAp 191, 6) diretta della Scrittura o un ragionamento logico
(ἀκολουθία: AnAp 191, 5) che conduca a tali conseguenze; in mancanza di essi, ciò che viene
predicato non ha credibilità (τὸ πιστόν: AnAp 191, 7).
L’uomo è chiamato ad essere testimone della gloria divina: nell’Oratio catechetica magna
Gregorio ricorda infatti di come la divinità abbia creato una creatura capace di comprenderla
affinché la sua luce non mancasse di chi la contemplasse, né la sua bontà fosse senza
testimonianza (ἀµάρτυρον: OC 17, 4), né la sua bontà mancasse di chi ne godesse.
98
Cf. IE 391, 1-14.
Cf. LEANZA 1990, p. 138 n. 3.
100 Cf. AnAp 190, 26-191, 7. Nel passo si cita il verbo µαθεῖν (190, 31) con valore puramente conoscitivo, rivolto
agli scritti dell’eretico da cui si ricava il passo.
50
99
Con il verbo µαρτυρεῖν 101 Gregorio normalmente vuole presentare una attestazione
giuridica, una prova102 , sulla base della quale è possibile fondare una conoscenza certa. Primo
testimone è infatti Dio stesso, che rende testimonianza a se stesso (ὁ µαρτυρῶν ἑαυτῷ: IPS
130, 10) di fronte al consesso degli uomini, e ciò che Egli comunica attraverso le Scritture:
come Gregorio scrive nel secondo encomio In sanctum Stephanum103, Giovanni Battista
ricevette infatti la testimonianza (µεµαρτυρηµένος: SST II 102, 2) della bontà del suo
ministero dalle parole di Cristo stesso e le parole della Scrittura (l’esegeta cita Ps 131, 17).
Il verbo µαρτυρεῖν può introdurre una semplice citazione, avendo in questo caso il mero
valore di «attestare», come ad esempio in AnAp 198, 14 o nel successivo AnAp 198, 26, dove
il termine viene usato per esplicitare le dottrine di Apollinare. Lo stesso dicasi dell’occorrenza
del verbo in AnAp 207, 5, laddove la connessione del discorso ne attesta l’insensatezza104.
Il verbo e il nome ad esso collegato sembrano spesso termini tecnici del citazionismo
biblico105 che indichino il passo specifico della parola rivelata: nel piccolo trattato In Illud:
Tunc et Ipse Filius106 Gregorio scrive infatti che il suo discorso risulterebbe forse ancora più
chiaro ed efficace se riportasse altri passi biblici a sostegno oltre quelli già presi in esame;
preferisce tuttavia non produrre troppe testimonianze, per evitare eccessi.
Normalmente però i termini legati a tale famiglia sono usati per lo più in un significato più
pregnante, spesso in relazione ad una polemica contro gli eretici che prenda le mosse da passi
101
Questi alcuni passi delle occorrenze del verbo µαρτυρεῖν e del sostantivo µαρτυρία (l’elenco non ha pretese di
esaustività): AdA 42, 5; 45, 3; AdS 66, 5; AdvAS 80, 30; AnAp 148, 5; 148, 24; 151, 24; 175; 202, 18; 207, 25;
210, 22; DBen 106, 22; DM 47, 23; IDL 237, 20; SST I 91, 3; IC 78, 18; 92, 18; 150, 2; 187, 7-8.11; 188, 8; 189,
16; 215, 17; 265, 2; 268, 18; 275, 17; 276, 10; 289, 1; 291, 14; 331, 6; 293, 1; 306, 10; 317,19; 320, 12; 347, 19;
359, 18; 367, 5-6; 372, 8-9; 373, 6; 388, 23; 403, 23; 404, 3; 405, 20; 406, 14; 434, 1; 443, 4; 447, 16; IPS 55, 1;
56, 19; 59, 6; 64, 14; 130, 18; 144, 18; 159, 9.12; OD 68, 17; VM II 32, 5; 219, 5.9; 319, 15. Occorrenze
particolarmente significative non in elenco sono commentate a parte.
102 Cf. ad es. IPS 153, 4.25 Il verbo è inserito infatti nella riproposizione del Nisseno dell’episodio biblico che
vede Davide che, avendo in suo potere Saul addormentato, non lo uccise ma gli prese un lembo del mantello,
affinché questo fosse segno evidente (µαρτυρεῖ) del fatto che il futuro re di Israele aveva avuto in suo potere il
suo nemico e lo aveva lasciato andare (cf. 1Sam 24, 1-23). Da questo si può essere educati (παιδεύει: IPS 154, 4)
ad una corretta visione della forza di chi è saldo nelle virtù, che si rivolge no ai propri simili ma alle sue passioni.
103 Cf. SST II 101, 29-102, 6.
104 Cf. ad es. il termine µάρτυρες in DV 256, 18, laddove esso assume lo stesso valore di θεαταί, cui è accostato.
Anche la vecchiaia, come si legge in IPS 49, 23, µαρτύρεται attraverso la canizie e le rughe, scrive Gregorio, il
dolore eccessivo che porta con sé.
105 Nella Apologia in Hexaemeron, ad es., le citazioni della Genesi sono quasi sempre introdotte da µαρτύρεται.
106 Cf. TeI 23, 19-22: σαφέστερος δὲ γένοιτ' ἂν ἡµῖν ὁ λόγος καὶ ἐξ ἑτέρων τινῶν ἀποστολικῶν νοηµάτων ἐξ ὧν
ἑνὸς ἐπιµνησθήσοµαι µόνου, τὰς πολλὰς τῶν µαρτυριῶν, εὐλαβείᾳ τοῦ µὴ εἰς πλῆθος ἐκτεῖναι τὸν λόγον,
παραιτησάµενος.
51
delle Scritture107 ; ad esempio, nell’Oratio catechetica magna108 il termine µαρτυρία (OC 14,
20) è utilizzato in rapporto alla parola ispirata per caratterizzare un passo significativo
dell’Antico Testamento che consenta di vedere come anche in esso sia presente la menzione
delle tre ipostasi dell’unico Dio (Ps 32, 6); allo stesso modo, le parole del salmo valgono
come fatti degni di testimonianza (µαρτύρια: IPS 98, 28) dell’economia della salvezza che
vide Cristo ascendere al Padre.
Come il Nisseno scrive nel De perfectione109, l’aspetto fisico dei fratelli di Ruben, figli di
Giacobbe, testimoniava la loro parentela; in questo caso dunque la µαρτυρία mostra
un’evidenza che si pone da fattori fisici o comportamentali, indipendenti dal linguaggio e
riscontrabili nell’esperienza. Allo stesso modo i cristiani sono chiamati a mostrare nella loro
vita i caratteri del risorto, di modo tale che sia così testimoniata la loro fratellanza con
Cristo110.
Come si legge in IPS 92, 9, un racconto storico, sia esso ricavato dalla Scrittura o meno,
può dare una µαρτυρία; in un passo del Contra fatum111, ad esempio, il Nisseno oppone un
107
Si prenda come esempio la terza omelia de De oratione dominica (cf. OD 37, 8-44, 11), laddove commenta il
versetto del Padre Nostro che auspica la venuta del regno di Dio; dopo aver retoricamente ricordato che una vera
comprensione delle parole evangeliche potrebbe essere possibile solo per coloro ai quali lo spirito di verità rivela
i misteri nascosti (µυστήρια: OD 37, 14), Gregorio afferma come la signoria di Dio si eserciti non con la
sottomissione grazie a un potere tirannico e violento: la virtù deve essere infatti libera e senza padrone per poter
scegliere ogni momento il bene. L’inganno che ha provocato la caduta ha tuttavia in qualche modo contaminato
la giusta valutazione di esso e la scelta dell’uomo è rimasta per questo orientata verso il contrario di ciò a cui
secondo verità dovrebbe tendere: è questa la tirannide il cui giogo sottomette l’uomo. Chiedere che venga il
regno di Dio significa pregare che la forza creatrice della vita prenda nuovamente il potere, allontanando dalla
creatura le tenebre, facendolo partecipe della purezza divina. Il Nisseno approfondisce nuovamente il concetto di
regno contaminando il versetto matteano con una rara lezione del Vangelo di Luca nella quale l’avvento del
regno è sostituito da una invocazione allo Spirito Santo affinché scenda sull’uomo e lo purifichi: cf. OD 39,
18-19: ἐλθέτω τὸ ἅγιον πνεῦµά σου ἐφ' ἡµᾶς καὶ καθαρισάτω ἡµᾶς. Il problema filologico è discusso, con
appropriata bibliografia, in CALDARELLI 1983, p. 79 n. 15; la lezione ha una sua tradizione in alcuni codd.
medievali dei sec. XI e XII; Caldarelli accoglie quindi l’ipotesi che il passo fosse già presente nell’autentica
tradizione lucana a disposizione del Nisseno, perché «perfettamente in armonia con la concezione del Regno di
Dio esposta da Luca stesso nel Vangelo e negli Atti degli Apostoli, e risalente, probabilmente, alla forma stessa
della preghiera insegnata da Cristo, anche se nella pratica liturgica e individuale aveva preso il sopravvento la
versione di Matteo. A proposito del parallelismo tra il Regno di Dio e la venuta dello Spirito Santo purificatore
[…] Matteo, rivolgendosi soprattutto agli Israeliti, usava il termine ‹regno› a loro più familiare, mentre Luca, che
scrive per un pubblico più vasto, comprendente anche i gentili, fa sentire che s’instaura un ordine nuovo, il regno
di Dio sulla terra, quando il suo Spirito penetra i nostri cuori». La polemica che il vescovo instaura è rivolta
contro gli pneumatomachi, che mostrano di non aver imparato neppure a pregare (οἱ µηδέπω προσεύχεσθαι
µεµαθηκότες: OD 40, 10-11): contro di essi il Nisseno ricorda, sulla base della testimonianza (µαρτύρεται: OD
40, 18) appunto del versetto lucano, gli attributi propri dello Spirito, vale a dire la remissione dei peccati e la
purificazione; da questa testimonianza (µαρτυρήσας: OD 40, 19) si apprende anche senza errori la sua divinità. Il
Nisseno affianca quindi al passo una nuova testimonianza (προσµαρτυρεῖ: OD 41, 1; διαµαρτυρόµενος: OD 43,
17) di Paolo (Hebr. 1, 3) e altri insegnamenti delle Scritture (ἐκ τῆς θείας γραφῆς διδαχθείς: OD 41, 14), che
invece sottolineano e nuovamente attestano (προσµαρτυρεῖται: OD 43, 2) la pari dignità del Figlio e dello
Spirito; l’identità della attesta infine la comune natura (cf. OD 43, 12-13: τῆς δὲ κατὰ τὴν ἐνέργειαν ταὐτότητος
τὸ κοινὸν µαρτυρούσης τῆς φύσεως), secondo una logica che trova la sua più perfetta espressione nell’Ad
Ablabium.
108 Cf. OC 14, 14-24.
109 Cf. per tutto il passo DPe 200, 4-204, 8. Il termine µαρτυρία o quelli ad esso relati appaiono nel brano citato
in 203, 4; 203, 8; 204, 2.
110 Cf. DPe 203, 22-204, 3: οὐκοῦν εἰ διὰ τῶν τοιούτων καὶ ὁ ἡµέτερος χαρακτηρίζεται βίος, ἐναργῆ παρεξόµεθα
τῆς εὐγενείας ἡµῶν τὰ γνωρίσµατα, ὤστε τὸν ταῦτα καθορῶντα ἐν τῇ ζωῇ τῇ ἡµετέρᾳ προσµαρτυρεῖν ἡµῖν τὴν
πρὸς τὸν Χριστὸν ἀδελφότητα.
111 Cf. CF 60, 10-61, 20. Cf. in partic. CF 61, 8: ἡ καθ' ἡµᾶς ἱστορία µάρτυς ἐστίν.
52
esempio tratto dalla storia a lui contemporanea alle previsioni degli astrologhi, che
dovrebbero costituire una prova della veridicità del dominio del fato. L’episodio mostrerebbe
invece, a chi non si lascia ingannare dall’ambiguità con cui i demoni ammantano le loro
predizioni, la loro effettiva fallibilità: il vescovo ivi descrive infatti come un uomo di cui non
riporta il nome, ma che dall’ampia eco che ebbe nella letteratura coeva è facile riconoscere in
Procopio112 , fu spinto da una predizione ad una rivolta, che non ebbe l’esito sperato; molti
allora interpretarono la predizione in modo diverso, leggendovi il preannuncio della sconfitta.
Gregorio non esita a ritenere questa una prova forte (µέγα … τεκµήριον: CF 61, 19) della non
validità del determinismo astrologico.
L’avverarsi delle predizioni testimonierebbe (µαρτυρηθείσης: CF 49, 6) la veridicità delle
predizioni stesse di cui gli astri avevano offerto l’insegnamento (προσηµανθέντων: CF 49,
5)113. La µαρτυρία della storia, in special modo le calamità da essa narrate, ma anche
l’esperienza di ciascun uomo, sono tuttavia contrarie ad una simile interpretazione114 :
registrando infatti un avvenimento tragico del tempo115 , l’incendio di una grande città della
Bitinia, Gregorio ricorda la fine tragica di giovani, bambini e anziani che ivi perirono. Il fato
fu per tutti lo stesso, ma non era possibile che uomini tanto diversi, come testimoniano
(διαµαρτύρονται: CF 52, 15) l’età e la posizione, avessero ricevuto all’atto della nascita lo
stesso influsso degli astri. La testimonianza porta dunque una prova evidente che ha la
possibilità di fondare un ragionamento, se letta nel modo adeguato.
Gregorio nelle sue opere fa uso non solo del verbo semplice, ma anche dei suoi composti,
che oltre ad un significato similare a quello del verbo da cui derivano mostrano una maggiore
specializzazione semantica: tra essi i più importanti sono διαµαρτυρεῖν e προσµαρτυρεῖν 116.
Il verbo διαµεµαρτυρήσθω è usato in ApH 13, 12 per attestare e assicurare che le tesi che
verranno sostenute nell’opera non vogliono entrare in polemica con quelle del fratello Basilio:
esso può cedere il posto solo alla Scrittura; lo scritto di Gregorio non deve essere preso come
un insegnamento esegetico (διδασκαλίαν ἐξηγητικήν: ApH 14, 4), ma un esercizio
dell’intelletto che, se Dio vorrà, porterà a degli utili risultati. Il verbo pare infatti voler
112
Cf. BANDINI 2003 p. 165.
Cf. CF 48, 21-49, 6.
114 Cf. CF 50, 23-52, 1.
115 Cf. CF 52, 1-19.
116 Ad essi si dovrebbe aggiungere il verbo ἐπιµαρτυρεῖν; esso presenta tuttavia solo tre attestazioni, una delle
quali (CE III 5, 1, 3) si riferisce al semplice insegnamento della Scrittura. In OC 58, 20 il termine è usato per
indicare la testimonianza resa dagli angeli a Cristo alla sua nascita, mentre in VSM 371, 12 Gregorio sottolinea
come, avendo la propria esperienza come maestra, la sua ragione non avesse necessità di ricevere una
testimonianza da altri. Per inciso, Il verbo συµµαρτυρεῖν appare in IC 283, 15, non specifica però le fonti da cui
prende la notizia, quindi “è testimoniato comunemente”.
53
113
indicare una conseguenza che riceve la sua testimonianza da una evidenza previa, legata alla
natura profonda di un ente117. Allo stesso modo nell’In iscriptione Psalmorum la storia
d’Israele, richiamata secondo Gregorio in Ps 98, testimonia (διαµαρτύρεται: IPS 106, 4) la
presenza di Dio negli accadimenti del popolo eletto; la menzione della colonna di nubi ha la
funzione di prevenire invece una obiezione contro la possibilità che Dio si riveli per bocca di
un uomo: la testimonianza previa (προσµαρτυρήσειεν: IPS 106, 15) di tale evento atmosferico
infatti ha mostrato come la divinità non disdegni di manifestarsi attraverso realtà indegne.
Il verbo προσµαρτυρεῖν, oltre ad un significato orientato all’idea della testimonianza,
indica anche l’attestarsi di un pensiero a fronte di una riflessione precedente, un
riconoscimento basato su una osservazione. Il termine è utilizzato ad esempio in IB 132, 18
per indicare ciò che coloro vogliono guardare solo alla gloria mondana devono attestare di
nobile della vita di Basilio, ma di cui Gregorio non si cura di trattare. L’opera che mostra un
uso più insistito del verbo in tal senso è il Contra fatum 118. Quando ad esempio il vescovo di
Nissa obietta per la prima volta al pensatore che gli fa da interlocutore, per comprendere cosa
questi intenda nell’usare il termine εἱµαρµένη, se un dio o una forza che obbedisca ad un
volere ad essa superiore egli afferma che sarebbe più corretto προσµαρτυρεῖν (CF 37, 2),
riconoscere, attestare sulla base di un ragionamento logico che la tanto conclamata
onnipotenza di questa forza deve essere riferita piuttosto a colui che la guida (τῷ
προηγουµένῳ µᾶλλον ἢ τῷ ἑποµένῳ: CF 37, 1). Ad un significato simile sono da ricondurre
anche alcuni passi successivi119 , nei quali il verbo riporta conseguenze o presupposti delle
affermazioni del pensatore nelle quali viene conclamata e testimoniata la sua credenza, oltre
che discussa e confutata dalle parole del Nisseno. Lo stesso accade in CF 46, 25, dove il
termine indica nuovamente una illazione conseguente all’idea propugnata dal filosofo.
Tale significato si riscontra anche nell’Antirreheticus adversus Apolinarium120, laddove il
Nisseno afferma come chi sostenga che l’uomo sia dotato di anima, implica
(προσεµαρτύρησε: AnAp 141, 5) in lui la potenza del pensiero; così anche la Genesi (Gen 2,
19), quando mostra come l’uomo assegni il nome agli animali (προσµαρτυρεῖ: AnAp 144, 28),
rileva in lui la grazia dell’intelligenza121 . Poco oltre, in AnAp 168, 17, il verbo accompagnato
dal dativo ἀνθρωπίνῳ riconduce ad un intelletto puramente umano alcune affermazioni
117
Cf. AdvM 92, 14-19.
Cf. CF 36, 14-37, 11.
119 Cf. CF 42, 4.9.21.
120 Cf. AnAp 141, 3-7. Altre occorrenze del verbo nell’opera che non vengono citate in seguito ma presentano un
significato similare sono AnAp 172, 5; 174, 28; 196, 24; 228, 12.
121 Cf. AnAp 144, 28-145, 2.
54
118
eretiche degli ariani, che aveva combattuto lo stesso Apollinare, rendendo se stesso testimone
(µάρτυς: AnAp 168, 20) della duplice natura del Cristo in alcune sue affermazioni.
Anche il breve trattato Ad Simplicium 122 mostra come il verbo προσµαρτυρεῖν possa
esprimere una attestazione che l’uomo ricava da un ragionamento logico. In Cristo, scrive il
vescovo, si devono riconoscere due nature, la prima divina, la seconda umana, a motivo
dell’economia della salvezza: da ciò il ragionamento (ἀκολούθως: AdS 63, 16) porta a
riconoscere (προσµαρτυροῦµεν: AdS 63, 17) nel Logos come propria della natura divina
l’eternità e della condizione umana la creaturalità. Un uso similare si rileva più avanti,
laddove si estendono considerazioni (προσεµαρτύρησεν: AdS 67, 2) legate al Padre e al
Figlio, per concatenazione del ragionamento (ἀκολουθία τοῦ λόγου: AdS 67, 2), allo Spirito.
Nuove attestazioni del termine con lo stesso significato si può rilevare anche nel trattato
Adversus Macedonianos123: in esso il vescovo sottolinea ad esempio come solo una mancanza
nello Spirito di alcune tra le qualità che sono riconosciute come divine porterebbe alla
conseguenza accettabile (προσµαρτυροῦσι: AdvM 96, 16) che la sua dignità è minore rispetto
a quella del Padre e del Figlio; poco più avanti124 , il verbo rimarca ancora, in explicit di
ragionamento, le conseguenze che non bisogna dimenticare nella considerazione di questa
ipostasi della Trinità. Tali riflessioni potrebbero naturalmente anche portare a conseguenze
non fondate nella verità, come attesta l’uso che si riscontra in AdvM 97, 15, laddove il verbo è
riferito agli eretici125.
Il verbo προσµαρτυρεῖν è usato infine in AdA 38, 5 per indicare la professione di fede nella
divinità del Figlio e dello Spirito, che si opera anche attraverso la ragione.
122
Cf. AdS 63, 14-18.
Cf. AdvM 93, 14-16.
124 Cf. AdvM 94, 3-34; il termine si trova in 94, 33.
125 Si riferisce ancora ad una consequenzialità logica l’appunto di AdvM 110, 4-6 secondo cui la supplica a
qualcuno non testimoni (προσµαρτυρεῖ: AdvM 110 5) di per sé la sua magnificenza, bensì il bisogno di chi la
solleva (il vescovo vuole qui rimarcare come Dio non abbia bisogno di preghiere, ma le accetti per infinita
bontà); l’uso successivo del verbo, in AdvM 110, 9, si riferisce invece ad una semplice attestazione di
prerogative da parte dell’uomo allo Spirito, sempre in un contesto polemico nei confronti degli eretici.
55
123
56
Cap. I
εἰ γὰρ πάντα ἦν ἡµῖν καταληπτά,
οὐκ ἄν κρείττων ἦν ἡµῶν ὁ κρείττων
(SP 255, 25-26)
I.1
Ἐπιθυµία
Il tema dell’educazione nella riflessione matura del Nisseno deve essere analizzato
parallelamente alla riflessione sul compimento dell’uomo. Come si legge nel De mortuis1,
tutti gli uomini tendono per natura al bene; per raggiungere tale obiettivo, unico desiderabile,
non risparmiano nessuno sforzo, dirigendo a tale fine ogni proposito. Tale «originaria
inclinazione dell’uomo», elevato dal Nisseno a filosofema presente in moltissime opere, «non
è solo un postulato di derivazione socratica e platonica (cfr. Plat. Men. 77 D, Gorg. 466 B 468 C, Soph. 228 C, Tim. 86 E), quanto soprattutto un cardine dell’etica cristiana che
Gregorio sottolinea sempre con fermezza» 2: come ben scrive Zorzi, «nella Bibbia ebraica
l’uomo appare come un essere di desiderio in tutta la totalità della sua persona» 3.
Opere nelle quali più che altrove si affronta questo argomento sono le omelie In
Ecclesiasten e il De beatitudinibus. Nelle omelie di cui quest’ultimo scritto è costituito,
Gregorio identifica il compimento dell’uomo con il raggiungimento della vera beatitudine4 :
essa consiste nel possesso di tutto ciò che il proprio intelletto riconosca come buono, tale per
cui nessun desiderio che porti al bene rimanga non realizzato.
1
Cf. DM 29, 9-12: πᾶσιν ἀνθρώποις φυσική τις πρὸς τὸ καλὸν ἔγκειται σχέσις καὶ πρὸς τοῦτο κινεῖται πᾶσα
προαίρεσις τὸν τοῦ καλοῦ σκοπὸν πάσης τῆς κατὰ τὸν βίον σπουδῆς προβαλλοµένη.
2 LOZZA 1991, p. 87.
3 Zorzi 2007, pp. 160-161. La studiosa continua annotando che «la terminologia che si usa per dire il desiderio
religioso non è diversa da quella per indicare il desiderio profano. Sono in particolare due i temini specifici che
in ebraico indicano il desiderio, ‘wh e hmd. Essi possono tradursi con desiderare, avere voglia di, bramare e
nella LXX sono tradotti entrambi con ἐπιθυµεῖν. Sebbene il problema se essi siano sinonimi o affini è ancora
dibattuto, il verbo ‘wh indica un desiderio profondamente inscritto nel cuore dell’uomo, che proviene da un
bisogno esistenziale, che dà voce all’aspirazione di qualcosa di interno e profondo, mentre il è il verbo hdm che
indica il desiderio più profondamente mosso dall’ammirazione del bello, da quanto è visibile agli occhi, alla
bella apparenza, all’immagine esterna che fa supporre il valore e l’alto prezzo di una cosa. La LXX,
traducendolo con ἐπιθυµέω, ἐπιθυµία, metterà l’accento sull’effetto di una realtà affascinante. Spesso infatti il
termine designa il carattere prezioso degli oggetti su cui verte il desiderio. Esso è quindi meno astratto di ‘wh che
è più intrinseco, anche se in epoca più tarda i due spesso si identificano. Hdm potrebbe essere tradotto con
tendere a qualcosa, trovare qualcosa come delizioso e desiderabile (appunto per la sua forma o bellezza o
splendore) e quindi anche - di conseguenza - entrare in possesso di questa cosa» (Zorzi 2007, pp. 161-163).
4 Cf. DB 79, 26-80, 23. Cf. anche LOZZA 1991, p. 141: «La µακαριότης è simbolo e conseguenza insieme della
condizione di eterna beatitudine». Più chiaro ancora TARANTO 2009, p. 491: «desiderare di ottenere la
beatitudine significa perciò anelare all’Essere».
57
Se nella quarta omelia di quest’opera5 , dove si approfondisce il versetto matteano sulla
fame e sete di giustizia (Matth 5, 6), il Nisseno scrive che il desiderio dell’uomo è sempre
provocato da ciò che vede e sente o che in qualche modo gli appare non del tutto ignoto,
relando quindi in modo molto profondo la conoscenza della creatura alla materialità, la brama
di cui l’uomo partecipa tuttavia non deve essere ridotta alla sola materia: sin dall’incipit
dell’opera Gregorio aveva infatti dichiarato che la somma soddisfazione per l’uomo è solo la
partecipazione (µετουσίαν: DB 80, 22) della creatura alla vita della divinità, l’unico essere per
se stesso beato, che ha creato l’uomo a sua immagine e che lo chiama a sé attraverso il
desiderio che gli pone nel cuore6.
L’ἐπιθυµία è infatti ciò che permette il muoversi (κίνησις: EpC 3, 7) della creatura; per
questo Gregorio lo intende profondamente relato alla caratteristica precipua dell’uomo, il
λόγος, attraverso cui tale spinta è indirizzata verso il meglio 7. Tali facoltà sono dunque
interdipendenti, in quanto, se la ragione riconosce l’oggetto del desiderio 8, è appunto
l’ἐπιθυµητικὴ δύναµις (IC 119, 5) che permette al λόγος di raggiungere ciò che riconosce.
Una simile concezione permea, ad esempio, tutta l’Epistula canonica ad Letoium. L’opera
infatti si apre9 con la tripartizione classica dell’anima in facoltà logica, concupiscibile e
5
Cf. DB 111, 23-112, 1: τίς οὖν ἡ δικαιοσύνη; τοῦτο γὰρ οἶµαι δεῖν πρό τερον ἀνακαλυφθῆναι διὰ τοῦ λόγου, ὡς
ἂν τοῦ κατ' αὐτὴν κάλλους φανερωθέντος, οὕτως ἐν ἡµῖν κινηθείη πρὸς τὴν ὥραν τοῦ φανέντος ἡ ὄρεξις. οὐδὲ
γάρ ἐστι δυνατὸν πρὸς τὸ µὴ φαινόµενον ἐπιθυµητικῶς ἔχειν, ἀλλ' ἀργή πως ἐπὶ τὸ ἄγνωστόν ἐστιν ἡ φύσις
ἡµῶν καὶ ἀκίνητος, εἰ µὴ δι' ἀκοῆς ἢ ὄψεως ἔννοιάν τινα τοῦ ἐπιθυµητοῦ λάβοι.
6 Si legga anche TARANTO 2009, p. 57: «il bene, per sua stessa necessità, determina il movimento di quelle
sostanze le quali, in quanto possiedono una sorta di “connaturalità” con lui, tendono verso di esso. Tale forza di
attrazione è ancora maggiore quando essa è esercitata dal bene assoluto nei confronti delle nature intelligenti
sensibili; queste riproducono l’immagine del Bene, e pertanto si correlano a lui attraverso un legame sostanziale
di elezione»; giustamente commenta anche DESALVO 1996, p. 59 che «la dimensione del desiderio è
caratteristica della natura creata umana nella sua strutturale dipendenza dall'Essere, di cui i suoi bisogni sono
segno».
7 Cf. ad es. DM 28, 4-31, 19. Tale opera si apre infatti con una riflessione sulla vita umana: molti infatti stimano
una perdita, per una consuetudine irrazionale, il destino inevitabile di coloro che passano alla vita incorporea.
Caratteristica dell’uomo è tuttavia la ragione: solo attraverso questo strumento l’uomo può comprendere cosa sia
davvero ciò che è conforme alla realtà e desiderabile. Occorrerà dunque riflettere su cosa sia il vero bene ed
esprimere in base a questo il proprio giudizio, che dovrà guidare l’intelletto (ὁδηγήσει … διάνοιαν: DM 31,
18-19), evitando quelle strade che altrimenti condurrebbero all’errore.
8 Il desiderio in Gregorio si configura come adesione ad una realtà mediata dal pieno esercizio della ragione, che
domina su altre pulsioni: cf. TARANTO 2009, pp. 427-432.
9 Cf. EpC 2, 23-3, 7; cf. in part. EpC 2, 25-3, 2: κατόρθωµα µὲν τοῦ λογιστικοῦ µέρους τῆς ψυχῆς ἐστιν, ἡ
εὐσεβὴς περὶ τὸ Θεῖον ὑπόληψις, καὶ ἡ τοῦ καλοῦ τε καὶ κακοῦ διακριτικὴ ἐπιστήµη, καὶ ἡ τρανήν τε καὶ
ἀσύγχυτον ἔχουσα περὶ τῆς φύσεως τῶν ὑποκειµέ νων τὴν δόξαν, τί µέν ἐστιν αἱρετὸν ἐν τοῖς οὖσι, τί δὲ
βδελυκτὸν καὶ ἀπόβλητον.
58
irascibile, già platonica10 . Su questa base il vescovo si premura di analizzare nello specifico
ciascuna parte per comprendere in che modo il medico potrebbe applicare meglio la sua cura.
In particolare, Gregorio afferma che la correttezza della facoltà logica dell’uomo consiste in
una santa concezione di quanto concerne il divino ed in una comprensione critica rispetto al
bene e al male, che si esplica nella chiarezza delle scelte. Questo retto uso della ragione, che
in seguito è chiarito come il possesso della vera fede, permette di portare a compimento anche
le restanti parti dell’anima. Ciò che concerne il desiderio11 conquista infatti la perfezione
quando il πόθος si rivolge con coscienza a ciò che è realmente desiderabile e bello secondo
verità; anche la ἐρωτικὴ δύναµίς τε καὶ διάθεσις (EpC 3, 9) deve sottostare a questo indirizzo
della ragione, che conduce verso l’alto (ἀνάγεσθαι: EpC 3, 8). Aberrazione di questa parte
dell’anima è invece rivolgere la propria spinta verso ciò che, quanto alla sostanza, non ha
consistenza. Infine, la parte dell’anima più legata agli istinti12 possiede una giusta direzione
quando si rivolge contro le passioni, resistendo ad esse fino al sangue, secondo un adagio
paolino (Hebr 12, 4); cade nel suo contrario un intelletto non educato (ὁ ἀπαίδευτος λογισµός:
EpC 3, 26-4, 1).
Rispetto al riconoscimento dell’oggetto cui tende la creatura, già nel nel De virginitate13 si
legge che colui che sopisca in sé le brame del corpo ha la possibilità di comprendere con più
facilità che cosa sia τὸ ἀληθῶς ἐπιθυµητόν (DV 248, 9-10), in vista del quale il Creatore ha
posto nell’uomo la facoltà di desiderare. Tale buon anelito è riferimento costante non solo di
10
Cf. SILVAS 2007, p. 215 n. 7, dove si rimanda a Plat. Resp. 440e-441a e Phaed. 246a–b, 253d–254e.
Illuminante a tal proposito risulta SIMONETTI 1984, p. 294, in riferimento a VM II 95-99, dove si interpreta dal
punto di vista spirituale l’architrave bagnato dal sangue dell’agnello sacrificale che avrebbe protetto gli Israeliti
dall’angelo dello sterminio (Exod. 12, 22-23): «già Filone (Quaestiones in Exodum l 12) aveva messo in
rapporto l'unzione delle porte degli Ebrei con la tripartizione platonica (Resp. 440e-441a) dell'anima: la facoltà
irascibile è l'architrave, quella concupiscibile la casa, la ragione i due stipiti. Ma Gregorio s'ispira più da vicino a
Origene (Selecta in Exodum, PG XII 285a), che indica nell'architrave la ragione e nei due stipiti le facoltà
inferiori dell'anima. Nonostante qualche sporadica attestazione in contrario (an. 49c) e la tendenza a identificare
propriamente l'anima con la facoltà razionale, mentre le altre due sono accessorie [...], Gregorio in sostanza
rispetta la tripartizione platonica [...] e ha cara la famosa immagine del cocchio a due cavalli di Phaedr. 246 sgg.
[... In VM II 96] egli rileva la conformità fra l'immagine biblica della porta e quella platonica del carro, al fine di
un retto agire dell'uomo per la cooperazione delle sue tre facoltà (per la virtù come armonia delle facoltà
dell'anima. cfr. PIotino, Enn. III 6, 2): quella razionale sta sopra (= architrave, cocchiere; lo stesso concetto è
espresso da Gregorio altrove con l'immagine del lógos, logismós re e dominatore dell'uomo: opif. 156; beat.
1228b; Cant. 276; Platone, Tim. 70a [...]), e quelle irascibile e concupiscibile (= stipiti, cavalli) stanno sotto,
docili al suo comando. Ma se quest'ordine viene rovesciato, l'equilibrio morale dell’uomo scompare e la ragione
viene travolta dalle passioni. Per Gregorio la facoltà irascibile (τὸ θυµικόν) e quella concupiscibile (τὸ
ἐπιθυµικόν) contengono un sé tutte le altre passioni e ne costituiscono come la sintesi (an. 56b) [...]; esse non
sono intrinsecamente cattive, ma abbisognano di essere sempre controllate dalla ragione (lógos): an. 61b; Ps, 61
sg.; opif. 193». Per ulteriori precisazioni sulla tripartizione gregoriana dell’anima, cf. VÖLKER 1955, p. 308 n.
323, DESALVO 1996, pp. 48-58 e ARKO 1999, pp. 99-100.
11 Cf. EpC 3, 7-15; cf. in part. EpC 3, 7-11: τοῦ δὲ ἐπιθυµητικοῦ µέρους ἡ µὲν ἐνάρετός ἐστι κίνησις τὸ πρὸς τὸ
ὄντως ἐπιθυµητικὸν, καὶ ἀληθῶς καλὸν ἀνάγεσθαι τὸν πόθον, καὶ εἴ τις ἐν ἡµῖν ἐρωτικὴ δύναµίς τε καὶ διάθεσις,
ἐκεῖ κατασχολεῖσθαι πᾶσαν, ἐν τῷ πεπεῖσθαι µηδὲν ὀρεκτὸν εἶναι τῇ ἑαυτοῦ φύσει ἄλλο, πλὴν τῆς ἀρε τῆς, καὶ
τῆς τὴν ἀρετὴν πηγαζούσης φύσεως.
12 Cf. EpC 3, 15-4, 3.
13 Cf. DV 248, 8-11: τῆς δὲ σωµατικῆς ἐπιθυµίας ἀργούσης ἐν τοῖς ἀποταξαµένοις, ἀκολούθως ἐπεζητήθη τί τὸ
ἀληθῶς ἐπιθυµητόν, οὗ χάριν καὶ τὴν δύναµιν παρὰ τοῦ δηµιουργοῦ τῆς φύσεως ἡµῶν εἰλήφαµεν.
59
tutta l’opera14 , ma può essere visto come tensione cui il Cappadoce richiama in tutta la sua
produzione15. Esistono infatti dei beni che generano una brama, ma non di questa è costituita
la vera ἐπιθυµητικὴ δύναµις (IC 119, 5) dell’uomo. Ad esempio, come si legge nella terza
omelia In Ecclesiasten16 , l’ἐπιθυµία ha caratterizzazione negativa laddove diventi ricerca del
piacere, ἡδονὴ, che spinge a sorpassare i limiti della necessità17 . Una casa, ad esempio, è utile
all’uomo, ma questi non deve eccedere nell’abbellirla con grandezza e sfarzo inutile: ciò porta
infatti ad una perversione del desiderio, che spinge ad esempio a far riprodurre ciò che
dovrebbe rimanere nascosto e si compone di idoli che imitano (διὰ µιµήσεως: IE 324, 1; πρὸς
µίµησιν: IE 325, 18) la verità, ma mirano a ingannare l’uomo. Tale sollecitudine terrena,
conclude Gregorio, fa trascurare i veri aneliti dell’anima, che si deve invece abbellire con le
ricchezze eterne e imitare le grandezze eterne. La brama del lusso che allontana dal vero
scopo dell’animo umano è significativamente caratterizzata come ἡ ἀπαιδαγώγητος ἐπιθυµία
(IE 332, 20), un desiderio che non riceve i limiti e le direttive di una retta educazione18 .
Il vero bene cui l’uomo tende19 invece, come si legge nel De mortuis, è impossibile che sia
reperto nella materia, in quanto è tale di per se stesso, in ogni momento e senza eccezioni,
valido per tutti, caratteristiche che il mondo transeunte non conosce.
Quale consiglio, quale insegnamento (διδασκαλία: IE 341, 13), si chiede Gregorio nella
quarta omelia In Ecclesiasten20 , può ricavare l’uomo da ciò che così strenuamente identifica
come compimento del proprio desiderio, ma che è destinato a non rispondere alle sue attese?
Il tema abbraccia tutto il quarto logos dell’opera, che sembra costruito sulla falsariga della
domanda di Cristo ricordata nel vangelo di Matteo, dove si chiede cosa l’uomo potrà dare, se
pur guadagna il mondo intero, in cambio di sé (cf. Matth 16, 26): la creatura, qualunque
condizione le sia data da vivere dalle contingenze storiche, possiede infatti una dignità
assoluta che gli deriva dai doni che ha ricevuto, diretta emanazione della divinità, non
suscettibile di una valutazione in beni materiali e che quindi in essi non può trovare
compimento.
14
Cf. ad es. DV 251, 17; 255, 10; 267, 25; 268, 8; 284, 24.
«Gli stoici consideravano l’epithymía come una álogos órexis, ‹desiderio irrazionale›, e ne davano perciò
interpretazione negativa: SVF III 94-5. Invece Gregorio considera il termine come vox media, propensione sia ad
un fine buono sia cattivo, e lo specifica in senso positivo o negativo sulla base dei differenti
contesti» (SIMONETTI 1984, p. 271). Sul cambiamento del valore del termine e del concetto di ἐπιθυµία
nell’opera gregoriana, che si attua in una visione sempre più positiva del dinamismo che tale anelito suscita, fino
alla corsa infinita dell’ἐπέκτασις cui dischiude, cf. DESALVO 1996, pp. 252-256 e ZORZI 2007, pp. 446-456.
16 Cf. IE 319, 11-327, 20.
17 Cf. IE 320, 8-9: ἀλλὰ παρελθεῖν τοὺς ὅρους τῆς χρείας ἡ ἡδονὴ τὸν ἄνθρωπον ἐβιάσατο.
18 LOZZA 1991, p. 156 scrive: «il dinamismo spirituale che permette all’uomo la riconquista del bene è
essenzialmente πόθος, desiderio che aspira a ottenere soddisfazione. Esso si trasforma in ἡδονή quando si
rivolge ai beni terreni e asservisce l’anima al corpo [...]. Invece quando il desiderio si orienta verso i beni
spirituali, Gregorio lo definisce καλὸν πάθος [...]. Analoga è la posizione di Bas. hom. 10,5 = PG 31. 365 D».
19 Cf. DM 29, 4-31, 19.
20 Cf. per tutto il passo IE 334, 5-345, 2.
60
15
A tal proposito è particolarmente utile la terza omelia del De Beatitudinibus; in essa si
affronta il versetto evangelico secondo il quale sono chiamati beati coloro che piangono
perché saranno consolati (Matth 5, 4). Simili parole, commenta subito Gregorio, possono
facilmente sembrare paradossali ai sapienti di questo mondo, che le leggerebbero
semplicisticamente all’ombra dei molti mali che affliggono l’umanità21; il Nisseno tuttavia ne
approfitta per chiarire la genesi profonda del desiderio. Dopo aver distinto infatti il dolore
sorto a motivo della consapevolezza dei propri peccati, di cui parla anche l’insegnamento
(διδασκαλίαν: DB 100, 4) di Paolo22, il vescovo afferma che esiste un pianto più profondo
(βαθύτερον: DB 101, 14), insito nelle pieghe stesse del cuore dell’uomo, sul quale il Logos
invita e introduce (ὑφηγούµενος: DB 101, 16) a riflettere23 e per il quale promette la
consolazione dello Spirito: per raggiungere simili vette del pensiero è tuttavia necessario
seguire colui che solo può insegnare (µάθοιµεν: DB 102, 14). Il pianto, spiega Gregorio, è una
cupa disposizione dell’animo che segue alla mancata soddisfazione di un desiderio, che non
trova spazio in coloro che conducono un’esistenza del tutto lieta: più sinteticamente, il pianto
è la privazione dolorosa di ciò che piace24 . Tale affondo psicologico, continua il vescovo,
deve diventare però guida (ὁδηγία: DB 103, 8) per riconoscere quale sia il pianto beato di cui
parla il Vangelo e la sua consolazione. Gregorio afferma, per prima cosa, che il dolore per la
perdita di un bene implica una previa conoscenza di ciò che è venuto a mancare: riprendendo
liberamente il mito platonico della caverna25, Gregorio afferma che chi fosse nato in un luogo
tenebroso e non avesse mai conosciuto la luce non sarebbe gravato dalla mancanza che soffre
come chi invece fosse stato lì recluso quando prima era abituato a godere del sole. La
considerazione risulta tanto più importante quanto la si legga nei termini della salvezza
eterna: chi infatti ha avuto la possibilità di contemplare il vero bene e ha preso coscienza della
condizione attuale dell’uomo non può che lamentare questa sua mancanza. Secondo Gregorio
dunque il pianto che Cristo chiama beato sarebbe la consapevolezza della mancanza nella vita
21
Cf. DB 98, 24-100, 1.
Cf. DB 100, 2-101, 14. Il riferimento paolino è a 2Cor 7, 10.
23 Cf. DB 101, 14-106, 26.
24 Cf. DB 102, 15-20; cf. anche 103, 6-7: πένθος ἐστὶν αἴσθησίς τις ἀλγεινὴ τῆς τῶν εὐφραινόντων στερήσεως.
25 Cf. PENATI 1992, p. 61 n. 4 e DANIÉLOU 1970, pp. 230-241. Il passo di riferimento è Plat. Resp. VII 514 A 517 A. La stessa immagine della caverna, più attinente questa volta al modello platonico, è in DM 37, 13-39, 22.
Gregorio descrive qui la vita mortale come una prigione cui l’uomo si è ormai assuefatto, tanto da compiangere
chi ne viene cacciato attraverso la morte. Chi invece fa esperienza della vita nella luce prova compassione per
coloro che rimangono nelle tenebre, e se potesse si affliggerebbe fino alle lacrime; tuttavia la natura spirituale
non può concepire simili passioni. Una grande differenza dal modello si situa nella impossibilità da parte di
esseri ormai spirituali di essere visti da chi ancora possiede un corpo; essi non possono quindi esortare gli uomini
a separarsi dalla loro erronea valutazione della realtà. Infine, l’immagine della caverna richiamata da Gregorio
anche in riferimento alla grotta di Betlemme (cf. AnAp 171, 16; IDN 256, 12-14), laddove essa rappresenterebbe
la vita oscura e sotterranea degli uomini; la prospettiva è tuttavia rovesciata, rispetto al precedente mito
platonico, come bene osserva BOUCHET 1968 p. 626: non è infatti più l’uomo a tentare o a dovere uscire dalla
caverna, bensì è Dio che la illumina attraverso l’incarnazione.
61
22
dell’uomo di ciò che veramente egli cerca26. Il desiderio dell’uomo infatti guarda verso ciò
che non è determinabile o comprensibile dalle sue capacità27 e a cui non si può dare neppure
una denominazione adeguata. Quanto più cresce la consapevolezza dell’infinità del bene cui
ci si protende, tanto più si approfondisce, nel pensiero del Nisseno, la tristezza esistenziale28:
prima della caduta l’uomo infatti poteva godere di esso una visione spoglia da veli, mentre la
sua condizione attuale, soggetta alle passioni, lo ricaccia lontano dal suo vero compimento29.
Colui che dunque, conclude il Nisseno, ha insegnato (διδάσκειν: DB 106, 24) a chiamare
beato il pianto voleva che gli occhi dell’uomo si rivolgessero al vero bene, allontanandosi
dagli inganni della vita presente30.
Si è già accennato come nell’In Ecclesiasten31 il Nisseno affermi che il desiderio rivolto ai
beni materiali è caduco ed effimero per natura: ciò che si desidera infatti si può ottenere, e ciò
provoca sazietà32 e uno spegnimento della brama, che sorgerà nuovamente dopo un certo
lasso di tempo. Gregorio presenta tali conclusioni come le riflessioni di Salomone; la storia di
questo re, secondo il Nisseno, è infatti paradigmatica rispetto alla dinamica del desiderio33.
Come si narra in 2Reg, egli ebbe in sorte il regno d’Israele che Davide aveva accresciuto in
grandezza; dopo aver dedicato un primo tempo della sua vita alla propria educazione (τῇ
παιδεύσει: IE 307, 6), usando la libera volontà del suo spirito (τῇ προαιρέσει τοῦ πνεύµατος:
IE 307, 8), visse in pace e in magnificenza, libero di godere delle sue ricchezze e della sua
sapienza; quando però ebbe accresciuto la propria conoscenza in simili modi tuttavia scrisse
l’Ecclesiaste, affermando di aver appreso per propria esperienza (µεµαθηκέναι34 τῆς πείρας:
26
Cf. DB 104, 4-7: οὐκοῦν οὐ τὴν λύπην µοι δοκεῖ µακαρίζειν ὁ Λόγος, ἀλλὰ τὴν εἴδησιν τοῦ ἀγαθοῦ, ᾗ τὸ τῆς
λύπης πάθος ἐπισυµβαίνει, διὰ τὸ µὴ παρεῖναι τῷ βίῳ τὸ ζητούµενον.
27 Cf. DB 104, 10-11: ἧ τάχα, οὐ πρὸς τὸ ἀνήνυτόν τε καὶ ἀκατά ληπτον ἡ ἐπιθυµία βλέπει;
28 Cf. DB 105, 5-9.
29 Cf. DB 105, 9-106, 24.
30 Cf. DB 106, 24-26: τοῦτο οὖν ἔοικεν ἐν ἀπορρήτῳ διδάσκειν ὁ µακαρίζων τὸ πένθος, τὸ πρὸς τὸ ἀληθινὸν
ἀγαθὸν τὴν ψυχὴν βλέπειν, µηδὲ τῇ παρούσῃ ἀπάτῃ τοῦ βίου καταβαπτίζεσθαι.
31 Cf. IE 312, 19-314, 10.
32 SIMONETTI 1984, p. 325 scrive che «l'idea che la sazietà costituisse spinta al male era tradizionale nel pensiero
greco, e Filone la riecheggia: Quis rerum divinarum 240; de posteritate Caini 145. Origene aveva fatto della
sazierà di bene la causa del peccato iniziale delle anime dopo che erano state create da Dio: de principiis I 3,8.
Gregorio, proponendo il concetto del progresso senza fine, supera questa difficoltà: dove non c'è fine nel
possesso del bene, non ci può essere sazierà».
33 Cf. IE 305, 19-314, 10.
34 Lo stesso verbo con il medesimo soggetto e significato si ritrova anche in IE 308, 15.19; in IE 309, 16 si usa in
riferimento agli apprendimenti di Salomone il termine µαθήσει, in IE 310, 2 µαθήµατα. In tutti questi casi
sembra di non poter rilevare una sfumatura educativa nel termine, ma un puro riferimento alla conoscenza.
62
IE 307, 3) come tutto fosse vanità35. Vero piacere infatti, come si legge in conclusione della
quinta omelia In Ecclesiasten36, non è quello del corpo, ma una letizia che si identifica con la
costante tensione al bene. È infatti impossibile ciò cui l’uomo tende37 sia reperto nella
materia, in quanto egli ricerca un bene tale di per se stesso, in ogni momento e senza
eccezioni, valido per tutti.
La risposta da parte di Dio alla tensione dell’uomo è una possibilità chiara grazie, ad
esempio, alla figura di Paolo: di lui nella Apologia in Hexaemeron38 si dice che desiderò (ὁ
οὖν ἐπιθυµητής: ApH 82, 15) quelle realtà che sono al di sopra di ogni spiegazione, senza
guardare ciò che è visibile; per questo si trovò dove il desiderio (ἐπιθυµία: ApH 82, 17) lo
aveva sollevato, grazie alla potenza della divinità, che volle mostrare come una simile realtà,
benché fuori dalla portata prettamente umana, potesse divenire oggetto di un desiderio
realizzabile (ἐπιθυµητόν: ApH 82, 18).
L’ἐπιθυµία tuttavia, come si è visto, non può che sussistere e muovere verso un oggetto
ben distinto: occorre infatti, secondo l’intuizione presente nell’In iscriptiones Psalmorum39,
che il piacere donato dalla divinità sia in qualche modo presentito dall’anima, che attraverso
questo consente a se stessa di seguire gli ammaestramenti della virtù; secondo l’immagine
cara a Gregorio del medico, questo piacere puro e divino costituirebbe il miele che convince
l’ammalato a prendere la medicina e guarire.
Il godimento dei benefici dell’anima, presentito in questa vita ma che si realizzerà appieno
solo nella vita eterna, al contrario dei beni terreni non conosce sazietà40 : il cibo spirituale,
35
All’inizio del suo commento all’Ecclesiaste Gregorio si propone di indagare cosa sia la vanità di cui parla il
testo biblico; essa è vista come un puro suono che non abbia riscontro nella realtà, o azioni che non hanno uno
scopo o per le quali questo non sia adeguato, come accade ai bambini che costruiscono sulla sabbia, insomma
tutto ciò che non raggiunge alcuna utilità. L’espressione ispirata, che raddoppia i termini (µαταιότης
µαταιοτήτων: Eccl 1, 2), risponde ad una consuetudine più volte riscontrabile nelle Scritture, che insegna
(ἐδιδάχθηµεν: IE 283, 4) attraverso questo artifizio l’intensità del concetto che soggiace alla parola. Cf. per
questo IE 283, 3-7: ἅπερ οὖν ἐπὶ τοῦ κρείττονος ἐδιδάχθηµεν λόγου τῆς γραφικῆς συνηθείας τῷ τοιούτῳ εἴδει
τὴν ἐπίτασιν τοῦ ὑποκειµένου νοήµατος σηµαινούσης, τοῦτο καὶ ἐπὶ τῆς τῶν µαταιοτήτων µαταιότη τος
νοοῦντες οὐ σφαλησόµεθα. Somma vanità non è la creazione, ma considerare la vita sensibile come ciò che
colma le attese dell’uomo; essa infatti, paragonata alla vita vera che sarà ricevuta dall’anima per i suoi meriti, è
inesistente e priva di consistenza. Chi è infatti educato ai divini misteri (πεπαιδευµένος τὰ θεῖα µυστήρια: IE
284, 18-19) sa che l’uomo è per natura rivolto a ciò che è conforme alla natura divina, mentre la vita sensibile è
stata concessa perché attraverso le realtà fenomeniche la creatura giungesse attraverso una simile guida (ὁδηγόν:
IE 285, 1) ad una qualche percezione del Creatore.
36 Cf. IE 371, 17-22: ἡδονὴ οὐχ ἡ τοῦ σώµατος, ὁποία ἡ περὶ τὸ καταθύµιον σχέσις, ἀλλ' ἧς ὄνοµά τε καὶ ἔργον
ἡ εὐφροσύνη ἐστίν· διὰ τοῦτο γὰρ καὶ ὠνόµασε τῇ προσηγορίᾳ ταύτῃ τὴν ἐν τῇ ψυχῇ πρὸς τὸ καλὸν γινοµένην
διάθεσιν, ὅτι ἐκ τοῦ εὖ φρονεῖν ἡ τοιαύτη παραγίνεται τῇ διανοίᾳ κατάστασις.
37 Cf. DM 29, 4-31, 19.
38 Cf. ApH 82, 15-83, 9.
39 Cf. IPS 28, 20-29, 2.
40 Come scrive LOZZA 1991, p. 156, la «dottrina dell’infinità di Dio e del desiderio umano di conoscerlo esclude
per ciò stesso perfino l’eventualità del koros origeniano». SIMONETTI 1984, p. 324 annota anche che «il motivo
dell'insaziabilità nella contemplazione del bello (= del bene) intelligibile è plotiniano (Enn. V 8,4), così come da
Platone (Simp. 211C) e da Plotino (Enn. I 6, 1) viene il motivo della scala ad illustrare il progresso continuo della
contemplazione del bello. Gregorio [in VM II 227 connette] i due motivi e ha dato loro fondamento scritturistico
grazie al ricordo della scala di Giacobbe (Gen. 28,12): così egli formula il principio dell'epéktasis sulla base
della successione télos-arché».
63
scrive Gregorio nel De mortuis41, non ha peso e l’appetito di chi lo assaggia non si placa, anzi
si acuisce senza mai saziarsi. Fonte del paradiso e compimento del desiderio, attraverso cui si
irrora l’aridità dell’anima, è l’insegnamento delle virtù, attraverso cui si riconoscono e si
possono disprezzare le acque terrene, il cui godimento è effimero42; tale espressione, come si
avrà modo di sottolineare, non indica altro che la partecipazione della creatura all’essenza
della divinità, l’ὁµοίωσις θεοῦ.
Come il desiderio di Dio è infinito, così la sua ricerca non ha mai fine, ed il guadagno che
porta è nello stesso cercare: non esiste momento stabilito o più opportuno di altri per tale
ricerca, in quanto esso costituisce l’essenza di tutta la vita43. Tale esistenza è felice e pura in
quanto riconosce senza possibilità d’errore il bene e lo può raggiungere; da esso, infine, è
sempre risospinta oltre.
I.1.1
Ἐπιθυµία κατὰ θεόν
Forse il passo più chiarificatore sulla tematica del desiderio è l’incipit del De instituto
christiano, laddove Gregorio afferma con puntuale chiarezza come l’uomo sia mosso da una
tensione che trova la sua origine e il suo scopo in Dio44 e si caratterizza, come si vedrà a
breve, come ἔρως άπαθὴς καὶ µακάριος. Questo testo è un piccolo trattato indirizzato ad una
comunità di monaci, che mira all’approfondimento della coscienza del valore di una simile
scelta e, come si intuisce dal titolo, vuole presentarsi come una riflessione sul compimento
dell’essere umano, il ricongiungimento con la verità, che si attua solo attraverso un cammino
ascetico verso la verità45 .
Proprio all’inizio della trattazione46 , il Nisseno sostiene che la spinta del desiderio verso
ciò che è bello e verso il meglio (τὴν ἐπὶ τὸ καλόν τε καὶ ἄριστον τῆς ἐπιθυµίας ὁρµὴν: 40,
7-8) è consustanziale e connaturata all’essere dell’uomo (συνουσιωµένην τε καὶ
συµπεφυκυῖαν τῷ ἀνθρώπῳ: DI 40, 7); tale tensione è subito precisata da una considerazione
41
Cf. DM 36, 5-9: ἀβαρὴς γὰρ ἡ νοερὰ τρυφὴ καὶ ἀπλήρωτος πάντοτε ταῖς ἐπιθυµίαις τῶν µετεχόντων
ἀκορέστως ἐπιπληµµυροῦσα. διὰ τοῦτο µακαρία τίς ἐστιν ἐκείνη ἡ ζωὴ καὶ ἀκήρατος µηκέτι ταῖς τῶν
αἰσθητηρίων ἡδοναῖς πρὸς τὴν τοῦ καλοῦ κρίσιν ἐµπλανωµένη.
42 Cf. IE 333, 15-18: εἰ δέ µοι ἦν ἡ τοῦ παραδείσου πηγή, τουτέστιν ἡ τῶν ἀρετῶν διδασκαλία, δι' ἧς ὁ τῆς
ψυχῆς αὐχµὸς ἐδροσίζετο, ὑπερεῖδον ἂν τῶν γηίνων ὑδάτων, ὧν πρόσκαιρος µὲν ἡ ἀπόλαυσις, παροδικὴ δὲ ἡ
φύσις.
43 Cf. IE 400, 21-401, 4: οὐ γὰρ ἄλλο τί ἐστι τὸ ζητεῖν καὶ ἄλλο τὸ εὑρίσκειν, ἀλλὰ τὸ ἐκ τοῦ ζητῆσαι κέρδος
αὐτὸ τὸ ζητῆσαί ἐστι. βούλει καὶ τὴν εὐκαιρίαν µαθεῖν, τίς ὁ καιρὸς τοῦ ζητεῖν τὸν κύριον; συντόµως λέγω· ὁ
βίος ὅλος.
44 Nel De mortuis lo scopo della vita dell’uomo è identificato con il ritorno alla propria origine, vale a dire la
somiglianza con l’archetipo che, poco oltre, è identificata con la beatitudine. Cf. infatti DM 51, 16-18: ὁ δὲ
σκοπὸς καὶ τὸ πέρας τῆς διὰ τούτων πορείας ἡ πρὸς τὸ ἀρχαῖον ἀποκατάστασις, ὅπερ οὐδὲν ἕτερον ἢ ἡ πρὸς τὸ
θεῖόν ἐστιν ὁµοίωσις. Cf. anche DM 51, 23-24: καὶ τῆς ζωῆς τὸ µὲν προσδοκώµενον πέρας µακαριότης ἐστίν.
45 Il titolo dell’opera è infatti: περὶ τοῦ κατὰ θεὸν σκοποῦ καὶ τῆς κατὰ άλήθειαν ἀσκήσεως.
46 Cf. DI 40, 1-41, 9.
64
successiva, nella quale si legge come sia strettamente legato alla natura umana (συνηµµένον
τῇ φύσει: DI 40, 10) l’amore verso Dio. Esso viene definito τῆς νοητῆς ἐκείνης καὶ µακαρίας
εἰκόνος … ἔρωτα (DI 40, 9-10) ed è così subito messo in relazione con l’essenza dell’uomo
(ἧς ὁ ἄνθρωπος µίµηµα: DI 40, 9) attraverso la memoria della creazione dell’uomo a
immagine e somiglianza di Dio, concetto cardine del pensiero del Nisseno.
Il concetto di εἰκὼν θεοῦ in relazione all’ἐπιθυµία diventa particolarmente chiaro in un
passaggio dell’Oratio catechetica magna47 : in esso si legge infatti con chiarezza quello che
Gregorio ritiene essere il presupposto della brama dell’uomo, vale a dire la sua comunanza di
natura con Dio. Come infatti l’occhio, scrive il Nisseno, entra in comunicazione con la luce
per una potenza in lui innata che richiama a sé ciò che gli è connaturale, così anche alla
creatura fu mescolato qualcosa che fosse connaturato con Dio, affinché l’uomo potesse
desiderare ciò che gli è affine48 . Come risulta evidente negli esseri irrazionali, ciascuno fu
creato in modo adatto a condurre il genere di vita a sé confacente; le caratteristiche divine
presenti nell’uomo lo spingono dunque al desiderio (ἐπιθυµίαν: OC 17, 25; ἐν ἐπιθυµίᾳ: OC
18, 4) di ricongiungersi con ciò che gli è legato per natura.
Il rimando all’essere dell’uomo come imago Dei nel De instituto è strettamente funzionale
al discorso che vuole portare avanti l’esegeta: la creatura infatti aspira all’unione con la
sostanza di cui è imitazione. L’ἔρως che nasce da questa tensione può per questo a buon
diritto essere caratterizzato come ἀπαθής, caratteristica della vita perfetta, cioè lontana da
quelle passioni che la distolgono dal suo scopo ultimo, e µακάριος (DI 40, 10) così come era
già qualificata la sostanza prima; la ripetizione insistita dell’avverbio σύν utilizzato come
preverbio in participi che qualificano l’impulso del desiderio (συνουσιωµένην,
συµπεφυκυῖαν: DI 40, 7) e l’amore creaturale (συνηµµένον: DI 40, 10) ribadisce l’aspirazione
all’unità profonda con il creatore49.
Proprio tale anelito, originario e profondamente radicato nel cuore umano, è visto alla fine
delle omelie in Canticum come il più alto dei doni di grazie50 .
47
Cf. OC 17, 6-18, 16.
Cf. OC 17, 11-16: καθάπερ γὰρ ὁ ὀφθαλµὸς διὰ τῆς ἐγκειµένης αὐτῷ φυσικῶς αὐγῆς ἐν κοινωνίᾳ τοῦ φωτὸς
γίνεται, διὰ τῆς ἐµφύτου δυνάµεως τὸ συγγενὲς ἐφελκόµενος, οὕτως ἀναγκαῖον ἦν ἐγκραθῆναί τι τῇ ἀνθρωπίνῃ
φύσει συγγενὲς πρὸς τὸ θεῖον, ὡς ἂν διὰ τοῦ καταλλήλου πρὸς τὸ οἰκεῖον τὴν ἔφεσιν ἔχοι.
49 Tale concezione affonda le sue radici anche nell’idea della compartecipazione (συµπάθεια: CF 37, 15) e della
co-spirazione (συµπνοίᾳ: CF 37, 17) della realtà, come se tutto l’universo formasse un unico organismo; essa è
eredità della tradizione stoica ed è citata da Gregorio nel Contra fatum per bocca del pensatore che espone le
teorie secondo cui la necessità governa l’universo per la profonda unità tra gli esseri, che si influenzano a
vicenda. Il passo più chiaro a tale proposito risulta essere CF 37, 12-38, 1; cf. in part. CF 37, 14-18: ἀλλ' ἐπειδὴ
µία τίς ἐστιν ἐν τοῖς οὖσι συµπάθεια καὶ συνεχές ἐστι τὸ πᾶν ἑαυτῷ καὶ τὰ καθ' ἕκαστον ἐν τῷ παντὶ θεωρούµενα
οἷον ἐπὶ σώµατος ἑνὸς ἐν µιᾷ συµπνοίᾳ καταλαµβάνεται πάντων πρὸς ἄλληλα τῶν µερῶν συννευόντων κτλ.
50 Cf. IC 466, 12-467, 17. Lo stesso desiderio del bene è frutto dell’operare della grazia nella storia: cf. TARANTO
2009, pp. 608-609.
65
48
Il desiderio di Dio giunge dalle profondità dell’essere (διὰ βάθους: IC 32, 2) e non conosce
fine; coloro che hanno purificato la loro anima lo sentono come prerogativa del loro stesso
esistere in un percorso che non trova mai un termine: per essi infatti tutto ciò che viene da Dio
(πᾶν τὸ θεόθεν: IC 32, 3), vale a dire la realtà tutta, accade loro perché possano godere di ciò
che desiderano (αὐτοῖς εἰς ἀπόλαυσιν τοῦ ποθουµένου γινόµενον: IC 32, 3-4); allo stesso
tempo, questo appagamento donato diventa per loro materia ed esca (ὕλην καὶ ὑπέκκαυµα: IC
32, 4) per un anelito più forte. Esso infatti non può accontentarsi di altro che non sia la
divinità, in un rapporto continuo con lui.
L’ἐπιθυµία dell’uomo ha insomma il suo culmine nel desiderio di vedere Dio faccia a
faccia, come Gregorio ha occasione di sottolineare anche nel passo del De vita Moysis51 che
commenta Exod 33, 11-23. Il testo sacro nei capitoli precedenti aveva raccontato di come Dio
parlasse a Mosè faccia a faccia, come un amico, nei recessi del tabernacolo che gli Israeliti
avevano costruito fuori dal campo. Il popolo aveva appena tradito l’alleanza con Dio,
creandosi e adorando un idolo d’oro; il Signore, parlando al suo servo, si era rammaricato
della dura indole di quegli uomini. Mosè lo pregò quindi di essere Lui, di persona, guida della
sua gente, e Dio lo promise, per la grazia che il suo servo aveva trovato presso di lui. L’ardire
del legislatore giunse dunque a chiedere che Dio gli mostrasse la sua gloria, il suo volto.
Gregorio sottolinea con forza questo passaggio: Mosè partecipava già della presenza di Dio,
ma neppure questo bastava al suo desiderio in ricerca (τῇ ἐπιθυµίᾳ τοῦ αἰτοῦντος: VM II 220,
1). L’anima che desidera la divinità è infatti ὁ σφοδρὸς ἐραστὴς τοῦ κάλλους (VM II 231, 5),
ardente amante della bellezza. Come tale il suo impulso non può esaurirsi nel riconoscimento
di un oggetto bello particolare, anche se al massimo grado, ma necessita ontologicamente di
un continuo rapporto con la bellezza in quanto tale, il modello originario, cioè Dio, di cui
partecipa ogni specchio e riflesso concesso all’esperienza52.
La condizione umana tuttavia non può attingere in pienezza a ciò che desidera: il volto di
Dio non si può vedere di fronte, in quanto nessun uomo lo può contemplare e restare in vita
(Exod 33, 20.23). Grazie alla protezione di una roccia e della mano di Dio, Mosè ne potrà
però vedere le spalle. Dopo una precisazione secondo la quale le parti del corpo di cui parla la
Scrittura debbano intendersi in modo figurale e non letterale, in quanto la divinità è
51
Cf. VM II 219-255. Il tema riceve comunque ampio spazio in tutta l’opera.
SIMONETTI 1984, p. 324 scrive che «la comparazione dell'amante di Dio con l'amante del bello è
evidentemente ispirata a Gregorio dai passi di Platone e di Plotino [rispettivamente Simp 211C e Enn I 6, 1]. Si
tenga presente che ἔρως e derivati sono evitati dagli scrittori neotestamentari, che esprimono il concetto di amore
con agápe, per la differenza fra l'amore cristiano e quello espresso da ἔρως, passionale e possessivo (GLNT I 92
sgg.). Ma Ignazio adopera ἔρως (Epistula ad Romanos 7,2), e Origene, in Commentarium in Canticum, prol., 62
sgg. Baehrens, esamina lungamente l'uso scritturistico dei due termini e conclude che ambedue hanno lo stesso
significato. Comunque solo molto più tardi l'uso di ἔρως e derivati si generalizza in alcuni scrittori cristiani, per
lo più di tendenza mistica, come Gregorio e lo Ps. Dionigi. A Cant. 383 Gregorio definisce l'ἔρως come
ἐπιτεταµένη ἀγάπη, cioè come agápe al massimo livello di tensione».
66
52
incorporea e incorruttibile53, il Nisseno propone una dissertazione sulla natura dell’anima54,
per mostrare come la richiesta del legislatore, in fondo, appartenga alla natura stessa della
creatura umana. Come infatti i corpi pesanti tendono verso il basso e, se disturbati dal loro
stato di quiete, si muovono finché non trovino un ostacolo, così anche l’anima tende verso
l’alto, una volta scioltasi dalle affezioni terrene. In un simile moto nessuno raffrena l’impeto,
perché la natura stessa del bene continua ad attrarre a sé ciò che a lei volge lo sguardo:
attraverso il desiderio ciò che so è già conseguito diventa infatti nuovo impulso e tensione
verso le realtà più alte che aumenta sempre di vigore55.
Sin dalla sua prima opera56 Gregorio ribadisce la sublime ineffabilità dell’oggetto verso cui
si orienta il vero desiderio dell’uomo, di cui si può apprendere (µεµαθήκαµεν: DV 289, 17)
qualcosa nella visione, ma non le parole atte a descriverlo. Il compimento del desiderio della
creatura dunque travalica le stesse aspettative che si era imposto nel suo sorgere: l’uomo
spesso intende infatti la sazietà del desiderio come l’annullamento, il venir meno di
quest’ultimo; la divinità invece nel rispondere non concede requie, ma ne rinfocola l’ardore57.
Dio infatti non si sarebbe mai mostrato se questo avesse comportato la fine del desiderio di
chi lo avesse guardato (nell’exemplum Mosè, ma la mancanza del nome permette al Nisseno
di generalizzare la massima); il non venir meno dell’ἐπιθυµία è anzi condizione
imprescindibile della stessa visione, garante della effettiva presenza di Dio come oggetto di
essa58. Vedere Dio significa dunque non saziarsi mai di desiderarlo, come si legge qualche
capitolo più avanti59 , e la possibilità di un progresso infinito in questa ascesa garantita dalla
mancanza di un limite nel bene fa ardere nel cuore il desiderio di partecipare sempre di più di
questa visione, senza alcuna sazietà.
Nelle omelie In Canticum infine la posizione dell’esegeta si preciserà definitivamente,
arrivando ad affermare che la spinta del desiderio non si placa neppure di fronte al suo
oggetto ultimo, Dio, anzi proprio da questa forza l’anima è continuamente chiamata ad
53
Cf. VM II 221-223.
Cf. VM II 224-226.
55 Cf. VM II 226, 1-6: ποθοῦσα γὰρ διὰ τῶν ἤδη κατειληµµένων µὴ καταλιπεῖν τὸ ὕψος τὸ ὑπερκείµενον,
ἄπαυστον ποιεῖται τὴν ἐπὶ τὰ ἄνω φοράν, ἀεὶ διὰ τῶν προηνυσµένων τὸν πρὸς τὴν πτῆσιν τόνον ἀνανεάζουσα.
Μόνη γὰρ ἡ κατ' ἀρετὴν ἐνέργεια καµάτῳ τρέφει τὴν δύναµιν, οὐκ ἐνδιδοῦσα διὰ τοῦ ἔργου τὸν τόνον, ἀλλ'
ἐπαύξουσα.
56 Cf. DV 288, 18-291, 12.
57 Cf. VM II 232, 4-8: ἡ δὲ θεία φωνὴ δίδωσι τὸ αἰτηθὲν δι' ὧν ἀπαναί νεται, ἐν ὀλίγοις τοῖς ῥήµασιν ἀµέτρητόν
τινα βυθὸν νοηµάτων παραδεικνύουσα. Τὸ µὲν γὰρ πληρῶσαι τὴν ἐπιθυµίαν αὐτῷ ἡ τοῦ θεοῦ µεγαλοδωρεὰ
κατένευσε, στάσιν δέ τινα τοῦ πόθου καὶ κόρον οὐκ ἐπηγγείλατο.
58 Cf. VM II 233, 1-5: οὐ γὰρ ἂν ἑαυτὸν ἔδειξε τῷ θεράποντι, εἴπερ τοιοῦτον ἦν τὸ ὁρώµενον ὥστε στῆσαι τὴν
ἐπιθυµίαν τοῦ βλέποντος, ὡς ἐν τούτῳ ὄντος τοῦ ἀληθῶς ἰδεῖν τὸν Θεὸν ἐν τῷ µὴ λῆξαί ποτε τῆς ἐπιθυµίας τὸν
πρὸς αὐτὸν ἀναβλέποντα.
59 Cf. VM II 239, 1-7: καὶ τοῦτό ἐστιν ὄντως τὸ ἰδεῖν τὸν Θεὸν τὸ µηδέποτε τῆς ἐπιθυµίας κόρον εὑρεῖν. Ἀλλὰ
χρὴ πάντοτε βλέποντα δι' ὧν ἐστι δυνατὸν ὁρᾶν πρὸς τὴν τοῦ πλέον ἰδεῖν ἐπιθυµίαν ἐκκαίεσθαι. Καὶ οὕτως
οὐδεὶς ὅρος ἂν ἐπικόπτοι τῆς πρὸς τὸν Θεὸν ἀνόδου τὴν αὔξησιν, διὰ τὸ µήτε τοῦ καλοῦ τι πέρας εὑρίσκεσθαι,
µήτε τινὶ κόρῳ τὴν πρόοδον τῆς πρὸς τὸ καλὸν ἐπιθυµίας ἐκκόπτεσθαι.
67
54
approfondire la conoscenza di Colui che solo, infinito per natura, può rispondere alla sete
infinita dell’uomo. Icasticamente, si può dire con Zorzi60 che, secondo Gregorio, «il nucleo
della capacità umana di Dio è proprio nella mutevolezza del desiderio», che viene reso man
mano più forte e sostenuto dalla divinità stessa.
D’altra parte, la divinità sovrasta in misura sempre uguale l’uomo che viene invitato a
partecipare di lei: in questo modo il desiderio porta l’anima a non arrestarsi mai nella sua
crescita61 , e si protende, come Paolo, sempre più nella corsa62, perché esso stesso si accresce
di fronte a ciò che man mano gli appare davanti63, dalla gloria alla gloria, secondo
un’espressione paolina a Gregorio molto cara64 . Ciò che di volta in volta è compreso è sempre
maggiore di ciò che era stato trovato prima, ma esso non pone confini a ciò che veramente si
cerca: il limite della conoscenza che si esperisce diventa anzi punto di partenza per chi, scelto,
sceglie di compiere la salita infinita65 . Cristo stesso, chiamando a sé coloro che avevano
sete66 , non pose un limite né alla sete né allo slancio verso il compimento di essa né al
godimento del bere, in quanto l’esperienza del gustare dell’acqua diventa incoraggiamento
verso le realtà più grandi67.
Tale tema è variamente presente e spesso richiamato nell’opera gregoriana. L’epistola De
Pythonissa68, inviata al vescovo Teodosio69, comincia ad esempio con la citazione evangelica
di Matth 7, 7, un passo nel quale Cristo invita i discepoli e coloro che li avrebbero seguiti a
continuare a cercare per trovare ciò a cui il loro animo desideroso di imparare (τοῖς
φιλοµαθῶς: DPy 101, 2) anelava. Il vescovo di Nissa sottolinea quindi come Egli, ispirando
in tal modo i suoi seguaci, avrebbe dato loro anche la forza necessaria a sostenere questo
desiderio, essendo abituato a dare più di quanto l’uomo possa chiedere. La dinamica infinita
del desiderio, grazie al Vangelo, veniva quindi a trovare conferma nelle parole del Logos
stesso: fedele a questa indicazione, il ministro cui è rivolto lo scritto ha espresso il proprio
60
ZORZI 2007, p. 460.
Cf. IC 158, 12-19.
62 Cf. IC 174, 14-20. Il passo paolino cui ci si riferisce è Phil 3, 13.
63 Cf. IC 159, 7-9: αὐτῇ κατὰ τὴν ἀναλογίαν τῆς προκοπῆς πρὸς τὸ ἀεὶ προφαινόµενον καὶ τὴν ἐπιθυµίαν
συναύξεσθαι. Cf. anche IC 245, 22-247, 19.
64 Cf. 2Cor 3, 18, citato ad es. in IC 160, 3.
65 Cf. IC 247, 9-12: τὸ γὰρ ἀεὶ καταλαµβανόµενον τῶν µὲν προκαταληφθέντων πάντως µεῖζόν ἐστιν, οὐ µὴν
ὁρίζει ἐν ἑαυτῷ τὸ ζητούµενον, ἀλλὰ τὸ πέρας τοῦ εὑρεθέντος ἀρχὴ πρὸς τὴν τῶν ὑψηλοτέρων εὕρεσιν τοῖς
ἀναβαίνουσι γίνεται.
66 Gregorio cita a proposito Ioh 7, 37.
67 Cf. IC 248, 5-16.
68 Cf. DPy 101, 4-9: ὁ εἰπὼν τοῖς ἑαυτοῦ µαθηταῖς Ζητεῖτε καὶ εὑρήσετε, δώσει πάντως καὶ τὴν πρὸς τὸ εὑρεῖν
δύναµιν τοῖς φιλοµαθῶς κατὰ τὴν ἐντολὴν τοῦ κυρίου διερευνωµένοις καὶ ἀναζητοῦσι τὰ κεκρυµµένα µυστήρια·
ἀψευδὴς γὰρ ὁ ἐπαγγειλάµενος, ὑπὲρ τὴν αἴτησιν ἐπιδαψιλευόµενος τῇ µεγαλοδωρεᾷ τῶν χαρισµάτων.
69 Il vescovo cui si riferisce Gregorio non è identificable con sicurezza; Maraval, in P. Maraval, Le "De
Pythonissa" de Grégoire de Nysse: traduction commentée, in Lectures anciennes de la Bible, Strasbourg 1987,
pp. 283-294, a p. 290 propone i nomi di Teodosio d’Antiochia d’Isauria e Teodosio di Hyda in Licaonia.
68
61
desiderio (τῇ προθυµίᾳ: DPy 101, 14) al suo superiore, che ha acconsentito a rispondergli
perché egli apprenda (µάθοις: DPy 101, 15) la chiamata di Dio a prestar servizio gli uni agli
altri con amore (δι' ἀγάπης: DPy 101, 15).
Il testo sacro, rivela il Nisseno, è pieno di simili incitamenti; allo stesso modo Gregorio
cadenza le sue opere con varie esortazioni volte a produrre proprio un continuo
incoraggiamento del desiderio70, insieme suscitato e sostenuto dalle parole ispirate: come si
legge nelle omelie In Canticum, il richiamo di Dio è voce di potenza (φωνὴ δυνάµεως: IC
149, 12), che opera ciò che Egli desidera e non si limita ad esortare l’anima, ma le conferisce
anche la forza necessaria per compiere ciò a cui è stata chiamata71. L’esperienza di Dio è
infatti motivo di cambiamento: nell’omelia VIII della stessa opera l’esegeta sottolinea come
attraverso la conoscenza della divinità, definita appunto fattiva, operante (διὰ τῆς ἐνεργοῦς
γνώσεως: IC 249, 18), l’anima può innalzarsi sempre nuovamente. La prima ascesa cui essa è
chiamata attraverso la fede compie infatti già, secondo la teologia del Nisseno, la resurrezione
ad una nuova vita; la fede stessa tuttavia è punto di partenza per un cammino infinito72, che si
attua attraverso il mistero del battesimo, cui si dedica parte del prosieguo dell’omelia VIII 73.
Anche se il fine cui si tende è irraggiungibile, la creatura è dunque chiamata a conseguire
con zelo quanto le è dato di raggiungere: perfezione della natura umana, chiosa il Cappadoce
nel De vita Moysis, è forse proprio questo essere disposti a desiderare sempre la pienezza nel
bene, che man mano si svela sempre maggiore74.
I.1.2
Desideri ingannevoli
Il desiderio di Dio che egli stesso suscita, come si legge nel De virginitate75, deve essere
conservato e coltivato nella parte più pura dell’anima; in tal modo l’uomo la consacra a Dio
come una offerta, una primizia, intangibile e monda dalle sozzure della vita. L’anima deve
solo curare di essere guidata (ὑφηγουµένη: DV 318, 25) dalla virtù della giustizia, che aiuta
nel giudizio; in questo modo il desiderio ἀµέτρητον (DV 319, 1), lasciato a se stesso, diventa
70
Ad esempio, in incipit del De Virginitate l’autore dichiara che scopo dell’opera è infondere in chi si accosta a
tale opera il desiderio (ἐπιθυµίαν: DV 247, 1) della vita virtuosa; la verginità infatti rappresenta secondo il
Nisseno la porta attraverso cui ci si introduca ad una esistenza più divina attraverso una condotta che l’autore
non esita a definire (DV 247, 5). Cf. DV 247, 1-2: Ὁ µὲν σκοπὸς τοῦ λόγου ἐστὶν ἐπιθυµίαν τῆς κατ' ἀρετὴν ζωῆς
τοῖς ἐντυγχάνουσιν ἐµποιῆσαι.
71 Cf. IC 149, 17-150, 2; cf. anche IC 253, 8-20.
72 Cf. IC 249, 20-250, 7.
73 Cf. IC 250, 8-251, 20.
74 Cf. VM I 10, 4-6: τάχα γὰρ τὸ οὕτως ἔχειν, ὡς ἀεὶ ἐθέλειν ἐν τῷ καλῷ τὸ πλέον ἔχειν, ἡ τῆς ἀνθρωπίνης
φύσεως τελειότης ἐστί.
75 Cf. DV 318, 7-319, 25.
69
anelito κατὰ θεόν (DV 319, 2) e beato per la pienezza che chiede (µακαριστὸς ἔσται τῆς
πλεονεξίας: DV 319, 2-3).
Tutti i desideri, anche i più particolari, dovrebbero quindi essere materia ed esca (ὕλην καὶ
ὑπέκκαυµα: IC 32, 4) di una tensione che sempre più si accresce, forza e motore dell’animo
umano; attraverso di essi Dio, che ne è fonte e compimento ultimo, esorta l’uomo al cammino
e lo sostiene in esso. Se seguito nella sua purezza, a rigor di logica, ogni desiderio dovrebbe
quindi condurre nel suo anelito ultimo al Creatore: è questa la convinzione che fa auspicare
all’esegeta che un giorno ciascuno potrà prendere come guida verso il meglio la propria
ἐπιθυµία (ὁδηγὸν πρὸς τὸ κρεῖττον τὴν ἰδίαν ἐπιθυµίαν ἔχειν: IC 160, 14-15).
L’esperienza mostra tuttavia il contrario: spesse volte anzi, come si notava, il Nisseno
condanna la brama corrotta e puramente carnale in cui l’uomo è sempre tentato di cadere,
qualunque sia la sua condizione, di peccatore o di asceta, in quanto riduce la portata ultima
del desiderio stesso76. Nel commento che Gregorio propone nel De vita Moysis 77 all’episodio
del Vecchio Testamento nel quale gli Israeliti, instradati più volte ai misteri e alla salvezza,
poiché si lamentavano della durezza del viaggio, venivano morsi da serpenti e si potevano
salvare solo guardando al serpente di bronzo innalzato da Mosè (Num 21, 4-9), si legge a tal
proposito che tale ferita del desiderio è determinata dal peccato; questo, pur essendo stato in
sé sconfitto dalla passione e resurrezione di Cristo, continua a tormentare l’uomo con i morsi
di desideri rivolti verso realtà effimere (ἡ τῶν ἀτόπων ἐπιθυµία: VM II 272, 4); essi
colpiscono indistintamente anche i fedeli, che tuttavia hanno la possibilità di esserne salvati
guardando al mistero della croce.
Sembra esistano dunque, ad un primo sguardo, desideri che portano verso il compimento e
altri che instradano alla perdizione. Nella prima omelia delle cinque che costituiscono il De
oratione dominica Gregorio, introducendo la spiegazione del significato delle parole della
preghiera che insegnò Cristo ai suoi discepoli, propone una nuova riflessione sul desiderio78:
essa aiuterà a comprendere meglio l’espressione ἡ τῶν ἀτόπων ἐπιθυµία. Come si legge nel
commento gregoriano, il Vangelo di Matteo fa precedere al Padre Nostro una esortazione a
non perdersi nelle chiacchiere tipiche dei pagani, che credono di essere esauditi per la loro
magniloquenza, quando invece il loro cuore è lontano 79. Il termine usato dal Cristo,
76
Un ragionamento consimile si ritrova in Taranto 2009, p. 54, laddove l’autore presenta il concetto di «bene»
nell’opera gregoriana: «la stretta correlazione tra essere e bene dovrebbe portare all’affermazione che ogni ente è
anche un vero e proprio bene. Di fatto, ad una osservazione non superficiale, esso appare un bene relativo, in
quanto esiste, ma non è un vero bene in quanto non possiede quella peculiare valenza etico-esistenziale,
connotante la stessa categoria del bene».
77 Cf. VM II 271-277.
78 Cf. OD 11, 13-14, 18. Nel passo, per indicare tale desiderio, sono usati indifferentemente i termini ἐπιθυµία e
ὁρµή.
79 Cf. Matth 6, 7; cf. OD 11, 13-18.
70
βαττολογεῖν, viene quindi analizzato per ricavarne un insegnamento80 che possa fungere da
guida: esso indica inequivocabilmente la follia di chi si affossa in vani desideri (ῶν ταῖς
µαταίαις ἐπιθυµίαις ἐµβαθυνόντων: OD 11, 24-25), come ottenere uno sfrenato potere politico
o riuscire a modificare le leggi di natura, e si perde nel vuoto verso cui queste brame portano
(περὶ τὰ ἀνωφελῆ τε καὶ µάταια ταῖς ἐπιθυµίαις: OD 11, 26-27). Simili fole sono stigmatizzate
dal Nisseno con le parole οἷον ἐν τῇ τῶν νηπίων διανοίᾳ (OD 12, 7), come se nascessero da
un intelletto di bambini, o con termini a questa espressione affini81 , che ricordano uno stato
dell’anima che non ha ricevuto una educazione che le consegni la consapevolezza dei desideri
ad essa veramente propri: chi prega senza una corretta introduzione al cammino spirituale (ὁ
ἀπαιδεύτως τῇ εὐχῇ χρώµενος: OD 13, 10), conclude il ragionamento il vescovo, non innalza
se stesso, come dovrebbe accadere, all’altezza di Colui che concede le grazie, ma vorrebbe
abbassarlo alla propria meschinità, e quasi assoggettare la sua potenza al proprio desiderio82,
inteso nel suo significato deteriore. Con una simile preghiera l’orante non chiede dunque di
essere preservato dal male che gli attanaglia il cuore, ma che questa idea malvagia sia portata
a compimento. Alcuni uomini di tale risma, per giustificare una simile pretesa, si trovano a
citare anche passi delle Scritture nei quali i patriarchi o i profeti avrebbero pregato il Signore
di compiere qualcosa che andasse contro la sua bontà; il Nisseno si premura quindi di
confutare simili affermazioni, interrogando proprio alcuni tra gli esempi addotti da coloro
contro cui polemizza, la cui cattiva comprensione è determinata proprio dalla loro mancanza
di educazione spirituale (τοῖς ἀπαιδευτοτέροις: OD 15, 16) 83.
La possibile differenza tra i desideri è meglio chiarita in un altro testo improntato sul tema
del compimento, il De beatitudinibus. Si è già notato come il desiderio dell’uomo è sempre
provocato da ciò che vede e sente, indissolubilmente relato, nel suo principio, alla
materialità84 . Questo tuttavia lascia spazio, come si legge nella seconda omelia del De
beatitudinibus85, ad un commercio con la realtà che si può risolvere in un inganno. Nel passo
appena citato l’impeto umano significativamente non prende mai il nome di ἐπιθυµία se non
in un participio (ἐπιθυµήσαντα: DB 96, 5) o in una massima più generale (cf. DB 96, 2): il
80
Il passo presenta molti termini che pertengono all’ambito educativo: διὰ τοῦ µαθεῖν (OD 11, 15), τίς οὖν ἡ
διδαχή; (OD 11, 16), ἡ τῆς διδασκαλίας διάνοια (OD 11, 19), µαθόντες τὴν διάνοιαν (OD 11, 22).
81 Cf. OD 12, 14-15: εἰσὶ δέ τινες οἳ καὶ νεανικώτερον τῆς µαότητος ταύτης ἀντιλαµβάνονται; OD 12, 19-20:
ὅσα ἄλλα τοιαῦτα τοῖς νηπιω δεστέροις τίκτει ποµφολυγώδη καὶ διάκενα ἡ καρδία νοήµατα.
82 Cf. OD 13, 10-13: οὕτως καὶ ὁ ἀπαιδεύτως τῇ εὐχῇ χρώµενος οὐ πρὸς τὸ ὕψος τοῦ διδόντος ἑαυτὸν ἐπαίρει,
ἀλλὰ πρὸς τὸ ταπεινόν τε καὶ γήϊνον τῆς ἰδίας ἐπιθυµίας τὴν θείαν δύναµιν καταβῆναι ποθεῖ.
83 Cf. OD 14, 19-17, 18.
84 Cf. DB 111, 23-112, 1: τίς οὖν ἡ δικαιοσύνη; τοῦτο γὰρ οἶµαι δεῖν πρό τερον ἀνακαλυφθῆναι διὰ τοῦ λόγου,
ὡς ἂν τοῦ κατ' αὐτὴν κάλλους φανερωθέντος, οὕτως ἐν ἡµῖν κινηθείη πρὸς τὴν ὥραν τοῦ φανέντος ἡ ὄρεξις.
οὐδὲ γάρ ἐστι δυνατὸν πρὸς τὸ µὴ φαινόµενον ἐπιθυµητικῶς ἔχειν, ἀλλ' ἀργή πως ἐπὶ τὸ ἄγνωστόν ἐστιν ἡ φύσις
ἡµῶν καὶ ἀκίνητος, εἰ µὴ δι' ἀκοῆς ἢ ὄψεως ἔννοιάν τινα τοῦ ἐπιθυµητοῦ λάβοι.
85 Cf. DB 93, 7-97, 12.
71
Nisseno preferisce infatti parlare di ὁρµή86 , la spinta a cui è soggetto l’uomo di fronte alla
provocazione che costituisce la realtà. La concezione di questa mossa che ivi si ritrova è per
lo più negativa: ciò che la realtà suscita nel cuore infatti diventa facilmente una strada
percorribile dall’avversario per eccitare le passioni che allontanerebbero la creatura dal suo
vero compimento. L’uomo, immischiato per sua stessa natura nella carnalità, non può infatti
strappare da sé la spinta naturale che prova di fronte al reale87 e raggiungere nella sua perfetta
interezza lo stato di ἀπάθεια proprio di Dio88
e delle creature angeliche89 , ma solo
avvicinarvisi il più possibile. A fronte di questo il culmine della virtù è indicato in questo caso
nella mitezza, intesa come misura delle passioni determinata dalla ragione90. Una simile
interpretazione, secondo Daniélou91 , ha come presupposto la distinzione di origine storica tra
ὁρµαί e πάθη, cioè tra gli inevitabili impulsi istintuali (ὁρµήν: DB 96, 8), cui la natura è
mischiata inevitabilmente, e il deliberato cedimento ad essi (τὸ πάθος: DB 96, 11), che invece
la virtù dovrebbe evitare attraverso la forza della ragione (τοῖς λογισµοῖς: DB 96, 11). Il
commentatore sottolinea però anche come questa concezione non sia usuale nel pensiero del
Nisseno che, probabilmente, voleva evitare ogni compromissione con la teoria stoica, nella
quale le passioni appartengono all’essenza stessa dell’anima92.
Vale la pena precisare come le spinte dell’anima, come si legge in un passo della sesta
omelia del De beatitudinibus 93, possano anche non essere del tutto riprovevoli94 , se orientate
86
Cf. DB 95, 1.11.16; 96, 8.15.26. Il termine ὁρµή non mostra nel vocabolario gregoriano una accezione morale
sicura, tanto che ZORZI 2007 p. 452 rivela come persino in un’opera tarda come De instituto «l’uso del termine
ὁρµή risulti assai confuso».
87 Cf. DB 96, 2-5: εἰ οὖν τὸ ἀκίνητον πρὸς ἐπιθυµίαν ὁ µακαρισµὸς ὑπετίθετο, ἀνόνητος ἂν ἦν τῷ βίῳ καὶ
ἄχρηστος ἡ εὐλογία· τίς γὰρ ἂν τοῦ τοιούτου καθ ίκοιτο σαρκὶ καὶ αἵµατι συνεζευγµένος;
88 Una sintesi efficace sull’idea gregoriana dell’impassibilità divina (ἀπάθεια) è presente in TARANTO 2009, pp.
253-254, laddove lo studioso evidenzia come essa riflette la stabilità dell’Essere, che si mostra però allo stesso
tempo come amore nella sua azione provvidenziale. «Il compatire di Dio nulla toglie così alla sua impassibilità:
esso non è l’esplicitazione di un mutamento, bensì la concretizzazione dell’atteggiamento provvidenziale di colui
che, bene perfetto, volge la storia e il tempo verso il suo naturale fine» (p. 254). «Il concetto di ἀπάθεια è un
concetto onnipresente nella storia della filosofia antica, anche prima di prendere un significato prettamente
filosofico», scrive ZORZI 2007, p. 117. La studiosa, dopo aver letto tre possibili livelli di significato che il
termine può assumere in ambito prettamente umano (fisico, psicologico e morale), distingue tre grandi linee
entro cui il pensiero antico ha usato tale parola: assenza di πάθη irrazionali, assenza totale di πάθη e assoluta
insensibilità (cf. ZORZI 2007 pp. 117-118).
89 «Per Gregorio anche gli angeli sono creature ma, a differenza egli uomini, dotate di perfetta spiritualità; essi
costituiscono la sfera dei νοητά, sebbene siano entità personali, non universali astratti come le idee
platoniche» (LOZZA 1991, p. 134) cf. anche DANIÉLOU 1944, p. 159)
90 Cf. DB 95, 20-21.95, 28-96, 4: τὸν ἐνδεχόµενον τῆς ἀρετῆς ὅρον ἐν τῇ διὰ σαρκὸς ζωῇ τὴν πραότητα λέγει.
[…] διὰ τοῦτο τὸ µέτριόν τε καὶ πρᾶον ὁ µακαρισµὸς, οὐ τὸ παντάπασιν ἀπαθὲς ἐγκελεύεται· τὸ µὲν γὰρ ἔξω τῆς
φύσεως, τὸ δὲ δι' ἀρετῆς κατορθούµενον. εἰ οὖν τὸ ἀκίνητον πρὸς ἐπιθυµίαν ὁ µακαρισµὸς ὑπετίθετο, ἀνόνητος
ἂν ἦν τῷ βίῳ καὶ ἄχρηστος ἡ εὐλογία. Cf. anche DB 155, 27-156, 27; Gregorio sottolinea spesso come per
l’uomo sia impossibile realizzare l’assenza di passioni nella vita di questo mondo e indica nuovamente la
metriopatia, l’essere modico e misurato, come criterio di condotta, sulla base del parametro normativo istituito
dalla ἀπάθεια divina.
91 Cf. DANIÉLOU 1944, pp. 65-66.
92 ZORZI 2007, pp. 126-147 propone una accurata analisi del pensiero stoico relativo alle emozioni e alle πάθη.
93 Cf. DB 146, 22-147, 17. Nota PENATI 1992, p. 111 n. 31 che «in questo passo sono utilizzati indifferentemente
i termini ὁρµή e πάθος, che altrove indicano invece, l’impulso istintuale inevitabile, il primo, il colpevole
cedimento alla passione, il secondo».
94 Cf. DB 146, 23-24: ἔστι γὰρ καὶ ἐπὶ καλῷ ποτε τῇ τοιαύτῃ τῆς ψυχῆς ὁρµῇ χρήσασθαι.
72
però ad una finalità buona: per sostenere questa posizione Gregorio prende come esempio la
testimonianza (προσεµαρτύρησεν: DB 147, 2) ricavata dall’episodio di Finea che uccidendo i
traditori placò la vendetta di Dio (Num 25, 6-11); così anche l’autorità evangelica di Matth 5,
22 esorta a non adirarsi contro un fratello invano (ἐκ τοῦ εἰκῇ). Speranza di salvezza, dunque,
non è nemmeno l’assenza di ὁρµαί, ma una tensione anche attraverso queste ad un costante
rapporto con Dio.
La posizione dell’esegeta diventa più chiara nella quarta omelia della stessa opera: in
essa95 si legge come il male in cui il tentatore spinge a far cadere l’uomo non consista
nell’assecondare gli istinti (e non i desideri), i bisogni a cui questi è necessitato, ma nella
perversione cui essi vanno incontro attraverso l’aggiunta di elementi futili e non appartenenti
alla sua natura: ad essa infatti si adatta solo ciò che è disposto dalla parola divina. Il Nisseno
richiama per questo alla prima tentazione cui Cristo fu sottoposto nel deserto: anche il Logos
infatti ebbe fame, ma seppe esaminare e discernere (ὁ θεωρητικός τε καὶ διακριτικὸς ...
Λόγος: DB 116, 15-16) ciò che era da trattenere, perché conforme alla natura umana che
aveva assunto, e ciò che invece era da rigettare come superfluo. Ad imitazione (κατὰ µίµησιν:
DB 116, 21) del Salvatore anche l’uomo deve comprendere e chiedere per sé quel bisogno
(ἐπιθυµίαν: DB 116, 25). Il cibo che desiderava Cristo per sé, come Gregorio ricorda a partire
dal dialogo della samaritana, era fare la volontà del Padre (Ioh 4, 34), cioè che tutti gli uomini
fossero salvati e giungessero alla conoscenza della verità. Attraverso queste osservazioni
l’uomo impara (µεµαθήκαµεν: DB 117, 4.8) che deve aver fame della propria salvezza e
attirare con la sete, il proprio ardente desiderio, la grazia; impara altresì quale sia il retto
comportamento a fronte di questa tensione. Chi compie dunque la richiesta della beatitudine,
desiderando il compimento del suo profondo bisogno, ha secondo il Nisseno la possibilità
reale di trovare ciò che è veramente desiderabile, sazia e disseta.
Di fronte alle provocazioni della realtà, l’uomo deve dunque esercitare il proprio λογισµός
per comprendere se ciò che si trova davanti abbia la stessa natura del proprio anelito. Solo una
risposta che abbia la sua ultima radice in Dio salva la naturale sete di infinito che è nascosta in
un qualsiasi desiderio; se questa provenisse dall’avversario infatti non riuscirebbe a colmare
la dinamica umana. L’argomento viene trattato nello specifico durante tutta la quarta omelia
del De beatitudinibus 96, nella quale il Nisseno commenta il versetto evangelico secondo cui
sono beati coloro che hanno fame e sete di giustizia (Matth 5, 6). Nel proemio di questo λόγος
l’esegeta istituisce una immediata analogia tra l’anelito dell’animo e la fame e la sete del
corpo, che permette di estendere il fecondo paragone anche all’arte medica. Il corpo
95
96
Cf. DB 113, 21-117, 26.
Cf. DB 109, 23-111, 23.
73
dell’uomo ha bisogno di rinnovare la propria forza attraverso ciò che ingerisce; allo stesso
modo, il desiderio pone una richiesta continua. Chi, per una qualche malattia, non sente
appetito per una sensazione continua di sazietà, non potrà giovarsi del nutrimento, anche
quello necessario, finché una medicina non lo liberi da questo stato; una non naturale sazietà
del desiderio porta l’uomo all’immobilismo, contrario a ciò che è per essenza. I cibi tuttavia,
per loro natura, sono diversi e recano ora giovamento ora detrimento e malattia. Allo stesso
modo, avverte Gregorio, accade rispetto al cibo dell’anima, che si identifica con i desideri
(ἐπιθυµίαι)97: alcuni tendono infatti ai beni mondani o si nutrono del veleno dell’invidia, e ciò
reca loro una malattia sempre più profonda, mentre altri si orientano verso ciò che è di per sé
bello, secondo natura e mai offuscato dalla sazietà98 . La beatitudine evangelica si riferisce
dunque a chi bene orienta il proprio desiderio.
L’anelito dell’uomo è dunque insaziabile e deve essere continuamente riempito; tale
convinzione è espressa con particolare chiarezza nel De vita Moysis 99, quando il Nisseno si
trova a commentare la condizione degli Israeliti ancora asserviti alla schiavitù egiziana:
costoro infatti erano costretti a creare, per mezzo di fango, canne e paglia, mattoni per gli
egiziani. L’esegeta interpreta entrambi questi materiali di costruzione come figura dei piaceri
corporei: gli uomini irretiti dall’avversario vogliono infatti soddisfare il ventre, la gola o la
brama di ricchezza attraverso godimenti naturali che derivano tutti dalla terra o dall’acqua, la
cui mescolanza dà il fango100; le canne e la paglia sono invece lette sulla base della loro
infiammabilità, così come questi desideri rinfocolano il fuoco infernale101 . Questa materia
tenta invano di riempire il vasto spazio della facoltà concupiscibile dell’anima (πρὸς τὴν
ἐπιθυµητικὴν τῆς ψυχῆς … διάθεσιν: VM II 60, 8), la cui profondità è invero infinita; il
Nisseno annota anche che di fronte all’ultima inconsistenza delle risposte materiali alle spinte
dell’anima, questa facoltà continuamente si svuota rivolgendosi a nuovi oggetti che spera
plachino la sua sete: questa tuttavia non viene meno, annota l’autore del De vita Moysis,
finché non ci si sottragga alla vita materiale102 .
Nulla di ciò per cui ci si affanna per raggiungere un piacere, avverte il Nisseno ancora
nella quarta omelia del De beatitudinibus103, ha la capacità di colmare la brama infinita
dell’uomo, come anche ricorderebbe, per enigmi (δι' αἰνίγµατος: DB 119, 19), la Scrittura,
97
Cf. DB 111, 11-23.
Per richiami neoplatonici di questo passo e la corrispondente bibliografia, cf. PENATI 1992, p. 70 n. 2.
99 Cf. VM II 59-62.
100 Cf. VM II 59, 4-7.
101 Cf. VM II 62.
102 Cf. VM II 61, 1-5: ὁ γὰρ πληρώσας ἑαυτοῦ τὴν ἐπιθυµίαν ἔν τινι ὧν ἐσπούδασεν, εἰ πρὸς ἕτερόν τι ἡ ἐπιθυµία
ῥέψειε, κενὸς πρὸς ἐκεῖνο πάλιν εὑρίσκεται· καὶ τοῦτο οὐ παύεται διὰ παντὸς ἐν ἡµῖν ἐνεργού µενον, ἕως ἄν τις
ὑπεξέλθοι τοῦ ὑλώδους βίου.
103 Cf. DB 119, 14-121, 29.
74
98
questa volta attraverso la sapienza dei Proverbi104 : la fatica di versare piacere dopo piacere
nell’abisso del desiderio non ottiene mai come risultato il saziarlo105. Ogni forma di piacere
che sia rinchiuso puramente nei confini del corpo, aggiunge l’esegeta, non rimane in coloro
che lo hanno toccato neppure per brevissimo tempo106 , ma richiede un sempre nuovo ripetersi
di qualcosa di cui non si ha mai un vero possesso. Poco oltre il Nisseno paragona una simile
fatica a quella di coloro che corrono per toccare il vertice della propria ombra: esso è in
ultima analisi irraggiungibile, perché ciò che inseguono si sottrae all’inseguitore senza
offrirgli appigli stabili. Questo stato di finitezza e transitorietà sarebbe proprio dell’essere
temporale dell’uomo, cui secondo Penati il Nisseno allude attraverso l’espressione τῷ τῆς
ζωῆς διαστήµατι (DB 120, 11)107. Gli appetiti propri del corpo non offrirebbero dunque un
godimento continuato, in quanto il loro presentarsi nel tempo ingenererebbe per natura uno
stato di sazietà o illanguidimento che ottunderebbe il desiderio; solo un certo intervallo, in
ultima analisi di insoddisfazione, permetterebbe che esso si riaccenda di nuovo. Von
Balthasar, comprendendo appieno il pensiero del Cappadoce, parla a questo proposito di una
perenne frustrazione per un desiderio che non trascenda l’orizzonte della creazione108.
Sublime insegnamento (δόγµα: DB 120, 4) del Signore che l’uomo deve imparare
(µανθάνοµεν: DB 120, 4) è invece che solo la ricerca della virtù ha radici salde e fondate nella
realtà: chi infatti si comporta secondo i retti insegnamenti (διδαγµάτων: DB 120, 8) evangelici
possiede una gioia che non trapassa e si estende per tutta la durata dell’esistenza. Le azioni
cui essi portano infatti possono essere compiute sempre e non offrono sazietà: la brama che
esse suscitano portano in sé l’oggetto veramente desiderato, la cui caratteristica è l’infinità,
che preclude ad un cammino eterno e mai fermo. La virtù, l’ἀρετή, sarebbe quindi per l’uomo
«l’unica possibilità […] di trascendere i limiti del διάστηµα»109: sul monte delle Beatitudini il
Logos avrebbe dunque insegnato (διδάσκει: DB 121, 6) e promesso che i desideri virtuosi non
avrebbero mai trovato sazietà, offrendo dolcezza in ogni momento del tempo, diventando
possesso di chi compie lo sforzo110.
104
Cf. Prov 23, 19-32.
Cf. DB 119, 19-23: ᾧ πάντοτε κατὰ σπουδὴν ἐπαντλοῦντες, ἀπλήρωτόν τινα καὶ ἀνήνυ τον ἐπιδείκνυνται
κόπον οἱ περὶ ταῦτα σπουδάζοντες, ἐγχέοντες µὲν ἀεί τι τῷ βυθῷ τῆς ἐπιθυµίας, καὶ τὸ πρὸς ἡδονὴν
ἐπεµβάλλοντες, εἰς κόρον δὲ τὴν ἐπι θυµίαν οὐκ ἄγοντες.
106 Cf. DB 120, 1-3.
107 PENATI 1992, p. 79 n. 11: «Il διάστηµα, la distensione spazio-temporale che caratterizza la vita della creatura,
è per Gregorio la cifra dell’essere finito», in quanto costituisce una frontiera per la sua essenza e porta un limite
entro cui è possibile riconoscere attributi particolari (cf. VON BALTHASAR 1942, pp. 2-3). Cf. anche TARANTO
2009, pp. 42-43.
108 Cf. VON BALTHASAR 1942, p. 16.
109 PENATI 1992, p. 80 n. 12.
110 Cf. DB 121, 13-15.19-21: ὁ γὰρ τῆς ἀρετῆς ἐπιθυµήσας, κτῆµα ἴδιον ποιεῖται τὸ ἀγαθὸν, ἐν ἑαυτῷ βλέπων ὃ
ἐπεθύµησεν. […] τῇ τε γὰρ ἐπιθυµίᾳ τῆς ἀρετῆς ἡ τοῦ ἐπιθυµηθέντος κτῆσις ἐπηκολούθησεν· καὶ τὸ
ἐγγενόµενον ἀγαθὸν ἄπαυστοι τὴν εὐφροσύνην τῇ ψυχῇ συνεισήνεγκεν.
75
105
Il Nisseno approfondisce il tema ancora nel De instituto. In un passo 111 si legge infatti che
il cammino della retta filosofia, termine che ancora nel identifica la condotta di vita scelta dai
monaci, non è una strada agevole ma richiede da parte dell’uomo un forte impegno, che ha il
suo inizio innanzitutto dalla conoscenza dello scopo (εἰδέναι τὸν τῆς φιλοσοφίας σκοπόν: DI
64, 4-5) e dall’apprendimento della fatica del cammino e della sua meta (µεµαθηκότες τῆς τε
πορείας τὸν πόνον καὶ τοῦ δρόµου τὸ πέρας: DI 64, 7-8). Questo permette infatti all’uomo di
non fermarsi all’arroganza e alla superbia che potrebbe prendere la sua anima rivolta alle
buone azioni compiute; ciò, nella visione del Nisseno, è un grave rischio che potrebbe
addirittura vanificare il cammino percorso. Modello della vita è invece Cristo stesso, come
Gregorio riafferma con le parole di 1Cor 11, 11, e la strada per coloro che desiderano imitarlo
è il sacrificio, il rinnegare se stessi, come per Cristo fu la croce112 . Questa esortazione del
Vangelo, spiega il Nisseno poco oltre113 , vuole richiamare l’uomo a non essere servo
nemmeno della propria volontà, ma di rivolgersi costantemente alla parola divina: solo questa
infatti può essere il buon timoniere (ἀγαθῷ κυβερνήτῃ: DI 67, 5) che indirizza la comunità dei
fratelli, resa una dalla concordia, al porto del volere di Dio. Il rinnegare se stessi (ἄρνησις
ψυχῆς: DI 67, 2-3) è letta dall’esegeta la conversione dello sguardo: l’uomo deve infatti
rivolgere gli occhi, prima fissi su di sé, o su quelli che potrebbero sembrare i propri meriti, a
quell’unica ricchezza promessa da Dio. Occorre infatti, commenta il vescovo, avere un
insaziabile desiderio di giustizia e di perfezione che permetta di riconoscersi miseri e
bisognosi, come se ci si trovasse ancora lungi dal compimento delle promesse annunciate e
trapiantati lontano dal perfetto amore verso Cristo114 . Chi brama questo amore infatti non
rimane inviluppato nelle azioni pur buone che può compiere, ma è traboccante del desiderio
di Dio e guarda intensamente verso colui che lo chiama e non si cura della fatica richiesta per
raggiungerlo. In questo modo rende se stesso stimato di fronte a Dio, pur non essendo
consapevole di essersi reso tale115 . Gregorio conclude che proprio questa umiltà ultima del
cuore di colui che pure è grande nelle opere è il successo più grande della vita amante della
vera sapienza: questi infatti biasima il successo della vita terrena e getta lontano da sé grazie
al timor di Dio la presunzione, godendo così dell’annuncio quanto nella fede lo ha amato, e
111
Cf. per tutto il passo DI 63, 20-66, 13.
I passi cui probabilmente si rifà Gregorio sono Matth 16, 24, Marc 8, 34 e Luc 9, 23.
113 Cf. DI 67, 2-7: ἄρνησις δὲ ψυχῆς τὸ µηδαµοῦ ζητεῖν τὸ ἑαυτοῦ θέληµα θεραπεύειν, µᾶλλον δὲ ἑαυτοῦ θέληµα
ποιεῖν τὸν ἐφεστῶτα τοῦ θεοῦ λόγον καὶ τούτῳ κεχρῆσθαι καθάπερ ἀγαθῷ κυβερνήτῃ τῷ τὸ κοινὸν τῆς
ἀδελφότητος πλήρωµα µεθ' ὁµονοίας ἐπὶ τὸν λιµένα τοῦ θελήµατος τοῦ θεοῦ διευθύνοντι.
114 Cf. DI 65, 13-17: … ἀκόρεστον ἔχοντας τὴν τῆς δικαιοσύνης ἐπιθυµίαν, ἧς µόνης χρὴ πεινῆν καὶ διψῆν τοὺς
εἰς τὸ τέλειον φθάσαι ζητοῦντας, ταπεινοὺς δὲ καὶ περιδεεῖς γινοµένους ὡς πόρρω που τῶν ἐπηγγελµένων
τυγχάνοντας καὶ τῆς τελείας τοῦ Χριστοῦ µακρὰν ἀπῳκισµένους ἀγάπης.
115 Cf. DI 65, 24-66, 4: φιλονεικεῖ δὲ µέχρι τῆς τοῦ βίου τούτου τελευτῆς, πόνοις πόνους καὶ ἀρεταῖς ἀρετὰς
συνάπτων, µέχρις ἂν τίµιον ἑαυτὸν τῷ θεῷ κατα στήσῃ διὰ τῶν ἔργων, οὐκ ἔχων ἐν τῷ συνειδότι τὸ νοµίζειν
ἄξιον ἑαυτὸν πεποιηκέναι θεῷ.
76
112
non nella misura in cui faticando ha compiuto delle opere116. I doni della salvezza sono infatti
tanto grandi da non poter trovare nessuna fatica che sia degna di ripagarli.
L’itinerario che Gregorio propone non è riservato a chi ha già compiuto scelte di vita
particolari, come quella monastica o eremitica, o sia già ben instradato nel cammino della
salvezza: l’anima infatti diventa giglio, simbolo di purezza perché si stacca dal suolo e non
partecipa della natura della terra, pur spuntando da essa117 , sia quando ha già realizzato in sé
questa virtù, sia quando lo desiderasse con cuore sincero perché rivolto allo Sposo (πρὸς τὴν
ἀγαθὴν ἐπιθυµίαν τῆς πρὸς αὐτὸν ὁρώσης: IC 114, 18-19). In quelle pagine Gregorio rimarca
ancora con enfasi infatti l’importanza della forza del desiderio (ἡ ἐπιθυµητικὴ δύναµις: IC
119, 5), che è stata posta nell’uomo perché faccia sorgere nel suo cuore il desiderio di Dio.
Quest’ultimo infatti si propone come il compimento di ogni brama, in quanto l’anima più che
ogni altra cosa desidera essere sottomessa dall’amore (ζητεῖ γὰρ ὑποταγῆναι τῇ ἀγάπῃ: IC
120, 16-17), e Dio, secondo una definizione già giovannea (1 Ioh 8), si identifica con l’ἀγάπη.
Il progresso infinito nel cammino alla perfezione non è qualcosa di automatico, ma chiede
la piena partecipazione della libertà dell’uomo, che ha innanzitutto il compito di mantenere
una disposizione d’animo adeguata. Come si legge nel De instituto118, i doni dello Spirito non
devono infatti ingenerare nell’uomo uno stato di sazietà, che bloccherebbe il cammino di
questi. Al contrario, l’esegeta ricorda spesso la povertà di spirito evangelica di Mt 5, 3 (τῷ
φρονήµατι πένης: DI 61, 1-2), sempre in lotta contro le passioni. È questo ciò cui Paolo
educa119 i suoi discepoli attraverso la preghiera e l’insegnamento (τοὺς µαθητὰς ἀνάγει δι'
εὐχῆς τε καὶ διδαχῆς: DI 61, 6), mostrando così l’importanza, nel pensiero del Nisseno, di una
guida che introduca e renda saldi nella buona disposizione d’animo.
Ma l’educazione per Gregorio è necessaria anche perché, come si avrà modo di
approfondire, la creatura umana ha la possibilità di contrapporsi coscientemente a questa
dinamica suscitata dal desiderio rifiutando la proposta divina. Una possibile esemplificazione
di questo concetto è presente in un passo delle omelie in Canticum nel quale l’esegeta tratta
della fonte della Sapienza120 . Per commentare Cant 1, 2 Gregorio cita infatti il versetto
giovanneo «Se uno ha sete, venga da me e beva» (Ioh 7, 37) e gli accosta l’episodio
116
Cf. DI 66, 4-9: τοῦτο γάρ ἐστι κατόρθωµα µέγιστον φιλοσοφίας τὸ µέγαν ὄντα τοῖς ἔργοις συστέλλε σθαι τῇ
καρδίᾳ καὶ καταγινώσκειν τοῦ βίου, κάτω που ῥίψαντα τῷ πρὸς θεὸν φόβῳ τὴν οἴησιν, ὅπως ἀπολαύσῃ τῆς
ἐπαγγελίας καθόσον πιστεύσας ἠράσθη ταύτης, οὐ καθόσον πονέσας εἰργάσατο.
117 Cf. IC 114, 3-9.
118 Cf. DI 60, 18-61, 19.
119 È significativo l’uso del presente ἀνάγει per esprimere la proposta educativa di Paolo: la presenza appena
precedente dell’aoristo ἔφθασεν fa intuire che il verbo successivo non sia un presente storico, bensì rispecchi il
suo pieno valore. L’insegnamento di Paolo infatti, ora parte delle Scritture, travalica il momento particolare in
cui è stato pronunciato, vero κτῆµα ἐς αεί, e può continuare la sua opera educativa.
120 Cf. IC 32, 5-33, 11.
77
evangelico in cui una donne unse i piedi di Cristo a casa di un uomo di nome Simone121, che
Luca dice essere un fariseo, Matteo e Marco un lebbroso. È proprio quest’ultima
caratterizzazione ad interessare il Nisseno: egli infatti sottolinea come, secondo il testo
lucano, questi non avesse dato a Gesù neanche il bacio di benvenuto, che tuttavia lo avrebbe
sanato dalla lebbra, perché avrebbe toccato la stessa purezza. Simone invece rimase
insensibile al desiderio di Dio a causa della malattia e del suo πάθος (ἀνέραστος ἦν … καὶ
πρὸς τὴν θείαν ἐπιθυµίαν µένων ὑπὸ τοῦ πάθους ἀκίνητος: IC 33, 8-10).
L’anima dell’uomo tuttavia nella maggior parte dei casi di fronte alle insidie del maligno si
trova lontana dalle giuste preoccupazioni e per questo senza difese (ἀµελῆ καὶ ἀφύλακτον: DI
40, 12-13): essa è infatti noncurante (ὑπὸ ῥᾳθυµίας: DI 40, 13) dei pericoli che le arrivano
attraverso le realtà visibili e transeunti, le passioni che vanno contro la propria facoltà
razionale, segno del divino e il piacere amaro del peccato (διὰ πάθους ἀλόγου καὶ πικρᾶς
ἡδονῆς: DI 40, 12).
Di fronte alle tentazioni delle passioni e all’adescamento che ogni male porta con sé, Dio
ha però concesso all’uomo un rimedio (τὸ σωτήριον … φάρµακον: DI 41, 3-4), donato a
coloro che mostrano di possedere un simile desiderio (τοῖς πόθῳ δεχοµένοις: DI 41, 4-5).
Questo dono consiste nella grazia della conoscenza della verità (τὴν γνῶσιν τῆς ἀληθείας: DI
41, 3), secondo un facile parallelismo che vede nella verità la manifestazione della divinità. È
questa una prima via che conduce (ὁδηγεῖν: DI 41, 8) la creatura verso la salvezza.
I.2
La conoscenza
Come si legge, tra le altre opere, anche nel De infantibus praemature abreptis 122, ciò che è
proprio dell’uomo è la grazia del λόγος. Esso ha la sua attività principale nella γνῶσις.
Secondo Gregorio infatti la conoscenza non riveste la qualifica di οὐσία, bensì è l’ἐνέργεια
precipua dell’uomo e della sua διάνοια che si rivolge verso una qualche realtà123. Tale attività
per quanto possibile avvicina alla µετουσία con la divinità, compiendo così la vera vita
dell’anima124 . È questa caratteristica che consente all’uomo di sopravanzare qualsiasi essere
non puramente spirituale125; si può dire anzi con Taranto che Gregorio stesso «innalza il suo
121
Matth 26, 6-13; Marc 14, 3-9; Ioh 12, 1-8; Luc 7, 36-50.
Cf. DIP 73, 7: ἀνθρώπου ἴδιον ἡ λογικὴ χάρις ἐστίν.
123 Cf. DIP 80, 16-17: ἡ γνῶσις οὐσία οὐκ ἔστιν, ἀλλὰ περί τι τῆς διανοίας ἐνέργεια.
124 Cf. DIP 80, 21-26: έπειδὴ τοίνυν ζωὴν µὲν ψυχῆς τὴν τοῦ θεοῦ µετουσίαν ὁ λόγος εἶναί φησι, γνῶσις δὲ κατὰ
τὸ ἐγχωροῦν ἐστιν ἡ µετουσία, ἡ δὲ ἄγνοια οὐχί τινός ἐστιν ὕπαρξις, ἀλλὰ τῆς κατὰ τὴν γνῶσιν ἐνεργείας
ἀναίρεσις, τῷ δὲ µὴ ἐνεργεῖσθαι τοῦ θεοῦ τὴν µετουσίαν ἡ τῆς ζωῆς ἀλλοτρίωσις ἀναγκαίως ἐπηκολούθησεν
(τοῦτο δ' ἂν εἴη τῶν κακῶν τὸ ἔσχατον), κτλ.
125 Cf. IC 173, 7-174, 20.
78
122
edificio teorico proprio al fine di comprendere, per quanto è possibile, il senso
dell’esistente»126.
La verità cui l’uomo aspira si trova al di fuori della sua natura; questa viene raggiunta da
allegorie e simboli127 da interpretare, per lo più attraverso una conoscenza mediata dal
linguaggio128 . Essi, come chiavi, provano ad aprire la porta del senso delle realtà
inesprimibili, che, per quanto sia penetrante, è sempre però frutto di congettura129 . Per
esperienza diretta non si può infatti conoscere ogni cosa, ma solo quelle realtà cui la nostra
natura permette che ci accostiamo, assaporandone la dolcezza130 .
Nel De vita Moysis, durante il commento del passo dell’Esodo nel quale il legislatore si
avvicina al roveto ardete131 , Gregorio propone una profonda riflessione sul cosa sia la verità,
che si manifesta nella luce della conoscenza. Punto di partenza è il rilevare che la verità si
rivela da sé; essa necessita solo di un puro riconoscimento da parte dell’uomo, la cui
προαίρεσις deve esercitarsi a non sovrapporvi identificazione errate che nascono dalla carne.
Conoscenza dell’essere è infatti, secondo il Cappadoce, purificazione dalle opinioni relative al
non essere132. La verità è la retta comprensione dell’essere, della realtà; l’errore, invece,
consiste nel seguire l’opinione formatasi nell’intelletto umano, che pretenderebbe quasi di
conferire esistenza a ciò che in realtà non la possiede133 . L’uomo deve dunque esercitarsi a
distinguere ciò che riveste l’essere per propria natura e ciò che in realtà ne partecipa solo in
apparenza: in tal modo potrà riconoscere come unico esistente la causa ultima dell’universo,
da cui quest’ultimo dipende. Solo Dio infatti possiede la pienezza dell’essere, è sempre
uguale a se stesso, non abbisogna di nulla, non presuppone la creazione da un altro essere e,
solo desiderabile, non è diminuito dalla partecipazione di altri alla sua natura. Conoscenza
della realtà, e quindi della verità, diventa per questo la conoscenza di Dio.
126
TARANTO 2009, p. 44.
Cf. IC 324, 15-18: ἔξω τοίνυν ἑστῶσα τῆς φύσεως ἡµῶν ἡ ἀλήθεια διὰ τῆς ἐκ µέρους γνώσεως, καθώς φησιν
ὁ ἀπόστολος, ἐν ὑπονοίαις τισὶ καὶ αἰνίγµασι θυροκρουστεῖ τὴν διάνοιαν.
128 Cf. TARANTO 2009, p. 125: «Il linguaggio [...] rappresenta la manifestazione della capacità teoretica della
creatura. Attraverso la parola-simbolo come attraverso qualsiasi altra rappresentazione, può avvenire l’autentica
conoscenza noetica, fondata sulla trasmettibilità delle nozioni e sulla capacità di astrazione dell’intelletto. La
conoscenza “secondo il pensiero umano” è, così, per Gregorio, una conoscenza delle forme simboliche, poiché è
fondata sulla capacità evocativa del segno». Non è possibile affrontare in questa sede tale tematica; si rimanda
pertanto a TARANTO 2009, p. 109-140.
129 Cf. IC 324, 14-15: θύραν δὲ νοοῦµεν τὴν στοχαστικὴν τῶν ἀρρήτων διάνοιαν, δι' ἧς εἰσοικίζεται τὸ
ζητούµενον.
130 Cf. IE 306, 3-5: ἡµεῖς γὰρ οὐ τῇ ἑαυτῶν πείρᾳ πάντα µανθάνοµεν, ἀλλὰ διὰ µόνων τῶν λογισµῶν ἐκεῖνα
γινώσκοµεν, ὧν τὴν ἀπολαυστικὴν τῶν ἡδέων πεῖραν ἡ πενία κωλύει.
131 Cf. Exod 3, 1-6, commentato in VM II 22-26.
132 Cf. VM II 22, 8-10: καὶ οὕτως ἐπακολουθήσει τούτων ἡµῖν γενοµένων ἡ τῆς ἀληθείας γνῶσις, αὐτὴ ἑαυτὴν
φανεροῦσα· ἡ γὰρ τοῦ ὄντος ἐπίγνωσις τῆς περὶ τὸ µὴ ὂν ὑπολήψεως καθάρσιον γίνεται.
133 Cf. VM II 23, 1-5: τοῦτο δέ ἐστι κατά γε τὸν ἐµὸν λόγον ὁρισµὸς ἀληθείας τὸ µὴ διαψευσθῆναι τῆς τοῦ ὄντος
κατανοήσεως. Ψεῦδος γάρ ἐστι φαντασία τις περὶ τὸ µὴ ὂν ἐγγινοµένη τῇ διανοίᾳ, ὡς ὑφεστῶτος τοῦ µὴ
ὑπάρχοντος, ἀλήθεια δὲ ἡ τοῦ ὄντως ὄντος ἀσφαλὴς κατανόησις.
79
127
Nella sesta omelia del De beatitudinibus 134 si legge come l’uomo può conoscere solo
attraverso i suoi sensi135 , e per tal motivo ha rapporto essenzialmente con la creazione; tale
intelligenza sembrerebbe dunque esercitarsi principalmente su una definitezza rapportabile a
una misura, vale a dire sull’aspetto quantitativo del reale, e al tempo136: come bene annota
Taranto137 , «la quantità è la misura del sensibile: da ciò consegue che [per la realtà sensibile] è
perfettamente compiuta solo l’entità sensibilmente definita», comprensibile in quanto
misurabile. Tale concezione rivela però ben presto la sua fallacia: in questo modo infatti la
conoscenza dell’uomo si limita essa stessa, non proseguendo nella strada cui è introdotta dalle
sensazioni da cui è stata raggiunta. Come si legge ad esempio nella prima omelia In
Ecclesiasten138, l’uomo non cessa mai di contemplare i fenomeni con la propria vista, ma in
realtà continua a ignorare ciò che effettivamente ha visto: egli non raggiunge l’essenza, ma si
ferma alla superficie, al mero apparire; lo stesso si può affermare riguardo all’udito, in quanto
non si troverà mai un discorso capace di esaurire ciò che si può dire su un qualsiasi
argomento, che rimane sempre più ampio e profondo di qualsiasi proponimento, per quanto
esaustivo. I sensi, nell’ottica di Gregorio, sono dunque un criterio ingannevole per conoscere
la verità profonda della realtà139 : essi devono essere considerati piuttosto come una via che
schiude ad una comprensione più profonda, che può essere operata solo dalla διάνοια140.
Metodo della conoscenza diventa quindi imparare dalle cose piccoli le grandi, riconoscendo
nelle realtà mondane, che assomigliano ad ombre, la realtà del loro archetipo141 . Come si
legge nella prima omelia In Ecclesiasten142, troppo spesso però la dissennatezza umana di
fronte alle meraviglie del creato non si rivolge a colui che attraverso ciò che vede deve essere
ammirato, ma si ferma nella pura ammirazione dell’effimero: l’insegnamento (µανθάνοµεν:
IE 285, 7) del testo mira proprio a mostrare l’inconsistenza di un simile sguardo, proponendo
alla creatura di guidare (ὁδηγούµενος: IE 285, 9) la propria intelligenza verso la
134
Cf. DB 140, 15-141, 27. Come bene emerge dal passo, il Nisseno preferisce l’uso di un lessico stoico in
materia di epistemologia. Cf. PENATI 1992, p. 103 n. 12.
135 Cf. TARANTO 2009, p. 433 n. 132. Sul fondamento gnoseologico che pertiene alla sensibilità, cf. DESALVO
1996, pp. 50-53; per quanto riguarda il processo conoscitivo della facoltà intellettuale, cf. DESALVO 1996, pp.
54-57.
136 Proprio come per quanto riguarda il desiderio, anche la sfera conoscitiva dell’uomo è ontologicamente
determinata dal suo essere immerso nella temporalità, dal suo διάστηµα: il pensiero umano è infatti, come si
legge nel De infantibus, un νόηµα διαστηµατικόν (cf. DIP 77, 8), avviluppato dalla sua limitatezza ontica (cf.
VON BALTHASAR 1942, p. 32).
137 Cf. TARANTO 2009, p. 32. Lo studioso commenta in tal modo VM I 5. Per Gregorio, come per gli stoici prima
di lui, la conoscenza sensibile è alla base di una certezza “scientifica”: a tal proposito cf. VON BALTHASAR 1942,
p. 61.
138 Cf. IE 293, 2-294, 17.
139 Cf. VG 39, 21-22: σφαλερὸν γὰρ κριτήριον τῆς τῶν ὄντων ἀληθείας ἡ αἴσθησις, τὴν πρὸς τὸ βάθος τῆς
διανοίας εἴσοδον δι' ἑαυτῆς ἀποκλείουσα.
140 «Le monde matériel en est l’obiet [...], et l’acte moral est en sa racine même un choix er un discernement
(κρίσις)» (VON BALTHASAR 1942, p. 46).
141 Cf. ST 64, 13-14: ὁ φρονῶν οὕτως, ἐκ τῶν µικρῶν τὰ µε γάλα κατάµαθε, ἐκ τῶν σκιῶν τὰ ἀρχέτυπα νόησον.
142 Cf. IE 285, 4-5: ἡ δὲ ἀνθρωπίνη ἀβουλία οὐ τὸ διὰ τῶν φαινο µένων θαυµαζόµενον εἶδεν ἀλλ' ὃ εἶδεν
ἐθαύµασεν.
80
contemplazione del vero bene, che rappresenta per l’uomo il possesso che di esso può
raggiungere143.
Ogni conoscenza è poi commisurata alle capacità di chi la riceve. Come ad esempio si
legge nell’Ad Theophilum 144, le stesse epifanie divine, nelle quali si mostra sempre il Figlio e
dunque non dovrebbero dare adito a differenziazioni, essendo unico e immutabile colui che si
rivela, offrono agli uomini che le hanno ricevute come grazia diverse percezioni in quanto
ciascuno percepisce la natura sublime in rapporto alla misura delle proprie capacità. La
manifestazione di Cristo nella carne, ricorda quindi il vescovo, si ebbe perché non vi era più,
come affermano Ps 13, 3 e 81, 5, nessuno che potesse comprendere le vere sommità di Dio:
anzi, come insegnarono (µεµαθήκαµεν: AdT 123, 16) le parole dello stesso Messia (cf. Matth
12, 42), i sodomiti, gli abitanti di Ninive e la regina di Saba, simboli dei grandi peccatori
antichi o di persone non appartenenti al popolo eletto, avrebbero giudicato la generazione
umana di quei giorni, rea di tale mancanza di conoscenza.
Dato che l’uomo non può che appoggiare la propria capacità intellettiva su ciò che ha
recepito attraverso i sensi, occorre una educazione che guidi per mano (χειραγωγεῖν: DV 291,
16) il pensiero verso l’invisibile attraverso ciò che è conosciuto dalle sensazioni145 . A tal
proposito Gregorio offre nel De virginitate146 una descrizione di tutti i passi del metodo.
Viene presentato innanzitutto uno sguardo superficiale, che prescinde dalla vera capacità
cognitiva umana, si ferma alla apparenza delle cose e si accompagna alla presunzione di
conoscere attraverso questa l’essenza di ciò che è oggetto della ricerca. Nel caso di un uomo,
la mole del corpo basterebbe, a detta di chi partisse da tale ipotesi, a comprendere cosa esso
sia in modo esauriente. Chi invece è stato educato (πεπαιδευµένος: DV 291, 23) a guardare
attraverso gli occhi dell’anima discerne le qualità che caratterizzano quel corpo, esaminandole
singolarmente e dando solo in seguito un giudizio sintetico. Così capita, continua il Nisseno,
anche nella ricerca del bello, laddove la differenza si situa nel fermarsi alle singole realtà belle
o nello spingersi verso la bellezza in sé. Per raggiungere tale obiettivo Gregorio sottolinea la
necessità del discernimento (διάκρισιν: DV 292, 23), orientato al bello in sé e a nessun’altra
cosa, come l’autore esprime attraverso un riecheggiamento di Hebr 5, 14. Come ben scrive
Ferro Garel147 , «la concezione di Gregorio si orienta [...] nella direzione di una penetrazione
del dato sensibile, di un suo attraversamento fino ai recessi più nascosti delle sue possibilità,
143
Cf. IE 285, 12: κτῆσις γάρ ἐστι τοῦ ἀγαθοῦ τούτου ἡ εἴδησις. «Il fermarsi all’apparenza», commenta
DESALVO 1996, pp. 100-101, «denuncia un uso delle potenzialità della ragione non adeguato alla sua struttura,
articolata in una gradualità di livelli di sviluppo - facoltà - che corrispondono a livelli diversi di penetrazione
della realtà».
144 Cf. AdT 123, 1-19.
145 Cf. DV 291, 15-17: δεῖ τοίνυν τῆς ἀσθενείας ἕνεκεν ταύτης διὰ τῶν τῇ αἰσθήσει γνωρίµων χειραγωγεῖν πρὸς
τὸ ἀόρατον τὴν διάνοιαν.
146 Cf. DV 291, 15-297, 8.
147 FERRO GAREL 2004, p. 243.
81
senza uscire da esso per entrare in qualcosa d’altro, ma spingendo l’occhio in profondità, nelle
profondità di quella che è e resta un’unica realtà». La scoperta del bello è dunque una
strada148 che parte dalla rinunzia all’apparenza delle cose, per conservare unita la propria
forza desiderante; essa deve essere sempre messa in moto e condotta per mano
(χειραγωγεῖσθαι: DV 293, 23) dove non giungono le sensazioni. Tale concezione rimane,
approfondendosi, nell’arco di tutto il pensiero del Nisseno; Desalvo ad esempio ricorda come
nel De vita Moysis l’educazione venga presentata come «indirizzata alla creazione di una
mentalità che si abitui a non considerare la realtà esclusivamente all’interno della sua
determinazione sensibile, e perciò a non trarre unicamente dal riverbero della sensibilità sulla
coscienza il criterio dell’agire. L’educazione mira ad allargare l’orizzonte conoscitivo, e ciò
non solo in estensione, bensì arricchendolo di una nuova dimensione, intellegibile, cioè
appunto esorbitante i limiti della percezione sensibile»149.
Da ultimo, occorre notare come non ogni conoscenza sia in sé positiva: essa si informa
infatti a partire dalla sua origine. Ciò che si può sapere del futuro, ad esempio, è il più delle
volte giudicato dal Nisseno nefando, in quanto, come si legge nel Contra fatum150, è per lo più
un inganno delle potenze demoniache.
I.2.1
Esperienza
Il confronto con la realtà è molto importante per l’opera gregoriana: l’esperienza, come si
legge in un inciso del De infantibus praemature abreptis151, è infatti maestra di ciò che è utile.
Il metodo proposto è sovrapponibile a quello della via analogiae: l’esegeta invita infatti a
guardare all’esperienza constatabile (ὃ δὴ καὶ τῇ πείρᾳ µανθάνοµεν: VM II 9, 1-2) per essere
avvertiti di ciò che si spesso viene espresso come massima più generale152. Di fronte
148
Cf. DV 293, 12-294, 1: οὐκοῦν αὕτη ἂν γένοιτο ἡµῖν ὁδὸς εἰς τὴν τοῦ καλοῦ εὕρεσιν ἄγουσα· τὸ πάντα τὰ
ἄλλα, ὅσα τὰς ἐπιθυµίας τῶν ἀνθρώπων ἐφέλκεται, καλὰ εἶναι νοµιζόµενα καὶ διὰ τοῦτο σπουδῆς τινος καὶ
ἀποδοχῆς ἀξιούµενα, ταῦτα ὑπερβαίνοντας ὡς ταπεινά τε καὶ πρόσκαιρα, µηδενὶ τούτων προσαναλίσκειν τὴν
ἐπιθυµητικὴν ἡµῶν δύναµιν, µήτε µὴν ἀργὴν καὶ ἀκίνητον ἐν ἑαυτοῖς κατακλείσαντας ἔχειν, ἀλλ' ἐκκαθάραντας
αὐτὴν ἀπὸ τῆς τῶν ταπεινῶν προσπαθείας ἐκεῖ ἀνάγειν, ὅπου οὐκ ἐφικνεῖται ἡ αἴσθησις, [...] ἀλλὰ διὰ τοῦ πᾶσι
τούτοις ἐπιθεωρουµένου κάλλους χειραγωγεῖσθαι πρὸς τὴν ἐκείνου τοῦ κάλλους ἐπιθυµίαν.
149 DESALVO 1996, p. 145.
150 Cf. CF 57, 18-60, 10. In quest’opera il filosofo che interloquisce con Gregorio cerca di provare la veridicità
degli influssi astrali mostrando come ad alcuni furono predette con esattezza le vicende della vita, di modo tale
che lui potesse imparare in anticipo (προµαθών: CF 57, 24) ciò che gli riserva il futuro. A fronte di questa
posizione Gregorio asserisce che è meglio essere giudicati ineducati a ciò e ignoranti (ἀµαθεστέροις: CF 58, 6),
in quanto la dottrina cristiana (τῶν ἡµετέρων δογµάτων: CF 58, 7) offre una spiegazione adeguata a tale
questione, che tuttavia sarebbe motivo di riso per i pagani. Non temendo le possibili irrisioni, il Nisseno
manifesta la propria convinzione al suo interlocutore, spiegandogli come oltre alla natura divina, buona per
natura, vi sia una potenza avversa al genere umano, il cui appannaggio è l’inganno e la perversione del desiderio
dell’uomo, rivolto per sua naturale inclinazione al bene.
151 Cf. DIP 69, 1-2: τὴν πεῖραν [...] τοῦ λυσιτελοῦντος διδάσκαλον.
152 Cf. VM II 9.
82
all’incredulità dei Corinzi153, ad esempio, Gregorio sottolinea come Paolo li esorti a dedurre
analogicamente dagli esempi all’uomo più familiari la potenza di Dio. Questo metodo di
conoscenza, come sottolinea Penati, comunque «non valica i confini della ‹congetturalità› che
caratterizza ogni conoscenza umana»154.
La sapienza divina, dopo la Caduta, ha lasciato l’uomo nella condizione che si era scelto
affinché imparasse per esperienza (τῇ πείρᾳ µαθών: DM 54, 14) cosa aveva perduto, per
desiderarlo nuovamente. Allo stesso modo, un medico conosce ciò che è utile a suo figlio; non
può tuttavia evitare che questo desideri un’erba o un frutto nocivi; conoscendo il rimedio, il
padre potrà anche concedere al figlio di gustare i cibi dannosi, perché l’esperienza (πείρας:
DM 55, 2) del dolore gli insegni (µαθόντα: DM 55, 3) a seguire i consigli paterni155.
In questo modo l’esperienza, propria o altrui, diventa una tra le fonti principali
dell’educazione: nella quarta omelia del De oratione dominica, nel passo in cui si tratta della
richiesta del pane quotidiano156, Gregorio lamenta la poca attenzione della creatura alla realtà,
dalla quale potrebbe ricavare gli insegnamenti che le servono. Troppo spesso invece gli
uomini non vengono educati dai casi degli altri, ma hanno sempre bisogno di nuovi segni,
anche quando ve ne siano in abbondanza157 : nel caso specifico, il Nisseno aveva appena
rilevato come gli animali privi di ragione non si preoccupano per il loro sostentamento nel
futuro; a fronte di questo, l’uomo invece si lascia distrarre da queste preoccupazioni che
dovrebbe invece riconoscere appartenere all’effimero invece di curarsi del regno dei cieli e
della sua giustizia, secondo il noto passo evangelico158.
Come si legge nell’Ad Eustathium 159, per insegnare (διδασκοµένων: AdE 16, 5) la Scrittura
fa uso di metafore tratte dalla vita dell’uomo (ἐκ µεταφορᾶς τῶν τῇδε νενοµισµένων: AdE 15,
20-21); l’esperienza delle cose visibili è richiamata anche nella prima omelia In
Ecclesiasten160, che esorta ad imparare (µαθών: IE 288, 8) da essa la mutevolezza di ciò che è
effimero, per rivolgersi a ciò che invece è consistente. Ogni espressione della vita o della
153
Cf. TeI 10, 7-18, riferito a 1Cor 15, 35; il passo successivo continuerà la lettura e il commento dell’epistola
(TeI 10, 18-13, 16 che si riferisce a 1Cor 15, 36-49). Si riporta, perché particolarmente significativo, TeI 10,
14-18: διὰ τοῦτο πολλοὺς αὐτοῖς παρέθετο λογισµούς, πείθων µὴ τῇ ἑαυτῶν δυνάµει τὴν τοῦ θεοῦ παρεικάζειν
µήθ' ὅσον ἀνθρώπῳ ἀµήχανον καὶ ἐπὶ θεοῦ τὸ ἴσον οἴεσθαι, ἀλλ' ἐκ τῶν γνωρίµων ἡµῖν ὑποδειγµάτων τὸ
µεγαλεῖον τῆς θείας ἐξουσίας ἀναλογίζεσθαι.
154 Cf. PENATI 1992, p. 147 n. 15.
155 Cf. DM 54, 1-56, 7. L’idea della esperienza necessaria all’apprendimento (τῇ πείρᾳ µαθών) secondo Von
Balthasar è mutuata da Gregorio anche dall’opera di Ireneo: cf. VON BALTHASAR 1942, pp. 55-56.
156 Cf. OD 56, 23-58, 22.
157 Cf. OD 57, 21-24: ἡµεῖς δὲ συµβούλων δεόµεθα πρὸς τὸ συνιέναι τὸ ἐπίκηρον τοῦτο καὶ ἐφήµερον τῆς κατὰ
σάρκα ζωῆς. Οὐ παιδευόµεθα τοῖς ἀλλοτρίοις συµπτώµασιν; οὐ πρὸς τὸν ἴδιον σωφρονιζόµεθα βίον;
158 Tutto il passo è costruito sulla falsariga di Matth 6, 25-34.
159 Cf. AdE 15, 17-16, 21. Nel brano Gregorio tratta della maestà che pertiene come al Padre e al Figlio anche
allo Spirito; la dignità regale che ebbe infatti il Figlio, l’Unto, è collegata all’unguento che veniva versato sui re,
simbolo della loro nuova regalità e allo Spirito: in questo modo la Scrittura, grazie ad una metafora tratta dai
nomi usuali, indica la compartecipazione nella regalità del Figlio e dello Spirito.
160 Cf. IE 288, 7-15.
83
realtà può infatti fornire esempi da cui imparare161 : di seguito all’esortazione appena ricordata
Gregorio invita, ad esempio, a prendere come paradigma (ὑποδείγµατι: IE 288, 14) la
saldezza della terra per educare se stessi (παιδοτριβείσθω: IE 288, 15) alla perseveranza.
Poche pagine dopo, la stessa opera riafferma la iunctura tra esperienza (πείρα) e
insegnamento162: punto di partenza di un cammino conoscitivo è comprendere l’inanità della
realtà sensibile, dal punto di vista ontologico e come risposta al desiderio dell’uomo. Tale
fattore è infatti ineludibile del vissuto di ogni creatura ed in esso è riscontrabile facilmente.
Come si legge anche nell’omelia In diem luminum 163, gli esempi rendono sempre gli
argomenti trattati più vividi per coloro che ascoltano, di modo tale che il Nisseno giudica
proficuo educare attraverso un’immagine chi ancora non partecipa alla salvezza.
Naturalmente, come già si accennava, le immagini ricavate dagli esempi, per una retta
comprensione, devono essere esse stesse travalicate: quando nell’Oratio catechetica
magna164, ad esempio, il Nisseno si trova a rispondere ad una obiezione che vorrebbe
appuntarsi sull’impossibilità, per la natura divina, di essere contenuta in una creatura, per
definizione circoscritta, Gregorio sceglie di affidarsi all’esempio del fuoco: in esso infatti è
facile distinguere la fiamma che si appicca alla materia, distinguibili dall’intelletto ma non
all’atto pratico (ἔργῳ: OC 39, 26); nessuno infatti potrebbe mai sostenere ragionevolmente
che la fiamma sia racchiusa da ciò che brucia. A conclusione dell’esempio, Gregorio avverte
comunque di fermarsi a considerare, nell’esempio, solo ciò che nell’immagine è confacente al
discorso, tralasciando quello che non corrisponde ad esso165.
L’esperienza insegna, conferma il ragionamento umano166 e ne attesta (µαρτυρεῖται: ApH
46, 6) la validità167 : un valido insegnamento può anzi derivare anche da una pura
consequenzialità logica basata sull’osservazione, come si legge nella prima omelia In
Ecclesiasten168, laddove il Nisseno commenta i versetti Eccl 1, 9: in essi, secondo l’esegeta, il
Logos stesso esorta la creatura a riflettere sulla propria condizione e ad essere educata da
161
Cf. anche ApH 56, 5-6, dove è robadito lo stesso concetto: κατὰ τὸ [...] ὑπόδειγµα µεµαθήκαµεν.
Cf. ad es. IE 307, 3; 319, 5; 346, 9.
163 Cf. IDL 229, 19-22: έπειδὴ δὲ τὰ ὑποδείγµατα ἐµψυχότερον ἀεὶ πρὸς τοὺς ἀκούοντας τὸν λόγον ἐργάζεται,
εἰκόνι βούλοµαι παιδεῦσαι τῶν βλασφηµούντων τὴν γνώµην ἐκ τῶν γηίνων καὶ ταπεινῶν σαφηνίζων τὰ µεγάλα
καὶ καθ' αἴσθησιν µὴ βλεπόµενα.
164 Cf. OC 38, 5-39, 11.
165 Cf. OC 39, 1-4: καί µοι µηδεὶς τὸ φθαρτικὸν τοῦ πυρὸς συµπαραλαµβανέτω τῷ ὑποδείγµατι, ἀλλ' ὅσον
εὐπρεπές ἐστι µόνον ἐν τῇ εἰκόνι δεξάµενος, τὸ ἀπεµφαῖνον ἀποποιείσθω.
166 Cf. ApH 43, 10-11: καὶ ὅτι ἀληθὴς ὁ λόγος, ἐξ αὐτῆς ἔστι τῆς πείρας τοῦτο µαθεῖν; cf. anche 51, 9-10: τοῦτο
διὰ τῆς πείρας µανθάνοµεν κτλ.
167 Cf. ApH 46, 6-7: τὸ µὴ δαπανᾶσθαί τι τοῦ ὑγροῦ, διὰ τῆς τοιαύτης µαρτυρεῖται πείρας. Cf. anche ApH 67,
16-18: εἰ δέ τις τὴν πεῖραν εἰς µαρτυρίαν τῆς τοιαύτης ὑπολήψεως δέχοιτο, ἑτοίµως ἀποδείξοµεν, µάρτυρας τοῦ
λόγου τοὺς φρεωρύχους παράγοντες. Cf. anche DM 52, 17-19: καὶ ἄλλως δ' ἄν τις εὕροι τὸ τοιοῦτον νόηµα διὰ
τῆς ἀληθείας ἡµῖν κρατυνόµενον αὐτῆς τῆς πείρας µαρτυρούσης τῷ δόγµατι ὅτι κτλ.
168 Cf. IE 294, 18-296, 18. I verbi che indicano una simile comprensione sono µεµαθήκαµεν (IE 294, 22), appena
preceduto da ἐξ ἀκολουθίας, e ἐδιδάχθης (IE 295, 14). Il termine διδάσκοντα è invece riferito prettamente al
Logos in IE 295, 17; la sua funzione educativa è sottolineata nuovamente più avanti attraverso il participio
παιδεύων (IE 296, 1).
84
162
simili pensieri. Nella comprensione di ciò che era stato all’inizio, l’uomo potrà infatti essere
istruito su ciò che sarà una volta riacquistata la sua dignità e comprenderebbe la vanità del
presente prima della nuova parusia.
Gregorio infatti non manca di esplicitare come anche le riflessioni proposte nelle opere
esegetiche diventino più chiare attraverso esempi tratti dalla vita169 . L’uso di ὑποδείγµατα
presi dall’ambito della natura è infatti riscontrabile soprattutto nel De virginitate170, indice
forse della natura giovanile e non pastorale dello scritto. Exempla per eccellenza che possono
più di altri condurre alla comprensione sono però le vite degli uomini.
Come si legge infatti nell’In iscriptiones Psalmorum171, gli esempi (τὰ ὑποδείγµατα: IPS
27, 28) delle vite di coloro che furono ammirati per la virtù o biasimati per la malvagità
educano (παιδοτριβούσης: IPS 28, 3), offrono un insegnamento (διδασκαλίαν: IPS 28, 4) e
guidano (ὁδηγοῦσα: IPS 28, 7) a desiderare ciò che è meglio e desistere da ciò che è
peggio172. Anche nel De virginitate173 , quando l’autore vuole far soffermare il suo lettore sui
mali della vita non illuminata dalla purezza affinché si renda conto (µαθεῖν: DV 264, 5) delle
disgrazie di una vita lontana dalla verginità, non si riferisce più a esempi ricavati dalla natura
da interpretare ma propone di guardare l’esperienza (τῇ πείρᾳ: DV 264, 6) di coloro che hanno
imparato (µεταµαθόντων: DV 264, 9) ciò che è più bello a partire da ciò che è loro accaduto,
specialmente dalle difficoltà.
Tutti gli accadimenti dell’esistenza possono quindi essere letti in una chiave paideutica174,
facciano essi parte dell’esperienza personale o di quella di un santo: alla fine del commento al
De vita Moysis175 ad esempio Gregorio ripercorre le tappe principali della vita del legislatore
e sottolinea con forza come il periodo passato nel deserto divenne per Mosè maestro di alti
insegnamenti; allo stesso modo, in incipit dell’Ad Eustatium176 Gregorio elogia il destinatario
per la sua professione di medico, che non si limita tuttavia alla cura del corpo, ma anche a
169
Cf. DB 95, 5-6: κρεῖττον δ' ἂν εἴη δι' αὐτῶν τῶν κατὰ τὸν βίον ὑποδειγµάτων σαφηνίσαι τὸν λόγον.
Cf. ad es. DV 280, 9-281, 25; DV 284, 27-285, 19; DV 310, 18-311, 13.
171 Cf. IPS 27, 27-28, 8.
172 Nell’orazione funebre In Pulcheriam, ad esempio, Gregorio utilizza i termini dell’educazione per far
comprendere al suo uditorio quanto grande fosse la rinuncia che la divinità chiese ad Abramo quando gli intimò
di sacrificare il figlio Isacco (Gen 22, 1-18): essi infatti, come padri, sono stati istruiti (ἐδιδάχθητε: IP 468, 15)
dalla natura stessa all’amore verso i figli. Se Abramo avesse guardato solo la vita presente, non avrebbe mai
acconsentito ad un tale sacrificio. Lo stesso afferma Gregorio per Sara: anch’essa, se non avesse ricevuto una
educazione (πεπαίδευτο: IP 468, 20) alla conoscenza del divino dal marito, non avrebbe accettato di
sottomettersi ad una prova simile.
173 Cf. DV 257, 12-258, 14
174 Ad esempio, l’esperienza che compie ciascun padrone di casa rispetto alla cura con cui gestisce ciò che
possiede diventa nel De virginitate (cf. DV 317, 10-318, 6) exemplum di come tutti gli aspetti della vita
dell’uomo debbano essere decorosi e posseggano ciascuno un posto loro proprio; tale immagine ha la possibilità
di educare (παιδευθήτω: DV 317, 12) rispetto all’insegnamento (περὶ τοῦ δόγµατος: DV 317, 12) che vuole
esplicitare l’esegeta.
175 Cf. VM II 308-313. Cf. in partic. VM II 310, 4-5: διδάσκαλον τῶν ὑψηλῶν µαθηµάτων ποιεῖται τὴν ἡσυχίαν.
176 Cf. AdE 3, 12-14: καὶ τῇ κατ' ἐµαυτὸν διδαχθεὶς πείρᾳ ἐν πολλοῖς τε ἄλλοις καὶ διαφερόντως νῦν ἐν τῇ τῶν
ἐχθρῶν ἡµῶν ἀνεκδιηγήτῳ κακίᾳ κτλ.
85
170
quella dell’anima: le prove che il Nisseno era costretto a subire in quel periodo e le infamie da
parte di molti malvagi riguardo la sua condotta come vescovo, che lo tacciavano di eresia
rispetto alla dottrina trinitaria, scrive, furono serrate e dolorose; l’esperienza gli ha mostrato
tuttavia come Eustazio, il dedicatario del trattato, esercitò appieno la sua professione,
aiutando il Nisseno quantomeno con parole di consolazione.
Tutto ciò che entra nella sfera della conoscenza umana, come si legge nell’Oratio
catechetica magna 177, può dunque condurre l’uomo alla verità, sia essa relativa ad una
maggiore comprensione o a un miglioramento della condotta di vita: tale esempio infatti,
ricavato dalle Scritture o meno178, può insegnare a non cadere in errori stolti.
Solo da una esperienza presente infine la creatura può essere davvero conquisa. Gregorio
esprime questa idea ad esempio in incipit dell’omelia In sanctum et salutare Pascha179: in
esso si legge come il cuore dell’uomo, allietato dalla liturgia (pasquale, nello specifico), ma
più in generale da ciò che vede e sente, è condotto come per mano (χειραγωγουµένη: SSP
309, 17) dal visibile all’invisibile fino a raggiungere almeno una impronta, un assaggio
dell’ineffabile beatitudine che lo colmerà nel compimento dei tempi.
I.2.2
Il criterio della verità
L’intelligenza umana è paragonata da Gregorio nel De virginitate180 ad un fiotto di
sorgente, che può o meno disperdersi in vari rivoli. Nel primo caso l’acqua che essi
trasportano tuttavia non è bastevole per nessun utilizzo; nel secondo invece l’unico fiume,
reso abbondante e vigoroso, può essere utilizzato per molteplici scopi. Fuor di metafora, come
si premura di spiegare lo stesso Nisseno, l’intelligenza umana può frammentarsi nei vari
organi sensoriali e disperdersi o incanalarsi con forza verso un unico desiderio, ispirato dalla
177
Cf. OC 74, 7-8: ὑποδείγµατί τινι τῶν γνωρίµων ὁδηγηθήτω πρὸς τὴν ἀλήθειαν. Il problema che il Nisseno
affronta nel passo è quello della generazione del Figlio da parte del Padre: questa aveva portato alcuni eretici di
stampo ariano a negare la consustanzialità delle due ipostasi, in quanto essi sostenevano che ciò che è
ingenerato, il Padre, non può avere la stessa natura di chi invece subisce la generazione, il Figlio. Il Nisseno
propone quindi un esempio (ὑποδείγµατος: AdS 65, 12) che abbia la forza di educare (διδαχθήτωσαν: AdS 65,
11): sia Adamo che Abele condividevano la natura umana; il primo non fu generato, il secondo invece sì,
mostrando come sia l’ingenerato che il generato potessero ricevere la stessa φύσις. Così i divini insegnamenti
(δογµάτων: AdS 65, 20) mostrano che l’essere ingenerato o meno non porta ad una differenza di natura. Allo
stesso modo, dei σωµατικῶν ὑποδειγµάτων (AdvM 91, 13) aiuteranno il vescovo a sostenere, nel trattato
Adversus Macedonianos (cf. AdvM 91, 13-92, 9), come professare che lo Spirito abbia natura divina implichi
necessariamente l’assenza di differenza, nell’οὐσία, rispetto alle altre due ipostasi, per non inserire una divisione
in ciò che è indivisibile. Gli esempi addotti sono quelli del fuoco, dell’acqua e dell’aria, sostanze omogenee nella
loro natura
178 La possibilità di ricavare esempi sia dalle Scritture che dalla propria vita è rimarcata anche in AdvM 110,
30-111, 24.
179 Cf. SSP 309, 15-21: ἡ δὲ καρδία τῶν λεγοµένων τε καὶ βλεποµένων φαιδρυνοµένη τὴν ἄφραστον ἐτυποῦτο
µακαριότητα διὰ τῶν φαινοµένων χειραγωγουµένη πρὸς τὸ ἀόρατον, ὥστε τῶν ἀγαθῶν ἐκείνων, Ἃ οὔτε
ὀφθαλµὸς εἶδεν οὔτε οὖς ἤκουσεν οὔτε ἐπὶ καρδίαν ἀνθρώπου ἀνέβη, εἰκόνα εἶναι τὰ τῆς καταπαύσεως ταύτης
ἀγαθὰ δι' ἑαυτῶν τὴν ἀνεκφώνητον ἐλπίδα τῶν ἀποκειµένων πιστούµενα.
180 Cf. DV 280, 9-281, 25. Il paragone è ripreso in DV 284, 27-285, 19.
86
natura stessa, che tende alle realtà superne. Se fosse necessario rivolgere la propria volontà
anche ad altre realtà, occorre comportarsi come il saggio coltivatore, che sottrae alla sorgente
solo lo stretto necessario e non disperde il resto; colui che tuttavia, già debole, non sarebbe
per nulla aiutato dall’esperienza dei piaceri della carne che si acquista nel matrimonio, è
meglio che vi si tenga completamente lontano per evitare di disperdere in altre strade ciò che
costituisce la sua forza.
Il pensiero è anche paragonato ad un viandante che affronta nella sua strada bivi e
crocicchi, e può mantenersi sul retto cammino ed evitare le strade errate solo tenendosi
lontano da ciò che ormai sa (προµαθόντες: DV 281, 17) che lo farebbe smarrire, vale a dire la
vanità degli esseri, che lo porterebbe lontano dalla verità cui agogna. Una tale riflessione è
posta a chiosa dell’exemplum di Elia e Giovanni, figure esemplari la cui memoria deve
insegnare (παιδεύειν: DV 281, 21) a riconoscere la verità che essi hanno perseguito.
L’energia umana deve dunque riconoscere ciò verso cui tendere; questo tuttavia richiama il
problema del κρίνειν attraverso cui direzionare le proprie scelte. La necessità di discernimento
è richiamata ancora nel De virginitate181 , laddove si ricorda l’indicazione chiara (δόγµα: DV
315, 6) dell’insegnamento (διδασκαλίας: DV 315, 7) di Cristo, nel quale questi insegnò
(διδάσκει: DV 315, 7)182 ai discepoli, che venivano inviati come agnelli in mezzo ai lupi, ad
essere semplici come colombe, ma allo stesso tempo scaltri come serpenti, senza però
imitarne la malvagità; tale δόγµα (DV 315, 25) deve valere per tutta la vita. Anche nel De
Beatitudinibus183 il vescovo afferma che è necessario acquisire una conoscenza approfondita
di ciò che si offre al possesso dell’uomo e che orienta il suo desiderio, affinché si possa
riuscire a operare un discernimento (διακρίνειν: DB 113, 23) di ciò che è utile o meno alla
natura umana184. La vita stessa anzi, come si legge nel De mortuis185, educa a mutare sempre i
propri desideri indirizzandoli al bene.
Il κρίνειν che appartiene al cristiano è nella sostanza diverso dai valori da una cultura che
sia esterna ad esso. Nel De vita Gregorii Thaumaturgi186 ad esempio il Nisseno avverte, in
incipit, come coloro che sono stati educati (πεπαιδευµένων: VG 4, 24) dalla divina sapienza
non debbano aspettarsi un elogio simile a quelli che compone il mondo pagano, nel quale
sono esaltate le ricchezze materiali, la stirpe, la gloria umana e la potenza del mondo; per un
181
Cf. DV 315, 5-20; cf. Matth 10, 16 e Luc 10, 3.
Si ritiene che la triplice ripetizione del concetto voglia sottolineare uno snodo particolarmente importante per
l’autore.
183 Cf. DB 113, 21-23: πολλῶν καὶ παντοδαπῶν προκειµένων εἰς µετουσίαν, ἐφ' ἃ ἡ ἀνθρωπίνη φύσις τὴν
ὀρεκτικὴν ὁρµὴν ἔχει, πολλῆς ἡµῖν χρεία τῆς ἐπιστήµης, ὥστε ἡµῖν διακρίνειν ἐν τοῖς τοιούτοις ἐδωδίµοις τὸ
τρόφιµόν τε καὶ δηλητήριον κτλ.
184 Il credito dato da Gregorio alla conoscenza come κρίσις che permetta di non cadere nell’errore è tipico della
filosofia greca; VÖLKER 1955, p. 119 richiama in particolar modo agli Stoici.
185 Cf. DM 46, 4-6: καίτοι παιδευόµεθα διὰ τοῦ βίου σαφῶς µὴ πάντοτε πρὸς τὴν συνήθειαν βλέπειν, ἀλλὰ πρὸς
τὸ καλὸν ταῖς ἐπιθυµίαις ἀεὶ µετατίθεσθαι.
186 Cf. VG 4, 24-5, 2.
87
182
cristiano infatti il giudizio del bello (ἡ τοῦ καλοῦ κρίσις: VG 4, 27) è differente.
Ciononostante, va detto che, secondo un procedimento già paolino (cf. Fil 3, 3-9), il Nisseno
accenna comunque i vanti terreni del santo, per mostrare come essi vengano superati dalla
virtù che gli viene dal cielo.
Il giudizio su ciò che è conforme alla natura umana si attua a partire dalla realtà stessa187.
Esso si configura come un discernimento del bello (τοὺ καλοῦ κρίσις: IC 420, 17) consente
all’uomo di appropriarsi del vero bene, invece che di ciò che inganna188 ; la struttura stessa di
tale κρίσις è interamente relata tuttavia alla conoscenza indiretta mutuata dai sensi189 .
Un giudizio porta con sé la possibilità dell’errore190 . Nel De beatitudinibus 191 si legge che
l’uomo possiede per natura l’inclinazione verso il bene, ma erra facilmente nel giudizio nei
confronti di esso (τῆς τοῦ καλοῦ κρίσεως: DB 125, 11): esiste infatti un bene per essenza, cui
è chiamato l’uomo, e qualcosa che ne mantiene solo l’apparenza. Nell’In canticum il Nisseno
esplicita ulteriormente questo pensiero con una immagine dicendo che nella Sacra Scrittura le
qualifiche di Dio hanno un corrispettivo stretto in rapporto al signore della tenebra192 . Il
vaglio critico dunque è necessario a non essere ingannati da quest’ultimo, come avvenne
all’inizio dei tempi: commentando infatti il passo della Genesi che narra della presenza nel
giardino dell’Eden dell’albero della conoscenza del bene e del male, l’esegeta ricorda come
una cosa possa essere bella e malvagia allo stesso tempo. La colpa dei progenitori dunque
consistette anche in un errato discernimento di ciò che si trovavano di fronte, dovuto
all’accecamento del piacere: tutte le opere della malvagità sono infatti precedute da un
qualche godimento193, l’adescamento del quale porta al compimento di ogni prava azione. Dal
punto di vista prettamente umano, come si avrà modo di approfondire, il male si trova dunque
ad essere l’esito dell’assenso della προαίρεσις ad un cattivo giudizio (κατὰ τὴν ἡµαρτηµένην
τοῦ καλοῦ κρίσιν: IC 350, 13); tale errato κρίνειν è anche in DV 269, 11 la causa alla
schiavitù dagli uomini che non si allontanano dai beni che non soddisfano.
187
Cf. IC 66, 11-12: ἐξ αὐτῶν τῶν πραγµάτων διακρίνων τὸ καλὸν.
Cf. IC 420, 13-18: ἐκλογὴ δὲ παντὸς πράγµατος διὰ τῆς τοῦ ἐναντίου παραθέσεως γίνεται. ἐπεὶ οὖν
ὁµώνυµόν ἐστι τὸ ἀγαθὸν ἐπί τε τοῦ ὄντως ὄντος τοιούτου καὶ ἐπὶ τοῦ µὴ ὄντος µέν, ὑποκρινοµένου δὲ δι'
ἀπάτης καὶ δοκοῦντος εἶναι ὃ οὐκ ἔστιν, ὁ µὴ διαµαρτὼν τῆς τοῦ καλοῦ κρίσεως τὸ ἐξειλεγµένον ἀγαθὸν ἀντὶ
τοῦ ἠπατηµένου προείλετο.
189 Cf. VON BALTHASAR 1942, p. XXIV.
190 Cf. LOZZA 1991, p. 90: «L’insistenza con cui Gregorio raccomanda di distinguere accuratamente sul piano
conoscitivo il bene dal male riflette Hebr. 5,14, un passo citato esplicitamente in De hom. op. 20, 197 C».
191 Cf. DB 125, 8-17: ἡµῖν δὲ σκοπός ἐστιν, οὐχ ὅπως ἀναπεισθείηµεν τῶν καλῶν ὀρέγεσθαι (τοῦτο γὰρ
αὐτοµάτως ἔγκειται τῇ ἀνθρω πίνῃ φύσει, τὸ πρὸς τὸ καλὸν ἐπιῤῥεπῶς ἔχειν)· ἀλλ' ὅπως ἂν µὴ ἁµάρτοιµεν τῆς
τοῦ καλοῦ κρίσεως. ἐν τούτῳ γὰρ µάλιστα τῷ µέρει πληµµελεῖται ἡµῶν ἡ ζωὴ, ἐν τῷ µὴ δύνασθαι ἀκριβῶς
συνιέναι τί τὸ φύσει καλὸν, καὶ τί τὸ δι' ἀπάτης τοιοῦτον ὑπονοούµενον. εἰ γὰρ γυµνὴ προέκειτο ἡ κακία τῷ βίῳ,
καὶ µή τινι καλοῦ φαντασίᾳ προσκεχρωσµένη, οὐκ ἂν ηὐτοµόλησε πρὸς αὐτὴν τὸ ἀνθρώπινον.
192 Cf. IC 421, 4-422, 3.
193 Cf. IC 350, 9-10: πάντων τῶν διὰ κακίας ἐνεργουµένων ἡδονή τις καθηγεῖται.
88
188
Nel De infantibus praemature abreptis 194, tale cattiva comprensione è resa dalla metafora
della tenebra che circonda la creatura umana: questi, a causa della sua colpa primigenia, perse
la capacità di riconoscere il vero bene; tale ignoranza allontanò da lui il raggio della luce della
verità e di conseguenza la stessa vita, che coincide con la partecipazione al bene.
Anche nella sesta omelia In Ecclesiasten 195 il Nisseno appunta che l’uomo ha bisogno di
un criterio per giudicare il bene196: la sua vita è infatti divisa tra realtà intellegibili, verso cui
la scelta si deve dirigere, e le realtà carnali, appannaggio dei sensi; «la conoscenza sensibile»
tuttavia «si determina, in forza della sua maggiore familiarità con l’uomo, come criterio
principe di giudizio e invade anche confini non suoi»197. Tale conoscenza per sua stessa natura
non può in sé condurre oltre la realtà fenomenica, e dunque, come già accennato, la
sensazione non si rivela un criterio bastevole per il discernimento del bene198 .
«La ripercussione esistenziale dell’errore teoretico è quindi lo smarrimento etico» 199, tale
conoscenza errata porta a una mancanza nel giudizio; allo stesso modo, «l’errato giudizio sul
bene genera, a sua volta, un errato giudizio sull’esistente»200. Rilevando tale possibile deriva,
il Nisseno in molti luoghi si chiede come evitarla. Nell’In Ecclesiaten, ad esempio, attraverso
l’insegnamento (δογµατίζει: IE 374, 17) di Eccl 3, 1, Gregorio offre come punti di appoggio
la giusta misura e il momento opportuno201 , possibile solo un corretto uso della διάνοια. La
virtù, secondo una definizione già aristotelica, si trova infatti nel giusto mezzo 202 tra gli
estremi, entrambi vizi203; ogni cosa poi deve essere compiuta al momento opportuno, nell’età
(spirituale o meno) più appropriata, per non perdere la grandezza di ciò che accade. Il valore
educativo di tale criterio è richiamato anche in incipit della settima omelia204. L’utilizzo
erroneo della propria propensione ad amare, ad aderire a ciò che giudichiamo come bene, è
punto di partenza per tutti i vizi205: la difficoltà che incontra la conoscenza nella ricerca del
vero bene è determinata proprio dal giudizio che si fa fuorviare dal potere dei sensi e fa
194
Cf. DIP 80, 2-10.
Cf. IE 372, 21-378, 5. Anche in IPS 28, 9-29, 16 si legge che l’anima deve essere esercitata ad un corretto uso
del giudizio: coloro infatti che si sono dedicati da poco alla vita virtuosa legano ancora in criterio del bene (τοῦ
καλοῦ κριτήριον: IPS 28, 18) alla sensazione.
196 Cf. IE 374, 10-11: ἐπιστήµης οὖν τινος πρὸς τὴν τοῦ καλοῦ κρίσιν ἐπιδεόµεθα.
197 TARANTO 2009, p. 32.
198 Cf. IE 354, 17: οὐκ ἀσφαλὲς τοῦ καλοῦ κριτήριον εἶναι τὴν αἴσθησιν. Scrive TARANTO 2009, p. 32: «La
conoscenza sensibile, infatti, seppur necessaria, per il suo stesso essere perfetta nel limite, è effimera e non è
applicabile alla dimensione morale. [...] Se perciò il giudizio morale si fonda sulla conoscenza sensibile, si
intraprende una via errata».
199 TARANTO 2009, p. 32.
200 TARANTO 2009, p. 59.
201 Cf. IE 374, 15-17: δύο γὰρ εἶναί φησι τοῦ καλοῦ κριτήρια παρὰ τὸν βίον ἐφ' ἑκάστῳ τῶν ἐν τῇ ζωῇ ταύτῃ
σπουδαζοµένων, τὸ σύµµετρόν τε καὶ τὸ εὔκαιρον.
202 Cf. Aristot. Eth. Nic. II 6, 1106 A 26 ss.
203 La stessa idea è sviluppata anche in VM II, 288 e IC 284, 5-13.
204 Cf. IE 390, 6-8: ἃ γὰρ προεπαιδεύθηµεν, δι' ὧν πᾶσιν ἐφαρµόζειν τὸ ἐκ τοῦ χρόνου µέτρον καὶ τὴν ἐπὶ παντὶ
εὐκαιρίαν ποιεῖσθαι τοῦ καλοῦ κριτήριον µεµαθήκαµεν, κτλ.
205 Cf. IE 419, 6-8: ἡ πεπλανηµένη τε καὶ διηµαρτηµένη τῆς ἀγαπητικῆς διαθέσεως χρῆσις ἀρχὴ καὶ ὑπόθεσις
τοῦ κατὰ κακίαν γίνεται βίου.
89
195
consistere il bene in ciò che procura gioia e piacere. Se invece l’intelletto valutasse in sé, da
solo, il bene vagliandolo a partire da un vero criterio di giudizio, l’uomo non sarebbe schiavo
dei suoi sensi206 .
L’errore legato al giudizio ha la sua genesi ai primordi della vita dell’uomo207: Gregorio
afferma infatti come nel corpo ancora immaturo del bambino non trova ancora piena
espressione la potenza dell’anima; al contrario, l’attività sensoriale è subito perfetta; in base
dunque all’abitudine la creatura ingenera in sé un pregiudizio molto difficile da estirpare, che
indica nella materialità il vero bene. La forza della συνήθεια, che è capace di attirare a sé
l’anima umana presentandole una sembianza di bellezza cui ci si assuefà facilmente, è ribadita
da Gregorio sin dalla sua prima opera208. L’abitudine ha infatti il potere di rendere qualcosa
oggetto di occupazione e di desiderio (ἐπιθυµίαν: DV 286, 20), modellando attraverso la
disposizione dell’animo il giudizio, che non sorge dunque da un criterio proprio di ciascuno
(καθ' ἕκαστον: DV 287, 2)209. Solo una volta liberata dalla materialità attraverso la morte
l’anima potrà purificare in modo definitivo il proprio desiderio, non incontrando ostacoli nella
comprensione del puro intellegibile cui tende210.
Coloro che non hanno ricevuto adeguata educazione (ἀπαιδεύτοις: DV 271, 18) usano
dunque come criterio attraverso cui giudicare la realtà il loro piacere211; coloro invece che
rivolgono il loro pensiero alla vera ricchezza si differenziano da questi non per le circostanze
della vita, che potrebbero essere parimenti avverse, ma in virtù del loro giudizio, che nasce
sulla base della meta che hanno riconosciuto, come i viandanti.
Tale nuovo uso dell’intelligenza (συνέσεως: DB 125, 17), che si configura come sequela
del sicuro criterio della verità (τὸ ἀσφαλὲς τῆς ἀληθείας κριτήριον: IC 72, 8-9) e del bello
(τοῦ καλοῦ κριτήριον: IC 65, 17-18), che permetterà all’uomo una sempre maggiore
partecipazione con il suo principio primo, è qualcosa a cui bisogna dunque essere introdotti,
come fanno per la Sposa nelle omelie in Canticum gli amici dello Sposo (τῶν φίλων τοῦ
νυµφίου … ὑφηγησαµένων: IC 72, 8-9); tale è lo scopo e la tensione del Nisseno stesso nella
maggior parte dei suoi scritti.
Una simile necessaria educazione (διδαχθέντες: DB 125, 18) è richiamata soprattutto nei
confronti della Scrittura: essa si configura come l’introduzione ai misteri da parte di una
206
Cf. IE 419, 16-420, 18.
Cf. DM 47, 23-48, 14.
208 Cf. DV 286, 11-287, 4.
209 Cf. DV 287, 1-4: καὶ οὔπω τοῦτο θαυµαστόν, ἐπεὶ καὶ ὁ καθ' ἕκαστον ἄνθρωπος οὐ τὴν αὐτὴν ὡς ἐπὶ τὸ πολὺ
περὶ τοῦ αὐτοῦ πράγµατος κρίσιν ἔχει, ἀλλ' ὡς ἂν περὶ ἕκαστον ἀπὸ τῆς συνηθείας διατεθῇ.
210 Cf. DM 48, 14-25.
211 Cf. DV 271, 16-272, 14; cf. in part. DV 271, 16-19: πλοῦτοί τε καὶ τρυφαὶ καὶ πενίαι καὶ ἀπορίαι καὶ πᾶσαι αἱ
τοῦ βίου ἀνωµαλίαι, τοῖς µὲν ἀπαιδεύτοις πάµπολυ διαφέρειν δοκοῦσιν, ὅταν ἡδονὴν ποιῶνται τῶν τοιούτων
κριτήριον.
90
207
corretta esegesi per comprendere la reale bellezza del pensiero che esse portano, affinché ad
esso ci si possa conformare212 . Tale concezione secondo cui il cristianesimo permetteva
all’uomo un corretto discernimento del bene e del male (così come il possibile aiuto
dell’esercizio razionale) è probabilmente mutuata anche dal pensiero di Origene213.
Anche nella ottava omelia In Ecclesiasten214 Gregorio accenna alla necessità di una
educazione (ἐπαιδεύετο: IE 418, 7) del κρίνειν: se infatti tale preoccupazione fosse stata
presente sin dagli inizi della storia umana, le passioni non avrebbero avuto accesso alla vita
dell’uomo; dopo la Caduta invece sin troppo spesso diventa criterio del bene ciò cui sono
avvinghiati i sensi lontani dalla ragione, tanto da rendere improba fatica lo staccarsi da esso.
L’educatore ha per questo il compito di evitare ogni ulteriore caduta esortando ed insegnando
invece a riconoscere la vera fonte che, saziandolo, desta sempre nuovamente il desiderio di
chi vi si fa presso215.
Per essere anzi più radicali, secondo Gregorio l’educazione è presupposto e condizione di
un retto uso del λογισµός, la facoltà umana di seguire il λόγος. Durante l’omelia IX dell’In
canticum il Nisseno si trova ad esempio a dover spiegare i versetti del Cantico che lodano la
Sposa facendo uscire dalla sua bocca un bosco di melograni che olezza di molti profumi216 : in
particolare l’esegeta si sofferma sull’immagine del croco, che diventa simbolo della Trinità,
della cannella, profumo sacerdotale, e del cinnamomo217 . L’esegesi di quest’ultima pianta è
preceduta da un elenco delle sue qualità peculiari, che verranno poi lette come aspetti della
vita virtuosa, vale a dire la capacità che questa pianta avrebbe di raffreddare istantaneamente
l’acqua, di uccidere gli animali nati dalla putrefazione e di far parlare assennatamente i
dormienti. Simili effetti sono giudicati ὑπὲρ πίστιν (IC 286, 4; cf. anche IC 286, 10), da
guardare quindi con un certo distacco; sarebbe infatti precipitoso e sconsiderato pronunciarsi
212
Cf. Cf. DB 125, 17-19: οὐκοῦν συνέσεως ἡµῖν χρεία, πρὸς τὴν τοῦ προκειµένου ῥητοῦ κατανόησιν, ὡς ἂν
διδαχθέντες τὸ ἀληθινὸν τοῦ ἐγκειµένου νοήµατος κάλλος, κατ' αὐτὸ µορφωθείηµεν.
213 Cf. JAEGER 1961, p. 86-87: «Origene concepiva l’uomo come un essere attivo moralmente libero e perciò non
poteva pensare che la creazione di Dio sarebbe stata più perfetta, se Egli avesse privato l’uomo del suo attributo
essenziale, la capacità di scegliere da sé liberamente il bene. Così il suo convincimento platonico e stoico
divenne il punto di partenza di tutta la sua costruzione della storia dell’uomo. Tutto dipende dalla capacità
dell’uomo di sceverare il bene dal male, o, per esprimerci in termini platonici, di sceverare il vero bene da ciò
che ha solo l’apparenza del bene, il vero dal falso, ciò che è da ciò che non è. Partendo da qui, la filosofia, per
Platone, era divenuta paideia, educazione dell’uomo. Ed era così che Origene intendeva il cristianesimo. Esso
era la maggiore forza educativa della storia, ed era in sostanziale accordo con Platone e la filosofia. In questo
modo Platone e la filosofia divennero per Origene gli alleati più potenti del cristianesimo nella battaglia che
allora combatteva»..
214 Cf. IE 418, 6-15: καὶ εἴθε τοῦτο πρὸ πάντων ἡ τῶν ἀνθρώπων ἐπαιδεύετο φύσις, τὴν τοῦ καλοῦ λέγω καὶ µὴ
τοιούτου διάκρισιν! οὐ γὰρ ἂν ἔσχεν πάροδον κατὰ τῆς ζωῆς ἡµῶν τὰ πάθη, εἰ ἐξ ἀρχῆς τὸ καλὸν ἐγνωρίζοµεν.
νυνὶ δὲ τὴν ἄλογον αἴσθησιν τοῦ καλοῦ κριτήριον παρὰ τὴν πρώτην ποιούµενοι συντρεφόµεθα τῇ κατ' ἀρχὰς
ἐγγινοµένῃ περὶ τῶν ὄντων κρίσει καὶ τούτου χάριν δυσ αποσπάστως ἔχοµεν τῶν τῇ αἰσθήσει νοµισθέντων εἶναι
καλῶν, βεβαίαν ἑαυτοῖς τὴν περὶ ταῦτα σχέσιν τῇ συντροφίᾳ ποιήσαντες.
215 Cf. IC 248, 5-16.
216 Cf. Cant 4, 13-14.
217 Per il simbolo del croco cf. IC 283, 19-285-17; per l’interpretazione della cannella cf. IC 285, 18-286, 2; per
il simbolo e le proprietà del cinnamomo, cf. IC 286, 2-288, 3.
91
per la verità di qualcosa che è stato tramandato senza averne fatto esperienza personale218.
L’autore esorta quindi ad un vaglio critico per ricercare la verità di ciò che è stato detto in
precedenza da altri (τῶν ἱστορουµένων περὶ αὐτοῦ τὴν ἀλήθειαν: IC 286, 16-17); gli effetti
descritti potrebbero però servire ai fini di una lettura spirituale, quindi, secondo il criterio
dell’utile, vuole darne una interpretazione personale. Il profumo del cinnamomo sarebbe
dunque riscontrabile nelle anime di coloro che riescono a respingere o spegnere l’ardore della
brama con il ragionamento (λογισµός, IC 187, 11.13), imitando la natura angelica immune dal
sonno grazie al raggiungimento pieno della propria natura razionale (µιµούµενος διὰ τῆς
ἀληθείας τοῦ λόγου τὴν ἄϋπνον τῶν ἀγγέλων φύσιν: IC 287, 15-16). Ciò è possibile per
coloro che, ormai educati, hanno vissuto pienamente il proprio λογισµός219 grazie alla
possibilità loro offerta dalla grazia dello Spirito.
I.3
Conoscenza di sé
Nel pensiero di Gregorio la conoscenza di sé è preliminare a qualsiasi altra indagine:
l’esegeta si chiede infatti come si potrebbe conoscere qualcos’altro se non si conosce se stessi
(πῶς γὰρ ἄν τις ἄλλο τι µάθοι ἑαυτὸν ἀγνοῶν: IC 72, 12). Non bisogna dimenticare infatti che
secondo Gregorio, come ben scrive DESALVO 220, «l’io è, si può dire, in tutta la sua realtà, il
segno più immediatamente vicino e sempre sotto i nostri occhi che rimanda al Creatore». Il
tema è sviluppato dal Nisseno essenzialmente nel De mortuis e sottende tutta la riflessione del
De beatitudinibus; sarà quindi ripreso nelle omelie In Canticum.
Nel De mortuis il richiamo è introdotto dalla stessa διάνοια umana che, in una prosopopea
ricca di pathos, esorta l’uomo a comprendere cosa effettivamente egli sia, per tendere verso
ciò che davvero costituisce la sua essenza; in tale contesto, come poi in nessuna tra le tre
opere che trattano del filosofema, Gregorio non si riferisce esplicitamente alla discussione
filosofica antica, che di questa massima fece un baluardo della sua riflessione221 , così come
non si basa esplicitamente sull’opera dei Padri222: l’esegeta esorta anzi a conoscere se stessi in
218
Cf. IC 286, 15-17: περὶ ὧν διαβεβαιώσασθαι µὲν οὕτως ἔχειν τὸν µὴ διὰ τῆς πείρας µαθόντα τῶν
ἱστορουµένων περὶ αὐτοῦ τὴν ἀλήθειαν προπετὲς ἂν εἴη καὶ ἀνεπίσκεπτον.
219 Nel testo originale si trova ἐν τοῖς πεπαιδευµένοις τε καὶ λελογισµένοις (IC 287, 9), espressione nella quale i
due participi perfetti indicano proprio il compimento di un processo.
220 DESALVO 1996, p. 175. Su tutta la tematica della conoscenza di sé e sull’immagine dello specchio dell’anima
che riflette la divinità si guardi anche DESALVO 1996, pp. 169-181.
221 Tale filosofema attraversa infatti tutta la filosofia greca da Socrate a Plotino; per la sua fortuna, cf. P.
Courcelle, Connais-toi toi même, Paris 1974, tradotto in italiano da F. Filippi come P. Courcelle, Conosci te
stesso. Da Socrate a san Bernardo, Milano 2011.
222 Cf. ad es. Basilio, che al tema dedicò l’intera omelia In illud Attende tibi ipsi (PG XXXI 197 C - 217 B) e
Greg. Naz. Or. 7, 22 (PG XXV 784 C). Cf. anche Langerbeck p. 72 e Völker 1955, p. 109 n. 6; VÖLKER 1955, p.
119 ricorda come Gregorio, e prima di lui Basilio, si riallaccino al pensiero di Origene. DANIÉLOU 1944 accenna
al tema e ai possibili legami tra il pensiero di Gregorio e il neoplatonismo alle pp. 41-42.
92
nome dei comandi di Mosè223 o ad imparare (µάθε: DM 40, 5) da Paolo, che analizzò
acutamente la natura umana, rivelando nell’uomo la presenza di un uomo esteriore e di uno
interiore, che ne costituisce in ultima analisi la vera essenza (cf. 2Cor 4, 16).
La conoscenza di sé è richiamata anche da una sentenza dei Proverbi224 cui il Nisseno fa
riferimento nella quinta omelia del De beatitudinibus 225. In essa il vescovo commenta il
µακαρισµός che ha come oggetto la misericordia; dopo aver definito questa disposizione
d’animo come ardore di carità che insorge a fronte di una afflizione per la condizione di un
altro, Gregorio riferisce tale sentimento anche al soggetto stesso: più un uomo prende
coscienza della propria condizione (τις ἑαυτὸν ἐπιγνοίη: DB 133, 8), di ciò che possedeva
prima della caduta e di ciò che ha perduto per la sua disobbedienza, non può non provare per
se stesso una profonda tristezza cui seguirà la misericordia nei propri confronti. Siccome il
vescovo assicura che Dio userà la stessa disposizione d’animo che l’uomo ha mostrato verso
gli altri e di se stesso, una simile carità nei propri confronti sorta dalla conoscenza garantisce
la benevolenza divina: anche in questo caso la consapevolezza di sé è condizione
indispensabile alla salvezza.
Il De beatitudinibus offre materia anche per ulteriori considerazioni riguardo alla necessità
di conoscere la propria natura. Le indicazioni in cui è suddiviso il discorso della montagna dei
Vangeli sono infatti considerate dal Nisseno come i gradini di una scala di perfezione che si
orienta al vertice della vita beata: esse sono disposte secondo un ordine consequenziale, una
ἀκολουθία, che «scandisce l’ascesa dell’anima verso Dio» e «descrive il dinamismo spirituale
dell’essere che coincide con l’economia della salvezza»226 , il che avviene in una sempre più
profonda conoscenza di sé. Le esortazioni al mutamento della condotta sono infatti sempre
ricavate, nel commento a ciascuna beatitudine, da una consapevolezza più attenta della natura
o della condizione umana. Il primo passo, ad esempio, predica l’umiltà a partire dal
riconoscimento dell’essenza creaturale dell’uomo 227: questi infatti è stato chiamato all’essere
da Dio a sua immagine, ma nello stesso tempo plasmato dal fango e soggetto alla finitezza.
Segue a questa una indicazione di mitezza, che nasce come figlia dell’umiltà228: chi infatti ha
educato se stesso in quest’ultima virtù (τοῦ ἑαυτὸν ταπεινοφροσύνῃ παιδαγωγήσαντος: DB
97, 20-21) non dovrebbe lasciarsi andare all’ira per la mancanza di onori terreni, in quanto
giudicherebbe oggetto di valore la sola anima, la cui τιµή (DB 98, 8) risiede nel guadagnare
per sé la vita divina. Segue quindi una puntualizzazione su valore del pianto: esistono infatti
223
Cf. DM 40, 1-4: Ὦ ἄνθρωπε, πᾶς ὁ µετέχων τῆς φύσεως, Πρόσεχε σεαυτῷ κατὰ τὸ Μωυσέως παράγγελµα
καὶ γνῶθι σεαυτὸν ἀκριβῶς τίς εἶ, διαστείλας τῷ λογισµῷ τί µὲν ἀληθῶς εἶ σύ, τί δὲ περὶ σὲ καθορᾶται.
224 Cf. Prov 13, 10: οἱ ἑαυτῶν ἐπιγνώµονες σοφοί.
225 Cf. DB 14ì31, 9-133, 12, specialmente DB 133, 8-12.
226 Cf. DB 89, 22-90, 90, 24; cf. anche PENATI 1992, p. 45 n. 2.
227 Cf. DB 77, 1-89, 19 passim, ma soprattutto DB 83, 5-84, 28.
228 Cf. DB 89, 20-98, 21 passim, ma soprattutto DB 97, 13-98, 21.
93
varie tipologie di dolore, ma una vera conoscenza di sé consente di stimare come oggetto
della terza beatitudine solo due di esse, vale a dire il dolore per i propri peccati e la tristezza
che nasce dalla consapevolezza del bene perduto a causa della caduta, bene che comunque
continua a chiamare a sé la creatura229. Il discorso approfondisce quindi la natura infinita del
desiderio che l’uomo scopre in sé, che ha fame e sete di giustizia come di ogni virtù: la
risposta a questa sete non può però giungere da qualcosa di finito e temporale, ma la stessa
brama richiama a qualcosa che la trascende230 . L’analisi della quinta beatitudine231 rileva
quindi come la virtù della misericordia, letta come una profonda simpatia e partecipazione nei
confronti degli altri, sia connaturata all’uomo, in quanto frutto della carità; con un ulteriore
affondo, Gregorio spiega che il concetto di misericordia è conseguente alla sofferenza beata
della terza beatitudine: la tristezza esistenziale, che qui è richiamata come conoscenza di sé
(ἑαυτὸν ἐπιγνοίη: DB 133, 8), deve portare ad uno sguardo compassionevole e caritatevole nei
propri confronti, cui seguirà la misericordia divina. La sesta omelia232 pone invece davanti
agli occhi dell’uomo la finitezza che lo caratterizza attraverso la promessa della visio Dei,
provocandogli smarrimento; la stessa condizione, ammette Gregorio, lascia nell’animo un
senso di vertigine, di totale sproporzione: chi infatti potrebbe raggiungere la completa purezza
del cuore? L’angosciosa domanda, che verte sulla possibilità di compimento del desiderio
dell’uomo, trova risposta solo nel cammino tracciato dall’educazione divina. Il Cappadoce, in
incipit della settima omelia233 rivolge ancora lo sguardo alla natura umana, effimera e
contingente, paragonandola a quella divina, eterna e immutabile: di fronte ad esse, l’uomo
non fatica a rendersi conto di come solo un puro movimento della infinita bontà di Dio abbia
reso possibile la parentela (συγγενείας: DB 151, 26) della creatura con un essere tanto
superiore. L’argomentazione del Nisseno sottolinea anzi come la stessa pace, riconosciuta
come fondamento di una possibile dolcezza nella vita, non sia un bene raggiungibile
dall’uomo con le sue sole forze, ma un dono elargito dall’amore di Dio, che ricompensa la sua
creatura per i piaceri giusti di cui essa gode. Il principale frutto della pace si esprime, secondo
Gregorio, nella creatura stessa: esso è la nuova concordia che si instaura nell’uomo, prima
diviso dalla disobbedienza originaria, ora ricondotto in unità di corpo e spirito dalla sequela
dei precetti divini234 ; tale grazia è concessa in abbondanza, affinché l’uomo possa
commetterla a sua volta ai suoi fratelli, diventando così vero imitatore di Cristo. Il tema della
229
Cf. DB 98, 22-109, 19 passim.
Cf. DB 109, 20-123, 16 passim.
231 Cf. DB 123, 17-136, 24 passim; cf. in particolare DB 131, 9-133, 13, dove si riconosce il valore della
misericordia nei propri confronti che nasce dalla conoscenza di sé: tutto il brano è introdotto dai termini
ἀκολουθεῖν (DB 131, 16) e διδασκαλίαν (DB 131, 19), che servono a legare la quinta e la terza beatitudine.
232 Cf. DB 136, 24-148, 22.
233 Cf. DB 148, 23-161, 5 passim.
234 Cf. DB 160, 10-161, 5.
94
230
imitatio Christi si ripercuote anche sull’omelia con cui si conclude l’opera, l’ottava235 : essa
infatti propone l’ultimo gradino dell’ascesi che si ricava dall’insegnamento evangelico (τῆς
ὑψηλῆς τῶν µαθηµάτων διδασκαλίας: DB 161, 9) e riguarda coloro che sono perseguitati per
la giustizia, in quanto di essi è il regno dei cieli. Il tema che chiosa una simile ἀκολουθία è
dunque il martirio. Significativamente questa omelia non si apre proponendo nuovamente al
lettore la condizione umana; un primo accenno ad essa è il senso di paura che può prendere la
creatura nei confronti del potere dei tiranni, di fronte ai quali si consumò il più delle volte la
testimonianza dei cristiani. Come l’incipit, anche l’argomentazione del λόγος è rinnovata: per
penetrare il senso di questa ultima beatitudine Gregorio decide infatti di rivolgersi più che a
concatenamenti logici alla testimonianza concreta che lasciarono coloro che nei secoli furono
additati ad esempio. Solo in questo modo infatti può essere sconfitto il timore e l’uomo può
raggiungere il vero premio che attende, vale a dire Cristo stesso.
Nelle omelie In Canticum il filosofema si presenta in forma negativa, come poi sono le
parole di Cant 1, 8a (Ἐὰν µὴ γνῷς σεαυτήν); anche in questo caso non vi sono riferimenti allo
γνῶθι σαυτόν antico236. Le parole del testo sacro sono pronunciate dagli amici dello sposo
che, secondo Gregorio, adombrano gli spiriti ministri, quelli preposti cioè ad aiutare l’uomo
che cerca di conseguire la salvezza237 . Il loro parlare, sottolinea il Nisseno, è oscuro
(κεκαλυµµένος δι' ἀσαφείας: IC 63, 11) e dunque chiede una spiegazione. Scopo del non
ignorare se stessi diventa qui il difendere nel modo più sicuro (ἀσφαλέστατόν …
φυλακτήριον: IC 63, 18) la propria anima contro gli attacchi del maligno: la Sposa (e quindi
ogni uomo che accetti il cammino proposto dal testo) deve infatti vigilare sui beni (φρουρὰ
τῶν ἐν ἡµῖν ἀγαθῶν: IC 64, 5) prima perduti a causa del peccato e ora nuovamente concessi
attraverso la purificazione del battesimo.
Il conoscere se stessi porta dunque innanzitutto a distinguere la propria natura più profonda
da tutto ciò che le si affastella intorno (ἀκριβῶς ἑαυτὸν ἀπὸ τῶν περὶ αὑτὸν διακρίνειν: IC 64,
6-7). Un simile atteggiamento critico (κρίνων: IC 64, 10), che si attua come intelligenza di
sguardo sulla natura delle cose (εἰς αὐτὴν βλέπειν τὴν τῶν πραγµάτων φύσιν: IC 65, 11), è
significativamente detto il risultato di una educazione (παιδευόµεθα: IC 65, 10). Molti uomini
(ed il riferimento ai non cristiani si farà via via più evidente) non giudicano da se stessi (οὐκ
αὐτοὶ κρίνουσιν: IC 65, 14), ma accolgono acriticamente la consuetudine diffusa (πρὸς τὴν
συνήθειαν: IC 65, 15), che non consente loro un corretto giudizio della realtà (τῆς ὑγιοῦς τῶν
235
Cf. DB 161, 6-170, 24.
In questa direzione si pensa possa essere interpretata anche la preferenza nell’uso della litote τὸ ἑαυτὸν µὴ
ἀγνοῆσαι di IC 63, 18 e 64, 5 rispetto al più semplice τὸ γνῶναι ἕκαστον ἑαυτὸν di IC 64, 6. In IC 72, 10 si
utilizza invece direttamente ἑαυτὴν γινώσκειν.
237 Cf. ad es. IC 166, 15-16.
95
236
ὄντων κρίσεως: IC 65, 16). Il termine συνήθεια possiede, nel cristianesimo primitivo, una
connotazione particolarmente negativa, perché indica una congerie di tradizioni non passate al
setaccio di un giudizio critico che si oppone spesso alla novità introdotta dalla rivelazione238.
Chi segue le impronte di chi lo ha preceduto (τοῖς ἴχνεσι τῶν προωδευκότων ἑπόµενος: IC 66,
13) in modo acritico accetta quindi come maestra di vita (τοῦ βίου … διδάσκαλον: IC 66, 14)
una συνήθειαν ἄλογον (IC 65, 17), una consuetudine che va contro il λόγος (nella sua duplice
accezione umana e divina). Di contro a questo si oppone l’esercizio consapevole del κρίνειν
secondo quel sicuro criterio della verità costituito dalla comprensione, per quanto possibile ad
una creatura, della natura divina attraverso la rivelazione. Una volta educato a guardare a ciò
che è proprio della natura umana, il λόγος, l’uomo deve dunque allontanarsi dalla
consuetudine irrazionale per orientare la sua scelta (αἱρήσεται: IC 66, 6) verso il bene e
compierlo, in una sinergia di conoscenza e libertà239 .
La conoscenza di sé diventa per il Nisseno innanzitutto la coscienza della propria
grandezza240 : l’uomo infatti, rimarca l’esegeta, non solo è coronamento della creazione, ma in
virtù del fatto che l’anima perfetta accoglie Dio stesso e diventa quello che egli è attraverso
l’imitazione241, la magnificenza del cielo, le distese della terra e dei mari, l’universo tutto
sono ad essa inferiori.
Una simile coscienza deve però essere accompagnata, nel pensiero gregoriano, dalla più
profonda umiltà. Sin dal Contra Eunomium Gregorio ha sottolineato la radicale dipendenza
della creatura242 ; nel De instituto243 il Nisseno esplicita una grande tentazione cui può essere
condotto l’uomo dai λογισµοῖς πονηροῖς (DI 72, 16) dell’avversario, vale a dire la superbia
(εἰς ἀλαζονείαν καὶ τῦφον: DI 72, 19). Gregorio sottolinea come questo vizio nasca dalla
convinzione di aver adempiuto pienamente ai comandamenti del Signore, quasi come se la
ricompensa per i propri meriti fosse esclusivamente una propria conquista; al fedele, che in
questa parte del trattato è caratterizzato come διάκονος o δοῦλος per sottolineare il servizio
cui per primo si era sottoposto Cristo stesso 244, è invece chiesto di affidarsi al suo signore (τῷ
δεσπότῃ πιστεύειν: DI 73, 4) riguardo al giudizio sulla propria gratificazione (τῆς εὐνοίας τὴν
κρίσιν: DI 73, 4-5), senza essere lui ultimo tribunale del proprio operato. Esiste un solo
giudice secondo verità (τὸν ἀληθινόν: DI 73, 7), come si legge anche nelle omelie in
238
«L’abitudine» nell’accezione del Nisseno, commenta DESALVO 1996, pp. 99-100, «è una strana ed estraniante
inerzia a cui l’uomo si abbandona, accettando un giudizio passato senza chiamare in causa la propria ragione e
preferendo un bene già voluto senza esercitare veramente la propria libertà di scelta».
239 Cf. Cap. IV.
240 IC 68, 11-12: οὐδὲν οὕτω τῶν ὄντων µέγα, ὡς τῷ σῷ µεγέθει παραµετρεῖσθαι.
241 IC 68, 8-9: ἐκεῖνο γίνῃ, ὅπερ ἐκεῖνός ἐστι, µιµουµένη τὸν ἐν σοὶ λάµποντα.
242 Cf. DESALVO 1996, p. 176.
243 Cf. per tutto il passo DI 70, 20-75, 19.
244 Gregorio a tal proposito ricorda in DI 71, 7-9 citando Matth 20, 28 e Marc 10, 45.
96
Canticum: Cristo, vero Salomone245; chi si erge a tale ruolo riempie se stesso di lodi e
arroganza e non presta più credito al vero giudizio. Benché infatti lo Spirito stesso,
parafrasando Rom 8, 16, si renda compagno dello spirito umano e in questo attesti la volontà
di Dio, l’esegeta ammonisce a non prendere come volere divino quello che invece è un umano
giudicare246 : occorre invece attendere il concorso di Dio stesso alla decisione (παρὰ τοῦ
κυρίου τὴν σύστασιν: DI 73, 13). Questa σύστασις, questa profonda relazione con Dio a
livello della κρίσις umana non viene purtroppo ulteriormente definita nelle righe successive;
le esortazioni presenti aiutano tuttavia a ipotizzare che essa si realizzi nell’amore verso Dio,
impossibile se non ispirato dalla divinità stessa, e nella preoccupazione di piacere a lui solo,
non distogliendo mai lo sguardo dalle realtà celesti e combattendo strenuamente per il
conseguimento della virtù. Tenendo fisso infatti lo sguardo a Dio l’uomo fortifica la propria
anima attraverso la sua facoltà razionale ora resa pura dalla pietà (τοῖς τῆς εὐσεβείας
λογισµοῖς: DI 73, 4); il suo spirito, che era stato disunito e debole dal peccato, viene così
allenato e condotto verso il discernimento di ciò che è bene e ciò che è male. Solo in questo
modo l’uomo potrà vantare un intelletto che segue Dio e ricostituire la propria ψυχή in unità
perché tutta tesa nell’amore verso di Lui, spinta dai pensieri delle virtù, conosciuti solo dal
Padre, e dalle proprie opere247.
Comprendere a fondo se stessi, come si legge ancora nel De mortuis 248, non è facile:
l’uomo dovrebbe infatti concentrare la propria attenzione su ciò che non gli si presenta
davanti agli occhi; solo un fermo proposito può convincere l’anima a investigare e esaminare
ciò che da sola sarebbe incapace di vedere, perché non può contemplare se stessa. Come gli
occhi possono guardare loro stessi solo attraverso l’effige che perviene loro attraverso il
riflesso di uno specchio, così anche la capacità intellettiva dell’anima deve cercare ciò che le
permette di conoscersi. L’esempio, afferma l’esegeta, non ha valore assoluto: mentre infatti il
riflesso degli occhi si modella sullo specchio a partire dal corpo che gli si pone davanti,
l’effige dell’anima non muta, ma trasforma in sé l’anima stessa, rendendola simile a lui.
Modello dell’anima è infatti la divinità; solo guardando ad essa l’uomo può arrivare a
245
Cf. IC 204, 1-12; Gregorio cita in questo passo a supporto Ioh 5, 22 e Ioh 5, 30.
Cf. DI 73, 9-11: δεῖ γὰρ κατὰ τὸ λόγιον Παύλου τὸ πνεῦµα τοῦ θεοῦ συµµαρτυρεῖν τῷ πνεύµατι ἡµῶν, ἀλλὰ
µὴ τῇ ἡµετέρᾳ κρίσει τὰ ἡµέτερα δοκιµάζεσθαι.
247 Cf. DI 75, 6-11: ὅπως µὴ παρείσδυσιν εὕρῃ τινὰ µηδὲ χώραν ἐπιβουλῆς ὁ ἀντίδικος, γυµνάζειν δὲ καὶ
προσάγειν πρὸς τὴν τοῦ καλοῦ καὶ πονηροῦ διάγνωσιν τὰ ἠσθενηκότα τῆς ψυχῆς µέλη· γυµνάζειν δὲ αὐτὰ οἶδεν
ὁ τῷ θεῷ ἑπόµενος νοῦς καὶ συνοικίζων ἑαυτῷ πᾶσαν τὴν ψυχὴν πρὸς ἐκεῖνον ἐκ τῆς πρὸς θεὸν ἀγάπης καὶ τῶν
κρυπτῶν τῆς ἀρετῆς ἐννοιῶν καὶ ἔργων ἐντολῆς ἰώµενος.
248 Cf. DM 40, ,1-41, 19. Cf. in part. DM 41, 17-19: οὐκοῦν ὅταν πρὸς τὸ ἀρχέτυπον ἑαυτῆς βλέπῃ ἡ ψυχή, τότε
δι' ἀκριβείας ἑαυτὴν καθορᾷ.
97
246
comprendere di più chi sia lui stesso. Compimento della conoscenza di sé diventa quindi per
Gregorio la visio Dei, la conoscenza di Dio249.
I.4
Conoscenza di Dio
Chi avrà interrogato le profondità della sua anima potrà dunque in essa accogliere in modo
misterioso una certa conoscenza dell’insegnamento riguardo Dio. Tale sapere mediato è
accessibile anche ai sapienti di questo mondo, vale a dire coloro che non hanno ricevuto la
grazia della rivelazione: la possibilità di conoscenza dell’uomo, come si legge nell’Adversus
Macedonianos250, risiede infatti non solo nella parola rivelata, ma anche nelle nozioni che il
suo logos riesce a comprendere e che si esplicano nei buoni frutti della filosofia; ad esempio,
sia l’insegnamento scritturistico sia le nozioni comuni non ammettono di trovare delle
differenze nella divinità, sommo Uno. Alla creatura è dunque possibile congetturare alcune
qualità di Dio in forza di ciò che comprende con il suo intelletto; tuttavia una riflessione
puramente umana non potrà chiarire con parole le profondità del mistero cui apre il
cristianesimo251: i nomi che gli uomini attribuiscono alla divinità nascono infatti dalle
espressioni visibili delle ἐνέργειαι, e non da una esperienza diretta di Dio252.
249
Come ben scrive DESALVO 1996, p. 175, «l’io è, si può dire, in tutta la sua realtà, il segno più
immediatamente vicino e sempre sotto i nostri occhi che rimanda al Creatore». Nel De infantibus praemature
abreptis si legge che scopo di tutto il creato è la gloria di Dio; ciascun essere, della terra o del cielo (e l’uomo è
commistione di entrambi), è profondamente legato agli altri proprio in forza dell’unico scopo che ciascuno
persegue attraverso la propria ἐνέργεια, la forza cioè che lo spinge alla contemplazione di Dio: cf. DIP 78,
23-79, 2: σκοπὸς δὲ τῶν γινοµένων ἐστὶ τὸ ἐν πάσῃ τῇ κτίσει διὰ τῆς νοερᾶς φύσεως τὴν τοῦ παντὸς
ὑπερκειµένην δοξάζεσθαι δύναµιν, τῶν τε ἐπουρανίων καὶ τῶν ἐπιχθονίων διὰ τῆς αὐτῆς ἐνεργείας (λέγω δὲ διὰ
τοῦ πρὸς τὸν θεὸν βλέπειν) ἀλλήλοις πρὸς τὸν αὐτὸν σκοπὸν συν απτοµένων. In un altro passo della stessa opera
si legge anche che vita dell’anima è vedere Dio: cf. DIP 79, 24-80, 1: τὸ δὲ βλέπειν τὸν θεόν ἐστιν ἡ ζωὴ τῆς
ψυχῆς. Su tutta la tematica della conoscenza di sé e sull’immagine dello specchio dell’anima che riflette la
divinità si guardi anche DESALVO 1996, pp. 169-181.
250 Cf. AdvM 90, 27-30.
251 Cf. OC 13, 12-17: ... ὥστε τὸν ἀκριβῶς τὰ βάθη τοῦ µυστηρίου διασκοπούµενον ἐν µὲν τῇ ψυχῇ κατὰ τὸ
ἀπόρρητον µετρίαν τινὰ κατανόησιν τῆς κατὰ τὴν θεογνωσίαν διδασκαλίας λαµβάνειν, µὴ µέντοι δύνασθαι λόγῳ
διασαφεῖν τὴν ἀνέκφραστον ταύτην τοῦ µυστηρίου βαθύτητα.
252 Le qualificazioni di Dio, nel Contra Eunomium, sono analizzate a partire dalla loro datità ontica, in astratto, e
solo in un secondo momento si analizzano quelle caratteristiche che hanno inerenza con la creatura umana (a
differenza, ad esempio, di quanto opera Clemente Alessandrino, che predilige le seconde). Cf. VÖLKER 1955, p.
45-47; per l’idea del divino in Gregorio delineata dal Völker, cf. pp. 45-59.
98
L’uomo, come si afferma nell’Oratio catechetica magna, può avere una certa percezione
delle caratteristiche della divinità attraverso la via analogiae253, una possibilità di conoscenza
già contemplata dall’insegnamento degli apologisti e dei platonici di età imperiale254; essa
tuttavia deve essere comunque guidata dagli insegnamenti divini (µεµαθηκότες: OC 12, 26).
Attraverso la creazione si può infatti percepire qualcosa sulla sapienza di Dio, non però sulla
sua essenza255 : allo stesso modo, commenta il Nisseno, le manifatture umane portano in sé il
sigillo, per così dire, del loro artefice, la scienza artistica che possiede, ma non la sua natura
profonda. Tale τεχνικῆς θεωρίας (ApH 21, 15) è ciò che, per coloro che sanno 256, esprime il
λόγος senza che ne venga fatto il nome: è questa l’idea che permea tutta l’Apologia in
Hexaemeron, che rilegge e spiega passi della Genesi cercando di capire cosa Mosè avesse
voluto insegnare (διδάσκων: ApH 22, 23; 24, 1), oltre che dell’ordine del mondo, della natura
divina attraverso il racconto della la creazione257.
Gregorio approfondisce questo aspetto del suo pensiero anche durante l’omelia XI dell’In
Canticum258. Secondo l’esegeta l’anima umana si trova al confine tra la natura incorporea,
costituita di intelletto e pura, e quella corporea, costituita di materia e senza razionalità259. La
virtù le consente di purificarsi dall’elemento più pesante e terreno e di volgere lo sguardo in
alto, verso chi le appartiene per stirpe (τὀ συγγενές: IC 334, 1), secondo un movimento
253
Cf. OC 8, 10-14, 13. Il ragionamento che il Nisseno propone, di stampo prettamente filosofico, potrebbe
essere così schematizzato: come già ammesso dalla filosofia greca, Dio non può che possedere in sommo grado
il Logos; non bisogna però intendere tale affermazione come se questo fosse un puro attributo. Nelle cose
esistenti, così come nell’uomo, vi è un logos che ne giustifica l’esistenza conforme alla natura che lo ospita;
seguendo una simile via analogiae, la natura suprema, eterna e sussistente di per sé, possiede un logos che ha
dunque le stesse caratteristiche. Ad esso non si può negare la vita, in quanto sarebbe una diminuzione della sua
perfezione; essendo tuttavia per sua stessa natura semplice e indivisibile, implica che il Logos non partecipi, ma
si identifichi con la vita stessa. Allo stesso modo, il Logos possiede un libero volere (προαιρετικὴν … δύναµιν:
OC 10, 1), come ciascun essere vivente, che è in lui al sommo grado, insieme con la potenza che gli permette di
attuare la sua volontà. La bellezza e bontà del mondo permettono di ricondurre simili caratteristiche all’artefice,
insieme alla completa lontananza dal male. Un ulteriore passaggio, che segue Atanasio, permette di non
confondere, come i montanisti, la persona del Padre e quella del Logos: come per gli uomini tale facoltà loro
precipua proviene dalla mente dal singolo, ma da essa si distingue, così anche il Logos divino è una
manifestazione della mente del Padre e per questo ne è distinto; allo stesso tempo, per e ragioni ricordate in
precedenza, Gregorio ne riconosce la piena sussistenza. Allo stesso modo il Nisseno osserva attraverso le ombre
e le similitudini (σκιάς τινας καὶ µιµήµατα: OC 12, 7) che riconosce nella natura umana elementi che possono
essere ricondotti alla natura dello Spirito. Esso, per gli uomini, è un puro soffio che permette ad un elemento a
noi estraneo di sostentarci e al nostro logos di esprimersi; non si può tuttavia applicare lo stesso ragionamento
per la terza ipostasi divina: come per il Logos, essa possiede al massimo grado tutte le qualità precipue di Dio, in
primis la sussistenza e il libero arbitrio. Cf. anche PENATI 1992, p. 104 n. 15 e p. 105 n. 17.
254 Cf. VÖLKER 1955, pp. 161-162 e MORESCHINI 1992, p. 128 n. 23. Alla via analogiae si accompagnavano la
via eminentiae e la via negationis, entrambe presenti nel pensiero del Nisseno.
255 L’idea secondo cui dalle realtà visibili del mondo si risale alle realtà invisibili, cioè a Dio, è comune nella
filosofia greca a partire da Anassagora (Fr. 21a Diels).
256 Cf. ApH 21, 7-22, 14; cf. in part. ApH 21, 14-16: ὅθεν καὶ διηγεῖσθαι λέγει τοὺς οὐρανοὺς δόξαν θεοῦ,
δηλαδὴ τῆς ἐµφαινοµένης αὐτοῖς τεχνικῆς θεωρίας διὰ τῆς ἐναρµονίου περιφορᾶς, ἀντὶ λόγου γινοµένης τοῖς
ἐπιστήµοσιν.
257 Cf., tra le possibili citazioni, ApH 71, 22-72, 1: οὕτω τοῦ Μωσέως ἱστορικῶς ἡµᾶς τὰ ὑψηλὰ τῶν δογµάτων
διδάσκοντος.
258 Cf. IC 333, 13-337, 21.
259 Cf. IC 333, 13-15: ἡ ἀνθρωπίνη ψυχὴ δύο φύσεων οὖσα µεθόριος, ὧν ἡ µὲν ἀσώµατός ἐστι καὶ νοερὰ καὶ
ἀκήρατος ἡ δὲ ἑτέρα σωµατικὴ καὶ ὑλώδης καὶ ἄλογος. Per un commento alla concezione gregoriana dell’uomo
come «il “crocevia” dell’essere», cf. TARANTO 2009, pp. 387-388.
99
costituito da λογισµοί e νοήµατα (IC 334, 5); questi si dispiegano però solo di fronte al creato
e alla sua bellezza, per la quale l’uomo intuisce un artefice superiore260 : scrive giustamente
Völker261 che «il cosmo per Gregorio è una grande scuola di tirocinio, che porta alla
adorazione di Dio». Una volta giunta alla comprensione razionale della presenza di Dio
l’anima tuttavia non ne può comprendere la natura, a causa della propria insufficienza a tale
scopo; per questo rivolge nuovamente lo sguardo a ciò che vede, compreso ora come frutto
dell’attività divina e segno fattivo della sua presenza. Facendo così esperienza dell’energia
operante di Dio, l’uomo può intuirne alcune qualità e caratteristiche262. Giunta a questo
riconoscimento, altrove chiamato δικαία κρίσις (IC 66, 15), l’anima non può che provare
l’ammirazione e venerazione per Colui che ha conosciuto pur così indirettamente263,
orientando ad Egli il suo agire. L’attività si Dio costituisce dunque per l’anima il limite della
sua comprensione di Colui che non può in alcun modo essere espresso con parole264, ma ha
nella vita dell’uomo una profonda incidenza.
Anche nell’omelia In Sanctum Pascha si legge che le opere di Dio mostrano, insegnano
con evidenza (διδάσκει σαφῶς: SP 269, 5), la sua onnipotenza. Egli, invisibile per natura,
diviene visibile attraverso la sua attività, che lascia all’uomo dei segni che ne manifestano le
proprietà265 . La creatura può tuttavia riconoscere la sapienza che ha creato il mondo, ma non
può discernere l’arte con cui essa opera266: .
Tutti i nomi che si addicono a Dio, scrive comunque il Nisseno nell’Ad Eustathium 267, pur
non riuscendo a designare con pienezza ciò a cui si riferiscono posseggono pari onore, in
quanto introducono per mano il pensiero (χειραγωγεῖ τὴν διάνοιαν: AdE 8, 11) nella realtà
ultimamente indicibile di ciò che si vorrebbe conoscere. Essi hanno infatti il compito di
condurre la conoscenza ([scil. τὰ ὀνόµατα] τὴν διάνοιαν ὁδηγοῦντα: AdE 8, 18) ciascuno
260
Interessante il rilievo compiuto da ZORZI 2007, p. 167: «La bellezza cosmica è riconosciuta come opera di
Dio e a lui rimanda. Nella Genesi ci imbattiamo nel ritornello di una visione di Dio buona (tôb), dunque bella.
La LXX traduce l’ebraico tôb col termine καλόν. Il termine tôb indica innanzitutto una bontà interna, di valore,
meno quella esteriore che tuttavia non manca: in Gen 1 il cosmo è fatto da Dio quasi come da un artista».
261 VÖLKER 1955, p. 160.
262 Cf. IC 334, 5-9: πάντας δὲ λογισµοὺς καὶ πᾶσαν ἐρευνητικὴν νοηµάτων δύναµιν ἀνακινοῦσα καὶ
περιεργαζοµένη καταλαβεῖν τὸ ζητούµενον ὅρον ποιεῖται τῆς καταλήψεως τοῦ θεοῦ τὴν ἐνέργειαν µόνην τὴν
µέχρις ἡµῶν κατιοῦσαν, ἧς διὰ τῆς ζωῆς ἡµῶν αἰσθανόµεθα.
263 Cf. IC 334, 18-335, 1: [scil. ἡ ψυχή] θαυµάζει καὶ σέβεται τὸν ὅτι ἔστι µόνον δι' ὧν ἐνεργεῖ γινωσκόµενον.
264 Cf. IC 336, 10-11: νῦν ὅρος τῇ ψυχῇ τῆς τοῦ ἀφράστου γνώσεώς ἐστιν ἡ ἐµφαινοµένη τοῖς οὖσιν ἐνέργεια.
265 Cf. DB 141, 25-27: ὁ γὰρ τῇ φύσει ἀόρατος, ὁρατὸς ταῖς ἐνεργείαις γίνεται, ἔν τισι τοῖς περὶ αὐτὸν
καθορώµενος.
266 Cf. IDL 228, 2-3: τὴν µὲν γὰρ σοφίαν ἐνενόησε, τὴν δὲ τέχνην τῆς σοφίας οὐχ εὗρεν.
267 Cf. AdE 8, 8-15.
100
relativamente al proprio significato, verso quell’unico essere che vorrebbero designare268. In
alcuni casi, commenta anzi Gregorio, essi sono addirittura più specifici della stessa
designazione di “dio”: la Scrittura infatti, come si può vedere nell’episodio in cui Saul fece
interrogare da una maga il suo futuro269, il testo ispirato usa il termine non riferendolo al dio
d’Israele; le qualifiche di “santo”, “incorruttibile”, “retto” e “buono”, che il vescovo prende a
titolo di esempio, sono invece a suo parere riferite solo alla vera divinità, come insegnerebbe
(ἐδιδάχθηµεν: AdE 10, 8) la Scrittura. Le stesse denominazioni usate da Paolo, colui che
sommamente partecipò dei divini misteri, hanno come scopo che l’uomo da esse sia educato
(διδαχθῶµεν: AdS 63, 27) ad approfondire la sua conoscenza della divinità, senza però
pretendere di esaurire tale mistero270.
La conoscenza dei misteri divini, essendo parte della γνῶσις umana, deve rispettarne i
presupposti: essa non può che partire dunque dalla realtà sensibile. Quando si trova a
raccontare il passo in cui il legislatore salì sul monte e ricevette la visione perfetta della tenda
non costruita da mani d’uomo, il Nisseno si premura di sottolineare come a Mosè fu
comandato di imitare quell’opera immateriale per far partecipe anche il popolo della grazia e
della conoscenza che aveva ricevuto: l’uomo ha infatti bisogno di qualcosa che possa vedere e
toccare, oltre che percepire con l’intelletto. Le sole parole non bastano: così come il θαῦµα
che Mosè vide non era da affidare alla sola scrittura ma da imitare271, anche la Scrittura da
sola, senza l’evento dell’incarnazione, rimarrebbe in ultima analisi inafferrabile dalla
comprensione umana.
Se qualsiasi abbrivio conoscitivo parte dalla realtà materiale, è altresì vero che la tensione
dell’uomo si dirige ben presto verso quelle invisibili, per entrare da ultimo nelle profondità di
Dio. Gregorio espone questa sua visione in ulteriore passo del De vita Moysis che commenta
la salita del legislatore al monte Sinai (Exod 20, 21). La figura di Mosè è particolarmente
268
Anche nell’Antirrheticus adversus Apolinarium si legge come l’uomo sia guidato (χειραγωγούµενοι: AnAp
220, 12) dall’immagine che i nomi recano al suo intelletto; questi, per essere usati secondo convenienza, devono
tuttavia abbracciare l’insegnamento (διδασκαλίαν: AnAp 220, 13) trinitario: Cf. AnAp 220, 9-15: τὸ δὲ τοῦ
Χριστοῦ ὄνοµα διαφερόντως φαµὲν ἐξ ἀϊδίου περὶ τὸν µονογενῆ θεωρεῖσθαι, ὑπ' αὐτῆς τῆς τοῦ ὀνόµατος
ἐµφάσεως πρὸς τὴν ὑπόληψιν ταύτην χειραγωγούµενοι. τῆς γὰρ ἁγίας τριάδος διδασκαλίαν περιέχει ἡ τοῦ
ὀνόµατος τούτου ὁµολο γία, ἑκάστου τῶν πεπιστευµένων προσώπων ἐµφαινοµένου τῇ προσηγορίᾳ ταύτῃ κατὰ
τὸ πρόσφορον.
269 Cf. I Reg 28, 13. Sulle interpretazioni di questo episodio nell’antichità, cf. SMELIK 1976.
270 Ad esempio, l’espressione di Hebr 1, 3 nell’Ad Simplicium (cf. AdS 63, 26-64, 15.) diventa la possibilità di
ricordare come il Padre e il Figlio non possano essere pensati divisi. Non esiste infatti possibilità di separare lo
splendore della luce da una lucerna; allo stesso modo Cristo splendore è prova, testimonianza (µαρτυρία: AdS
64, 7) della δόξα divina, della manifestazione del Padre, e queste due ipostasi non possono essere separate nella
loro natura.
271 Cf. VM I 49, 7-13: ὧν ἁπάντων τό τε κάλλος καὶ τὴν διάθεσιν, ὡς ἂν µήτε διαφύγοι τὴν µνήµην καὶ τοῖς κάτω
παραδειχθείη τὸ θαῦµα, οὐ γραφῇ παραδοῦναι ψιλῇ συµβουλεύεται, ἀλλὰ µιµήσασθαι διὰ τῆς ὑλικῆς
κατασκευῆς τὴν ἄϋλον ἐκείνην δηµιουργίαν, τὰς φανοτέρας τε καὶ λαµπροτέρας ὕλας τῶν κατὰ τὴν γῆν
εὑρισκοµένων παραλαβόντα.
101
significativa, perché a lui, come si ricorda nell’omelia De tridui spatio272, fu concesso di
abbracciare con la forza della conoscenza l’intera creazione di Dio. Nel commento
all’episodio dell’ascesa al Sinai273 l’attenzione del Nisseno si sofferma innanzitutto sulle
trombe che atterrirono gli Israeliti, ma furono la prima manifestazione della voce divina; dopo
averle udite, il popolo abbandonò la cima del monte e Mosè, ripreso di nuovo coraggio, si
inoltrò nella tenebra dove vide Dio. Non bisogna dimenticare a questo proposito che nella
sesta omelia del De beatitudinibus Gregorio, con un procedimento nascostamente
plotiniano274, attraverso il commento di alcuni passi della Scrittura275 equipara la visio con il
possesso di un ente, in particolare della realtà ultima: vedere Dio dunque significa
comprenderne, possederne, la natura profonda. La tenebra è per Gregorio l’unica possibilità
che l’uomo ha di guardare quel volto a cui anela e che desidera conoscere.
Le trombe che accolsero il popolo di Israele alle falde del monte, che si facevano man
mano più potenti e chiare, erano già state interpretate in precedenza come la voce dei profeti e
degli evangelisti che annunciavano il mistero della salvezza276; in questa ripresa invece
l’accento del vescovo si sposta sulla strada della conoscenza e rende le trombe celesti come
l’immagine delle bellezze del creato che, come il vescovo ricorda citando Ps 18, 2,
proclamano la sapienza che appare nell’universo e la gloria di Dio. Questo insegnamento,
chiaro e armonioso, ha una grande eco nel cuore dell’uomo e guida (ὁδηγεῖται: VM II 169, 4)
al riconoscimento della potenza divina, giungendo fino alla tenebra, vale a dire all’ultima
alterità di Dio. Come verrà ricordato poco oltre, la verità dell’essere, tensione ultima della
conoscenza, è impraticabile e inaccessibile a molti; il testo commentato dal Nisseno la
adombrerebbe attraverso l’immagine della parte più intima della tenda della testimonianza, il
Santo dei Santi. Di fronte ad esso, l’uomo è chiamato ad ammettere l’esistenza di una simile
trascendenza senza presumere di spiegare ciò che per sua natura è ineffabile.
La conoscenza di Dio si mostra qualitativamente diversa rispetto a qualsiasi altro tipo di
γνῶσις. Come si legge ancora nel De vita Moysis 277, alla natura divina non si può
propriamente assegnare alcun segno distintivo (γνώρισµα), avendo essa come caratteristica
precipua l’essere al di là di ciascuna distinzione umana: questa infatti costituirebbe per essa
un limite e in ultima analisi qualcosa che la comprenderebbe, assegnandole dei confini, ma
272
Cf. TS 274, 10-12: θαυµάζεις τὸν ὑψηλὸν Μωυσέα τὸν πᾶσαν τὴν τοῦ θεοῦ κτίσιν διαλαβόντα τῇ δυνάµει τῆς
γνώσεως.
273 Cf. VM II 167-169, che commenta VM I 43-49.
274 Cf. LEYS 1951 pp. 39-47.
275 Cf. DB 138, 12-22. Il Nisseno scrive infatti che nella consuetudine (συνηθείᾳ: DB 138, 14) della Scrittura il
«vedere» simboleggia il «possedere» (τὸ γὰρ ἰδεῖν ταὐτὸν σηµαίνει τῷ σχεῖν: DB 138, 12-13); ad esempio, il
versetto di Ps 127, 5 [o 128?], che augura di vedere i beni di Gerusalemme, augurerebbe in realtà di trovarli; allo
stesso modo la maledizione dell’empio che non deve vedere la gloria di Dio (cf. Is 26, 10) riguarderebbe
piuttosto la partecipazione ad essa.
276 Cf. VM II 158-161.
277 Cf. VM II 234-239.
102
l’infinitezza divina non può conoscere una simile costrizione. In un ulteriore passo della
stessa opera, il vescovo annota che l’uomo che voglia fare esperienza della alterità divina
deve purificarsi da qualsiasi opinione precostituita o preconcetta, insieme alla naturale
sensibilità che è congiunta alla nostra stessa natura e attraverso cui è mediata la conoscenza
usuale della realtà278 .
Nella settima omelia del De beatitudinibus 279 la divinità è paragonata all’aria che sostenta
la creatura: come ciascuno respira secondo le sue potenzialità, e chi pure ne accoglie di più
non riuscirà mai a possedere l’intero elemento, che rimane nel suo insieme immutato, così gli
uomini ricevono dalla Scrittura la gloria di Dio che possono contenere, ma non la sua essenza;
la stessa parola ispirata anzi non arriva a toccarne la grandezza.
Le arcane profondità di Dio sono tanto remote che a volte Gregorio dispera di potervisi
anche solo accostare, non risparmiando al lettore l’umanissimo senso di dolore (λύπην: IC
137, 6) che porta con sé una simile scoperta: l’ascesa dell’uomo è infatti infinita, come se la
διάνοια umana fosse sempre presso il vestibolo dei penetrali di una più profonda
interpretazione spirituale (τοῖς προθύροις τῶν ἀδύτων τῆς θεωρίας: IC 138, 17-18). Il motivo
dello scoramento che potrebbe prendere l’uomo di fronte alla pochezza delle proprie forze
rispetto ai tesori celesti che riceverà in contraccambio è ripreso anche nel piccolo trattato De
professione christiana280: l’uomo tuttavia non deve pensare di ricevere la propria ricompensa
sulla base di ciò che ha dato, ma aspettare il compimento della promessa evangelica secondo
cui Dio ripagherà, nella sua misericordia, anche ciò che è piccolo e umile281 con la sua grande
misura.
Basterebbe anche solo rilevare come nessun uomo può comprendere appieno questa
misericordia per capire come di Dio non si può in ultima analisi parlare, se non per via di
negazione: ogni nome o attributo che si può conferire alla divinità infatti la oltrepassa e ogni
immagine del creato non è adatta a dar forma al creatore. Solo la fede è in grado in qualche
maniera di afferrarlo (τῇ τῆς πίστεως λαβῇ: IC 183, 9) e di portarlo entro i penetrali del cuore:
è questo l’unico luogo in grado di contenere la divinità che vi inabita se l’uomo lo accoglie
una volta ritornato nello stato di purezza in cui Dio stesso lo aveva creato282.
278
Cf. VM II 157, in particolar modo 5-11: άλλὰ χρὴ τὸν µέλλοντα προσβαίνειν τῇ τῶν ὑψηλῶν κατανοήσει
πάσης αἰσθητικῆς τε καὶ ἀλόγου κινήσεως προκαθᾶραι τὸν τρόπον καὶ πᾶσαν δόξαν τὴν ἐκ προκαταλήψεώς
τινος γεγενηµένην τῆς διανοίας ἐκπλύναντα τῆς τε συνήθους ὁµιλίας χωρισθέντα τῆς πρὸς τὴν ἰδίαν σύνοικον,
τουτέστι τὴν αἴσθησιν, ἣ σύζυγός πώς ἐστι τῇ ἡµετέρᾳ φύσει καὶ σύνοικος, καὶ ταύτης καθαρὸν γενόµενον,
οὕτω κατατολµῆσαι τοῦ ὄρους.
279 Cf. DB 150, 10-20.
280 Cf. DPr 141, 20-142, 8.
281 Cf. TARANTO 2009, p. 185: «L’unica via percorribile per “raggiungere” attraverso la ragione la maestà della
prima essenza si rivela in ultima analisi quel percorso che non pretende di conoscere e possedere, ma che si
accontenta di percepire e di evocare. La teologia gregoriana è, dunque, la teologia dell’umiltà, una teologia che
non dimentica i limiti della natura fondata, limiti indissolubilmente intrinseci alla propria stessa creaturalità».
282 Cf. IC 181, 8-183, 15.
103
Della grandezza della natura divina non può avere una comprensione positiva, effettiva, in
quanto oltrepassa troppo la capacità di comprensione umana283 : in questa prospettiva diviene
possibile comprendere come la conoscenza di Dio sia per l’uomo sia luce che tenebra284 . La
connessione tra comprensione, educazione e tenebra è presente, ad esempio, nel racconto
delle vicende del legislatore ebraico presente nel primo libro del De vita Moysis285. Nella
parte esegetica dell’opera286 si legge infatti che in un primo momento la parola rivelata e la
conoscenza della vera divinità reca luce alla vita dell’uomo attraverso il suo insegnamento,
allontanandolo dalle tenebre dell’ignoranza e dell’errore; procedendo tuttavia nella
comprensione delle realtà rivelate, chi si pone su questa strada percepisce con sempre
maggior chiarezza l’ultima inconoscibilità della natura divina; non si è qui di fronte a
modalità diverse di comprensione, bensì a diversi gradi di intensità di una stessa strada287. Il
λόγος umano deve infatti man mano lasciare dietro di sé non solo ciò che si apprende
attraverso la percezione sensibile (ἡ αἴσθησις: VM II 163, 2), ma anche ciò che si ricava
dall’esercizio del proprio intelletto (ἡ διάνοια: VM II 163, 3), entrando in ciò che è
ultimamente invisibile e incomprensibile (πρὸς τὸ ἀθέατόν τε καὶ ἀκατάληπτον: VM II 163, 5)
e vedendo in questo modo Dio. In questa teologia negativa risiede la massima conoscenza da
parte dell’uomo, in quanto ciò che veramente desidera e apprende sfugge ontologicamente
alle sue possibilità: tale è la conclusione che si riscontra ad esempio nelle omelie In
Ecclesiaten, dove Gregorio afferma «l’impossibilità per la διάνοια di cogliere la realtà divina;
anche i modi della ricerca analitica (ἀνάλυσις: [IE] 412, 20) risultano inutili a tale scopo,
perché non possono trascendere la dimensione temporale»288.
283
Cf. IC 357, 3-359, 4.
Gregorio affronta il tema nelle omelie in Canticum (IC 322, 4-324, 22) e nel De vita Moysis (VM I 46-47,
commentato in II 162-166). In entrambe l’autore si appoggia all’episodio biblico della chiamata di Mosè al Sinai
(Exod 20, 21).
285 Cf. VM I 56, 1-4: ἐπεὶ δὲ ταῦτα καὶ τὰ τοιαῦτα τῷ ἀοράτῳ ἐκείνῳ περισχεθεὶς γνόφῳ ἐν τῇ ἀπορρήτῳ τοῦ
θεοῦ διδασκαλίᾳ ἐξεπαιδεύθη, µείζων ἑαυτοῦ καταστὰς τῇ προσθήκῃ τῶν µυστικῶν µαθηµάτων, κτλ.
286 Cf. VM II 162-166.
287 Cf. VON BALTHASAR 1942 pp. 67-70: il Nisseno non distingue diverse specie di conoscenza della divinità,
bensì riconosce che essa può avere diversi gradi di intensità, all’interno di una identica struttura gnoseologica.
Tale struttura è caratterizzata, secondo un approccio che fu già degli stoici, da diverse tappe, delle quali l’ultima
è però originale rispetto al pensiero antico: per Gregorio come per i seguaci della στοά esisteva un elemento
statico, definito secondo il lessico filosofico già in uso φαντασία o ἐπίνοια, e un elemento dinamico, l’anelito
verso ciò che si desidera conoscere, che il Nisseno chiama ἔφοδος, ἄνοδος: in esso si può riconoscere l’ὁρµή
stoicο. Il terzo elemento che Gregorio riconosce nella conoscenza di Dio è chiamato da Von Balthasar
«sentiment de présence». Per introdurre a tale concetto il teologo ripropone un esempio del Nisseno, tratto dalle
omelie In Canticum: la conoscenza umana in esso viene paragonata ad una bolla d’aria che si forma nelle
profondità di un lago; spinta dalla sua stessa natura cerca ciò che le è simile e si muove verso l’alto; una volta
però uscita dalla materia che la circonda, il lago, non può più mantenere la forma che aveva in precedenza, così
come l’uomo una volta che abbia raggiunto la divinità non ha la possibilità di mantenere inalterata la propria
capacità conoscitiva: essa viene completamente trascesa.
288 PENATI 1992, p. 99 n. 1.
104
284
Nell’omelia XI In canticum 289 Gregorio ricorda la luce con cui a Mosè fu rivelata la
volontà di Dio290, per poi passare alla nube di caligine attraverso cui anche gli Israeliti
sentirono il frastuono dei detti divini. Il primo dei due momenti è interpretato dall’esegeta
come il passaggio dalle tenebre del male alla luce della conoscenza di Dio; nel secondo
invece una più profonda comprensione delle realtà nascoste conduce per mano (χειραγωγοῦσα
τὴν ψυχὴν: IC 322, 16) l’anima più avanti, attraverso ciò che appare alla natura invisibile.
Questa maggiore profondità è come una nube che conduce per mano l’uomo fino a
modificarne il comportamento (χειραγωγοῦσα καὶ συνεθίζουσα: IC 323, 1); essa propone di
guardare ciò che si nasconde oltre il visibile, facendo in modo che l’anima possa percorrere
(ὁδεύουσα: IC 323, 2) la sua via verso l’alto291, un cammino di iniziazione (µυσταγωγία: IC
324, 13). La divinità offre infatti all’uomo una certa appercezione della sua presenza, benché
rifugga di essere compresa nella sua totalità292.
Questo, tiene a precisare Gregorio, non è un limite posto alla sola creatura umana, in
quanto vi soggiaciono tutte le nature intellettuali create, perfino gli angeli293 : nessuno infatti
ha mai conosciuto Dio, secondo una citazione giovannea (Ioh 1, 18) più volte ricordata dal
Nisseno. Queste tenebre portano in sé tuttavia un insegnamento solo preliminare, una
educazione che apre a dei passi ulteriori: se infatti l’uomo non ha le capacità per giungere a
verità sulla divinità, è essa stessa che dopo l’introduzione al mistero operata nella tenebra si fa
presente e lo ammaestra attraverso le sue parole, perché attraverso di esse l’uomo sia reso
certo e saldo 294. Preme qui notare come questo percorso conoscitivo sia lo stesso di quello
descritto in Ioh 1, 18: se nessuno può dire di aver visto Dio, è Lui stesso che, attraverso il
figlio, si è rivelato. Per il Cappadoce dunque la dottrina dell’inconoscibilità di Dio si
accompagna strettamente a quella della sua rivelazione nella carne.
Su questa scia si può comprendere il motivo per il quale Gregorio e gli altri Padri «sono
unanimi nel condannare la πολυπραγµοσύνη, ossia il desiderio di conoscere razionalmente ciò
che l’uomo deve accettare come dogma di fede» 295: all’uomo sono dati dei limiti dalla sua
289
Cf. IC 322, 8-323, 9.
Il riferimento cui rimandano Langerbeck e Moreschini, Exod 19, 3 non sembra del tutto appropriato; forse è
meglio leggere in questa teofania nella luce un riferimento al roveto ardente di Exod 3, 2.
291 Cf. IC 322, 12-323, 9. Si riporta la parte che più interessa (322, 15-323,2): ἡ δὲ προσεχεστέρα τῶν κρυπτῶν
κατανόησις ἡ διὰ τῶν φαινοµένων χειραγωγοῦσα τὴν ψυχὴν πρὸς τὴν ἀόρατον φύσιν οἷόν τις νεφέλη γίνεται τὸ
φαινόµενον µὲν ἅπαν ἐπισκιάζουσα πρὸς δὲ τὸ κρύφιον βλέπειν τὴν ψυχὴν χειραγωγοῦσα καὶ συνεθίζουσα, ἡ δὲ
διὰ τούτων ὁδεύουσα πρὸς τὰ ἄνω ψυχή κτλ.
292 Cf. IC 324, 10-11: αἴσθησιν µέν τινα δίδωσι τῇ ψυχῇ τῆς παρουσίας, ἐκφεύγει δὲ τὴν ἐναργῆ κατανόησιν.
293 Cf. SIMONETTI 1984, p. 309 scrive che «il concetto che la natura divina è inconoscibile anche da parte delle
gerarchie angeliche è ben attestato in Origene: de principiis IV 3,14; contra Celsum VI 62».
294 Cf. VM II 165, 1-4: ὁ δὲ ἐκεῖ γεγονώς, ἃ προεπαιδεύθη διὰ τοῦ γνόφου, πάλιν διὰ τοῦ λόγου διδάσκεται, ὡς
ἄν, οἶµαι, παγιώτερον ἡµῖν τὸ περὶ τούτου γένηται δόγµα, τῇ θείᾳ φωνῇ µαρτυρούµενον.
295 LOZZA 1991, p. 118; lo studioso cita quindi CE II 92, laddove «Abramo si affida a Dio καταλιπὼν γὰρ τὴν έκ
τῆς γνώσεως πολυπραγµοσύνην».
105
290
stessa natura che egli con le sue sole forze non può travalicare; solo la rivelazione può
compiere questo estremo desiderio.
I.4.1
La religione
Ancora nel De vita Moysis Gregorio prende spunto dai detti divini del monte Sinai per
mostrare cosa sia e a cosa debba mirare la religione rettamente intesa. Primo compito del
cristianesimo è ontologico e gnoseologico: la rivelazione divina ha infatti come scopo
principale assimilare a sé la creatura umana anche attraverso una corretta dottrina su Dio e, di
conseguenza, su se stessa e il creato; solo in un secondo momento ad essa si aggiunge la
precettistica morale, fatta di precetti generali e particolari296. Nella parte relativa al
commento297 si legge infatti che ogni idea su Dio che l’uomo possa costituire con le sue sole
forze attraverso le proprie rappresentazioni comprensive offre alla creatura un’immagine
falsa, un idolo della divinità (εἴδωλον θεοῦ: VM II 165, 8), senza annunciare la natura vera del
Creatore298 . Il riferimento che Gregorio opera con l’espressione κατά τινα περιληπτικὴν
φαντασίαν ἐν περινοίᾳ τινὶ καὶ στοχασµῶ (VM II 165, 7-8) richiama alla mente un lessico
stoico, anche se è probabile che qui Gregorio si voglia richiamare più genericamente a
qualsiasi teoria della conoscenza dell’educazione antica. La rivelazione divina invece mostra
come la conoscenza di Dio non coincida con la comprensione che si possa generare
nell’uomo: la vera vita, termine con il quale si identifica la divinità, non può essere nella sua
essenza conosciuta; essa tuttavia, in quanto vita, può essere partecipata da colui che la
possiede e ricevuta da coloro cui è donata tale grazia299.
Il richiamo etico invece, così presente nell’opera del Nisseno come in generale nella
patristica antica, passa in secondo piano300: anche se Gregorio tiene a sottolineare come la
purificazione della vita sia parte integrante della venerazione di Dio 301, essa altro non è che
una conseguenza di questa nuova ontologia e conoscenza, rispetto alle quali si deve orientare
l’agire umano, perché la creatura nuova che porta la dottrina di Cristo si manifesti al mondo
attraverso le opere che genera302.
296
Cf. VM I 47-48; in entrambi il termine cui Gregorio fa ricorso per indicare ciò che Mosè riceve è διδασκαλία:
VM I 47, 2; I 48, 2.
297 Cf. VM II 165-166.
298 Fonte di Gregorio è in questo caso Orig. Hom. in Exod. 222, 29: Πᾶν ἄρα νόηµα κατὰ περιληπτικὴν
φαντασίαν ἐν περινοίᾳ τῆς θείας γινόµενον φύσεως εἴδωλον πλάττει θεοῦ, ἀλλ’ οὐ Θεὸν καταγγέλλει.
299 Cf. VM II 234-235.
300 Cf. VM II 166, 4-9: µαθὼν ἐν πρώτοις ἃ χρὴ περὶ τοῦ θεοῦ γινώσκειν […], οὕτω τὸ ἕτερον τῆς ἀρετῆς εἶδος
διδάσκεται, µανθάνων ἐν οἵοις ἐπιτηδεύµασιν ὁ ἐνάρετος κατορθοῦται βίος.
301 Cf. VM II 166, 3-4: µέρος γὰρ εὐσεβείας καὶ ἡ τοῦ βίου καθαρότης ἐστί.
302 Cf. Cap. IV.
106
Sulla stessa linea si pone la sesta omelia del De beatitudinibus 303, nella quale si legge
ancora che la conoscenza di Dio è qualcosa di «assolutamente irriducibile alla conoscenza
ordinaria»304 , inaccessibile ad ogni comprensione umana (καταληπτικῆς ἐπινοίας: DB 140,
16-17): se tale non fosse, scrive infatti il Nisseno, anche i sapienti del mondo che non hanno
parte alla rivelazione potrebbero giungere alla divinità attraverso l’armonia del cosmo. Non è
bastevole tuttavia parlare della buona salute per possederla in sé; allo stesso modo, non è
sufficiente percepire dalle attività alcune caratteristiche di colui che le compie per fare reale
esperienza di Dio. Tale è il consiglio cui Gregorio si sente condotto (ὑφηγεῖσθαι: DB 142, 6)
dal versetto matteano secondo cui i puri di cuore vedranno Dio. Il dettato evangelico non
propone infatti una visione faccia a faccia, bensì insegna (διδαχθῶµεν: DB 142, 20) il
possesso della divinità attraverso la purezza dell’occhio dell’anima che culmina in una
partecipazione a lui305 . L’occhio dell’anima, libero da ogni disposizione passionale, può
vedere nella propria bellezza l’immagine (εἰκόνα: DB 142, 22) di Dio306.
Quando negli uomini sia sorto il desiderio di contemplare il bene di per se stesso, essi non
devono disperare: la misura concessa della comprensione di Dio è presente sin da principio
nella natura della creatura, per decisione dello stesso Creatore307 ; in lui sono presenti, come
incisioni sulla cera, le immagini, imitazioni (µιµήµατα: DB 143, 8) dei beni della sua natura.
A causa del velo del vizio che impedisce una corretta visione tuttavia è necessaria la
purificazione dell’occhio dell’anima. Come il ferro coperto dalla ruggine, una volta ripulito,
risplende ai raggi del sole, così anche il cuore dell’uomo, una volta che con la sua
sollecitudine avrà raschiato via la sporcizia del male, renderà nuovamente evidente la sua
somiglianza con l’archetipo, che ha impresso i suoi beni nell’anima come l’incisione su una
cera, marchio indelebile dell’origine308 . Chi allora guarderà a se stesso, vedrà il riflesso del
sole divino senza che esso sia inferiore alla bellezza originaria309. A tal proposito, è utile
ricordare come anche nel De vita Moysis310 si legge come per colui che è instradato nella via
303
Cf. DB 141, 28-144, 13.
Cf. PENATI 1992, p. 106 n. 18.
305DANIÉLOU 1944, pp. 209-210 avvicina il passo al concetto di αἴσθησις παρουσίας, sentimento di presenza, che
comparirà negli scritti più maturi del Nisseno: cf. ad esempio IC 324, 10-11.
306 Commenta PENATI 1992, p. 106 n. 18: «Dopo la ‹via analogica›, Gregorio ci introduce in un’altra forma di
conoscenza del divino: è la ‹visio Dei› nello specchio dell’anima purificata. È il ritorno dell’anima in se stessa,
mediante la ‹notte dei sensi›. Anche questa seconda via va trascesa, come risulta chiaramente dal commento al
Cantico dei Cantici, ma è fondamentale perché accresce la conoscenza progressiva della presenza di Dio in noi,
che è proporzionale alla restaurazione dell’εἰκὼν θεοῦ».
307 Cf. DB 143, 4-6: τὸ γάρ σοι χωρητὸν τῆς τοῦ θεοῦ κατανοήσεως µέτρον ἐν σοί ἐστιν, οὕτω τοῦ πλάσαντός σε
τὸ τοιοῦτον ἀγαθὸν εὐθὺς τῇ φύσει κα τουσιώσαντος.
308 [cf. DB 143 circa] L’esempio del suggello che si imprime sulla cera è concetto già stoico, riscontrabile
nell’opera del Nisseno in tal senso nel Contra fatum (cf. CF 38, 25-39, 13.), laddove il pensatore pagano porta
proprio questa immagine per figurare la convinzione secondo cui le potenze celesti imprimono nella vita
dell’uomo i lineamenti della sorte che gli deriva dal moto astrale.
309 Per l’immagine del sole di Dio riflesso nell’anima, cf. DB 143, 24-144, 4.
310 Cf. VM II 154, 1-2: ὁδὸς δὲ αὐτῷ πρὸς τὴν τοιαύτην γνῶσιν ἡ καθαρότης γίνεται.
107
304
della salvezza, la strada che porta alla vera conoscenza è la purificazione, che consiste nella
sequela della Legge per quanto riguarda il cuore e il comportamento interiore. Nel piccolo
trattato De perfectione si legge infine come per coloro che amano la vita pura e virtuosa
l’unica strada e guida sia la conoscenza del nome di Cristo, da imitare o venerare311: solo
questa γνῶσις consente di rendere se stessi simili al salvatore e di meritare per questo
l’appellativo di cristiani. I nomi infatti, pur non costituendo l’essenza di una realtà, devono
conformarsi ad essa312 ; chi si dice cristiano fa proprio il nome stesso di Cristo deve dunque
conoscere e attuare nella propria vita, per quanto almeno gli è possibile, la Sua perfezione313.
Solo così sarà possibile all’uomo la visio Dei. Essa. come si legge nella sesta omelia del De
beatitudinibus314, ha infatti un duplice significato: da una parte la conoscenza della natura che
trascende l’universo, impossibile all’uomo; la seconda invece riguarda l’unione con la
sostanza prima che si matura attraverso la purezza del cuore, frutto di grazia della sequela dei
precetti divini. Questi, muovendo dal male che maggiormente predomina, come l’ira,
giungono ad estirpare tutte le radici malvagie dal cuore dell’uomo315.
I.5
Possibilità della conoscenza
Come Gregorio scrive nel De vita Moysis316, commentando il passo nel quale il legislatore
chiede di contemplare il volto di Dio che però nessun uomo può vedere (Exod 33, 20),
l’anima spinta dalla passione d’amore verso la divinità è continuamente attratta da ciò che per
lei rimane ancora insondato, fondando la speranza che anche questo impulso ottenga risposta
a partire da ciò che ha già contemplato 317.
La sola conoscenza tuttavia non è sufficiente a colmare il desiderio dell’uomo: quando si
rivolge alle realtà indicibili, essa è sempre insufficiente e parziale, perché Dio eccede in ogni
311
Cf. DPe 181, 17-18: µία πρὸς τὴν καθαράν τε καὶ θείαν ζωήν ἐστι τοῖς φιλαρέτοις ὁδὸς τὸ γνῶναι τί σηµαίνει
τὸ τοῦ Χριστοῦ ὄνοµα. Cf. anche DPe 181, 23-182, 2: ταῦτα προθέντες εἰς τὴν προκει µένην ἡµῖν σπουδὴν
ἀσφαλεστάτην ὁδηγίαν εἰς τὸν βίον τὸν κατ' ἀρετὴν ποιησόµεθα, τὰ µὲν µιµούµενοι, καθὼς ἐν τοῖς φθάσασιν
εἴρηται, τὰ δὲ προσκυνοῦντες καὶ σε βαζόµενοι.
312 Cf. DPe 177, 14-178, 1.
313 Cf. Cap. IV.1.
314 Cf. DB 145, 21-146, 2: διπλῆς οὔσης τῆς διανοίας ἐν τῇ τοῦ ἰδεῖν τὸν Θεὸν ἐπαγγελίᾳ· µιᾶς µὲν τοῦ γνῶναι
τὴν τοῦ παντὸς ὑπερκειµένην φύσιν, ἑτέρας δὲ τοῦ ἀνακραθῆναι πρὸς αὐτὸν διὰ τῆς κατὰ τὴν ζωὴν
καθαρότητος· τὸ µὲν πρότερον τῆς κατα νοήσεως εἶδος ἀµήχανον εἶναι ἡ τῶν ἁγίων φωνὴ δι ορίζεται· τὸ δὲ
δεύτερον ὑπισχνεῖται τῇ ἀνθρωπίνῃ φύσει διὰ τῆς παρούσης διδασκαλίας ὁ κύριος.
315 Cf. DB 146, 3-147, 17.
316 Cf. VM II 219-255, in particolare II 231-239.
317 Cf. VM II 231, 1-5: δοκεῖ δέ µοι τὸ τοιοῦτο παθεῖν ἐρωτικῇ τινι διαθέσει πρὸς τὸ τῇ φύσει καλὸν τῆς ψυχῆς
διατεθείσης, ἣν ἀεὶ ἡ ἐλπὶς ἀπὸ τοῦ ὀφθέντος καλοῦ πρὸς τὸ ὑπερκείµενον ἐπεσπάσατο, διὰ τοῦ πάντοτε
καταλαµβανοµένου πρὸς τὸ κεκρυµµένον ἀεὶ τὴν ἐπιθυµίαν ἐκκαίουσα.
108
modo le possibilità della mente della creatura e non può raggiungere ciò che intuisce, benché
lo aneli318 .
Nella sesta omelia del De beatitudinibus 319, nella quale il Cristo promette la visio Dei ai
puri di cuore, dopo aver appurato che cosa sottendano entrambe le espressioni, pone
nuovamente il quesito se la purezza sia possibile all’uomo: quale scala, come Giacobbe, o
quale carro infuocato, come Elia, condurrà l’uomo dove desidera? Il Nisseno risponde alla
domanda appoggiandosi alla Scrittura, che insegna (ἐδιδάχθηµεν: DB 145, 15) come la virtù
sia difficile da raggiungere, ma non un cammino impossibile. Via che consente di
raggiungerla è l’insegnamento (διδασκαλίας: DB 146, 4) del Signore, attraverso cui l’uomo
impara (µαθεῖν: DB 146, 4) le specie del vizio e come allontanarsi da esso. Come si legge
nell’Oratio catechetica magna 320, l’uomo non è salvato infatti in forza del fatto di essere stato
introdotto ad una certa dottrina, ma in quanto i gesti della divinità, che si sottomise alla
comunione con la sua creatura, lo rendono a sé affine e connaturato, e lui ha la possibilità,
rispondendo con la propria libertà, di sperimentarne la vita.
Come si descrive nel De mortuis321, solo dopo la morte la capacità conoscitiva dell’uomo
sarà trasfigurata, e le percezioni saranno rese adatte alla natura spirituale: «il primo dei cinque
sensi carnali a subire il processo di sublimazione [sarà] la vista, la facoltà più preziosa per
l’uomo, quella a cui gli scrittori pagani e cristiani concordemente assimilano la conoscenza
razionale»322, cui seguiranno tutti gli altri. Fino ad allora, come Gregorio annota nell’omelia
III In Canticum, se i misteri del cielo sono paragonabili all’oro, ogni insegnamento su di essi
(πᾶσα ἡ περὶ τῆς ἀρρήτου φύσεως διδασκαλία: IC 85, 16-17) deve essere accostato a ciò che
ha la parvenza ma non la sostanza dell’oro; i ragionamenti umani, che nell’esegesi del passo
sono i sottili trapunti dell’argento, lasciano intravvedere la ricchezza che celano, ma non
possono far rilucere con esattezza ciò che racchiudono.
La tensione umana, anche in vita, non è tuttavia costretta in un disperato inappagamento.
Come verrà esplicitato con una chiarezza mai raggiunta dall’autore nelle omelie In Canticum,
la tensione del desiderio e della conoscenza umana si possono realizzare nella πίστις, che sola
318
Anche nell’In Ecclesiasten il Nisseno si chiede quale sarebbe il guadagno di conoscere il bene senza una
strada che consenta di raggiungerlo; nell’opera Gregorio è anzi più esplicito, sottolineando la necessità che sia
una guida, un maestro ad indicarlo. Cf. per questo IE 356, 20-23: ἀλλὰ τί κέρδος ἡµῖν ἐκ τοῦ θαυµάσαι τὸ
ἀγαθόν, εἰ µή τις καὶ ἔφοδος παρὰ τοῦ διδασκάλου πρὸς τὴν τούτου κτῆσιν ὑποδειχθείη; πῶς οὖν ἔστι καὶ ἡµᾶς
ἐν τῇ τοῦ καλοῦ µετου σίᾳ γενέσθαι, ἀκούσωµεν τοῦ διδάσκοντος.
319 Cf. DB 144, 14-146, 2.
320 Cf. OC 86, 8-16: ἐπειδὴ γὰρ ὁ τῆς σωτηρίας ἡµῶν τρόπος οὐ τοσοῦτον ἐκ τῆς κατὰ τὴν διδαχὴν ὑφηγήσεως
ἐνεργὸς γέγονεν ὅσον δι' αὐτῶν ὧν ἐποίησεν ὁ τὴν πρὸς τὸν ἄνθρωπον ὑποστὰς κοινωνίαν, ἔργῳ τὴν ζωὴν
ἐνεργήσας, ἵνα διὰ τῆς ἀναλη φθείσης παρ' αὐτοῦ καὶ συναποθεωθείσης σαρκὸς ἅπαν συνδιασωθῇ τὸ συγγενὲς
αὐτῇ καὶ ὁµόφυλον, ἀναγκαῖον ἦν ἐπινοηθῆναί τινα τρόπον, ἐν ᾧ τις ἦν συγγένειά τε καὶ ὁµοιότης ἐν τοῖς
γινοµένοις παρὰ τοῦ ἑποµένου πρὸς τὸν ἡγούµενον.
321 Cf. DM 47, 1-23.
322 LOZZA 1991, p. 130. Per una sintesi sulla la dottrina dei «sensi spirituali» in Gregorio e le sue fonti, cf.
VÖLKER 1955, pp. 164-167 e MORESCHINI 1992, pp. 27-32.
109
consente un rapporto intimo e personale con la divinità; «l’oggetto del desiderio [diventa]
quindi un tu, il polo di una relazione personale reciproca, persona che racchiude in sé la
pienezza della bellezza»323. Una alterità che sia anche persona non può essere conosciuta
tuttavia solo dal punto di vista concettuale; essa chiama in causa anche l’energia affettiva di
cui è ricca la creatura umana324 : in tale dinamica punto di partenza è sempre una presenza
esterna che chiama l’io ad uscire da sé e a partecipare dell’altro 325. Tale dinamica rappresenta
per l’uomo il suo compimento: la sapienza umana, come insegna l’Ecclesiaste, è seguire la
Sapienza divina326 , che si identifica in Cristo; per questo non è qualcosa che si può insegnare
nel senso stretto del termine327 , ma ad essa si può solo partecipare in un rapporto che il fedele
instaura con il Logos, che Gregorio identifica con il termine πίστις 328.
La fede diventa quindi il culmine della tensione alla conoscenza dell’uomo: l’anima,
guidata come per mano (e quindi educata) attraverso i ragionamenti (τὴν οὖν διὰ τῶν
τοιούτων νοηµάτων χειραγωγουµένην ψυχὴν: IC 87, 5-6) proposti dalla Scrittura e
dall’esegesi per cercare di comprendere realtà che può afferrare solo attraverso la fede (διὰ
µόνης πίστεως: IC 87, 7), introduce sé, nel proprio intimo, alla familiarità con quella natura
che sorpassa ogni concetto 329 . Il pensiero umano, sotto l’urgenza del desiderio, non è in grado
di trovare una descrizione o una spiegazione della bellezza divina330 che lo affascina, può solo
parteciparvi con la presa della fede (τῇ τῆς πίστεως λαβῇ: IC 183, 10). Se infatti la natura
divina, che trascende ogni intelletto, non può essere compresa, ciò però non toglie all’uomo la
323
ZORZI 2007, p. 432.
Cf. DESALVO 1996, p. 14: «un soggetto non può di necessità essere oggetto di conoscenza concettuale - può
essere conosciuto solo come termine di un rapporto, di un legame che chiama in causa tutta l’energia dell’io, non
solo quella conoscitiva, ma più profondamente, la dimensione che genericamente chiamiamo affettiva: quanto
più profondo è il coinvolgimento dell’io con il tu, tanto più questo viene conosciuto».
325 Cf. DESALVO 1996, p. 60: «come nella conoscenza, anche nella dinamica affettiva il punto di partenza è
sempre una presenza esterna che colpisce l’uomo. [...] Il processo conoscitivo ha come punto di arrivo la
presenza di un oggetto “nel” soggetto conoscente: il νόηµα esprime appunto [...] l’inabitazione dell’oggetto
nell’intelletto (o, se si vuole, nelle categorie dell’intelletto) umano. Ora, la dinamica affettiva si presenta in
questo senso profondamente diversa: in essa infatti riconosciamo un momento “passivo” di affezione del
soggetto da parte di un ente, cui segue una fase attiva che ha come protagonista l’intelletto, il cui punto d’arrivo
però non è interno, bensì esterno al soggetto: è l’oggetto stesso desiderato, il cui conseguimento produce
soddisfazione (ἀπόλαυσις). Non a caso nelle pagine gregoriane si può trovare espresso l’approdo del desiderio
anche mediante la parola “partecipazione” (µετουσία, κοινωνία), termine particolarmente espressivo di una
alterità che l’oggetto conserva e a cui il soggetto si “adegua”».
326 Cf. IE 355, 7: διδάσκει τοίνυν τίς ἐστιν ἡ ἀνθρωπίνη σοφία, ὅτι τὸ ἐπακολουθῆσαι τῇ ὄντως σοφίᾳ.
327 Cf. AnAp 175, 9-10: ἡµεῖς δὲ τὴν ἐκ τοῦ θεοῦ σοφίαν, ἥτις ἐστὶν ὁ Χριστός, οὐχὶ διδακτὴν εἶναί φαµεν.
328 Cf. LAIRD 2000, p. 63: «hidden from understanding, sight and thought, God can yet be approached through
πίστις. While Gregory does not pursue in any detail exactly what is involved in this approach of πίστις; beyond
comprehension, vision, and thought, πίστις clearly has an access which comprehension does not have». Sulla
natura della fede volta alla conoscenza di Dio, si veda ARKO 1999, pp. 202-204.
329 Il testo originale suona (IC 87, 5-8): τὴν οὖν διὰ τῶν τοιούτων νοηµάτων χειραγωγουµένην ψυχὴν πρὸς τὴν
τῶν ἀλήπτων περίνοιαν διὰ µόνης πίστεως εἰσοικίζειν ἐν ἑαυτῇ λέγει δεῖν τὴν πάντα νοῦν ὑπερέχουσαν φύσιν.
Questo passo non mostra una sintassi molto chiara, soprattutto a causa del verbo λέγει, che non presenta soggetti
plausibili nella frase o nelle immediate vicinanze; si pensa per questo che Gregorio qui alluda ad un passo della
Scrittura. Langerbeck propone come ipotesto Eph. 3, 17 (κατοικῆσαι τὸν Χριστὸν διὰ τῆς πίστεως ἐν ταῖς
καρδίαις ὑµῶν, ἐν ἀγάπῃ ἐρριζωµένοι καὶ τεθεµελιωµένοι).
330 Cf. IC 38, 23-39, 1.
110
324
possibilità di amarla331 . Nell’amore la conoscenza può diventare strada, possibilità di
cammino, che porti fin dentro ai penetrali di Dio. Esso diventa così «pienezza dell’essere e
obiettivo dell’esistenza»332. «Attraverso l’amore la creatura “conosce” il Creatore, in quanto
non le è possibile conoscerlo per mezzo delle categorie puramente teoretiche»333 . L’uomo
dunque se non ama Dio non può conoscerlo e senza conoscerlo non può comprendere la
propria natura, che ha la sua origine nella divinità e il suo compimento nel rapporto con
essa334.
L’uomo perfetto, di cui Mosè è emblema, diventa φίλος di Dio, concetto che non solo
indica uno stato di perfezione etica, ma vuole far intuire la possibilità che il vescovo
presentiva di una relazione personale con la divinità335. Questo tuttavia non sarebbe stato
possibile, come annota il Nisseno, senza la manifestazione della luce di Dio nella carne irta di
spine del roveto, prefigurazione del mistero annunciato nel Vangelo336. Se infatti «l’amore è la
sostanza dell’uomo e la sua propaggine, che si manifesta e si costituisce nel desiderio verso il
bello»337, bisogna riconoscere che il «passo decisivo dello sviluppo di questo desiderio della
Bellezza, avviene in Gregorio per il fatto che ora questa Bellezza divina ha i caratteri del tutto
personali del Dio ebraico-cristiano»338. Chi contempla questo mistero e da esso viene educato
(ἐν τῇ θεοφανείᾳ παιδευθείς: VM II 24, 2), come si dice di Mosè, partecipa dell’essere di Dio
stesso; di contro, come il Nisseno sottolinea in occasione delle parole del Faraone che rifiuta
la prima richiesta di Mosè adducendo come motivo il fatto di non conoscere il Signore339, chi
non ha conosciuto questi misteri non riesce a intravvedere dietro il velo dell’apparenza il vero
essere. Senza tale educazione, che introduce alla partecipazione della realtà di Dio, l’essere
stesso è considerato cosa vana, illusoria, al confronto della realtà sensibile, che turba
profondamente le sue facoltà razionali dell’uomo e eccita i suoi sensi, ormai non più
governati dalla ragione, facendogli considerare degno di sé solo quanto è materiale e carnale.
Colui invece che è stato irrobustito dallo splendore della luce divina riceve da essa forza e
autorità contro gli avversari: molto appropriata sembra dunque la metafora sportiva secondo
331
Cf. DM 45, 12-18.
TARANTO 2009, p. 90. Lo stesso autore a p. 88 ricorda come «l’amore è quella disposizione che muove la
volontà della creatura e la stessa volontà del Creatore», e per questo, come si legge a p. 94, «è conoscenza, è la
vera e piena conoscenza, in quanto solo esso, realtà assolutamente semplice, smarrisce le differenze tra i vari
piani dell’essere. L’amore dunque [è] categoria unitaria e [...] summa indifferenziata delle manifestazioni dello
spirito». Per un discorso sistematico sulla concezione gregoriana dell’amore, cf. TARANTO 2009, pp. 87-109.
333 TARANTO 2009, p. 106.
334 Cf. TARANTO 2009, p. 106. Sull’incontro personale tra l’uomo e Dio come compimento e suprema
valorizzazione della creatura nel pensiero di Gregorio, cf. ARKO 1999, pp. 205-206.
335 Cf. ARKO 1999, pp. 209-221.
336 Cf. VM II 22-26; cf. anche VM II 27, 1-3: ὅ µοι δοκεῖ δι' αἰνίγµατος τὸ διὰ σαρκὸς παραδηλοῦσθαι τοῦ
Κυρίου µυστήριον τῆς φανείσης τοῖς ἀνθρώποις θεότητος.
337 TARANTO 2009, p. 98
338 ZORZI 2007, p. 432
339 Cf. per tutto il passo VM II 35-36.
111
332
cui un simile cristiano diventa un atleta ben allenato nella lotta sotto la direzione del maestro
(ἐν παιδοτρίβου: VM II 36, 4), figura di colui che, con il bastone della fede, affronta i serpenti
egiziani.
112
Cap. II
Καὶ ἰδοὺ ἐγὼ ἀποστέλλω τὸν ἄγγελόν µου πρὸ προσώπου σου,
ἵνα φυλάξῃ σε ἐν τῇ ὁδῷ, ὅπως εἰσαγάγῃ σε εἰς τὴν γῆν, ἣν ἡτοίµασά σοι.
Exod 23, 20
II. 1 La guida e la sequela
Compimento della vita dell’uomo è giungere alla vita stessa degli angeli, aliena dalle
passioni che increspano l’anima come il vento e le onde la superficie del mare1, una
condizione in cui la creatura potrà nuovamente, come all’inizio dei tempi, trattare in piena
libertà con Dio stesso (stato che Gregorio identifica con il termine παρρησία2 ). Il retto
comportamento che vi conduce non è però una meta cui l’uomo può pervenire da solo. Il
Signore, scrive Gregorio in explicit della sesta omelia del De beatitudinibus 3, è chiamato
benefattore della natura umana sia per la promessa del bene che rende possibile il desiderio e
il muoversi dell’uomo sia perché offre un insegnamento utile per raggiungere lo scopo che
propone.
Davanti alla sublimità della parola divina Gregorio ammette di provare una sensazione di
vertigine, paragonabile a quella provata da coloro che guardano la vastità del mare dall’alta
vetta di una montagna, la cui scogliera erosa corre direttamente sull’abisso, tanto che dal suo
vertice sembra di essere sospesi di fronte a quella immensità. È questo l’incipit della VI
omelia del De beatitudinibus4: tale sentimento sarebbe, a suo dire, conseguente alla promessa
della sesta beatitudine. Cristo infatti sulla montagna aveva riconosciuto come premio di
coloro che saranno trovati puri di cuore la visio Dei. L’immagine continua nella descrizione
dell’impossibilità connaturata all’uomo nei confronti di un simile oggetto: la montagna divina
possiede infatti una roccia scoscesa e liscia che non offre nessun appiglio ai pensieri
1
Cf. la bella immagine presente in IC 316, 9-15.
Cf. ad es. IC 317, 13. Sul termine παρρησία e una sua interpretazione, cf. ARKO 1999, pp. 206-212.
3 Cf. DB 147, 18-20: οὐκοῦν [scil. ὁ κύριος] δι' ἀµφοτέρων εὐεργετεῖται τὴν φύσιν, οἷς τε τὸ ἀγαθὸν
ἐπαγγέλλεται, οἷς τε τὴν πρὸς τὸ προκείµενον διδασκαλίαν ἡµῖν ὑποτίθεται.
4 Cf. DB 136, 26-138, 24.
113
2
dell’uomo5 . Per eliminare ogni incertezza su questo argomento, spiega il Nisseno, basterebbe
l’insegnamento (δόγµασιν: DB 137, 19) di Exod 33, 20, dove si legge che non è possibile
contemplare il volto del Signore e vivere. Anche Giovanni e Paolo scrissero sentenze dello
stesso tenore6. Il vescovo non teme di sottolineare un paradosso ancora più significativo: il
Dio cristiano si dice essere dio della vita, e vedere il Signore è vita eterna; d’altra parte, i
profeti e gli apostoli testimoniano (διαµαρτύρονται: DB 138, 1) l’impossibilità di contemplare
il suo volto. La speranza umana non può reggere una simile contraddizione da sola:
prendendo quindi a modello l’episodio evangelico7 nel quale Cristo offre il suo sostegno a
Pietro che stava sprofondando nel lago, così anche l’uomo deve sperare in un sostegno divino
che lo conduca per mano (χειραγωγοῦντος: DB 138, 8): tale passo mostrerebbe, secondo
Penati8, «la necessità della grazia per introdurci in questa visione»: è necessaria una guida,
una conduzione che sia esterna alla creatura e che lei possa seguire.
Tale sequela è proposta da Gregorio innanzitutto nei confronti dello Spirito; d’altronde,
come è scritto nell’Ad Simplicium9, secondo Gregorio tutta la creazione è guidata dallo Spirito
attraverso la grazia. L’idea di guida, peraltro, è per Gregorio condizione necessaria di un
ordine presente nella realtà: come infatti, scrive in incipit della seconda omelia In
Ecclesiasten10, il coro guarda al corifeo, i marinai al timoniere e l’esercito schierato al proprio
stratega, così la Chiesa e il popolo di cui è costituita guarda al proprio Capo nello Spirito.
Senza un simile ordinamento gerarchico, pare di comprendere da simili esempi, non sarebbero
possibile l’agire umano e la salvezza eterna.
La guida da parte dello Spirito è argomento centrale della narrazione e del commento del
De vita Moysis. Già durante il racconto della vita del legislatore, Gregorio aveva sottolineato
particolarmente l’intervento di Dio come guida, anche in momenti in cui il testo biblico non
ne faceva esplicita menzione11 : quando ad esempio si trova a commentare l’inizio della fuga
del popolo d’Israele e lo scoramento dei suoi connazionali di fronte alle forze egiziane che si
erano mosse per ucciderli, il vescovo amplia il testo sacro menzionando le rassicurazioni fatte
5
Anche nella VII omelia In Ecclesiasten (cf. IE 413, 5-416, 10) il Nisseno annota che l’intelletto umano, che
conosce in una dimensione temporale, non può travalicare questa sua modalità conoscitiva e giungere a ciò che
non ha tempo. A fronte dell’eterno l’anima prova un senso di totale sproporzione, come se fosse su uno scoglio a
picco sul mare che si apre su quella sterminata distesa. È questo il motivo per cui la creatura si accontenta di
appurare che Dio è totalmente al di sopra di ciò che ha già conosciuto, limitandosi, davanti a lui, alla
contemplazione silenziosa. Di Dio, conclude il vescovo, si devono guardare le meraviglie (θαύµατα: il termine in
questo passo ricorre, come sostantivo o verbo, in IE 414, 12; 415, 2.4.6.11.12.14.15.16.21) che ne manifestano la
presenza, senza che si possa accennare nulla riguardo la sua essenza.
6 Cf. Ioh 1, 18 e 1Tim 6, 16.
7 Cf. Matth 14, 28-31.
8 Cf. PENATI 1992, p. 101 n. 6.
9 Cf. AdS 66, 5-7: ἡ κτίσις ὁδηγεῖται παρὰ τοῦ πνεύµατος, τὸ δὲ πνεῦµα τὴν ὁδηγίαν χαρίζεται· ἡ κτίσις
ἡγεµονεύεται, τὸ δὲ πνεῦµα ἡγεµονεύει.
10 Cf. IE 299, 5-9.
11 Sulle aggiunte di Gregorio al testo dell’Esodo in rapporto a questo argomento, cf. infra, Cap. II.4.1.
114
da Mosè agli uomini e la supplica alla divinità. In questa richiesta il legislatore non solo
implorava da Dio soccorso, ma anche di essere guidato attraverso il suo consiglio (διὰ τῆς
ἄνωθεν συµβουλῆς ὁδηγεῖσθαι: VM I 29, 19)12. Da questo punto in poi l’esegeta citerà come
risposta all’implorato aiuto la nube che prese a condurre il popolo per potenza divina
(νεφέλης δὲ τοῦ λαοῦ θείᾳ δυνάµει καθηγουµένης: VM I 30, 1)13.
Anche l’ispirazione da parte dei profeti ha per Gregorio le caratteristiche di una
conduzione da parte dello Spirito verso una sempre maggiore comprensione. Il Nisseno, ad
esempio, nell’omelia In Sanctum Pascha 14, quando ricorda la visione di Ezechiele nella quale
questi contemplò una pianura ricoperta da ossa che alle parole del profeta si ricostituirono in
corpi umani, si chiede a quale pensiero quell’uomo pur θεοφορούµενος (SP 266, 1) fosse
condotto (ὁδεγούµενος: SP 266, 2) attraverso simili visioni. La domanda, evidentemente
retorica, consente all’autore di portare al lettore una nuova prova della resurrezione della
carne e allo stesso tempo mostra come secondo il Nisseno qualsiasi intervento di Dio nella
vita dell’uomo sia occasione per quest’ultimo di un cammino che lo conduca ad una maggiore
profondità dei suoi misteri.
Ogni volta che fa menzione della promessa divina (τὸ θεῖον παράγγελµα: IC 317, 18)
l’esegeta ricorda la strada e la guida che ad essa si indirizza15. Il carattere infinito delle
profondità di Dio implica infatti una continua introduzione alla partecipazione dei suoi beni
([scil. τὴν ψυχήν] πρὸς τὴν τῶν ἀγαθῶν µετουσίαν ὁδηγουµένην: IC 320, 16) attuata secondo
le capacità man mano maggiori dell’uomo.
La guida di Dio è presupposta in ogni punto del cammino dell’uomo fino alle vette della
comprensione16. Commentando infatti il passo nel quale Mosè, dopo tutte le ascese compiute
e puntualmente descritte dal Nisseno, chiede alla divinità di mostrargli il suo volto (Exod 33,
18)17, Gregorio si chiede come si possa comprendere l’altezza cui si è chiamati. Un primo
aiuto è indicato nell’exemplum del legislatore; il vescovo cita quindi l’autorità paolina di Rom
12
Gregorio poteva trovare l’idea della conduzione da parte della destra del Signore già in Ps 138, 7.
Cf. VM I 29-30.
14 Cf. SP 265, 29-266, 8.
15 Cf. IC 315, 15-317, 17, dove Gregorio appunta κατὰ τὴν τοῦ λόγου ὑφήγησιν (317, 16-17).
16 Il riferimento alla sequela della divinità è presente nella narrazione gregoriana di molti momenti della storia
della salvezza, soprattutto in quegli episodi che con più facilità potevano essere accostati al messaggio
evangelico. Un esempio di questo è riscontrabile nell’omelia In diem luminum (cf. IDL 233, 15-23), nella quale
il Nisseno ripercorre vari passi della storia del popolo ebraico nei quali l’acqua è segno di passaggio e
rigenerazione; tra questi si ricorda la figura di Giosuè, introdotta dall’inciso ὡς ἐδιδάχθηµεν (IDL 233, 17).
Costui fu guida (ὁδηγοῦντος: IDL 233, 19) e nocchiero (κυβερνῶντος: IDL 233, 20) del popolo d’Israele; le
dodici pietre che Dio comandò loro di prendere dal Giordano, asciutto una volta che vi fu immersa l’arca
dell’alleanza (cf. Ios 4, 1-9), sono quindi lette come i dodici discepoli scelti da Gesù. I riferimenti alla guida
vengono in questo modo facilmente traslati dall’israelita a Cristo.
17 Cf. VM II 219-255, in particolare II 241, 5-9: πῶς οὖν ἄν τις τὸ ὕψος τὸ ἐκ τῶν εἰρηµένων κατανοήσειεν, ἐφ' ὅ
µετὰ τὰς τοσαύτας ἀναβάσεις ὅ τε Μωϋσῆς ἀναβῆναι ποθεῖ καὶ ὁ τοῖς ἀγαπῶσι τὸν Θεὸν πάντα συνεργῶν εἰς τὸ
ἀγαθὸν ἐξευµαρίζει διὰ τῆς ὁδηγίας τὴν ἄνοδον· ἰδοὺ τόπος, φησί, παρ' ἐµοί;
115
13
8, 28, nella quale si sottolinea come ogni creatura cooperi al bene per coloro che amano Dio.
Una tale συνεργεῖα18 nel testo del Cappadoce ha però una valenza più personale: Gregorio
tiene infatti a rimarcare come sia lo Spirito che, collaborando in ogni cosa al bene, facilita il
cammino del fedele attraverso la sua guida. Attualizzazione di questo è lo stesso racconto
biblico che, come si legge in un passo appena successivo, mediante realtà e luoghi misurabili,
esperibili, conduce per mano (χειραγωγεῖ: VM II 242, 5) a ciò che è infinito e illimitato.
La conduzione da parte di Dio tuttavia per la natura stessa dell’economia della salvezza
non può prescindere dall’elemento umano, che continua la dinamica dell’incarnazione. Si
scoprirà ben presto il ruolo decisivo di questa concezione; per adesso, basti notare come la
guida dello Spirito si leghi ben presto alla figura di un uomo, di un maestro, che acquista
valore in quanto mediazione e attuazione fenomenica della guida da parte della divinità.
Tale risalto può anche non partire da una effettiva sottolineatura già presente nel testo
sacro: alle falde del Sinai, ad esempio, il racconto biblico di Exod 19, 17-25 menziona come
Mosè parlasse alla presenza di Dio e questi gli rispondesse con tuoni e suono di trombe;
chiamatolo sul monte, di fatto il legislatore manifestò al popolo la volontà divina; nel testo del
Nisseno invece si esplicita la preghiera degli Israeliti affinché Mosè fungesse da mediatore
(µεσιτευθῆναι: VM I 45, 3), lasciando la possibilità che tale forzatura del passo biblico
assumesse anche un senso ecclesiologico19.
La paura sorta negli Israeliti di fronte alle difficoltà del cammino una volta lasciato
l’Egitto20 consente al Nisseno di far notare come la guida di Mosè poté essere autorevole solo
in quanto egli stesso era guidato dalla nube (ὁ ὁδηγὸς ἡ νεφέλη: VM I 35, 1-2; II 120, 6), il
nome scelto dalla Scrittura per adombrare quello dello Spirito; a chiarire ancora di più la
necessità di questo essere condotto, nel giro di poche righe il tema dell’ὁδηγία diventa
ricorrente21 . Punto di arrivo del loro cammino è innanzitutto il Sinai, monte che nel De vita
18
Già nel De virginitate (cf. DV 276, 22-277, 3) Gregorio aveva appuntato come nella vita dell’uomo esistessero
dei collaboratori (συνεργόν: DV 276, 23) che la instradano al compimento; in particolare il Nisseno si sofferma
sulla pratica della verginità: essa deve essere considerata alla stregua di un’arte che insegni (διδάσκουσα: DV
277, 3) all’uomo come rendersi simili alla natura incorporea.
19 Cf. SIMONETTI 1984, p. 269, dove si legge anche che «la mediazione di Mosè diventa simbolo della funzione
intermediaria fra Dio e il popolo svolta dalla gerarchia ecclesiastica, concetto che sta molto a cuore a Gregorio».
Ancora a p. 308, in riferimento a VM II 160, l’autore afferma che «nell'esposizione storica di I 45 Gregorio
aveva accentuato la funzione mediatrice di Mosè fra Dio e il popolo ebraico. Qui interpreta questa mediazione
riproponendo il motivo a lui caro (cfr. [VM] II 130) della mediazione della gerarchia ecclesiastica fra Dio e il
popolo cristiano, e ancora una volta deplora l'ambizione di chi aspira al sacerdozio senza esserne degno e
preparato. La connessione di tale indegnità col pericolo dell'eresia si spiega in quanto quasi sempre i propagatori
di dottrine eretiche erano vescovi e preti, non degni né preparati secondo il discorso che qui tiene Gregorio». In
DANIÉLOU 1944, p. 311 si ritrova anche come «pour pouvoir remplir cette mission de médiateur, il faut d’abord
s’être approché de Dieu. [...] Cette mission médiatrice suppose aussi un appel, un choix divin».
20 Cf. VM II 117-118.
21 Cf. VM II 120, 1-127. In queste righe si legge infatti, sempre in riferimento allo Spirito, ὁ ὁδηγός in 120, 4.6;
τῷ ὁδηγοῦντι in 121, 1; πρὸς τὸ ἀγαθὸν ὁδηγία in 121, 3; le righe 121, 4-5 sono infine costruite intorno questo
concetto: ᾧ τις ἑπόµενος τὸ ὕδωρ διέξεισιν, ὁδοποιοῦντος αὐτῷ τὴν δι' αὐτοῦ πορείαν τοῦ ἡγεµόνος.
116
Moysis22 anche figura della teologia, vale a dire della conoscenza di Dio: la gente comune
fatica a raggiungerne le radici, ed è per questo che necessita dell’introduzione di colui al quale
è stata data la capacità di prestare orecchio alle trombe che rivelano le realtà divine e
l’economia della salvezza.
La paura degli Israeliti di cui si accennava nascondeva, per il Nisseno, un male più
profondo: parte del popolo eletto, una volta liberato dalla schiavitù degli Egiziani, fu irretito
dalle tentazioni e si spaventò a causa dei pericoli che avrebbe potuto incontrare lungo la via:
così anche la mente di coloro che sono infanti nella fede (τῶν κατὰ τὴν πίστιν νεοπαγῶν ἡ
διάνοια: VM II 117, 6) si scoraggia nel guardare il lungo cammino che la attende; compito
dunque di Mosè o di chi a suo esempio è stato posto a capo della comunità è rincuorare coloro
che gli sono stati affidati. È impossibile tuttavia che questo avvenga se la guida non è in sé
salda, cioè, nella figura del testo, se non parla con Dio. Una tra le più grandi grazie ricevute
dal legislatore, ricorda ancora il commento al De vita Moysis 23, oltre ad esempio ad aver
innalzato l’inno di vittoria e aver imbandito la propria tavola con il cibo disceso dal cielo, fu
proprio l’essersi lasciato guidare egli stesso (ὡδηγήθη: VM II 312, 2) dalla colonna di fuoco,
cioè dallo Spirito, per poter poi compiere questo ufficio nei confronti dei suoi connazionali.
Tramite della guida divina, dopo l’incarnazione, divenne innanzitutto Cristo stesso.
L’incipit della seconda omelia di cui è costituito il De oratione dominica24 mostra nel
Nazareno l’attuarsi di quello che le guide dell’Alleanza non ebbero la possibilità di compiere.
A tal proposito Gregorio cita nuovamente la figura di Mosè e la sua salita al monte Sinai, sul
quale il popolo non poté incedere neppure una volta purificato: di fronte alla divina
mistagogia gli Israeliti ebbero infatti bisogno di un mediatore del divino volere (µεσίτην ...
τοῦ θείου βουλήµατος: OD 20, 10), perché le loro forze non erano sufficienti a sostenere la
rivelazione divina (θείαν ἐµφάνειαν: OD 20, 12), e ne furono personalmente esclusi. Cristo
invece, volendo condurre (προσάγειν: OD 20, 13) alla grazia divina, guida al cielo quelli che
gli si avvicinano rendendoli non solo spettatori della potenza divina ma compartecipi della
sua natura25 , illuminando i puri di cuore con la luce del suo insegnamento (τῷ τηλαυγεῖ φωτὶ
τῆς διδασκαλίας: OD 21, 2) affinché essi possano vedere la sua gloria. Un simile mutamento
della condizione umana è possibile , si legge nel testo, attraverso la preghiera: in essa infatti
gli uomini non imparano dei puri suoni, ma quel modo di pensare (µανθάνοµεν: OD 21, 13)
che conduce all’ascesa verso Dio nella propria condotta di vita.
22
Cf. VM II 158-161.
Cf. VM II 312.
24 Cf. OD 20, 3-21, 14.
25 Cf. OD 20, 23-25: … ἔπειτα δὲ οὐ θεατὰς µόνον τῆς θείας δυνάµεως, ἀλλὰ καὶ κοινωνοὺς ἀπεργάζεται, καὶ εἰς
συγγένειαν τρόπον τινὰ τῆς ὑπερκειµένης φύσεως τοὺς προσιόντας ἄγει.
117
23
Come si legge nell’In iscriptiones Psalmorum 26, gli Ebrei non accolsero la rivelazione
divina e la voce di colui che, eterno, entrò nel tempo, ma si affidarono ad una guida (ὁδηγόν:
IPS 102, 18) errante e incredula (la mera Legge?) e si preclusero, finché non la avessero
abbandonata, la via per giungere alla pace di Dio. In incipit della terza omelia del De oratione
dominica27 si ricorda infatti di come per il popolo di Israele solo un uomo, il sacerdote,
potesse entrare coperto da vesti regali alla presenza di Dio e compiere i sacrifici a lui graditi;
Cristo invece, spogliando la legge di ogni suo velame fisico condusse a Dio ciascuno,
conferendo a chiunque lo desiderasse la dignità del sacerdozio. Questa nuova stirpe è ornata
dalle virtù, come Gregorio afferma legandosi ai primi insegnamenti (διδαγµάτων: OD 33, 7)
del Padre Nostro, di cui aveva trattato nell’omelia appena precedente: chi si è meritato di
chiamare Dio proprio Padre, afferma Gregorio, possiede senza dubbio tutte quelle qualità che
la Scrittura menziona sotto la figura degli abiti e degli ornamenti del sacerdote che sale al
cospetto di Dio.
L’idea di una guida e di una strada che permettano all’anima di giungere al suo fine emerge
in alcuni passi del testo gregoriano anche attraverso, per così dire, il punto di vista dell’anima,
che viene colta dall’esegeta nella dinamica della sequela, aspetto che, come si rende evidente
dal sempre più insistito uso di verbi che aprono a questa idea, diventa man mano sempre più
determinante. Esempio di questo potrebbe essere il commento al passo del Cantico nel quale
l’anima, dopo aver stillato mirra dalle sue dita ed essersi purificata in fede e opere28, vede il
suo diletto passare oltre e la sua anima uscire al suo parlare29. Già all’inizio della spiegazione
essa è infatti caratterizzata come ἡ τῷ λόγῳ ἑποµένη ψυχή (IC 353, 17); in seguito si dirà che
essa si avvale della guida del Logos, che nel Vangelo si era detto via e porta30; l’ingresso nelle
realtà più divine accade poi solo in quanto essa sceglie di essere ἑποµένη προϊόντι τῷ λόγῳ
(IC 354, 10-11). Figura emblematica di questa tensione è per il Nisseno Mosè, del quale si
ripercorrono le ascese31 ; attraverso queste il Logos insegnerebbe (διδάσκων ... διὰ τούτων ὁ
λόγος: IC 356, 12) che colui che desidera vedere Dio lo segue da presso (ἀκολουθεῖν: IC 356,
13), ed il suo viaggio giunge a buon fine solo in questo seguire32 .
26
Cf. IPS 102, 1-22.
Cf. OD 31, 3-3317.
28 Cf. IC 342, 9-353, 7.
29 Cf. Cant 5, 6a: ἤνοιξα ἐγὼ τῷ ἀδελϕιδῷ µου, ἀδελϕιδός µου παρῆλϑεν· ψυχή µου ἐξῆλϑεν ἐν λόγῳ αὐτοῦ. Il
passo è commentato in C 353, 15-357, 2.
30 Cf. IC 354, 2-4: ταύτην οὖν ἐξῆλθεν ἡ ψυχὴ τὴν ἔξοδον ὁδηγῷ κεχρηµένη τῷ λόγῳ τῷ εἰπόντι ὅτι Ἐγώ εἰµι ἡ
ὁδὸς καὶ ἡ θύρα.
31 Cf. IC 354, 11-356, 12.
32 Cf. IC 356, 15-16: ἡ ἄπαυστος πρὸς αὐτὸν πορεία διὰ τοῦ κατόπιν ἕπεσθαι τῷ λόγῳ κατορθουµένη.
118
27
Nel De instituto33 Gregorio sottolinea con evidenza il rapporto di compartecipazione che si
instaura tra il dono della grazia dello Spirito e il retto comportamento dell’uomo, per donare a
quest’ultimo la felicità piena. Se infatti è la grazia dello Spirito che elargisce i doni della vita
eterna, la risposta della creatura attribuisce invece il merito di ricevere quei doni, concede di
gustare davvero di essi e lascia trarre dalla grazia concessa tutti i vantaggi quell’amore che
per mediazione della fede si attua attraverso le fatiche. La grazia di Dio infatti non ha la
possibilità di visitare anime che hanno scelto di fuggire la salvezza, mentre la forza di una
virtù esclusivamente umana di per se stessa non riesce a far avanzare verso la forma compiuta
della vita (πρὸς τὸ τῆς ζωῆς εἶδος: DI 47, 10) anime che non hanno parte della grazia. Occorre
quindi una educazione che permetta il cammino dell’uomo in risposta alla proposta divina:
bisogna infatti conoscere la volontà di Dio, ponendola davanti agli occhi come guida di fronte
alla quale disporre la propria vita. La volontà di Dio consiste nel purificare l’anima dell’uomo
attraverso l’opera della grazia da tutte le macchie e condurla (προσάγειν: DI 48, 3) pura di
fronte a sé, rendendola desiderosa e capace di vederne la propria luce intellettuale e
ineffabile34 . Come insegna (διδάσκει: DI 48, 12.15) Davide riguardo al retto cammino della
filosofia, occorre chiedere questo a Dio, colui che dona. Il cantore dei salmi infatti conduce
sul monte del Signore colui che è puro in tutto, perché fondò nuovamente il proprio cuore
distrutto dalla malvagità accettando che lo Spirito lo guidasse (τὸ ἡγεµονικὸν ὑποδεξάµενος
πνεῦµα: DI 49, 9-10). L’immagine della guida dello Spirito è qui mutuata da Ps 50, 12-14b,
che l’esegeta aveva appena citato35; τὸ ἡγεµονικόν tuttavia più spesso identifica la facoltà che
dirige l’animo umano: il Nisseno intendeva qui probabilmente sottolineare come lo Spirito,
nel cuore puro di chi è salvato, ne debba costituire la vera volontà.
A tal proposito, bisogna notare come Gregorio evidenzia spesso all’inizio delle sue omelie,
come ad esempio nel De beatitudinibus, la condizione dell’uomo per rimarcare la grande
grazia che gli è toccata a motivo dell’economia divina; ad essa la creatura è chiamata a
rispondere attraverso l’oblazione del proprio volere, un sacrificio che si risolve tuttavia in una
gioia più profonda.
Si è già detto che il tema della guida e della risposta dell’uomo, che si esplica come
sequela riveste un’importanza decisiva soprattutto nel De vita Moysis. Si vuole per questo
analizzare tale scritto più nello specifico.
33
Cf. DI 46, 26-47, 22. Si riporta DI 46, 26-47, 4 perché particolarmente importanti: ὴν µὲν γὰρ ἀίδιον ζωὴν καὶ
τὴν ἄῤῥητον ἐν οὐρανοῖς εὐφροσύνην ἡ τοῦ πνεύµατος δωρεῖται χάρις, τὴν δὲ ἀξίαν τοῦ δέξασθαι τὰ δῶρα καὶ
ἀπολαῦσαι τῆς χάριτος ὁ διὰ τῆς πίστεως περὶ τοὺς πόνους ἔρως παρέχει.
34 Cf. DI 48, 1-5.
35 Cf. DI 49, 1-3.
119
L’incipit dell’opera36 presenta ad esempio l’immagine di una corsa di bighe alla quale
assistono vari spettatori. Benché i corridori non manchino di impegno, il Nisseno nota come
naturalmente la tensione si comunichi anche agli spettatori, che in qualche modo si
immedesimano nei loro campioni anche nei gesti del corpo; il loro muoversi non contribuisce
effettivamente alla vittoria, ma rivela comunque la loro partecipazione. Secondo una logica
simile, Gregorio afferma che di fronte a un carissimo figlio (ὡς ἀγαπητῷ τέκνῳ: VM I 1, 18),
come viene definito il dedicatario anonimo dell’opera da cui era stato sollecitato per via
epistolare a trattare di questi argomenti37, l’autore di uno scritto quale lui si stava accingendo
a comporre non possa sostituirsi alla sua corsa, ma incitarla, guidarla con la voce e mostrare la
propria compagnia di intenti. Tale è infatti lo scopo dichiarato del trattato: proporre dei
consigli sulla vita perfetta attraverso non delle semplici parole, ma un esempio di ubbidienza.
In Nisseno ricorda quindi la sua canizie (elemento topico ma reale, in quanto l’opera è datata
tra le ultime dell’autore38 ) e il compito che gli era stato affidato, l’essere preposto come padre
a molte anime; questi due motivi, oltre all’affetto sopra citato, lo hanno condotto a rispondere
all’invito di quel giovane assennato, affinché in lui fosse rafforzato il precetto
dell’ubbidienza. Ponendo questo rilievo al principio dell’opera, il Cappadoce lo vuole
proporre probabilmente come una delle possibili chiavi interpretative globali: il De vita
Moysis dunque sarebbe stata scritta per offrire ad un giovane un esempio illustre che educasse
(παιδοτριβηθείσης: VM I 2, 10), desse le ragioni e rafforzasse il suo atteggiamento di sequela,
che in questo passo Gregorio esprime con i termini obbedienza (εὐπειθείας: VM I 2, 9) e
sottomissione (ὑπακοήν: VM I 2, 10).
L’importanza della sequela della divinità è chiarificata anche nel commento a Exod 33,
18-2339, in cui si narra la richiesta del legislatore a Dio affinché questi gli mostrasse la sua
gloria. La divinità di fronte tale desiderio affermò come un uomo non possa vedere il volto
dell’Eterno e rimanere in vita; solo dopo averlo protetto in un luogo appartato vicino a dove
Egli stesso si trovava, una roccia, e dopo averlo coperto con la sua mano al Suo passaggio,
Dio concesse a Mosè di vedere le sue spalle. Dopo aver eliminato nei capitoli precedenti ogni
possibile deviazione eretica che sarebbe potuta essere causata da questa rappresentazione
corporea di Dio e dopo aver letto nell’immagine della roccia e della mano Cristo stesso, il
vescovo affronta l’ultima parte dell’episodio. Chi infatti avrà compiuto tutte le ascese
precedenti, riassunte in VM II 243 secondo le due direttive di una stabilità nel bene e in una
36
Cf. VM I 1.
Cf. VM I 1-2 e SIMONETTI 1984, pp. XIV-XV e p. 263 n. 12, dove si vagliano le proposte di Daniélou, che
vorrebbe come destinatario un monaco, e quella di Heine, che preferisce indirizzare lo scritto a un più generico
prete o aspirante al presbiterato.
38 Cf. SIMONETTI 1984, pp. XVII-XX e p. 263 n. 7, dove si discute il problema.
39 Cf. VM II 249-255.
120
37
corretta comprensione della realtà, si sentirà chiamare e procederà dietro il Signore. Citando
quindi per due volte l’autorità davidica dei Salmi40 il Nisseno nota come la Scrittura si
riferisca spesso a questo seguire da presso la divinità, che offre in questo modo all’uomo il
suo sostegno. Nel commento del vescovo il verbo usato è ἀκολουθεῖν, avvicinato
significativamente al participio εὐχοµένου, che indica l’atteggiamento di domanda
dell’uomo41 . Il riferimento scritturistico non si limita al Vecchio Testamento: Gregorio cita
subito infatti Luc 9, 23 e Luc 18, 22, luoghi nei quali Cristo esorta i discepoli a seguirlo e a
porsi sulle sue orme.
La brama di vedere Dio può dunque realizzarsi solo nella sequela: vedere Dio coincide
infatti con il seguirlo dove Egli stesso conduce. Come si legge ancora nel De vita Moysis42 la
divinità, ponendosi davanti all’uomo, gli batte la strada che deve percorrere; alla creatura è
chiesto solo di non staccare gli occhi da Lui. Se, continua il vescovo, l’uomo gli procedesse
davanti aprirebbe un nuovo cammino, diverso da quello che gli avrebbe indicato la guida
nella sua conoscenza infinita. Continuando quindi su questa scia, il discorso si fa più generale:
il vescovo nota infatti come ogni bene o virtù segua un altro bene, andando nella sua stessa
direzione, e che non si dà mai un bene che si opponga contrario ad un altro. Al bene si oppone
solo il male, alla virtù solo il vizio. Guardare il volto di Dio, secondo questa interpretazione,
sarebbe volgerglisi contro e contrastarlo, cosa che non permette di ottenere la vita. Occorre
dunque imparare a seguire da presso la divinità (µαθεῖν ἀκολουθῆσαι τῷ Θεῶ: VM II 255, 1).
L’atto della sequela, come ogni atto umano, chiede sempre un’implicazione della libertà;
per questo l’uomo deve esservi educato. Nel De vita Moysis43 si legge ancora come il popolo
d’Israele, benché avesse ricevuto grazie su grazie, non si era ancora educato a muovere gli
stessi passi del suo legislatore, decadendo in desideri indegni della sua grandezza, cui dopo la
Caduta è proclive la natura della creatura.
L’idea del seguire è infine riproposta nella riflessione sulla natura della virtù44, che si viene
a trovare come via mediana tra due opposti; allo stesso modo la Legge chiede che l’uomo la
segua passo passo (κατ' ἴχνος ἑπόµενον: VM II 287, 9-10), di modo tale che possa evitare il
40
Cf. VM II 250, dove sono ricordati, nell’ordine, Ps 91, 4 e Ps 63, 9.
Cf. VM II 250, 11.
42 Cf. VM II 252, 1-253, 8: Οὐκοῦν διδάσκεται νῦν ὁ Μωϋσῆς, ὁ ἰδεῖν τὸν Θεὸν σπεύδων, πῶς ἔστιν ἰδεῖν τὸν
Θεόν, ὅτι τὸ ἀκολουθεῖν τῷ Θεῷ, καθ' ὅπερ ἂν καθηγῆται, τοῦτο βλέπειν ἐστὶ τὸν Θεόν. Ἡ γὰρ πάροδος αὐτοῦ
τὴν ὁδηγίαν τοῦ ἑποµένου διασηµαίνει. Οὐ γὰρ ἔστιν ἄλλως τὸν ἀγνοοῦντα τὴν ὁδὸν ἀσφαλῶς διανύσαι, µὴ τῷ
καθηγουµένῳ κατόπιν ἑπόµενον. Ὁ οὖν ὁδηγῶν τῷ προηγεῖσθαι τῷ ἑποµένῳ τὴν ὁδὸν ὑποδείκνυσιν. Ὁ δὲ
ἑπόµενος τότε τῆς εὐθείας οὐκ ἐκτραπή σεται, εἰ τὸ ὀπίσω ἀεὶ τοῦ ἡγουµένου βλέποι. [253] Ὁ γὰρ ἐπὶ τὰ πλάγια
τῇ κινήσει παραφερόµενος ἢ ἀντιπρόσωπον φέρων τῷ ὁδηγοῦντι τὸ βλέµµα ἄλλην ἑαυτῷ καινοτοµεῖ πορείαν,
οὐχ ἣν ὁ ὁδηγὸς ὑποδείκνυσι. ∆ιό φησι πρὸς τὸν ὁδηγούµενον ὅτι· τὸ πρόσωπόν µου οὐκ ὀφθήσεταί σοι,
τουτέστι· µὴ ἀντιπρόσωπος γίνου τῷ ὁδηγοῦντι. Πρὸς γὰρ τὸ ἐναντίον πάντως ὁ δρόµος ἔσται. Ἀγαθὸν γὰρ
ἀγαθῷ οὐκ ἀντιβλέπει, ἀλλ' ἕπεται.
43 Cf. VM II 271, 1-2: ἀλλ' οὔπω κατ' ἴχνος ἕπεσθαι τῇ µεγαλοφυΐᾳ Μωϋσέως ὁ λαὸς ἐπαιδεύθη.
44 Cf. VM II 287-290.
121
41
precipizio che si apre su entrambi i lati di questa strada tracciata, che deve seguire con strenua
attenzione45.
L’idea della sequela di Dio ricorre negli ultimi testi del vescovo anche attraverso immagini.
È questo il tema, ad esempio della metafora della vita come navigazione, presente più volte
nell’opera gregoriana, con diverse sfumature46.
Nel De vita Moysis47, ad esempio, Gregorio interpreta la corrente che trasportò la cesta che
conteneva Mosè infante come la continua mutabilità della vita che si oppone alla stabilità di
ciascuno, anche di coloro che già non si lasciano sommergere dagli inganni terreni, legati alla
natura umana (ταῖς ἀνθρωπίναις ἀπάταις: VM II 9, 3).
In esergo dell’Omelia XII dell’In canticum 48 l’autore descrive dei mercanti che, ormai al
largo e con la prora del timone verso il mare aperto, intonano una preghiera per il buon esito
di quello che stanno per intraprendere. La preghiera, continua il vescovo, chiede circostanze
favorevoli al loro tragitto e rinvigorisce i cuori con la speranza delle ricchezze promesse. Il
Nisseno legge quindi egli stesso l’immagine nella sua profondità: il pelago rappresenta il
mare delle interpretazioni della Sacra Scrittura, vasto e periglioso, ma del quale molto più
grande è la ricchezza di conoscenza che si spera attraverso questa fatica. La nave è la Chiesa,
che rivolge lo sguardo in alto mare, alla navigazione dell’esegesi49. Timoniere di questo
viaggio diventa quindi il discorso che l’esegeta pronuncia (ὁ κυβερνήτης λόγος: IC 342, 1);
esso tuttavia non ardisce toccare la barra prima che si elevi la preghiera allo Spirito. Questi,
oltre a rimuovere i flutti avversi di altri pensieri, diventa la vera guida (θεὸν γενέσθαι
καθηγεµόνα: IC 341, 3) che permette di spingersi al largo.
Anche il De instituto50 riprende una metafora simile, sempre a sfondo nautico: in essa si
paragona la ragione dell’uomo ad un saggio nocchiero (σοφὸν κυβερνήτην: DI 82, 1) che
conduce in un porto sicuro la barca dell’anima, lontano dai marosi del male, per restituirla
intatta a Dio, colui che la affidò all’uomo e la chiederà indietro. La facoltà razionale
dell’uomo (λογισµόν: DI 82, 2) deve dunque presiedere ad ogni attività dell’anima, di modo
45
Cf. VM II 290: ἐπεὶ δέ, καθώς φησιν ὁ Κύριος, ὁ κόσµος οὗτος ἐν τῷ πονηρῷ κεῖται, ἀλλόφυλον δὲ τοῖς
ἑποµένοις τῷ νόµῳ τὸ τῇ ἀρετῇ ἀντικείµενον, ὅπερ ἐστὶν ἡ πονηρία, ὁ διὰ τοῦ κόσµου τούτου κατὰ τὸν βίον
ὁδοιπορῶν ἀσφαλῶς τὴν ἀναγκαίαν ταύτην τῆς ἀρετῆς διανύσει πορείαν, εἰ τὴν λεωφόρον ὄντως τὴν ὑπὸ τῆς
ἀρετῆς τριφθεῖσάν τε καὶ λευκαινοµένην ὁδὸν φυλάσσοι, µηδαµοῦ πρὸς τὰς παρα κειµένας ἀνοδίας διὰ κακίαν
παρατρεπόµενος.
46 Per altri esempi della metafora della navigazione in Gregorio oltre quelli citati di seguito e nei Padri, cf.
LOZZA 1991, p. 103.
47 Cf. VM II 8-9.
48 Cf. IC 340, 17-342, 8.
49 Cf, IC 341, 15-19: µέγα πρόκειται τῷ λόγῳ τὸ πέλαγος τῆς τῶν θείων ῥητῶν θεωρίας, πολὺς δὲ διὰ τῆς
ναυτιλίας ταύτης ὁ τῆς γνώσεως πλοῦτος ἐλπίζεται, ἡ δὲ ἔµψυχος αὕτη ναῦς, ἡ ἐκκλησία, ἐν παντὶ τῷ ἰδίῳ
πληρώµατι πρὸς τὸν πλοῦν τῆς ἐξηγήσεως βλέπει µετέωρος.
50 Cf. DI 82, 1-11.
122
tale che tenga fissi gli occhi alla sua meta e non lasci trascinare il proprio pensiero (τὴν
διάνοιαν: DI 82, 2) lontano da essa dagli artifizi del maligno.
Solo in questo modo l’anima può compiere un cammino continuo verso il meglio, un
processo di cambiamento che, nell’Omelia VI, è presentato grazie all’immagine della
commutazione di un ruolo teatrale da parte degli attori51 : come essi mutano abito e maschera
a seconda del ruolo che interpretano e possono passare da semplice suddito a re, così, grazie
al proprio desidero destato da Dio stesso ciascuno matura una diversa perfezione nel
conseguimento del bene, fatto che fa risplendere nella vita un carattere particolare, come se
fosse un nuovo ruolo e il suo aspetto fosse mutato di conseguenza. Naturalmente Gregorio
precisa subito che un simile mutamento non è causato dalla sorte, bensì da una scelta
personale e un conseguente cammino verso la virtù (ἐν ταῖς κατὰ τὴν ἀρετὴν προκοπαῖς: IC
186, 6-7). Questa immagine del teatro, benché Gregorio non la approfondisca ulteriormente,
porta con sé in filigrana l’idea di una libertà non assoluta, abbandonata, ma che ha di fronte
un canovaccio e un ruolo assegnatole cui aderire.
Si è già notato come tuttavia la facoltà razionale dell’uomo, indebolita dopo la Caduta,
debba essere accompagnata e fatta crescere. Quale secondo Gregorio è dunque questa guida
da seguire, chi presiede l’educazione di cui la creatura umana ha bisogno?
II.2
La Scrittura
La prima e più importante fonte dell’educazione è per Gregorio la Sacra Scrittura; essa,
«espressione della divina pedagogia, trasmette il suo insegnamento nelle forme adeguate alla
natura umana» 52. Come si legge nelle omelie In Canticum, essa educa, παιδεύειν, testimonia,
µαρτυρεῖν ed è maestra di misteri, µυστήρια διδάσκειν53. È dalla Scrittura che impariamo ciò
che riguarda Dio (τὰ µεγάλα νοήµατα περὶ τοῦ θεοῦ διδασκόµεθα: IC 26, 17-18) in un flusso
continuo di insegnamenti54 , da cui l’intelligenza dell’uomo è irrigata55 e la cui profondità è
51
Cf. IC 185, 20-186, 12
TARANTO 2009, p. 565.
53 Di tali verbi si è già avuto occasione di trattare; cf. il cap. Per un lessico dell’educazione in Gregorio.
Riguardo a παιδεύειν, il passo più chiaro rimane IC 89, 15-16: ταῦτα διὰ τῶν εἰρηµένων παιδεύειν ἡµᾶς τὸν
λόγον οἰόµεθα ὅτι κτλ.; cf. anche IPS 47, 4-5 dove, dopo la citazione di Ps 89, 4-5, il Nisseno si domanda τί οὖν
ἐν τούτοις δογµατικῶς παιδευόµεθα; cf. anche DBen 100, 6-10, laddove si legge che il passo della Scrittura che
Gregorio aveva appena commentato non aveva altro scopo che insegnare ciò che ha di valente la beneficenza:
essa infatti è ciò che abbraccia la vita, una madre per i bisognosi e un maestro per i ricchi, oltre che molto altro:
ἐγράφη δὲ τὰ πάντα ἐπιµελῶς καὶ ἀκριβὲς ἡµῖν τὸ δικαστήριον ἀνεζωγραφήθη παρὰ τοῦ λόγου, οὐκ ἄλλου του
χάριν ἢ τοῦ µαθεῖν εὐποιίας χρηστότητα. αὕτη γάρ ἐστιν ἡ τὸν βίον συνέχουσα, µήτηρ τῶν πενοµένων,
διδάσκαλος τῶν πλουσίων, κτλ.
54 Cf. IC 41, 19-42, 2; 52, 1-2; cf. anche IC 54, 13-14 (dove si legge il composto ἐκπαιδεύειν).
55 Cf. IC 98, 2: [ἐν τῷ Γαδί] τουτέστιν ἐν βαθείᾳ τῇ διανοίᾳ τῇ διὰ τῶν θείων διδαγµάτων καταρδοµένη.
123
52
infinita, benché questo il più delle volte accada attraverso enigmi; dalla Scrittura si impara
come occorra disporre l’animo in maniera consona a ciò che accade56. Infine, ma non meno
importante, la scrittura è guida, ὑφήγησις57.
Solo gli insegnamenti posti dalla Sacra Scrittura, si legge ad esempio nel trattato Ad
Ablabium58, offrono una strada per la conoscenza della divinità; essi tuttavia possono solo
avvicinare ad essa, in quanto parla comunque all’intelletto di una creatura che non potrà mai
eliminare tale differenza ontologica59 . I nomi stessi consegnati dalla parola rivelata sono solo
interpretazioni dell’essenza di Dio, che ne insegnano (διδάσκοντα: AdA 44, 5) alcune
caratteristiche, e non manifestazione esaustiva di essa. Esempio di ciò è il termine θεός, che
per consuetudine e insegnamento delle Scritture (ὑπό τε τῆς συνηθείας καὶ τῆς τῶν γραφῶν
διδασκαλίας: AdA 44, 15-16) indica piuttosto una attività di Dio, quella del vedere (τῇ
θεωρητικῇ δυνάµει: AdA 44, 13), e non ne mostra l’essenza60 .
La dottrina ispirata offre una guida che occorre seguire per comprendere le verità ultime
dell’uomo61 : tale valore è evidenziato ad esempio nell’In Ecclesiasten, dove si legge come la
stessa Sapienza parli per bocca del Salomone carnale, colui che era ritenuto l’autore dei
Proverbi, dell’Ecclesiaste e del Cantico, ed attraverso di lui conduce (ὁδηγηθείηµεν: IE 305,
22) l’uomo verso un cambiamento del proprio desiderio, così da orientarlo alle realtà eterne.
Gregorio affronta in tema anche nell’unico passo dell’Ad Graecos62 nel quale si mostra
presente con insistenza un lessico legato alla παίδευσις. Il problema che il vescovo affronta
nel trattato è la differenza tra οὐσία e ὑπόστασις in rapporto alla divinità e all’uomo. Il testo
sacro, per chi si accosta ad esso con vero desiderio di conoscere (µαθεῖν: AdG 26, 21;
φιλοµαθῶς: AdG 27, 4), può offrire valide considerazioni per dirimere la questione. Per come
viene presentato, il problema riguarda innanzitutto il linguaggio umano e il suo uso comune
(τῆς κοινῆς συνηθείας: AdG 24, 12): parlando infatti di Pietro, Barnaba e Paolo il testo
ispirato si riferisce a tre uomini, piegandosi alla convenzione, laddove in realtà la Scrittura
riconosce benissimo come una simile affermazione sia imprecisa: essi infatti posseggono
56
Cf. IF 476, 24-25: µανθάνοµεν γὰρ διὰ τούτων ὅτι δεῖ καταλλήλως τῷ ὑποκειµένῳ καὶ τὴν ψυχὴν διατίθεσθαι.
Cf. ad es. IC 44, 9-10: πάλιν πρόκειται ἡµῖν τὸ Ἆισµα τῶν Ἀισµάτων εἰς πᾶσαν φιλοσοφίας τε καὶ θεογνωσίας
ὑφήγησιν.
58 Cf. AdA 42, 19-43, 2: ἡµεῖς δὲ ταῖς τῆς γραφῆς ὑποθήκαις ἑπόµενοι ἀκατονόµαστόν τε καὶ ἄφραστον αὐτὴν
µεµαθήκαµεν· καὶ πᾶν ὄνοµα, εἴτε παρὰ τῆς ἀνθρωπίνης συνηθείας ἐξηύρηται εἴτε παρὰ τῶν γραφῶν
παραδέδοται, τῶν περὶ τὴν θείαν φύσιν νοουµένων ἑρµηνευτικὸν εἶναι λέγοµεν, οὐκ αὐτῆς τῆς φύσεως περιέχειν
τὴν σηµασίαν.
59 Cf. TARANTO 2009, p. 136: «Quanto la Parola ispirata dice all’uomo di Dio supera le capacità umane di
penetrazione dell’assoluto; infatti la natura creata, di per sé, non sarebbe mai stata capace di elevarsi a tal punto
da scorgere certe sublimi verità. Nonostante ciò, tuttavia, resta invalicabile il limite della creazione, e per questo
il parlare umano di Dio non insegna all’uomo la sua vera natura».
60 Cf. AdA 44, 2-16.
61 Cf. DIP 77, 12-14: ἓν δὲ τῶν γεγονότων καὶ τὴν ἀνθρωπίνην φύσιν εἶναί φαµεν, λόγῳ τινὶ τῆς θεοπνεύστου
διδασκαλίας ὁδηγῷ πρὸς τοῦτο συγχρώµενοι, ὅς φησι κτλ.
62 Cf. AdG 26, 6-28, 9.
124
57
un’unica οὐσία, come si legge ad esempio in un riferimento alla natura umana tout court in Ps
102, 15. Questo argomento, commenta il vescovo, vieterebbe l’uso del plurale, come accade
nei confronti della divinità, affinché non si ingenerino contraddizioni; per coloro che sono
disposti a seguire i sui insegnamenti (δόγµατα: AdG 27, 9) tuttavia la Scrittura si comporta
come buona nutrice (ὡς τροφὸς ἀγαθή: AdG 27, 5), che riconosce gli uomini come suoi propri
nati e a volte blandisce coloro che non possono ancora ricevere un nutrimento più sostanzioso
scendendo sul piano di coloro che sono ancora bambini dal punto di vista dell’età intellettuale
e imitandone (µιµουµένη: AdG 27, 11) il comportamento per farli ascendere alle realtà
perfette (εἰς τελειότητα ἡλικίας: AdG 27, 12). Essa infatti insegna le dottrine perfette in modo
tale da educare al meglio i propri discepoli, concedendosi ad esempio di usare immagini,
come gli occhi e le mani di Dio, in sé inappropriate, ma comprensibili come metafore tratte
dalla nostra realtà, trasmettendo la sua verità attraverso frasi concrete ed evidenti63 , di modo
che ciò su cui saggiamente ammaestra (σοφῶς ἐκπαιδεύουσα: AdG 27, 23-28, 1) sia
comprensibile ad ogni età spirituale, persino alle persone più semplici (τῶν νηπιωδεστέρων:
AdG 28, 6). Come bene riassume Taranto64 , «la Scrittura è [...] guida autorevole e saggia
perché non travalica i limiti dell’uomo, ma si adegua a costui, essendo essa stessa espressione
mediata della Verità».
La Scrittura per il vescovo è fonte della certezza nella conoscenza: ad esempio, di fronte
alle varie interpretazioni che furono presentate in merito a 1Sam 28, 7-25, episodio nel quale
una negromante di Endor evocò, per ordine di Saul, l’anima di Samuele, Gregorio nel De
Pythonissa65 dice di riconoscere solo la verità che gli è stata insegnata dal Vangelo (διδαχθεὶς
µόνον ἀληθὲς εἶναι πιστεύειν τὸ εὐαγγέλιον: DPy 103, 3-4): lo spazio che il Cristo ha detto
esistere tra il luogo di punizione degli ingiusti e della glorificazione dei giusti è
insormontabile, dunque il profeta non può aver abbandonato la presenza di Dio per mescolarsi
con gli empi.
Tutte le parole di Cristo sono da meditare, come si legge in explicit della quinta omelia del
De beatitudinibus 66, in quanto educano (παιδεύουσαν: DB 136, 21) in breve alle verità sul
destino futuro dell’uomo. Dio stesso, comunque, sceglie cosa debba essere insegnato
all’uomo: ad esempio nell’omelia De tridui spatio 67 il Nisseno chiedendosi quando avvenne la
63
Cf. AdG 27, 13-21: ὁρίζεται δὲ ὅµως καὶ δογµατίζει τὰ τέλεια κατὰ τὸ ἑαυτῇ πρέπον καὶ τοὺς µαθητευοµένους
προσῆκον διδάσκεσθαι. ἀµέλει ὅτι ὦτα καὶ ὀφθαλµοὺς καὶ στόµα καὶ τὰ λοιπὰ δὴ µόρια σωµατικὰ λέγουσα
ἔχειν τὸν θεὸν οὐ δόγµα τὸ τοιοῦτο παραδίδωσι σύνθετον ἐκ διαφόρων µελῶν ὁριζοµένη τὸ θεῖον, ἀλλὰ κατὰ
τὸν εἰρηµένον τρόπον ἐκ µεταφορᾶς τῶν ἡµετέρων λαµβάνουσα τὰ τοιαῦτα πρὸς ἀναγωγήν, ὡς εἶπον, τῶν µὴ
ἀµέσως ἐπὶ τὰ ἀσώµατα χωρεῖν δυναµένων στερεαῖς τισι καὶ τρανοτάταις ταῖς λέξεσι τὰ δόγµατα ἐκτίθεται.
64 TARANTO 2009, p. 566.
65 Cf. DPy 101, 17-103, 14.
66 Cf. DB 136, 19-23.
67 Cf. TS 287, 16-289, 19.
125
resurrezione analizza le apparizioni pasquali e ci informa che alle donne fu concesso di
conoscere il prodigio, ma non furono istruite riguardo all’ora in cui esso avvenne68.
L’atteggiamento di chi legge i testi ispirati è quindi quello del µανθάνειν o del
µαθητέυειν 69: µανθάνοµεν διὰ τῶν εἰρηµένων (IC 35, 5) diventa infatti, nelle sue varie
possibilità di espressione, un concetto ricorrente nelle opere del Nisseno; per chi si accosta
alla Sacra Scrittura con cuore sincero poi è sempre rimarcata la posizione di discepolanza che
si instaura nei confronti della parola rivelata70 . Ciò che si apprende oltre che con il consueto
δίδαγµα (naturalmente nobilitato dall’aggettivo θειόν o simili) può essere caratterizzato come
δόγµα71 , il risultato del δοκεῖν, una verità acquisita attraverso ragionamenti o l’azione del
δογµατίζειν 72 e non necessariamente cristallizzata e immobile. Quasi a suggellare, per via
negativa, il legame profondo tra lessico dell’educazione e utilizzo delle Sacre Scritture, in
un’opera quale il Contra fatum, nella quale il citazionismo biblico è ridotto73, si ha una
presenza meno insistita anche dei termini legati all’ambito paideutico.
Ogni parola dettata dallo Spirito mira all’edificazione dell’uomo (εἰρῆσθαί τι παρ' αὐτῆς
εἰς ὠφέλειαν ἡµῶν: IC 4, 12-3); questo si attua come il raggiungimento della conoscenza dei
misteri e di una pura condotta di vita (πρός τε γνῶσιν τῶν µυστηρίων καὶ πρὸς καθαρὰν
πολιτείαν: IC 5, 14-5). Anche le ripetizioni che il testo sacro compie, in quest’ottica,
diventano allora la modalità attraverso cui si mostra un pensiero grande e sublime, confacente
a Dio, un insegnamento ispirato, e non un chiacchiericcio umano 74.
Per Gregorio l’utilità della comprensione che offre un versetto biblico risiede nella
possibilità di realizzare ciò cui tale conoscenza indirizza. Durante la sesta omelia del De
beatitudinibus75 il Nisseno si trova infatti a commentare la beatitudine nella quale si trova
scritto che i puri di cuore vedranno Dio (Matth 5, 8); vari passi delle Scritture, tra cui le
autorità di Mosè, Giovanni e Paolo76 tuttavia affermano che una simile visione non è possibile
all’uomo: il Nisseno per questo si interroga sulla utilità del versetto evangelico, se la
condizione che chiede fu eccessiva perfino per i profeti e gli apostoli: sarebbe infatti vano
imparare (µαθεῖν: DB 139, 10) dalla parola divina, ad esempio, che l’essere beati consiste nel
68
Cf. TS 289, 13-15: τότε ἱστοροῦσι τὴν ἤδη γεγενηµένην ἀνάστασιν, αἳ τὸ µὲν θαῦµα ἔγνωσαν τὴν δὲ ὥραν οὐκ
ἐδιδάχθησαν.
69 Di tali verbi si è già avuto occasione di trattare; cf. il cap. Per un lessico dell’educazione in Gregorio.
70 Cf. ad es. IC 315, 16: ἡ διάνοια τῶν µαθητευοµένων τῷ λόγω.
71 Di tali termini si è già avuto occasione di trattare; cf. il cap. Per un lessico dell’educazione in Gregorio.
72 Cf. ad es. IC 10, 9; 173, 1; 175, 2; 247, 2. Anche l’avverbio δογµατικῶς è usato una volta in correlazione al
verbo ἐκπαιδεύει (IC 54, 14) e una seconda legato al verbo προθεωρέω (IC 175, 16), che nella sua radice si
riferisce alla θεωρία, l’interpretazione spirituale.
73 Cf. BANDINI 2003, p. 26-27.
74 Cf. IC 157, 10-13: οὐ γὰρ κατά τινα περιττὴν καὶ παρέλκουσαν µαταιολογίαν τοῖς αὐτοῖς ῥήµασιν
ἐµφιλοχωρεῖν τὴν θεόπνευστον διδασκαλίαν ἐστὶν εἰκός, ἀλλά τι µέγα καὶ θεοπρεπὲς νόηµα διὰ τῆς παλιλλογίας
ἡµῖν ὑποδείκνυται.
75 Cf. DB 138, 24-148, 22.
76 Cf., nell’ordine, Exod 33, 20, Ioh 1, 18 e 1Tim 6, 16.
126
trovarsi in cielo se l’uomo non possedesse un mezzo per raggiungerlo, perché uomini così
istruiti (µεµαθηκότας: DB 139, 13) potrebbero solo disperarsi. Nel dispiegarsi del commento,
il Nisseno afferma quindi che questa possibilità risiede nella sequela degli insegnamenti
evangelici, dunque in una educazione.
Ogni libro o passo della Scrittura ha la possibilità di essere letto in un contesto paideutico;
questo è evidente ad esempio nella prima omelia In XL martyres 77, laddove Gregorio nomina
in tale accezione Giobbe, di cui si afferma il grande valore educativo (παιδεύων: XLM Ia 137,
19) per chi cerchi il coraggio in forza degli esempi che è possibile trarre dalla sua vita,
l’autore dei Proverbi, pur in sentenze che necessitano di interpretazione, l’insegnamento
(διδασκαλίας: XLM Ia 138, 1) di Paolo e i misteri dei Salmi.
La stessa disposizione entro cui sono state poste le opere della Scrittura mira
all’educazione di colui che si lascia condurre. Come si legge ad esempio nella sesta omelia In
Ecclesiasten78 la giustapposizione della Genesi e dell’Esodo educherebbe (παιδευθῆναι: IE
378, 20) l’uomo a considerare la stretta connessione tra nascita e morte, ricordando a coloro
che sono sprofondati nei piaceri carnali il termine della vita umana, per far loro comprendere
l’effettivo valore di quello che vanno ricercando. Ma i passi più significativi che rendono
evidente la concezione di Gregorio secondo cui i libri della Bibbia sono posti in vista di una
ascesi riguardano il libro dei Salmi ed i legami che intercorrono tra il libro dei Proverbi,
l’Ecclesiaste e il Cantico dei Cantici.
II.2.1
Il libro dei Salmi
Anche il libro dei Salmi, come si legge in incipit dell’In iscriptiones Psalmorum 79, ha
come scopo condurre l’uomo alla virtù.
Che i Salmi siano un insegnamento ispirato da Dio è ribadito con insistenza nel caput IV
della seconda sezione80 , laddove nel titolo stesso è presente l’espressione εἰς διδαχήν. In tale
sezione è interessante notare la presenza del sostantivo ὑφήγησις, che indica la guida del testo
ispirato attraverso degli esempi presi dalla storia (ὑφήγησιν διὰ τῶν ἱστορικῶν ὑποδειγµάτων:
IPS 81, 26); il concetto è ripreso anche poco oltre con il termine µάθηµα (IPS 82, 2). Tale
insegnamento (διδασκαλίας: IPS 61, 11) è paragonato 81, seguendo e spiegando le immagini di
Ps 106, ad un sale che, cosparso sull’anima, muta il corso d’acqua dei peccati in un lago
77
Cf. XLM Ia 137, 19-138, 6; cf. in part. XLM Ia 137, 19-20: πολὺς ὁ Ἰὼβ παιδεύων εἰς ἀνδρείαν τὸν βίον τοῖς
καθ' ἑαυτὸν ὑποδείγµασι, πολὺς ὁ παροιµιαστὴς τοῖς αἰνίγµασι.
78 Cf. IE 378, 6-379, 13.
79 Cf. IPS 24, 1-25, 9; cf. anche IPS 37, 21-38, 4.
80 Cf. IPS 79, 5-82, 15.
81 Cf. IPS 61, 2-15.
127
salato; la città che esso tocca diventa quindi la sede di coloro che provano una sete beata e che
raccoglie i frutti della virtù.
Come si legge all’inizio dell’opera82 , la felicità è lo scopo a cui tende la vita virtuosa: una
simile condotta di vita non mira infatti ad altro che πρὸς τὸ µακάριον (IPS 25, 15). Sommo
bene e somma beatitudine è Dio, secondo la definizione paolina di 1Tim 6, 15-16; per questo,
continua il Nisseno, la felicità dell’uomo deve identificarsi con la partecipazione e
l’assimilazione alla realtà ultima, che è vero essere. I salmi propongono con il loro
insegnamento, in apparenza semplice e rustico (ἐν ἁπλῇ κατὰ τὸ φαινόµενον καὶ ἀκατασκεύῳ
τῇ διδασκαλίᾳ: IPS 26, 16-17), una via verso questo fine e testimoniano (προσµαρτυρεῖ: IPS
26, 22) la triplice divisione della virtù nell’estraniazione dal male, nella inclinazione al meglio
e nella cura verso ciò che è più elevato e più divino.
Scopo dei titoli dei Salmi è invece offrire una chiave di lettura preliminare al testo,
affinché, avendo appreso in precedenza (προδιδαχθέντας: IPS 71, 24) il contenuto e lo scopo
della preghiera, ciascuno potesse divenire capace di capire (εὐµαθεστέρους: IPS 71, 24) il
senso profondo delle parole: il titolo del salmo infatti già di per sé ha la capacità di educare
(παιδεύει: IPS 71, 27), cioè di guidare ad un bene83 . Essi conducono (ὁδηγούµεθα: IPS 75, 11)
alla virtù anche attraverso l’immagine del salterio, uno strumento musicale che produce i
propri suoni dalla parte più elevata della sua struttura; allo stesso modo l’anima deve elevare i
propri inni da ciò che possiede di più puro e celeste. L’unione di melodia e canto rappresenta
simbolicamente, come è facile apprendere (µανθάνοµεν δι' αἰνίγµατος: IPS 75, 20-21), i
pensieri della virtù e la loro espressione nella vita concreta, nell’armonia della vita. Questo
vale per i titoli che ricordano il “canto” o il “salmo”; la “lode” diventa invece testimonianza
(µαρτυρίαν: IPS 76, 28) affinché l’uomo impari (µάθοιµεν: IPS 77, 3) cosa è destinato a
diventare nella libertà di parola verso Dio. La parola “inno”, in questo contesto, insegna
(διδασκαλία: IPS 77, 18; µανθάνοµεν: IPS 77, 19) invece l’importanza di avere il proprio
strumento dell’anima formato di pensieri celesti ed elevati, che si esterna nella vita
superiore84 .
Per spiegare con più efficacia l’insegnamento (διδασκαλίᾳ: IPS 27, 3; διδασκαλίας: IPS 27,
8) della virtù cui il Logos conduce (ὑφηγεῖται: IPS 27, 3) attraverso la guida (ὁδηγίας: IPS 27,
3) del Salterio85 Gregorio premette una riflessione su come sia possibile giungere alla virtù
per colui che ami (τὸν ἐραστήν: IPS 27, 6) una simile vita. Innanzitutto viene richiesto alla
creatura un corretto διακρῖναι (IPS 27, 9), che le consenta di riconoscere i segni specifici della
82
Cf. IPS 25, 10-29, 16. Cf. in part. IPS 25, 10: τέλος τοῦ κατ' ἀρετὴν βίου µακαριότης ἐστίν. Cf. anche IPS 26,
10-11: οὐκοῦν ὅρος ἐστὶ τῆς ἀνθρωπίνης µακαριότητος ἡ πρὸς τὸ θεῖον ὁµοίωσις.
83 Cf. IPS 71, 18-72, 6.
84 Cf. IPS 74, 22-79, 4.
85 Cf. IPS 27, 1-29, 16.
128
vita che segue le virtù e di quella che segue i vizi; termine di paragone che propone il Nisseno
è ciò da cui nasce la gioia: la seconda infatti gode della sensazione, mentre la prima della virtù
dell’anima. In seguito, il Nisseno giudica necessario il biasimo del vizio e la lode degli
atteggiamenti virtuosi, di modo che si rafforzi nella creatura la propensione che sta vivendo.
Infine, occorre seguire l’insegnamento (διδασκαλία: IPS 29, 15) delle Scritture. Tali
raggruppamenti non sono tutti omogenei al proprio interno; come l’esegeta rileverà solo più
oltre86, lo Spirito nelle sezioni più basse a volte decide di porre dei componimenti che
Gregorio chiama intersalmi, dei canti di lode avulsi dalla sezione che tuttavia ammaestrino
(ἐπεκδιδάσκων: IPS 110, 11) l’uomo, non ancora perfetto, alle realtà superiori; secondo un
solito modello educativo che propone a ciascuno gli insegnamenti (µαθηµάτων: IPS 111, 1)
che gli sono adatti. Davide, mentre esponeva la sua conoscenza, era in certi momenti guidato
(χειραγωγεῖται ὁ δι' αὐτῶν ὁδηγούµενος: IPS 110, 4) dallo Spirito verso realtà superiori;
fermando il suo canto, accoglieva tali suggerimenti, per poi riferirli; solo per il Ps 9 Gregorio
ammette che a Davide sia concessa una rivelazione particolare mentre canta, così che tale
insegnamento (διδασκαλία: IPS 114, 5) muova per opera dello Spirito stesso gli organi
fonatori. Per gli ultimi Salmi, invece, non c’era bisogno che Davide venisse ulteriormente
istruito su qualche pensiero più elevato, avendo raggiunto il culmine della perfezione.
Le cinque divisioni che Gregorio riconosce nel Salterio87 mirano per prima cosa, attraverso
gli ammonimenti (διδασκαλίας: IPS 39, 14) divini, a far abbandonare il male, radicando
nell’uomo l’inclinazione al bene; chi per esperienza (πείρᾳ: IPS 39, 18) ha conosciuto la
natura del bene, viene quindi spinto verso esso da un desiderio (ἐπιθυµίας: IPS 39, 24)
irresistibile. Così facendo chi si abbevera alla fonte divina e ne è ricolmo partecipa delle
caratteristiche della divinità, cui si ricorda la facoltà di contemplare e scrutare l’essere; solo in
questo modo si può scegliere l’ardua strada delle virtù, rigettando i piaceri e i riscontri
immediati di una vita nel male. La scelta di ciò che è bene (τὴν τοῦ καλοῦ κρίσιν: IPS 41, 19)
non può essere infatti determinata da ciò che si affida ai soli sensi. La possibilità di una
corretta conoscenza è solo nella guida divina88 : in seguito si dice infatti, affinché anche chi
legge possa apprendere (µάθοιµεν: IPS 42, 17), che Dio prende chi viene educato per la
destra, atto che figura lo slancio della mente (τῆς διανοίας ὁρµήν: IPS 42, 20) verso il bene
attraverso la guida (ὡδήγησας: IPS 42, 21; ἡ ἐπὶ τὸ καλὸν ὁδηγία: IPS 42, 22) dalla volontà
divina. La quarta parte riguarda quindi l’uomo che, già congiunto con Dio, oltrepassa la sua
86
Cf. IPS 108, 3-115, 8. Altri termini riferiti all’ambito educativo del passo sono διδασκαλίαν (IPS 109, 8; 115,
1), µάθοιµεν (IPS 109, 15), διδασκαλία (IPS 109, 16), µαρτύρεται (IPS 110, 19), διδαγµάτων (IPS 110, 20),
ἐκδιδαχθῆναι (IPS 111, 5) e διδασκοµένης (IPS 114, 23).
87 Cf. IPS 38, 5-69, 4.
88 Cf. IPS 42, 6-9: ἐπεὶ δὲ [scil. ὁ Δαβίδ] ἐγένετο µετὰ τοῦ θεοῦ, θεὸς δὲ ὁ λόγος, καὶ πρὸς τὸ δεξιὸν ὡδηγήθη,
ὁδηγὸς δὲ γίνεται αὐτῷ δεξιὸς διὰ τῆς βουλῆς ὁ λόγος καὶ εἶδε τὴν ἐν ἀρετῇ δόξαν κτλ.
129
condizione innalzandosi al di sopra di se stesso. Apre questa sezione Ps 89, 1, che si richiama
esplicitamente a Mosè: questi, commenta il Nisseno, essendo ormai unito con Dio non aveva
più bisogno dell’educazione della Legge (µηκέτι παιδαγωγεῖσθαι νόµῳ: IPS 43, 22-23), ma si
faceva egli interprete della legge per gli altri. Si ricordano quindi le ascese del legislatore, che
permette la salita anche a chi ha raggiunto le ascese precedenti attraverso la sua funzione di
mediatore nei confronti di Dio; questa sua caratteristica permette a chiunque di apprendere
(µάθοιµεν: IPS 45, 12) come quanto più uno si allontana da ciò che è terrestre, tanto più si
avvicina alla divinità e la imita (µιµεῖται: IPS 45, 15) attraverso le buone opere. L’ultima
ascesa infine descrive in molti modi le meraviglie della grazia divina, che riscatterà ogni
uomo. Gregorio a conclusione della prima parte del suo scritto riassume quindi i passaggi
compiuti, sottolineando particolarmente l’aspetto della guida da parte di Dio e della legge
(ὁδηγουµένους: IPS 67, 15; χειραγωγίαν: IPS 68, 2; τὸν τῇ χειραγωγίᾳ ταύτῃ ἑπόµενον: IPS
68, 6-7) e proponendo nuovamente la lettura dei Salmi come una testimonianza (µαρτύρεται:
IPS 67, 22) dell’insegnamento (διδάσκουσιν: IPS 67, 25) che offre la Scrittura sulla
beatitudine cui è condotto l’uomo nella vita virtuosa, un vertice a cui egli non può giungere
con le capacità della sua ragione e che trascende perfino la facoltà del desiderio che non ne
abbia ricevuto un qualche presentimento.
Vero maestro che parla nei Salmi non è Davide89 ma lo Spirito90 , che vuole ricondurre gli
erranti alla vera vita; sulla base di questo occorre misurare la disposizione dei componimenti
presenti nell’opera, dei quali si riconosce facilmente la non aderenza ad un ordine storico.
Gregorio fa uso dell’immagine di un intagliatore che sbozza la pietra su cui deve lavorare, per
poi levigarla e lisciarla, fino a farla apparire splendente e quanto più simile al modello (κατ'
εἰκόνα: IPS 116, 25) che l’artista imita (µίµησιν: 116, 6.22; µίµησις: IPS 117, 1). Tale è
l’opera dello Spirito attraverso l’insegnamento (διδασκαλίας: IPS 117, 23), che non si cura
dunque dell’ordine storico (οὐχ ἱστορίαν ἡµᾶς διδάξαι: IPS 117, 3) ma di modellare le anime
nella virtù. A questo proposito, come gli strumenti dell’artista sono molteplici, così per il vero
artefice che plasma l’anima i Salmi sono strumenti diversi per scolpire il cuore. Lo stesso
discorso è ripreso anche oltre, rispetto a Ps 50, laddove Gregorio si domanda a cosa serva
apprendere (µαθεῖν: IPS 133, 13; διδαχθῆναι: IPS 133, 13; µαθών: IPS 133, 15; διδαχθείην:
IPS 133, 18) le vicende della storia di Davide se queste non lascino nell’uomo una tensione a
desiderare ciò che c’è di più elevato (τίς πρὸς τὴν τῶν ὑψηλῶν ἐπιθυµίαν διδασκαλία;: IPS
133, 15).
89
A Davide viene attribuita, secondo l’antica e comune tradizione giudaica e cristiana, in seguito discussa, la
paternità dell’intero Salterio.
90 Cf. IPS 115, 9-124, 9.
130
II.2.2
I Proverbi, l’Ecclesiaste e il Cantico dei Cantici
Nell’introdurre l’esegesi al Cantico Gregorio riconosce il testo come parte di una triade
(Proverbi, Ecclesiaste e Cantico dei Cantici) che descrive il progresso dell’anima91. Il fatto
stesso che il Nisseno consideri i tre testi di Salomone92, premurandosi però di precisare che
l’autore indicato è evidente figura Christi per le molte somiglianze che a più riprese sono
sottolineate93 , ricalca l’unitarietà dell’intento. Condizione indispensabile per un utile
insegnamento, come si vedrà più avanti94 , è che il maestro si adatti alle effettive capacità
dell’interlocutore; la preoccupazione educativa della Scrittura è dunque subito associata alle
possibilità del discepolo. Gregorio fa per questo notare come l’anima attui un processo di
crescita similare a quello del corpo 95: se quest’ultimo passa attraverso varie fasi dell’età e per
ciascuna vi sono manifestazioni e comportamenti ad essa conformi, così anche per l’anima
esiste un ordine e una consequenzialità (τάξις τις καὶ ἀκολουθία: IC 18, 6) che conducono per
mano (χειραγωγοῦσα: IC 18, 7) l’uomo alla vita secondo virtù. La presenza di diverse età
spirituali96 è ripresa dal Nisseno più volte nel corso dell’opera per motivi differenti97. In
questo caso si insiste sul differente grado di comprensione delle varie età, rispetto alle quali i
Proverbi educano (παιδεύει: IC 18, 8) in un modo, l’Ecclesiaste argomenta (διαλέγεται: IC 18,
8) in un altro e il Cantico espone insegnamenti (διὰ … δογµάτων … ὑπέρκειται: IC 18, 10)
ancora più elevati.
L’insegnamento (διδασκαλία: IC 18, 11) dei Proverbi è destinato a colui che è ancora
infante (πρὸς τὸν ἔτι νηπιάζοντα: IC 18, 11), in quanto si esprime conformemente a quell’età
(cf. IC 18, 10-12): l’anima giovane ha infatti ancora bisogno delle prescrizioni del padre e
della madre e il suo impegno nell’apprendere (ἐκ τῆς περὶ τὰ µαθήµατα σπουδῆς: IC 18,
18-19) è ancora relazionato a un ricavo immediato, che il testo esprime con l’espressione
“ornamenti adatti a bambini” (παιδικοὺς … κόσµους: IC 18, 17-18). L’opera ha uno scopo
ben definito: a detta del Nisseno i Proverbi mirano infatti a far nascere nei giovani il desiderio
della Sapienza. La descrizione stessa del bello, argomenta l’esegeta, accende e trascina il
desiderio: adornando di lodi la sapienza, descrivendone le bellezze e elencando i vantaggi di
91
LEANZA 1990, p. 40 n. 5 rileva come tale tematica sia sviluppata dal Nisseno «con una certa indipendenza dal
modello origeniano».
92 Eccl 1, 1 attribuisce invece il testo a Qohelet figlio di Davide.
93 Cf. ad es. IC 16, 14-17, 7.
94 Cf. Cap. V.3.
95 In un passo successivo (IC 34, 7-18) Gregorio sottolinea anche come esista una certa analogia tra le modalità
di attuazione delle potenzialità dell’anima (τὰ ψυχικὰ ἐνεργήµατα: IC 34, 5) e le attività sensoriali del corpo (τὰ
τοῦ σώµατος αἰσθητήρια: IC 34, 6). L’analogia è lì condotta rispetto al gusto, al tatto e all’olfatto.
96 Cf. Cap. V.1.3.
97 Cf. ad es., oltre al passo in esame, DI 46, 8-26.
131
chi prenderà dimora presso di lei, le parole del testo sacro accrescono quindi la purificata
facoltà appetitiva o concupiscibile (τὸ ἐπιθυµητικὸν: IC 19, 11) di colui che mostra un’anima
ancora giovane. Attraverso sentenze apofantiche e concise (ἐν ἀποφαντικοῖς τισι καὶ
εὐπεριγράπτοις ἀποφθέγµασι: IC 22, 3-4), facili quindi da comprendere perché evidenti nella
loro brevità, si attrae la disposizione d’animo degli ascoltatori verso l’amore diretto a questa
virtù che è identificata con Dio stesso. Le esortazioni dei Proverbi dunque sono pronube allo
sposalizio tra il giovane e la Sapienza, mirano a risvegliare nel cuore il desiderio di Dio.
All’educazione (ἀγωγή: IC 22, 9) dei Proverbi segue l’Ecclesiaste, che mostra quanto sia
biasimevole l’atteggiamento degli uomini rivolti alla vanità dell’apparenza, mentre giudica
superiore a ogni cosa afferrata dalla sensazione la mossa desiderante dell’anima (τὴν
ἐπιθυµητικὴν τῆς ψυχῆς ἡµῶν κίνησιν: IC 22, 14) rivolta alla bellezza invisibile.
L’incipit della prima omelia dell’In Ecclesiasten98 è costruita secondo una metafora
atletica, nel quale l’insegnamento (διδασκαλία: IE 278, 8) offerto dai Proverbi è esercizio
preparatorio, allenamento preventivo in vista del vero agone dell’interpretazione spirituale
dell’Ecclesiaste, come coloro che si esercitano nelle palestre man mano si allenano ad esercizi
sempre più difficili; coloro che, forti della loro esperienza di atleti, si accingono a misurarsi
con questo libro, hanno infatti il compito di lottare per una certa comprensione dei concetti,
per salvaguardare attraverso la verità il retto ragionamento che si ritrova nel testo.
L’Ecclesiaste secondo il Nisseno99 è infatti un libro particolarmente importante, in quanto già
dal titolo fa intendere come il suo scopo sia offrire più di altri testi ispirati ciò che più
interessa alla Chiesa conoscere (µαθεῖν: IE 279, 14): se i libri storici o profetici insegnano
(διδαχθῆναι: IE 279, 18) anche argomenti meno legati alla pietà, solo l’insegnamento di
questo testo mira alla vita della Chiesa100 , conducendola (ὑφηγουµένη: IE 280, 1) alle vie
attraverso le quali può condurre rettamente la propria vita nella strada delle virtù101 : scopo
iniziale dell’opera è infatti elevare l’intelletto al di sopra dei sensi ed educare il desiderio (τὴν
ἐπιθυµίαν: IE 280, 6) a rivolgersi verso quelle realtà che la pura sensazione non può
percepire. Questo può accadere tuttavia solamente nella sequela del vero Ecclesiaste, del capo
della Chiesa che riunisce in sé i dispersi, Cristo.
Tale testo ispirato esorta dunque a purificare il cuore distaccando il desiderio dalle brame
che suscita la realtà concreta, passaggio indispensabile, secondo il Nisseno, per la
98
Cf. IE 277, 3-279, 3; cf. anche LEANZA 1990, p. 40 n. 5.
Cf. IE 279, 4-281, 2. Sui precedenti dell’interpretazione dell’Ecclesiaste come libro specificatamente
indirizzato alla Chiesa e sulla riconduzione del titolo ad una caratteristica di Cristo, cf. LEANZA 1990, p. 42, n.10
e p. 43 n. 17.
100 Tale dottrina è comune alla Chiesa primitiva e risale ad Origene: cf. LEANZA 1990, p. 42 n. 10.
101 Cf. IE 279, 20-280, 1: ἡ δὲ τοῦ βιβλίου τούτου διδασκαλία πρὸς µόνην βλέπει τὴν ἐκκλησιαστικὴν πολιτείαν,
δι' ὧν ἄν τις τὸν ἐν ἀρετῇ κατορθώσειε βίον, ταῦτα ὑφηγουµένη.
132
99
comprensione del mistero del Cantico, che solo rende iniziati (µυσταγωγεῖ: IC 22, 17) ai
misteri di Dio.
L’importanza di quest’ultima opera è dal Nisseno continuamente sottolineata:
l’insegnamento che proviene dallo Spirito infatti è presente in tutti i testi dell’Antica
Alleanza102 (πολλῶν γὰρ ὄντων κατὰ τὴν θεόπνευστον διδασκαλίαν ᾀσµάτων: IC 26, 16-17),
ma il mistero del Cantico dei Cantici sopravanza gli altri sin dal titolo, interpretato come un
superlativo sulla scia dell’espressione Santo dei Santi103 . La Sapienza che lì si rivela è
superiore a quella delle altre opere ispirate tanto quanto queste ultime sono superiori a quanto
può arrivare la natura umana104 . L’espressione ἀνθρωπίνη φύσις è con ogni probabilità un
riferimento alle dottrine filosofiche e alle conoscenze che costituivano la base dell’educazione
antica: pur nel fascino e nel solco di queste, Gregorio è cosciente che il cristiano fonda tutte le
espressioni della propria esistenza, quindi anche l’educazione, su una base ontologicamente
diversa, la parola rivelata.
Il Cantico dunque si rivolge, rispetto ai Proverbi e all’Ecclesiaste, ad anime più adulte
nella fede e per questo può permettersi di filosofare attraverso misteri che non possono essere
espressi fino in fondo con le parole (δι' ἀπορρήτων φιλοσοφει: IC 23, 14). Descrivendo quasi
la modalità attraverso cui il testo sacro in esame si esprime, il Nisseno nota che esso mette
davanti agli occhi una certa immagine (εἰκόνα τινά: IC 23, 15) dei piaceri della vita presente,
quindi comprensibili all’uomo, per prepararlo alle verità rivelate (δόγµατα: IC 23, 15).
Siccome in quest’opera si rivelano i misteri più alti di Dio, e più perfettamente che in altri
testi105, le immagini che ne devono diventare segno e simbolo devono essere altrettanto
esplicative. È questo il motivo per cui l’immagine usata è ricavata dalla sensazione più
potente per la natura umana: l’ἐρωτικὸν πάθος. Il giovane dei Proverbi è ora la Sposa che
attende il suo Sposo nella camera nuziale.
Per porsi nel modo più corretto nei confronti del Cantico l’uomo, una volta fissato lo
sguardo nella bellezza divina, la deve amare (ἐρᾶν: IC 27, 10) con lo stesso trasporto che il
corpo prova per ciò che gli è affine; il πάθος deve però essere mutato (µεταφέρειν: IC 27, 11)
εἰς ἀπάθειαν (27, 12). Questo è possibile solo in una corretta disposizione d’animo (χρὴ
διακεῖσθαι τὴν ψυχὴν: IC 27, 16).
102
Il termine greco usato dal Nisseno è ἄσµατα. Il riferimento più immediato riguarda sicuramente i testi
dell’Antico Testamento in poesia, come i Salmi e la maggior parte dei testi dei Profeti, che Gregorio aveva
commentato in altre opere. Si ritiene comunque che il termine stia qui ad indicare con una sineddoche l’Antica
Alleanza tout court.
103 Cf. IC 26, 11 - 27, 5; rispetto al titolo, Gregorio scrive significativamente τοῦτο παρὰ τῆς ἐπιγραφῆς ταύτης
µανθάνοµεν, ὅτι κτλ.
104 Cf. IC 27, 4-5: οὗ [scil. τοῦ µυστηρίου] τὸ πλέον εἰς κατανόησιν οὔτε εὑρεῖν οὔτε χωρῆσαι ἡ ἀνθρωπίνη
δύναται φύσις.
105 Cf. IC 26, 11-27, 15.
133
II.3
La necessità dell’esegesi
Benché la Scrittura educhi e diventi legge per coloro che vi si accostino106, essa presenta
anche passi di difficile comprensione, enigmi e verità nascoste (ἐν ὑπονοίαις τισὶ καὶ
αἰνίγµασιν: IC 5, 1), cosa che può portare i più deboli a confondersi. Di fronte infatti alle
questioni che si sollevano nel suo animo di fronte ai grandi misteri l’uomo, se non è
confortato da una risposta comprensibile, è portato anche a rifiutare la verità, fosse essa anche
quella dei fatti della rivelazione; solo una educazione alla comprensione di essa, secondo il
Nisseno, può evitare che cade nell’errore. Un esempio di ciò è portato dal vescovo nell’omelia
In sanctum Pascha107 . Lì Gregorio si sofferma sulla resurrezione dei corpi di tutto il genere
umano nella vera Pasqua, di cui la celebrazione annuale era stata appena riconosciuta
segno108; tutto questo, commenta il Nisseno citando l’insegnamento paolino (ὡς Παῦλος
διδάσκεται: SP 252, 1) di 1Cor 15, 52, avverrà in un istante. Gli uomini comuni invece a
fronte di un simile mistero immaginano questo avvenimento dilatato nel tempo e sono
increduli su come esso possa avvenire; il Nisseno rileva quindi come proprio compito
l’infondere certezza a coloro che dubitano di realtà evidenti. Il discorso quindi cercherà di
richiamare gli insegnamenti (ἐδιδάχθηµεν: SP 254, 3) delle Scritture109 secondo cui l’uomo fu
creato perfetto e decaduto per castigo di una sua colpa, quindi rinnovato dall’amore divino;
questo, commenta ancora il vescovo, testimonierebbe (προσµαρτυρεῖ: SP 254, 11) le presenza
nella divinità della bontà e della potenza. Il Nisseno ripercorre quindi le tappe della creazione
dell’uomo e della donna, chiamando in causa lo stesso ascoltatore incredulo e chiedendogli di
insegnargli (δίδαξον: SP 255, 3) come la complessità insita nell’essere umano sia potuta
derivare dalla polvere se non mediante l’infinita potenza di Dio, che come tale ha la
possibilità di restituire la vita anche per la resurrezione. Non è possibile indagare con i
ragionamenti umani ciò che opera la divinità, essendo essa superiore in tutto all’uomo; più
ragionevole è invece il credere alle sue parole110 . Ancora, nella settima omelia In
Ecclesiasten111, trattando del passo secondo cui esista un tempo opportuno per scagliare sassi
e un altro per non farlo (Eccl 3, 5), il Nisseno commenta come se ci si fermi alla nuda lettera
sarebbe difficile ravvisare nella Legge insegnamenti degni di Dio. Lo scopo della Legge e
106
Cf. IC, 5, 11-12: πᾶσαν τὴν θεόπνευστον γραφὴν νόµον εἶναι τοῖς ἐντυγχάνουσιν.
Cf. per tutto il passo SP 251, 17-253, 18.
108 Cf. SP 250, 2 ss.
109 Cf. SP 253, 19-255, 2.
110 Cf. per tutto il passo SP 255, 2-257, 2.
111 Cf. IE 395, 16-17: εἰ δὲ ψιλῷ τις παραµένοι τῷ γράµµατι, οὐκ οἶδα, ὅπως τὸ θεοπρεπὲς ἐν τῷ νόµῳ
λογίσαιτο.
134
107
delle sue prescrizioni è purificare dalle opere malvagie coloro che la avessero accolta112 ; essa
però prima deve essere compresa.
Gregorio giudica per questo necessaria una esegesi113 che penetri nella lettera e ne
comprenda i veri misteri. La stessa Scrittura, nei precetti espressi nei versetti dei Proverbi114,
esorta a prestare attenzione alle allegorie e a sciogliere gli enigmi dei sapienti;
significativamente viene utilizzato il verbo παιδεύειν in relazione a ὑφηγεῖσθαι. Come si
legge significativamente nel De vita Moysis115, per comprendere il mistero della fede e ciò
che esso porta è necessario essere educati ad esso dalla Scrittura e dalla sua interpretazione.
Ogni immagine che si ricava dal testo sacro è guida alla contemplazione di concetti che
esprimono un aspetto della divinità, in quanto ogni nome che l’uomo possa immaginare è
riduttivo dell’infinità divina116 . Le parole della Scrittura, le immagini che usa, assomigliano
spesso tuttavia più ad una congettura (εἰκασµῷ: IC 139, 4) attraverso cui il testo esprima
l’indicibile che non ad una qualche piena comprensione dei misteri esente da ogni ambiguità
(ἀναµφιβόλῳ τινὶ πληροφορίᾳ τῆς καταλήψεως: IC 139, 5): il Cantico stesso che accoglie la
somma rivelazione, propone spesso un affastellarsi di immagini e di visioni su cui il testo non
si sofferma neppure troppo, mutando di continuo 117, in una connessione logica che, nascosta,
deve essere rivelata grazie alla comprensione cui porta lo Spirito. Da solo infatti l’uomo deve
con rammarico constatare di non poter comprendere a cosa miri il significato del testo che
pure sembra così a portata di mano (πρόχειρος: IC 140, 2)118 . È questo il motivo che fa
ricorrere spesso nel testo il termine αἴνιγµα119 .
112
Cf. IE 395, 4-6: φηµὶ τοίνυν ἐγὼ πάσης νοµοθεσίας τῆς θεόθεν γεγενηµένης ἕνα σκοπὸν εἶναι τὸ καθαρεύειν
τῶν τῆς κακίας ἔργων τοὺς δεξαµένους τὸν νόµον.
113 Il Prologo è stato ampiamente studiato, rispetto al suo significativo apporto per comprendere il metodo
esegetico del Nisseno, da GARGANO pp. 147 ss.
114 IC 5, 3-4: ὁ διὰ τῶν Παροιµιῶν ἡµᾶς παιδεύων λόγος, εἰς τὸ νοῆσαι ἢ ὡς παραβολὴν τὸ λεγόµενον ἢ ὡς
σκοτεινὸν λόγον ἢ ὡς ῥῆσιν σοφῶν ἢ ὥς τι τῶν αἰνιγµάτων.
115 Cf. VM II 217, 4-6: πάντως δὲ ὁ πεπαιδευµένος τὸ θεῖον τῆς πίστεως ἡµῶν µυστήριον οὐκ ἀγνοεῖ πῶς
συµβαίνει τῇ ἱστορίᾳ ἡ κατ' ἀναγωγὴν θεωρία..
116 Cf. VM II 178, 1-3: ἀνάγκη δὲ πρόσφορον εἶναι τῷ ὀνόµατι τὴν ὀπτασίαν, ἑκάστου τῶν ὀφθέντων πρός τινα
θεοπρεποῦς ὑπολήψεως θεωρίαν χειραγωγοῦντος..
117 Cf. IC 139, 6-9.
118 Cf. IC 140, 2-6.
119 Come si legge in SIMONETTI 1984, p. 275, αἴνιγµα è «termine del linguaggio misterico, molto in uso nella
tradizione alessandrina, anche per influsso di 1 Ep. Cor. 13, 12», che viene utilizzato per «indicare il significato
spirituale da scoprire al di sotto del rivestimento della lettera del testo biblico». Occorrenze del termine sono ad
es. AdvAS 73, 31; 85, 7; AdvM 103, 1; AnAp 140, 11; 155, 1; 158, 26; 197, 18; DB 161, 19; DDe 337, 2; DI 56,
14; DPe 191, 13; DPr. 139, 17.21; OD 31, 4.17; 53, 3; 67, 9; IE 277, 6; 309, 7; 329, 16; VM II 32, 7; 39, 4; 78,
5; 96, 1; 125, 7; 139, 2; 155, 4; 268, 5; 273, 2; IC 112, 17; 129, 2; 161, 10.14; 152, 16; 169, 9; 180, 14; 267, 20;
273, 17; 284, 5.18; 299, 10; 317, 11; 338, 2.16; 339, 20; 382, 13; 416, 11; 418, 17; 424, 9; 438, 11; 441, 20; 451,
4; 452, 19; 453, 7; 454, 14; 455, 2.6; 462, 17; 464, 1.3; 466, 4. Occorrenze particolarmente significative non in
elenco sono commentate a parte.
135
Il significato di αἴνιγµα è ampio: la parola nella sua accezione più estesa può essere legata
a µυστήριον 120, un segno che esprima le profondità di Dio, ma più semplicemente può
indicare immagini del testo121 o espressioni di cui può non comprendersi appieno il significato
e sulle quali è giusto che si eserciti l’esegesi122 ; essendo comunque parola ispirata, l’αἴνιγµα
può educare (τοῦτο τῷ αἰνίγµατι παιδευόµεθα: IC 126, 5) e attraverso di esso si attua un
insegnamento (ἡ Παροιµία διδάσκει ἡµᾶς δι' αἰνίγµατος: IC 275, 12-13; διὰ δὲ τοῦ …
αἰνίγµατος τοῦτο µανθάνοµεν: IC 436, 16-17). Anche nel De vita Moysis 123 si legge che
l’αἴνιγµα permette di imparare ed insegna124 .
Canévet 125, a questo proposito, sostiene che le parole ispirate siano norma e canone del
discorso che si tiene su Dio e dell’insegnamento che da essa si deduce, garanzia contro le
fantasiose interpretazioni degli eretici; nel caso lo stesso testo sacro sia foriero di confusioni o
cattive interpretazioni, deve venire in soccorso della fede il discorso razionale.
La Scrittura infatti, come già si ricordava, mira all’edificazione dell’uomo: nel caso questo
scopo sia velato dalle immagini usate, si dovranno meditare significati più appropriati che
rispettino l’ἀκολουθία del testo, il suo concatenamento logico126. Trattando ad esempio
dell’immagine delle mele con le quali la Sposa impetra che le sia data forza (cf. Cant 2, 5),
Gregorio si chiede come sarebbe possibile trovare nella sola lettera una guida alla virtù (πρὸς
ἀρετὴν ὁδηγία: IC 125, 16): è necessario un significato spirituale che leghi il rosso delle mele
alla natura del sangue e il bianco della polpa alla carne, interpretazione che quindi permette di
legare il frutto a Cristo127 e si stacchi dalla contingenza della materia.
Il rapporto che c’è tra la Scrittura e l’interpretazione spirituale, secondo il Nisseno, è lo
stesso che intercorre tra il chicco e la spiga: quest’ultima rappresenta la potenzialità attuata
del chicco, diversa in grandezza, bellezza, varietà e figura; così Basilio portò a compimento le
parole di Mosè sulla creazione, e creò un luogo di ristoro per le anime, i cui insegnamenti
120
Cf. ad esempio IC 243, 15-16, dove si lega anche al verbo παιδεύειν: ἐπαγαγὼν τὸ κατὰ τὸ πάθος µυστήριον
διὰ τοῦ κατὰ τὴν σµύρναν αἰνίγµατος εἶτα τοῦ λιβάνου µνησθείς, δι' οὗ τὸ θεῖον ἐνδείκνυται, τοῦτο παιδεύει
ἡµᾶς ὅτι… Riguardo la parola µυστήριον scrive SIMONETTI 1984, p. 278, che «già Paolo aveva fatto uso di
questo termine fondamentale dell'esperienza misterica per indicare i misteri della religione cristiana, e con lui il
termine era entrato nell'uso della nuova religione. Anche Gregorio ne fa largo uso con varietà di significati.
Infatti mystérion può avere senso sacramentale ([VM] Il 269), esegetico per indicare il significato non letterale di
un passo della Scrittura ([VM] II 148); può indicare il mistero dell'economia divina in ordine al mondo ([VM] Il
115.133) e può infine riferirsi ai misteri della vira spirituale ([VM] II 178)».
121 Cf. ad es. IC 264, 10: τῷ τοῦ φιλήµατος αἰνίγµατι τοῦτο διασηµάνασα.
122 Questa accezione del termine, già paolina, è ricordata nella citazione da parte di Gregorio di 1Cor 13, 12
(βλέποµεν γὰρ ἄρτι δι' ἐσόπτρου ἐν αἰνίγµατι, τότε δὲ πρόσωπον πρὸς πρόσωπον: ἄρτι γινώσκω ἐκ µέρους, τότε
δὲ ἐπιγνώσοµαι καθὼς καὶ ἐπεγνώσθην; cf. IC 6, 9-10).
123 Cf. VM II 181, 3: µαθεῖν ἐν αἰνίγµατι.
124 Cf. VM II 187, 4.8.
125 Cf. CANÉVET 1983, pp. 65-81.
126 Cf. GARGANO 1981, pp. 28-30.
127 Cf. IC 125, 18-126, 3. Da notare che in queste righe, dopo che si è ricordata la conduzione dell’uomo verso la
virtù, ricorrono i verbi µιµεῖται (IC 126, 1) e µαρτυρεῖται (IC 126, 3). Questa interpretazione si riallaccia poi
all’immagine del melo che Gregorio aveva esplicitato poco prima (IC 116, 16 ss.).
136
(δόγµασι: ApH 7, 7) sono come le fronde dell’albero nato dal granellino di senapa (cf. Matth
13, 31-32)128.
Esempi di una simile lettura sono facilmente riscontrabili nel testo: un nuovo passo
significativo è presente ad esempio nell’omelia VI dell’In Canticum. Il testo scritturistico in
esame129 descrive il letto di Salomone, intorno cui si trovano sessanta uomini forti ed esperti
nell’arte della guerra, con una spada al fianco, lontani dallo spavento nella notte. Il Nisseno
commenta subito che gli avvenimenti che narra la Scrittura a proposito del re ebreo non si
soffermano sul suo letto; dei guerrieri con spada al fianco sarebbero poi un ornamento ben
strano, scrive ancora, per un letto nuziale. Si rende quindi indispensabile (πᾶσαν ἀνάγκην: IC
190, 15) una πνευµατικὴ θεωρία. Essa prende le mosse dalla natura stessa di Dio, somma
virtù, ricavata dal confronto con il suo opposto, il vizio: quest’ultimo, portando il desiderio a
piegarsi verso ciò che è corporalmente piacevole, introduce nell’uomo una sorta di
spossatezza spirituale130 che Gregorio associa all’elemento femminile; al contrario, Dio è una
bellezza immacolata che si mostra come una virilità spaventosa e terribile che allontana da sé
ciò che gli è nemico ed estraneo, come i desideri corporei131. Nel De vita Moysis 132 l’esegeta
propone nuovamente di leggere l’elemento ‘femminile’ come la propensione alla materialità e
alla passione, che il tiranno voleva sopravvivesse; l’elemento ‘maschile’ rappresenterebbe
invece la durezza e la severità della virtù. In forza di questa interpretazione si comprende
quindi come il letto della Sposa sia circondato da guerrieri, la cui spada è la Parola, come ben
sa chi è esperto di simboli scritturistici133. Il numero dei guerrieri invece suscita nell’esegeta
maggiore cautela, portandolo a denunciare come questi particolari saranno chiari solo
attraverso la grazia dello Spirito; Gregorio e i suoi ascoltatori dovrebbero riempirsi dei
significato più immediati e tralasciare i più oscuri, così come Mosè ordinò durante la Pasqua
di mangiare le carni visibili degli animali e non le loro viscere134. Il Nisseno tuttavia ricorda
che dodici erano le tribù di Israele; dopo la seconda circoncisione ordinata da Giosuè da tutte
furono presi, per condurre a termine l’interpretazione del passo, cinque guerrieri, che
rappresenterebbero i cinque sensi dell’uomo, purificati nell’intimo per non permettere il
128
Cf. ApH 5, 3-7, 13.
Cf. Cant. 3, 7-8, commentato in IC 191, 7-192, 7.
130 Cf. IC 192, 2-4, dove si contrappone la rilassatezza che precede i desideri corporei all’amore verso Dio che ha
la propria materia in una forza virile spaventosa e terribile: τὸ δὲ ἀκήρατον κάλλος ἐκεῖνο ἡ φοβερά τε καὶ
κατάπληκτος ἀνδρεία ἐστίν.
131 Cf. IC 192, 4-7: τοῦ γὰρ ἀνδρώδους θυµοῦ τὸν τῆς ἡδονῆς λόχον καταπτοήσαντός τε καὶ φυγαδεύσαντος
οὕτω τὸ καθαρὸν τῆς ψυχῆς ἀναφαίνεται κάλλος µηδενὶ πάθει σωµατικῆς ἐπιθυµίας καταρρυπούµενον.
132 Cf. VM II 2, 5-10.
133 Cf. IC 192, 19-193, 2.
134 Cf. IC 193, 5-12.
129
137
volgersi verso ciò che è turpe135 ; l’unico letto rappresenta il nuovo Israele, cioè la Chiesa,
riposo di coloro che si salvano136.
Un ulteriore esempio della necessità dell’interpretazione spirituale è riscontrabile nel De
vita Moysis137. Lì infatti ci si interroga sull’uccisione dei primogeniti d’Egitto che, in quanto
bambini, non potevano aver peccato, perché manchevoli della possibilità di distinguere
(διάκρισις: VM II 91, 7) tra il bene e il male. Un dio che si vendicasse su degli innocenti,
afferma l’esegeta, non sarebbe un dio giusto, pio e santo, e andrebbe contro le sue stesse
norme138 . Ritenendo però impossibile che la storia contrasti con la ragione139 , Gregorio invita
a guardare all’interpretazione spirituale e a ricavare l’insegnamento (δόγµα: VM II 92, 3)
nascosto dalla lettera: i neonati degli egiziani diventano così simbolo del male al suo primo
insorgere, primizie del vizio che il legislatore insegnerebbe a eliminare, perché i peccati
maggiori sono infatti preceduti da una mancanza minore, la cui soppressione evita anche
l’insorgere della conseguenza. I figli degli Ebrei, che vengono risparmiati dall’angelo
sterminatore, sono in questa linea interpretati come le primizie delle virtù che vengono
custoditi dall’aspersione del sangue dell’Agnello 140.
Ogni αἴνιγµα scritturistico deve dunque essere interpretato in vista dell’educazione di
coloro che ricevono la Parola: d’altronde, Paolo scrive che quando la Scrittura parla del bue
che trebbia cui non bisogna mettere la museruola in realtà mira a un nostro ammaestramento,
perché a Dio non importa dei buoi141 .
Ad esempio, l’insegnamento di Mosè sulla Pasqua, che prescrive agli israeliti di
consumare pane azzimo ed erbe amare anche nelle festività, consente a chi vi si accosti di
imparare attraverso simili enigmi (διὰ τῶν τοιούτων µάθοιµεν αἰνιγµάτων: DB 107, 27-108,
1) qualcosa di profondamente utile per la propria condotta di vita, vale a dire cioè che non è
possibile partecipare alla festa del cielo, ultimo approdo dei desideri umani, senza mescolare
le amarezze della nostalgia del compimento ad una vita semplice142 .
Bisogna poi notare come, secondo il Cappadoce, anche gli stessi profeti imparano dagli
enigmi, dai segni che il Signore pone nella loro vita. Nella lettera De Pythonissa143 il Nisseno
racconta di come Elia, scacciato per la parola che profetava, si rifugiò presso un torrente in
secca e fu nutrito da corvi (cf. 1Reg 17, 1-6). Secondo l’indicazione di Lev 13, 15 i corvi
135
Cf. IC 193, 18-197, 13.
Cf. IC 197, 13-198, 3.
137 Cf. VM II 90-94.
138 L’esegeta cita appunto a sostegno Ezech. 18, 20.
139 Cf. VM II 92, 1: πῶς ἀντινοµοθετεῖ ἡ ἱστορία τῷ λόγῳ;
140 Cf. VM II 100-101.
141 Cf. 1 Cor. 9, 9-10: ἐν γὰρ τῷ Μωϋσέως νόµῳ γέγραπται, Οὐ κηµώσεις βοῦν ἀλοῶντα. µὴ τῶν βοῶν µέλει τῷ
θεῷ; ἢ δι' ἡµᾶς πάντως λέγει; δι' ἡµᾶς γὰρ ἐγράφη, ὅτι ὀφείλει ἐπ' ἐλπίδι ὁ ἀροτριῶν ἀροτριᾶν, καὶ ὁ ἀλοῶν ἐπ'
ἐλπίδι τοῦ µετέχειν. Gregorio riprende il passo in IC 6, 6-8.
142 Cf. DB 107, 15-108, 13.
143 Cf. DPy 106, 15-107, 14.
138
136
erano animali impuri; Gregorio dunque, dopo essersi chiesto come un profeta potesse
prendere cibo da essi, risolve la questione decretando che il pane che gli uccelli portavano
erano offerte al Signore di uomini rimasti pii. Apprendendo questo da ciò che gli era accaduto
(µαθόντα διὰ τῶν γινοµένων: DPy 5-6), il profeta avrebbe quindi calmato il suo sdegno vero
il popolo.
Anche nel De vita Moysis144 si legge che occorre muovere dalla lettera del testo, trovando
sempre in esso il proprio principio, per dispiegarne con chiarezza il significato nascosto. La
lettera in quest’opera è chiaramente l’ἱστωρία narrata dalla Scrittura, che acquista sempre più
valore nell’interpretazione. Naturalmente, il discorso deve mirare alla comprensione da parte
dell’interlocutore, evitando innanzitutto di spiegare gli enigmi scritturistici con nuovi
enigmi145.
Metodo dell’esegesi non sarà però solo associare ad ogni parola o immagine del testo una
interpretazione spirituale, ma innanzitutto definire un’idea generale che costituisca una ipotesi
di lavoro sulla quale orientare la propria lettura. A tal proposito Gregorio utilizza l’immagine
della pittura: per attuare l’imitazione di un essere vivente, τοῦ ζῴου τὴν µίµησιν, la γραφικὴ
ἐπιστήµη146 (IC 28, 8) fa uso di diversi colori e tecniche; la singola pennellata tuttavia non
balza subito all’occhio dello spettatore, che piuttosto si sofferma sulla visione d’insieme che
emerge dal quadro, la figura (εἰκών: IC 28, 10) che esso rappresenta. La forma che si fa
spazio nel Cantico è il ritratto della beatitudine e la vicinanza con Dio (ἡ πρὸς τὸ θεῖον
συνάφεια: IC 28, 22): a questo si dovranno conformare tutte le interpretazioni successive e la
concatenazione del pensiero (ἀκολουθία147). In un inciso, Gregorio nota infine che è possibile
attraverso una sola interpretazione spirituale confermare tutta la verità di un testo (δυνατὸν
γὰρ δι' ἑνὸς θεωρήµατος πᾶσαν τὴν ἀλήθειαν τοῦ λόγου πιστώσασθαι: IC 126, 13-14).
L’esegesi naturalmente non si deve confrontare con sole immagini. Sin dal Prologo alle
omelie in Canticum il Nisseno sottolinea come la Scrittura educhi non solo attraverso aperti
comandamenti (οὐ µόνον διὰ τῶν φανερῶν παραγγελµάτων: IC 5, 12-13), ma anche per
mezzo delle narrazioni storiche (ἀλλὰ καὶ διὰ τῶν ἱστορικῶν διηγηµάτων: IC 5, 13-14); tutto
l’Antico Testamento (matrimoni, esili, guerre, costruzioni di edifici…) può anzi essere letto
come τύπος τις καὶ διδασκαλία (IC 231, 6) di ciò che ha trovato il suo retto compimento nella
144
Cf. VM II 5, 1-4: οὐκοῦν, ὡς ἄν τις ἐκ τῆς ἱστορίας τὰς ἀφορµὰς λαβὼν ἐπὶ τὸ γυµνότερον διακαλύπτοι τὸ
αἴνιγµα, τοῦτο διδάσκει ὁ λόγος ἀρχὴν τοῦ κατ' ἀρετὴν ποιεῖσθαι βίου κτλ.
145 Cf. VM II 45, 1-2: ὡς δ' ἂν µὴ δι' αἰνίγµατος ἡµῖν τὰ αἰνίγµατα δια λύοιτο, γυµνότερον ἐκθήσοµαι τὴν περὶ
τούτου διάνοιαν.
146 Gregorio dunque considera la pittura una ἐπιστήµη, un sapere quindi, un metodo di conoscenza, prima che
una τέχνη, come la si caratterizzerà poi (28, 10).
147 Sul termine cf. DANIÉLOU 1970, pp. 39-77. L’ἀκολουθία, nel Contra fatum, mostra appieno il suo significato
di ragionamento concatenato e rigoroso, che mostra tutte le caratteristiche del procedere filosofico antico; il
termine è usato indifferentemente per indicare le illazioni del filosofo pagano e le conseguenze logiche dedotte
dal Nisseno nel suo discorso: Cf. ad es. CF 33, 2; 36, 6; 41, 23; 43, 26; 46, 18; 48, 26.
139
virtù148. Altrettanto chiaro si presenta IC 73, 8, dove si commenta un riferimento del Cantico
alle cavalle del Faraone (Cant 1, 9), nel quale si legge παρὰ τῆς ἱστορίας ἐµάθοµεν 149. Il fatto
storico non deve però essere accettato acriticamente, bensì deve passare attraverso il vaglio
esegetico: il testo infatti ricorda il pericolo dell’aporia (ἄπορον ἂν εἴη µαθεῖν: IC 73, 15).
Prendendo come esempio anche il solo passo ricordato, Gregorio non manca di evidenziare
come il Faraone sia associato spesso alla tirannia del peccato, e che quindi non si possa
considerare una lode appartenere al suo esercito. L’ἱστορία d’altronde non propone
nessun’alta cavalleria che si oppose ad esso. Il Nisseno risolve la questione introducendo un
invisibile esercito celeste che si sarebbe fatta incontro all’armata egiziana. Senza una
adeguata introduzione a ciò che veramente il Cantico vuole intendere, il testo in questo caso
non riuscirebbe a raggiungere il suo scopo precipuo, l’edificazione dell’uomo.
Gregorio, secondo Anna Penati Bernardini, riconosce la necessità di una «semantizzazione
nel lavoro esegetico», in quanto «anche i termini usati dalla Sacra Scrittura, essendo tratti dal
linguaggio umano, possono avere più significati»150 . È questa, in fondo, l’argomentazione
presente anche nell’Ad Ablabium 151, dove l’uso del plurale per nomi che si riferiscono alla
natura di una entità è visto come un «abuso»152; la stessa Scrittura in passi che non possono
portare a derive eterodosse in quanto non riferentesi ai misteri divini usa gli stessi termini
comuni e imprecisi degli uomini invece di un linguaggio più proprio.
Un nuovo esempio della possibile doppiezza del linguaggio ispirato è riscontrabile
nell’esegesi dei versetti matteani che aprono il discorso della montagna (Matth 5, 1-3) nella
prima omelia De beatitudinibus153: in essa infatti si afferma che dalla Scrittura l’uomo ha
imparato (µεµαθήκαµεν: DB 81, 25) che esistono due tipologie di ricchezza, la prima, rivolta
ai beni mondani, esecrabile, l’altra, rivolta ai beni superiori, lodevole. Allo stesso modo,
anche la povertà che viene insegnata (διδαχθῆναι: DB 81, 8) dai testi sacri è da considerarsi
duplice: secondo l’interpretazione del vescovo si può essere infatti manchevoli di virtù, uno
stato da rifuggire, o lontano dai vizi, stato che consente la ricchezza del cielo.
La Scrittura propone le sue verità anche attraverso artifici retorici da esplicitare. Quando
ad esempio nel De beatitudinibus154 il Nisseno tratta della fame e della sete della giustizia e
sottolinea il valore del desiderio dell’uomo di fronte ad essa, si chiede se non bisognerebbe
148
Cf. IC 231, 5-232, 10. Langerbech (p. 231 ad 7) e Moreschini (p. 190, n. 103) riferiscono entrambi
quest’ottica ad Origene, De princ. IV 2, 4.
149 Cf. anche IC 138, 14 (καθὼς περὶ τοῦ µεγάλου Παύλου µανθάνοµεν τοῦ τριῶν οὐρανῶν ὑπεραρθέντος), dove
il verbo è usato per indicare un fatto testimoniato dal testo sacro che è diventato oggetto di apprendimento. Si
riporta infine De inst. 76, 19-20: τί τοίνυν τῆς ἱστορίας τὸ κέρδος; ὅτι ἔστι µαθεῖν ὡς κτλ.
150 Cf. PENATI 1992, p. 142, n. 3
151 Cf. AdA 40, 5-42, 9 e AdA 54, 4-20.
152 Cf. MASPERO 2004, p. 24. Per un commento più generale del tema, cf. Ibidem pp. 23-27.
153 Cf. DB 81, 18-82, 19.
154 Cf. DB 117, 27-119, 13.
140
provare lo stesso ardore anche per le altre virtù. La risposta al quesito fa rilevare come nelle
Scritture spesso, per consuetudine (συνήθως: DB 118, 4), menziona una parte per
comprendere l’intero: così, ogni volta che nomina il Signore, non esplicita tutte le qualifiche
che quel nome porta con sé. Per questo l’uomo deve imparare (µαθεῖν: DB 118, 12;
µεµαθήκαµεν: DB 118, 16) a leggere anche i nomi nascosti. Per quanto riguarda la fame e la
sete della giustizia, con questa sola menzione il Logos intenderebbe tutte le virtù, armoniose
nella loro unità, che andranno a colmare l’anelito di chi lo abbia desiderato.
Gregorio presenta infine lo scrutare le Scritture come un’indicazione del Vangelo 155. Cristo
stesso, «sintesi della rivelazione … [e suo] criterio interpretativo», «criterio ermeneutico» dei
misteri156 nel suo insegnamento faceva uso di questa prassi157 ed esercitava l’intelletto dei
suoi discepoli con enigmi (δι' αἰνιγµάτων: IC 8, 10) e parabole, delle quali poi in un secondo
momento faceva l’esegesi158 .
II.3.1
L’ἱστορία
Nell’incipit dell’omelia De tridui spatio159 si legge che attraverso gli avvenimenti della
ἱστορία (da intendersi per lo più nel significato specifico come storia della salvezza), benché
enigmatici, è in qualche modo prefigurata la realtà che essi rappresentano160: ciascuno degli
esempi divinamente ispirati consente infatti di cogliere un aspetto del mistero cui introducono
(nello specifico dell’omelia la festa che si stava celebrando)161. Allo stesso modo nel De vita
Moysis si legge come la storia educhi162 : gli episodi raccontati dalla Scrittura sono infatti
testimonianze (µαρτυρίαι: DIP 93, 6) da cui trarre insegnamento (διδασκόµεθα: DIP 93, 6).
Essi insegnano innanzitutto attraverso la loro forza iconica163 (διδάσκων ἡµᾶς διὰ τοῦ
εἰκονικοῦ ὑποδείγµατος: IDL 236, 7), ma possono ricevere anche una lettura più profonda: nel
libro di Zaccaria (cf. Zach 3, 3-7) si legge ad esempio di come l’angelo del Signore spogliò il
sacerdote Giosuè dalle sue vesti immonde e lo rivestì di candide vesti; questo, commenta
155
Cf. IC 193, 16-17; il riferimento è a Gv. 5, 39, dove vengono rimproverati coloro che analizzano le Scritture
cercando in esse la vita eterna, mentre Gesù attribuisce a sé la loro testimonianza; il precetto cui si riferisce
Gregorio non è dunque il mero scrutare (ἐρευνᾶν) la parola rivelata, ma l’intelligenza di trovare in essa una
µαρτυρία del Cristo.
156 Cf. GARGANO pp. 160 s.
157 Cf. IC 8, 3-6; il riferimento è al serpente di bronzo, cf. Gv. 3, 14 e Num. 21, 8.
158 Cf. IC 8 e 9 passim.
159 Cf. TS 273, 3-5: εἴ τις διὰ τῶν ἱστορικῶν αἰνιγµάτων τῆς ἀληθείας προδιατύπωσις εἶναι πεπίστευται, κτλ.
160 Per questa accezione di ἀλήθεια cf. PIETRELLA 2009, p. 108 n. 8.
161 Cf. TS 274, 1-2: ἔξεστι γὰρ λαβεῖν ἀφ' ἑκάστου τῶν θεοπνεύστων ὑποδειγµάτων τὸ τῇ παρούσῃ ἱεροµηνίᾳ
κατάλληλον.
162 Cf. VM II 125, 1: πρὸς ἃ παιδεύει διὰ τούτων ἡ ἱστορία κτλ.
163 Cf. IDL 236, 3-10.
141
Gregorio, è figura del lavacro del battesimo, che toglie la macchia del peccato per rivestire di
santità.
Soprattutto nelle narrazioni storiche tuttavia ci sono occasioni in cui il significato
immediato (τὸ πρόχειρον νόηµα: IC 5, 2) è da interpretare: spesso l’ἱστορία, se si volesse
rimanere fermi ai πράγµατα (IC 7, 3), non offrirebbe infatti esempi di vita virtuosa, mostrando
come le figure dell’Antico Testamento si macchiarono spesso di azioni turpi164 .
Nella prima omelia del De oratione dominica Gregorio ribadisce con forza l’idea che la
narrazione della Scrittura, anche quando non sembra, educa sempre ad un bene. Nel passo in
esame165, il discorso verte sulla volontà di alcuni malvagi, non educati, di chiedere nelle
proprie preghiere il male per il proprio prossimo, adducendo come scusa il fatto che anche
nelle scritture Davide, Geremia, Osea e altri avrebbero sollevato tali richieste. Il Nisseno si
premura quindi di prendere in esame ciascuno di questi passi e confutarne una simile
interpretazione: gli scritti divini infatti sono sempre rivolti alla correzione delle genti che vi si
accostarono e vi si accosteranno e hanno come scopo solo il rendere nuovamente diritto ciò
che la malvagità insita nella natura umana aveva deviato 166. La linea argomentativa di
Gregorio muove dal fatto che l’opera del nemico pone come avversario ciò che
massimamente dovrebbe essere congiunto all’uomo, vale a dire chi partecipa della sua stessa
natura; i Salmi chiedono dunque che perisca la malvagità, ma l’uomo non si identifica con
essa, in quanto immagine di Dio; allo stesso modo, la disfatta che i profeti si augurano dei
propri nemici non riguarda altri uomini ma, come il vescovo evince dall’interpretazione di
Eph 6, 12, le potestà di questo mondo, cioè gli spiriti del male che inducono alla perdizione.
Nel De vita Moysis167 si legge una bella definizione dell’uso che Gregorio fa dell’ἱστορία:
l’esegeta afferma infatti che attraverso ciò che si sente si impara ciò che è stato, ma
l’interpretazione spirituale del racconto consente di apprendere ciò che sempre avviene, in
quanto è lotta quotidiana nell’anima di ciascuno.
Se la lettera uccide e lo spirito vivifica, come si trova scritto in 2Cor 3, 6, occorre che ci si
«rivolga al Signore» e si «rimuova il velo» di queste immagini, come ricorda Gregorio168
seguendo 2Cor 3, 16. Paolo nelle sue lettere propone una forma di insegnamento (ἓν
ὑφηγεῖται διδασκαλίας εἶδος ἡµῖν: IC 6, 13-14) che miri a ciò che è immateriale e adeguato al
νοῦς dell’uomo (πρὸς τὴν ἄϋλόν τε καὶ νοητὴν θεωρίαν: IC 6, 17), per rendere evidente il
164
Cf. IC 7, 2-10
Cf. OD 14, 19-17, 18.
166 Cf. OD 15, 6-10: οὐδεὶς τῶν ἀληθῶς ἁγίων, τῶν τῷ ἁγίῳ πνεύµατι θεωφορουµένων, ὧν αἱ ῥήσεις κατὰ θείαν
οἰκονοµίαν εἰς νουθεσίαν τῶν ἐφεξῆς ἀνεγράφησαν, ἐπί τινι κακῷ τὴν σπουδὴν ἔχων ἐπιδειχθήσεται, ἀλλ’ ἅπας
αὐτοῖς ὁ σκοπὸς τῶν λόγων πρὸς διόρθωσιν τῆς ἐµπολιτευοµένης τῇ φύσει κακίας βλέπει.
167 Cf. VM II 119, 6-8: ὃ δὴ καὶ τότε γεγενῆσθαι παρὰ τῆς ἱστορίας ἀκούοµεν, καὶ εἰσαεὶ γίνεσθαι παρὰ τῆς τοῦ
λόγου θεωρίας µανθάνοµεν.
168 Cf. IC 6, 10-12.
142
165
significato irreprensibile di ogni passo (τὸ … ἀνεύθυνον: IC 7, 11); sulla sua scorta, Gregorio
si sente autorizzato a compiere la stessa operazione per il medesimo scopo. Secondo una
nuova immagine, mutuata questa volta da Gen 29, 2-10169 , l’ἱστορία sarebbe come un pozzo
la cui imboccatura è chiusa da una pietra pesante, fatto che impedisce agli animali del pascolo
di abbeverarvisi; per compiere questo loro desiderio e bisogno è necessario chi, come
Giacobbe, rimuova la pietra del significato oscuro e permetta così di riempire i vasi d’acqua
zampillante, a ristoro di chi la andava cercando; la figura dell’acqua indica qui un significato
tanto profondo da non essere raggiungibile dall’umana ragione, pur illuminata da Dio (τῷ
ἡµετέρῳ λόγῳ: IC 457, 8-9).
Una simile precisazione era più che necessaria all’inizio di un’opera che trattasse del
Cantico dei Cantici: più volte Gregorio ripete, soprattutto nelle prime omelie, di non essere
fuorviati dalle immagini che il testo usa, ma di cercarne la profonda verità. Il metodo che
seguirà sarà dunque mostrare il modo di accrescere se stessi, di procedere nella conoscenza di
Dio, attraverso il passaggio dal fatto storico all’interpretazione figurale170.
Che i racconti della Scrittura educhino è un concetto espresso a più riprese anche nel De
vita Moysis 171. Ricordando ad esempio l’episodio in cui gran parte del popolo fu irretito dalla
bellezza delle donne straniere contro il divieto della Legge e della purificazione nel sangue
operata da Finea, acceso di sacro zelo (Num 25, 1-15), il Nisseno commenta il fatto scrivendo
che da esso siamo educati e impariamo (παιδευόµεθα … µαθόντας ἡµᾶς: VM II 303, 1).
II.4
L’esegeta
L’esegeta deve quindi orientare la sua lettura facendo attenzione alla παίδευσις, alla
νουθεσία e al σωφρονισµός di chi ha di fronte.
Il cibo che viene offerto dalle Scritture è infatti di vario tipo. Nel De vita Moysis172 si legge
infatti che esistono concetti e dottrine più facilmente assimilabili, che sostentano nel cammino
della vita, come fecero le carni dell’agnello pasquale quando gli Israeliti uscirono dall’Egitto,
tolti dal calore di una fede ardente e infuocata; altri insegnamenti sono invece quelli nascosti
sotto concetti duri e difficilmente assimilabili, che nella figura del testo ispirato sono
rappresentati dalle ossa e dalle interiora dell’animale. L’esegeta ed ogni cristiano
indistintamente, in quanto il Nisseno nel proporre l’interpretazione spirituale non riduce la
categoria di uomini chiamata ad un tal compito, deve dedicarsi a ciò che comprende delle
169
Cf. IC 456, 16-457, 9.
Cf. IC 354, 19-20: νοεῖς δὲ πάντως ἐν τούτοις τὸν τῆς αὐξήσεως τρόπον µεταβαλὼν τὴν ἱστορίαν εἰς
τροπικὴν θεωρίαν.
171 Cf. VM II 297-304.
172 Cf. VM II 109-111.
143
170
rivelazioni divine senza pigrizia né per forza, saziandosi di ciò che si ha davanti, perché
questo nutrimento mantenga il corpo in buona salute. Rimangono invece appannaggio del
solo Spirito i concetti che le Scritture non chiarificano, come l’essenza stessa di Dio, cosa ci
sia stato prima della creazione ed altre questioni simili che potrebbero portare i curiosi che le
investigano a perdersi.
Il Prologo all’In canticum, nel quale Gregorio espone la propria concezione di θεωρία di
fronte alle critiche di alcuni esponenti della stessa Chiesa173 , può essere prezioso in una simile
prospettiva. La sua vuole essere una lettura che faccia risplendere nella Scrittura il suo scopo
precipuo, vale a dire l’edificazione dell’uomo. Per questo occorre, nota il Nisseno,
allontanarsi dalla mera lettera. L’esegeta precisa subito che non gli interessa discutere del
nome da assegnare all’interpretazione che propone: il solo criterio cui vuole mirare è
l’ὠφελεία, l’utile174, cui tutto è riferito175. In questo Gregorio si richiama esplicitamente
all’esempio paolino176 che in egual modo tralascia di dare una definizione della sua lettura,
curandosi solo di πρὸς τὸ ὠφέλιµον βλέπειν (cf. IC 5, 17). Il primo esempio citato177 riguarda
i due figli di Abramo, interpretati come figura dei due Testamenti178 , mentre il secondo
commenta il già visto precetto mosaico che vieta di mettere la museruola al bue che trebbia179.
L’esegeta deve quindi esaminare attentamente le parole della Scrittura per trovare un λόγος
che possa condurre per mano l’intelletto alle realtà più divine e non corporee (τις εὑρεθείη
λόγος … ἐπὶ τὰ θειότερά τε καὶ ἀσώµατα χειραγωγῶν τὴν διάνοιαν: IC 10, 3-4); senza la sua
opera le parole divinamente ispirate non potrebbero essere nutrimento degli esseri razionali,
ma di quelli irrazionali, così come le biade non lavorate, le spighe non trebbiate, il frumento
non macinato ed il pane non preparato per essere commestibile sono nutrimento di bestie e
non di uomini180 . In calce a questa osservazione, occorre notare anche come il Nisseno ritenga
che la Scrittura in alcuni suoi punti faccia uso in vista del proprio scopo (vale a dire
l’educazione) anche di racconti che non appartengono alla storia della salvezza, ma ai
173
Cf. IC 4, 10-5, 6, ma anche il Prologo passim.
Cf. IC 5, 6-9: τῶν αἰνιγµάτων. ὧν τὴν διὰ τῆς ἀναγωγῆς θεωρίαν εἴτε τροπολογίαν εἴτε ἀλληγορίαν εἴτε τι
ἄλλο τις ὀνοµάζειν ἐθέλοι, οὐδὲν περὶ τοῦ ὀνόµατος διοισόµεθα, µόνον εἰ τῶν ἐπωφελῶν ἔχοιτο νοηµάτων. Il
concetto di ὠφέλεια è centrale anche nell’opera che propone l’esegesi degli insegnamenti (µαθηµάτων: IE 277,
9) più perfetti che si trovano nell’Ecclesiaste (Cf. IE 277, 3-4 e IE 373, 2-3, incipit rispettivamente della prima e
della sesta Omelia.)160, libro biblico del quale il Nisseno sottolinea a più riprese le difficoltà interpretative,
avendo così la possibilità di rimarcare il guadagno che nasce da una simile fatica.
175 Lo stesso peccato viene subordinato a questa logica di utilità: il ricordo infatti del male compiuto, oltre a
rendere più dolce la gioia di una vita riscattata, si pone come pedagogo e sentinella che non permetta il ritorno ad
una strada lontana dal bene: ὥσπερ τινὰ παιδαγωγὸν καὶ φύλακα πρὸς τὴν τῶν κακῶν ἀλλοτρίωσιν τὴν µνήµην
τῶν ποτε κατακρατησάντων θηρίων ὁ λόγος προήνεγκεν (IC 252, 15-17).
176 Cf. IC 5, 16-18.
177 Questo esempio e il secondo verranno ripresi anche nell’Omelia VII, che si analizzerà più oltre.
178 Cf. IC 5, 9-6, 5, che commenta Gal. 4, 22-26.
179 Cf. IC 6, 6-8, che commenta 1 Cor 9, 9-10; riprende Deut. 25, 4.
180 Cf. IC 12, 1-19.
144
174
pagani181: un esempio sarebbe il nome delle figlie di Giobbe, sicuramente ellenici o
addirittura derivati dalla mitologia182 . L’esegeta quindi sottolinea come in questo caso occorra
badare solo allo scopo elogiativo delle parole scritturistiche, guidati dall’interpretazione
richiesta dal testo stesso, e tralasciare gli eventuali riferimenti alle favole antiche183 . Nel caso
particolare delle figlie di Giobbe, il nome della terza figlia, Ἀµαλθείας Kέρας, non
testimonierebbe una concessione alla mitologia pagana, ma attesta la messe dei doni di virtù
presenti in lei; allo stesso modo, il nome Kασίαν indicherebbe la purezza e l’appellativo
Ἡµέραν sarebbe da interpretare collazionando un passo paolino secondo cui chi vive in modo
puro è detto figlio della luce e del giorno.
Durante l’omelia III della stessa opera Gregorio si trova invece a riprendere l’episodio
biblico della fuga dall’Egitto, sollecitato dal versetto del Cantico che paragona la Sposa alla
cavalla del Faraone (Cant 1, 9). Dopo avere interpretato l’immagine e aver ricordato
sommariamente l’ἱστωρία della schiavitù del popolo eletto e la sua fuga184 , il Nisseno
sottolinea come tutto sia stato scritto πρὸς νουθεσίαν ἡµῶν (IC 76, 13), parafrasando 1Cor 10,
11. Siccome si rivolge non a neofiti bensì a un uditorio di comprovata virtù l’esegeta è sicuro
che i suoi ascoltatori non ignorino quale sia il significato delle piaghe d’Egitto (οὐκ
ἀγνοοῦµεν τὰ διὰ τῶν πληγῶν σηµαινόµενα: IC 77, 13-14), naturalmente non colto solo nella
lettera del testo ma invitando ad una interpretazione di esso più profonda; il Nisseno accenna
ad esempio a ciò che si potrebbe dire dell’acqua mutata in sangue, delle rane e delle tenebre
che calarono sugli oppressori. Benché in questo caso consideri superfluo dilungarsi (il che
sarà ampiamente compiuto invece nel De vita Moysis), Gregorio non esita a sottolineare che
sarebbe facile adattare ciascuna di queste piaghe all’educazione e alla correzione (o, come ben
traduce Moreschini, al «riprendere senno») di chi lo ascolta (µεταλαβεῖν εἰς παίδευσίν τε καὶ
σωφρονισµὸν τοῦ ἀκούοντος: IC 77, 23-24).
Molto legata al Prologo appare un brano dell’omelia VII. In questa sono commentati i
versetti del Cantico nei quali lo Sposo loda la Sposa e alcune parti del suo corpo facendosi
araldo e pittore della sua bellezza (κῆρυξ τοῦ κάλλους αὐτῆς καὶ ζωγράφος: IC 215, 2-3)
attraverso confronti e similitudini (διὰ συγκρίσεώς τε καὶ ὁµοιώσεως: IC 215, 6). L’esegeta
prende le mosse dal passo paolino secondo cui il corpo di Cristo è composto di molte
membra185 ed interpreta ogni lode assegnandola ad una diversa parte del corpo della Chiesa. Il
181
Cf. IC 288, 6-10: οἶδε γὰρ πολλάκις ἡ ἁγία γραφὴ καὶ µύθους τινὰς ἐκ τῶν ἔξωθεν συµπαραλαµβάνειν εἰς τὴν
τοῦ ἰδίου σκοποῦ συνεργίαν καὶ ἀνεπαισχύντως ἐκ τῆς µυθικῆς ἱστορίας ὀνοµάτων µνηµονεύειν τινῶν εἰς
ἐναργεστέραν ἔνδειξιν τοῦ προκειµένου νοήµατος.
182 Cf. Iob 42, 13-14: 13 γεννῶνται δὲ αὐτῷ υἱοὶ ἑπτὰ καὶ θυγατέρες τρεῖς 14 καὶ ἐκάλεσεν τὴν µὲν πρώτην
Ἡµέραν τὴν δὲ δευτέραν Kασίαν τὴν δὲ τρίτην Ἀµαλθείας Kέρας.
183 Cf. IC 288, 3-289, 15.
184 Cf. IC 73, 2-14; 75, 13-76, 12; 77, 1-13.
185 Cf. 1Cor 12, 12-27.
145
passo è particolarmente importante e ci si riserva di ritornarvi; in questa sede interessa
approfondire l’esegesi del versetto 4, 2: «I tuoi denti sono come greggi di pecore tosate che
sono salite al bagno; tutte hanno partorito due gemelli e nessuna di esse non ha figliato»186.
Questa lode segue immediatamente gli occhi e i capelli, figura di coloro che nella vita della
Chiesa svolgono il ruolo di maestri e a coloro che si rivolgono alla vita monastica187. Gregorio
fa innanzitutto notare la precedenza della lode dei denti rispetto alle labbra, alla bocca o al
sorriso, a cui il testo sicuramente non allude, perché ne tratta in seguito. I denti precedono le
labbra, afferma il Nisseno, perché l’ordine più corretto nell’apprendimento è prima essere
istruiti, poi parlare ad alta voce di ciò che si è appreso (ἀρίστη τάξις ἐστὶν ἐν τοῖς µαθήµασι
πρῶτον διδάσκεσθαι καὶ τότε φθέγγεσθαι: IC 223, 21-224,1). Cibo dell’anima sono le
discipline (τὰ δὲ µαθήµατα ψυχῆς βρώµατά: IC 224, 2): come il nutrimento del corpo deve
essere triturato dai denti affinché diventi per noi assimilabile, così anche il nutrimento
dell’anima è bene che venga trattato allo stesso modo. Nell’uomo infatti è presente la capacità
di sminuzzare gli insegnamenti (ἔστι τις λεπτοποιητικὴ τῶν διδαγµάτων δύναµις ἐν τῇ ψυχῆ:
IC 224, 6), di modo tale che diventino utili per chi li riceve (ὠφέλιµον γίνεται τῷ δεχοµένῳ τὸ
µάθηµα: IC 224, 7). Chi compie quest’opera, definita poco oltre significativamente τὰ θεῖα
µυστήρια διὰ σαφεστέρας ἐξηγήσεως λεπτοποιεῖν (IC 225, 21), prende con la bocca il pane
grosso e compatto della parola divina (παχύν τε καὶ συνεστῶτα τοῦ λόγου τὸν ἄρτον τῷ
ἑαυτῶν λαµβάνοντες στόµατι: IC 225, 24-25) e lo sminuzza per la comprensione delle anime
che lo ricevono. È la stessa considerazione con cui si concludeva il Prologo.
L’omelia VII chiama dunque «denti» quelle guide o precettori188
che giudicano e
distinguono ciò che va appreso (τοὺς τοίνυν κριτικούς τε καὶ διαιρετικοὺς τῶν διδαγµάτων
καθηγητάς: IC 224, 8-9): attraverso costoro l’insegnamento diviene agevole e utile (εὔληπτος
γίνεται ἡµῖν καὶ ἐπωφελὴς ἡ διδασκαλία: IC 224, 9-10). Le labbra, sottolinea Gregorio, non
potrebbero fiorire di una bellezza razionale (τῷ λογικῷ κάλλει: IC 224, 13), che consiste nella
confessione della retta fede e dell’amore verso Dio, un parlare leggiadro in quanto porta alla
salvezza189 , se prima non vi fosse un esame laborioso delle discipline (διὰ τῆς φιλοπονωτέρας
τῶν µαθηµάτων κατανοήσεως: IC 224, 14) da parte dei denti, che pongono su di esse la
grazia.
A questo punto il Nisseno si rivolge alla lode effettiva dei denti presente nel Cantico,
sottolineando però come la lettera non interpretata non potrebbe in alcun modo offrire un
186
La traduzione riportata è quella che propone Moreschini in incipit dell’omelia VII: cf. MORESCHINI p. 169.
Cf. IC 216, 3-223, 9; i passi sono qui analizzati nel Cap. III.4.1.
188 Il termine scelto da Gregorio in questo caso è καθηγητής: διδάσκαλος è utilizzato invece per chi, nel testo del
Cantico, è adombrato nella lode degli occhi.
189 Cf. IC 228, 4-229, 20.
146
187
elogio di questi190. Per spiegare il testo l’esegeta decide di esaminare innanzitutto il chiaro
exemplum di Paolo, riproponendo due passi che aveva già letto nel Prologo, vale a dire il
commento al precetto del Deuteronomio riguardo alla museruola dei buoi e l’interpretazione
della storia di Abramo. A imitazione di Paolo (κατὰ µίµησιν ἐκείνου: IC 227, 3) svolge la
funzione dei denti chiunque renda chiari i misteri dei detti divini191, ma in particolare coloro
che sono preposti a tale compito, vale a dire i sacerdoti e i vescovi. In questo modo Gregorio
pare sottolinei come uno dei compiti più importanti di qualunque episcopo sia
l’interpretazione spirituale dei testi sacri; il riferimento, evidente per l’insistita ripresa di
tematica ed esempi, è forse ancora ai gerarchi ecclesiali che biasimavano il Nisseno per la sua
opera di esegesi.
Proprio sulla correlazione tra l’immagine dei denti, il ruolo dei maestri e la figura dei
sacerdoti si appunta infatti la spiegazione del versetto del Cantico. La funzione
dell’insegnamento, che Gregorio chiama significativamente grazia (τὴν διδακτικὴν χάριν: IC
227, 9) è legata al sacerdozio da 1Tim 3, 1-7, dove si descrivono le caratteristiche del
vescovo: è necessario, continua l’esegeta, che costoro siano purificati dal lavacro della
coscienza, così come le pecore presenti nel versetto del Cantico tornano dal bagno tosate; il
salire di queste ultime verso il luogo della loro purificazione indica l’ascesa continua richiesta
ai ministri ecclesiali. La duplice generazione di questi animali invece ricalcherebbe il compito
che si devono preporre siffatti maestri: la loro condotta di vita deve essere virtuosa e non
essere sterile in nessun buon comportamento, così come i pensieri concepiti devono generare
l’ἀπάθεια per l’anima e l’εὐσχηµοσύνη (che Moreschini traduce convenientemente come
«decoro») per il corpo192 . Il riferimento costante ad operazioni duplici, che si riferiscano cioè
all’anima e al corpo, manifesta nell’esegeta una preoccupazione per la duplice realtà
dell’uomo193 lontana da influssi manichei.
II.4.1
L’utilizzo della parola rivelata
L’esegeta, per ovviare al suo compito educativo, non si sottrae a operazioni che vanno a
incidere sulla stessa parola rivelata: in alcuni passi è infatti facile constatare come Gregorio
modifichi leggermente il testo sacro in funzione della lettura spirituale che vuole proporre,
sottolineando ad esempio aspetti che la narrazione ispirata lasciava implicita e non citandone
altri. Esempi di questa prassi si ritrovano ad esempio nel De vita Moysis, opera divisa
190
Cf. IC 225, 1-20.
Cf. IC 226, 18-227, 6.
192 Cf. IC 227, 10-228, 3.
193 Cf. ad es. IC 240, 20-241, 6.
191
147
programmaticamente in due λόγοι, nel primo dei quali il Nisseno decide di esporre per sommi
capi la storia del legislatore, di modo tale che i suoi interlocutori ricordino i particolari del
testo sacro che poi verranno interpretati nella lettura operata nel secondo λόγος. L’incipit della
storia di Mosè offre un valido metro di paragone. Il testo sacro racconta della nascita del
legislatore in Exod 2, 1-10; ivi si narra anche della decisione della madre di deporlo in una
cesta sulla riva del fiume, del ritrovamento del bambino da parte della figlia del faraone, della
proposta di Miriam, sorella di Mosè, di far allattare il bambino da una schiava ebrea e
dell’imposizione del nome ad esso ad opera della giovane nobildonna. Il riassunto gregoriano
presenta però vere e proprie discrepanze. Dopo aver accennato al comando del Faraone di
mettere a morte tutti i maschi appena nati e alla bellezza del bambino, che fece scegliere alla
madre di non consegnarlo, anche Gregorio menziona la cesta di vimini in cui il bambino fu
chiuso. La madre tuttavia non lo depose, come nel testo sacro, in una ansa del fiume, in un
luogo paludoso (εἰς τὸ ἕλος παρὰ τὸν ποταµόν: Exod 2, 3), bensì lo affidò, secondo il
Cappadoce, alla corrente, che trasportò la cesta guidata da una forza divina (θείας δέ τινος
δυνάµεως τὴν κιβωτὸν κυβερνώσης: VM I 17, 5-6) e guadagnò infine un rifugio tranquillo.
L’esegeta non fa menzione di Miriam, se non indirettamente (ἐπινοίᾳ τινὶ τῶν πρὸς γένους
οἰκείων: VM I 17, 14-15); anche il testo del Nisseno ricorda che il piccolo fu nutrito dalla sua
vera madre e non da colei che lo trovò. Nel secondo libro la figlia del Faraone diventa una
donna sterile (ἄγονός τε καὶ στεῖρα: VM II 10, 1), particolare assente nel testo biblico che
Gregorio aggiunge per poterla presentare come simbolo della filosofia antica presso la quale
l’uomo può dimorare solo fino a quando è ancora infante194 .
Il commento di Gregorio mira all’edificazione dei suoi interlocutori, e per questo
programmaticamente l’autore può tralasciare fatti che a suo parere non siano utili a chi si
trova davanti195 ; ciò che invece Gregorio sottolinea a completamento della lettera del testo
sacro deve essere studiato con attenzione, in quanto mostra dei particolari cari al pensiero
dell’esegeta, veri e propri cardini irrinunciabili della sua riflessione. Un’immagine che viene
sviluppata nel racconto dei fatti della Sacra Scrittura in maniera superiore alla sua effettiva
presenza nel testo è ad esempio quella della nube che guida gli Israeliti. Il testo sacro ne parla
per la prima volta in Exod 13, 21-22 dicendo che il Signore precedeva il suo popolo grazie a
questa colonna di nubi e di fuoco di giorno e di notte; la Scrittura annota quindi che Dio non
rimosse mai questo segno durante il cammino del popolo eletto. Il Nisseno, dopo aver
commentato la composizione straordinaria di quella nube, che nessuno avrebbe potuto
ritenere formata dai soli vapori d’acqua per gli effetti che questa portava, si premura di
194
Cf. Cap. V.4.
Cf. VM II 48-50.
148
195
annotare che Mosè guardava quel segno e istruiva il popolo a seguire di presso quella
manifestazione della potenza di Dio che li guidava196: se da quel momento il testo sacro non
nomina quasi più la nube pur registrandone in Exod 40, 34-38, la continua presenza, e
sottolinea piuttosto le tappe del cammino, Gregorio non manca di amplificare l’atto della
sequela197, che rende il popolo un esercito sottoposto ai comandi del solo generale, Dio198. Se
questi non ordinava di muoversi, anche il popolo era tenuto a fermarsi, non avendo chi
guidasse nel trasferimento: questo successe secondo Gregorio ai piedi del monte Sinai, in una
nuova aggiunta al testo sacro 199; la nube a quel punto si spostò sul monte stesso, diventando la
tenebra entro cui Mosè ricevette una più alta iniziazione200 . Da quel momento il commento
gregoriano tralascia il particolare, quasi come se non ve ne fosse più bisogno: dopo essere
entrato nelle profondità di Dio è infatti Mosè stesso a condurre il popolo, diventando lui
manifestazione della presenza della divinità nel suo popolo. In un passo successivo201, Mosè
viene visto come figura dei comandamenti della Legge, mentre la nube diventa
l’interpretazione spirituale di questi ultimi; entrambi, comunque, sono una guida (ἡ ὁδηγία:
VM II 153, 4) necessaria al coloro che si incamminano sulla strada delle virtù.
Gregorio accetta nel suo lavoro di interpretazione spirituale anche letture meno ancorate ad
una facile comprensione che ritrovava nei lavori a lui precedenti. Un esempio di questo è
presente nel commento delle vesti sacerdotali che l’autore propone all’inizio del suo De vita
Moysis202; lì si legge come autori a lui precedenti, tra i quali bisogna ravvisare secondo
l’indicazione di Simonetti203 Filone e Clemente Alessandrino, avrebbero interpretato il colore
giacinto della tunica del sacerdote come un riferimento all’aria, in quanto nelle vesti sarebbe
da ravvisare l’universo nelle sue parti. Gregorio ammette una difficoltà nella piena sequela di
questa visione, come accade ogni volta che rimarca il suo utilizzo di altri commenti nella
costituzione del proprio. La lettura cosmogonica che egli aveva ereditato tuttavia si adattava
bene ad una interpretazione spirituale che volesse esortare alla virtù (l’aria che tende verso
l’alto si prestava infatti ad essere segno della virtù), quindi l’autore decise di non apporre
ulteriori o diverse proposte.
196
Cf. VM I 30-31.
Cf. VM I 34, 1-6: τῆς δὲ νεφέλης µεταναστάσης ἐπὶ τὰ πρόσω, κἀκεῖνοι τῇ κινήσει τοῦ ὁδηγοῦντος
συµµετανίσταντο, ἀεὶ τοῦτο ποιοῦντες, παυόµενοί τε τῆς πορείας ἐν ᾧπερ ἂν ἡ στάσις τῆς νεφέλης τὸ τῆς
ἀναπαύσεως ἔδωκε σύνθηµα καὶ ἀπαίροντες πάλιν οὗπερ ἂν ἡ νεφέλη τῆς πορείας αὐτῶν ἀφηγήσατο.
198 Cf. VM I 35, 1-2.
199 Cf. VM I 41, 1-4: ἐπὶ δὲ τοῦ αὐτοῦ τόπου τῆς νεφέλης µενούσης ἣ καθηγεῖτο τοῦ λαοῦ τῆς πορείας, ἀνάγκη
πᾶσα ἦν µηδὲ τὸν λαὸν µετανίστασθαι, µηδενὸς ὄντος τοῦ καθηγουµένου πρὸς τὴν µετανάστασιν.
200 Cf. VM I 42-45.
201 Cf. VM II 153.
202 Cf. VM II 191.
203 Cf. SIMONETTI 1984 p. 316. Sulla dipendenza di Gregorio da Filone per alcune divergenze dal testo sacro
nella presentazione della vita di Mosè, cf. SIMONETTI 1984, p. 268 ad VM I 18, 3; I 19, 2; I 25, 2; I 29, 14.
149
197
L’esegeta deve dunque esercitarsi ed esercitare all’uso di un retto κρίνειν: trattando infatti
del versetto 3, 11 del Cantico dei Cantici, nel quale si dice che la madre dello Sposo che gli
pose intorno al capo una corona, l’esegeta non dubita che chi sia esperto nel giudicare i detti
divini (οὐδεὶς τῶν κρίνειν τοὺς περὶ θεοῦ λόγους ἐπεσκεµµένων: IC 212, 14-15) riconosca
nella menzione della madre il Padre celeste, cui non si può associare elementi maschili o
femminili, esercitando così la sua facoltà di discernimento e scelta financo nell’approccio
della parola rivelata, per non cadere in letture che lo condurrebbero al di fuori del retto
credere204.
Compito dell’esegeta è infine anche il rendere capaci i suoi interlocutori di operare un
confronto personale con la Scrittura, nel solco degli insegnamenti della Chiesa: solo in questo
infatti si può compiere quel cammino che porterà a prendere come guida se stessi e il proprio
desiderio.
Di fronte a una così grande responsabilità si comprende la continua invocazione
dell’ispirazione dello Spirito205, che diventa dunque necessaria per rispondere al desiderio di
comprendere il segreto midollo del testo (ἐπιθυµητὴς τῶν κρυφίων µυελῶν τοῦ λόγου: IC
193, 12-13). La voce divina della Scrittura, in quanto educatrice, è guida206 ; essa deve però
essere compresa grazie all’aiuto divino per assolvere alla sua funzione. Quando ad esempio
l’esegesi verte sul versetto del Cantico che chiama i venti Borea e Noto207, il Nisseno sente la
necessità, attraverso le proprie preghiere, che lo Spirito Santo lo guidi (ὁδηγίας: IC 294, 19)
sulla strada della retta θεωρία: i misteri che sta andando a sfiorare sono infatti talmente alti da
poter essere paragonati solo alle stelle del cielo; come gli astri, l’uomo può solo contemplarne
da lontano la bellezza, senza possibilità di possesso ma pieno di meraviglia per ciò che di loro
si mostra208 .
Anche nel De instituto 209 il Nisseno, per rispondere al desiderio (προθυµία: DI 42, 5) di chi
gli aveva chiesto di scrivere, comincia la sua trattazione da una esposizione del dogma
trinitario, chiamando in aiuto la grazia dello Spirito (κατὰ τὴν χορηγοῦσαν ἡµῖν τοῦ
πνεύµατος χάριν: DI 42, 4-5): il vescovo non farà altro che esporre piccoli elementi
dell’insegnamento ricevuto (βραχέα τὰ σπέρµατα τῆς διδασκαλίας: DI 42, 17) dalla Sacra
Scrittura e da molti testimoni (ὡς προλαβόντες ὑπὸ µάρτυσι πολλοῖς: DI 42, 11), che i fedeli
204
Cf. IC 212, 14-213, 9.
Il rilievo secondo cui l’esegeta debba preservare gli insegnamenti del testo attraverso la verità (διὰ τῆς
ἀληθείας: IE 278, 17) e debba chiedere per sé innanzitutto la grazia necessaria alla comprensione delle parole
ispirate si legge ad esempio in incipit della prima omelia In Ecclesiasten (cf. IE 277, 3-279, 3.)161. Criterio di
questa interpretazione sarà dunque l’accordo logico e consequenziale (άκολουθία) delle parole divine e dei
ragionamenti umani, nel grande alveo della tradizione ecclesiastica.
206 Cf. ad es. IC 414, 6-8: εἰ δὲ χρὴ τὸ κυριώτερον τῶν εἰς τὴν διάνοιαν ταύτην ὁδηγούντων ἡµᾶς ἀπὸ τῆς θείας
παραθέσθαι φωνῆς κτλ.
207 Cf. Cant 4, 16, commentato in IC 294, 14-303, 2.
208 Cf. IC 295, 1-9.
209 Cf. DI 42, 4-43, 7.
150
205
di quella comunità sapranno ben comprendere perché già purificati dalla retta fede. Solo
attraverso la grazia che viene dall’alto (che comprende però anche le testimonianze suddette),
avverte Gregorio, si può evitare di cadere nei vuoti sillogismi degli eretici o dei pagani. Cristo
stesso infatti deve venire invocato per essere guida del discorso (προσάξοµεν αὐτὸν τὸν θεὸν
λόγον καθηγεµόνα τῆς σπουδῆς ποιησάµενοι: IC 279, 3) e condurre sempre l’anima per mano
verso le realtà più perfette (ἡ πρὸς τὸ ὑψηλότερον ἀεὶ χειραγωγου µένη ὑπὸ τοῦ λόγου ψυχή:
IC 280, 13).
Questa ispirazione non elimina tuttavia la possibilità di una lettura più profonda che possa
essere operata da altri che hanno ricevuto una grazia maggiore: l’approfondirsi sempre nuovo
della comprensione della parola divina fa parte di quel progresso infinito nella scoperta di
realtà sempre più grandi che accompagna di gloria in gloria chi vi si accosta con cuore
puro210. Gregorio infatti non ritiene che la sua sia una esegesi compiuta, in qualche modo
definitiva: nell’omelia De tridui spatio211, ad esempio, in Nisseno si interroga sul significato
che rivestono i tre giorni che intercorrono tra la morte e la resurrezione di Cristo, proponendo
una riflessione personale212 , ma sottolinea come la sua sia una congettura e non una evidenza,
uno studio e una ricerca che sono lasciati al vaglio critico di coloro che ascoltano; Pietrella
rimanda, per questa impostazione di metodo, all’opera origeniana213.
Gregorio stesso comunque per alcuni passi non disdegna di proporre una doppia lettura del
testo: nell’omelia XI, ad esempio, dopo aver proposto due differenti interpretazioni
dell’αἴνιγµα della mano dello Sposo che si insinua nella piccola fessura della casa della
Sposa, affida all’ascoltatore di vagliare l’interpretazione che più rispetta la natura del testo e si
armonizza con i suoi argomenti214 ; l’importante è che essa sia per lui una valida guida verso il
bene (αὐτάρκης ἡ πρὸς τὸ ἀγαθὸν ὁδηγία: IC 339, 13-14): le parole stesse dell’esegeta
possono dunque diventare una guida che conduce per mano (χειραγωγίαν τινὰ γενέσθαι: IC 4,
7) chi ascolta verso la piena conoscenza e un agire virtuoso.
L’insegnamento divino, che indica la strada del cammino, non è tuttavia neanch’esso
bastevole al desiderio ultimo dell’uomo: il proprio compimento, come si legge alla fine del
De beatitudinibus 215, è Cristo stesso, premio e corona, colui che indica il tesoro e ne
costituisce l’essenza; come il Nisseno ripropone basandosi sulle parole di Paolo, chi è in
210
Cf. IC 247, 7-18.
Cf. per tutto il passo TS 285- 286, 16. Si riporta perché particolarmente significativo TS 186, 13-16: ἀλλὰ
περὶ µὲν τῆς τοῦ ἀριθµοῦ τῶν ἡµερῶν αἰτίας ταῦτα ὑπενοήσαµεν, εἴτε δὲ ὀρθῶς εἴτε καὶ µή, ἐν τῇ κρίσει τῶν
ἀκροατῶν καταλείψοµεν· οὐ γὰρ ἀπόφασις ὁ λόγος ἐστίν, ἀλλὰ γυµνασία καὶ ζήτησις.
212 Cf. PIETRELLA 2009, p. 130, n. 137.
213 Cf. PIETRELLA 2009, p. 130, n. 137.
214 Cf. IC 339, 5-11: Προτεθείσης δὲ ἡµῖν τῆς διπλῆς ταύτης ἐπὶ τῇ χειρὶ θεωρίας […] ἐπὶ τῷ ἀκροατῇ
ποιησόµεθα τὴν προσφυεστέραν τε καὶ µᾶλλον τοῖς ὑποκειµένοις ἁρµόζουσαν πρὸ τῆς ἑτέρας ἐκλέξασθαι.
215 Cf. DB 170, 3-24.
151
211
Cristo possiede tutto nell’avere Lui, essendo congiunti al suo corpo per partecipazione216.
Proprio a questo mira l’educazione cristiana.
216
Cf. TeI 18, 12-18; si riporta TeI 18, 12-14: ὡς διὰ τούτου µαθεῖν ὅτι ὁ ἐν τῷ θεῷ γενόµενος πάντα ἔχει ἐν τῷ
ἐκεῖνον ἔχειν.
152
Cap. III
III.1 La συνανάκρασις compimento di conoscenza e desiderio
La natura umana, guidata dalla forza del suo libero arbitrio (ἡ ῥοπὴ τῆς προαιρέσεως: IC
102, 5), è stata resa capace di accogliere ciò che è conforme al suo animo (δεκτικὴ τῶν κατὰ
γνώµην ἡ ἀνθρωπίνη γέγονε φύσις: IC 102, 4-5). La scelta libera che l’uomo compie in un
certo qual modo lo riveste, gli fa mutare natura1 : è per questo che all’inizio
dell’interpretazione spirituale del De vita Moysis Gregorio sottolinea come si possa scegliere
di nascere ogni volta, grazie alla propria libertà, guardando al bene o al male2. Gregorio si
spinge anzi ancora oltre, arrivando a sostenere che un uomo riceva in sé la forma di ciò a cui
rivolge lo sguardo (πρὸς ὃ γὰρ ἄν τις ἐνατενίσῃ, τούτου δέχεται ἐν ἑαυτῷ τὸ ὁµοίωµα: IC
105. 16-17). Dal punto di vista della παίδευσις questo è un appunto cruciale, perché fonda la
convenienza dell’imitazione: chi infatti ha fissato lo sguardo in Cristo, imitandolo, ne è
diventato immagine.
Perché questo accadesse Gregorio sottolinea la necessità dell’incarnazione.
La verità che l’uomo attende è la luce stessa di Dio, come si legge nel commento al passo
del De vita Moysis 3 nel quale l’angelo illuminò Mosè attraverso il segno del roveto ardente. Il
Dio che si è rivelato nella carne attraverso il mistero della verginità feconda di Maria, come
attesta (προσµαρτυρει: VM II 20, 6) il Vangelo, è verità e luce; l’educazione che conduce
verso la virtù (ἡ τοιαύτη τῆς ἀρετῆς ἀγωγή: VM II 20, 7) porta quindi alla conoscenza di
quella luce che si abbassa fino alla natura umana irradiandola da se stessa, così come il roveto
dava luce senza riceverla da altro: l’immutabile natura divina si è mutata rendendosi da noi
comprensibile nella forma e nell’aspetto per condiscendenza verso la debolezza della natura
umana4.
1
Cf. IC 103, 15-16.
Cf. VM II 1-5.
3 Cf. per tutto il passo VM II 19-21, che commenta Exod 3, 1-6.
4 Cf. VM II 28, 4-7: τῆς θείας φύσεως ἐν τῷ ἀναλλοιώτῳ θεωρουµένης, τῇ δὲ πρὸς τὸ ἀσθενὲς τῆς ἀνθρωπίνης
φύσεως συγκαταβάσει πρὸς τὸ ἡµέτερον σχῆµά τε καὶ εἶδος ἀλλοιωθείσης.
153
2
Tutta l’economia della salvezza è rivelazione e παίδευσις della divinità; come si legge in
un passaggio dell’In Canticum5, la parete della Legge e dell’insegnamento antico creava
tuttavia solo l’ombra dei beni autentici, ma non mostrava la realtà vera. Se anche una simile
immagine bastava però a far sorgere il desiderio della Sposa, solo la presenza dello Sposo
poteva compiere tale anelito 6. L’interpretazione anagogica (ἡ κατὰ ἀναγωγὴν θεωρία: IC 144,
18) permette di vedere nelle inferriate e nella parete i precetti della Legge antica, che vennero
meno solo quando il Verbo si mescolò con l’umana natura (il termine usato, συνανάκρασις,
insieme al termine semplice ἀνάκρασις, in Gregorio «indica specificamente l’incarnazione di
Cristo»7).
Come si ritrova nell’omelia De tridui spatio8, la Legge ha come scopo precipuo la
purificazione dell’uomo, attraverso i molteplici precetti, dal male che si è insinuato nella sua
natura. Questa la ragione, spiega il Nisseno, delle pratiche rituali e dei sacrifici, da cui viene
insegnato (διδάσκεται: TS 296, 2; διδασκόµεθα: TS 296, 18), pur nell’oscurità di ciò che non è
ancora pervenuto a chiarezza (αἰνιγµατωδῶς: TS 295, 19), ciò che rende la vita davvero
monda. Questo vale per l’Antica Alleanza nel suo complesso: nel De vita Moysis il Nisseno
non manca infatti di sottolineare come la narrazione di ciò che è accaduto nella storia della
salvezza prima della nascita di Cristo conduca mediante la sua guida (ὑφηγεῖται: VM II 273,
7) agli eventi del Nuovo Testamento, che hanno compiuto le promesse antiche9 : questo, ad
esempio, avviene nella discussione che il Cappadoce propone del simbolo del serpente
5
Cf. IC 148, 7-20: ταῦτα τοίνυν ἀκούει τοῦ λόγου ἡ ἐκκλησία διὰ τῶν προφη τικῶν θυρίδων καὶ τῶν νοµικῶν
δικτύων δεχοµένη τὴν τῆς ἀληθείας αὐγὴν ἔτι συνεστῶτος τοῦ τυπικοῦ τῆς διδασκαλίας τοίχου, τοῦ νόµου λέγω,
τοῦ τὴν σκιὰν ποιοῦντος τῶν µελλόντων ἀγαθῶν, οὐκ αὐτὴν τὴν εἰκόνα τῶν πραγµάτων δεικνύοντος, οὗ κατόπιν
ἵσταται ἡ ἀλήθεια ἐχοµένη τοῦ τύπου πρῶτον µὲν διὰ τῶν προφητῶν ἐναυγάζουσα τῇ ἐκκλησίᾳ τὸν λόγον, µέτα
ταῦτα δὲ τῇ φανερώσει τοῦ εὐαγγελίου πᾶσαν τοῦ τύπου τὴν σκιοειδῆ φαντασίαν ἐξαναλίσκουσα, δι' ἧς
καθαιρεῖται µὲν τὸ µεσότοιχον, συνά πτεται δὲ ὁ ἐν τῷ οἴκῳ ἀὴρ πρὸς τὸ αἴθριον φῶς, ὡς µηκέτι διὰ τῶν
θυρίδων χρείαν ἔχειν περιαυγάζεσθαι αὐτοῦ τοῦ ἀληθινοῦ φωτὸς διὰ τῶν εὐαγγελικῶν ἀκτίνων τὰ ἔνδον πάντα
καταφωτίζοντος. Il testo interpretato è Cant 2, 9b, nel quale lo Sposo guarda la Sposa dietro una parete, chiusa
da delle inferriate.
6 Nel testo il desiderio della Sposa è acuito anche dalla descrizione che lo Sposo fa della primavera, τύπος della
condizione pura dell’anima uscita dal gelo del peccato. Tale ἔκφρασις (cf. IC 146, 4-147, 1 e IC 151, 6-152, 16),
come poi la successiva dell’inverno (cf. IC 152, 16-153, 9), è un vero e proprio gioiello incastonato nel testo
delle Omelie In Canticum; l’esegeta tuttavia avverte che le splendide descrizioni non devono confondere il
pensiero, bensì guidarlo (ὁδηγεῖν: IC 147, 3) ai misteri che si rivelano attraverso quelle parole (cf. IC 147. 1-5).
7 MORESCHINI 1997, p. 132, n. 32. L’espressione del Nisseno suona (IC 145, 8-9): διὰ τῆς πρὸς τὴν φύσιν ἡµῶν
συνανακράσεως. Cf. anche PIETRELLA 2009, p. 137, n. 180. Il termine può anche presentarsi nel semplice
ἀνάκρασις. MORESCHINI 1992, p. 582 n. 34, annota anche che il termine σύγκρασις, che indica nel Nisseno e nel
Nazianzeno l’unione delle due nature in Cristo, fu «respinto dal Concilio di Calcedonia, che vide in esso la
parola-chiave dei monofisiti»; il linguaggio dei Cappadoci vuole tuttavia «soltanto indicare la inseparabile
unione delle due nature in Cristo, anche se, per entrambi, la natura divina prevale su quella umana. Essi non
intendono certo dire che la natura più debole si dissolve, si annulla, ma soltanto che è lungi dall’aver lo stesso
peso e lo stesso rilievo dell’altra»; CE II 133, 2 e AdT 126, 17-21 propongono una efficace immagine di questo
concetto, mostrando come l’umanità accolta nella divinità potrebbe essere rappresentata da una goccia di aceto
che fosse stata versata nel mare.
8 Cf. TS 295, 11-21.
9 Tale tema, detto della rivelazione progressiva, fu elaborato soprattutto da Ireneo e da Origene in risposta allo
gnosticismo, per dimostrare la continuità tra Antico e Nuovo Testamento e la superiorità di quest’ultimo, che
porta a compimento le promesse antiche. Cf. SIMONETTI 1984, p. 307.
154
innalzato da Mosè nel deserto, che prefigurerebbe il mistero della passione e della croce10.
Anche all’inizio dell’omelia De tridui spatio 11 il Nisseno ribadisce come i brani dei profeti
istruirono (προεδιδάχθης: TS 275, 20) l’uomo prima che le figure che attraverso essi si
mostravano giungessero alla loro rivelazione.
Come Gregorio scrive nell’In Canticum, nella vera luce quello che prima era solo
desiderato trova il suo compimento, diventando fatto (τὸ ποθούµενον εἰς ἔργον προέρχεται:
IC 145, 13); in essa si fa l’esperienza della verità delle cose, in unità profonda con il loro
τύπος 12, senza però l’apparenza (τὴν σκιοειδῆ φαντασίαν: IC 148, 15) che contraddistingue
quest’ultimo. L’insegnamento precedente, che era solo ombra del loro vero essere (τῆς
σκιοειδοῦς διδασκαλίας: IC 161, 12), viene meno di fronte all’annuncio evangelico, che ha
svelato gli enigmi nascosti dei comandamenti (τὰ κεκαλυµµένα τῶν προσταγµάτων
αἰνίγµατα: IC 161, 14). Nella seconda omelia In Ecclesiasten13 il Logos insegna (διδάσκων:
IE 299, 20) il mistero della salvezza mostrando la causa della sua discesa dai cieli: rendere
possibile la ricerca, come poi scrive anche Eccl 1, 13, di tutto ciò che pertiene al cielo, luogo
della perfezione di Dio, per capire come tutto sia diventato vanità a causa del male scelto
dall’uomo e applicarvi la cura adeguata. Icasticamente scrive Völker14 che in Gregorio
«l’incarnazione è [...] la premessa basilare per tutta la dottrina della perfezione»15.
Come si legge in un passo del De instituto16, l’uomo deve rendere l’economia di Dio 17, il
suo progetto salvifico, legge e strada (νόµον καὶ ὁδόν: DI 64, 17) della sua vita.
L’accostamento dei termini è significativo: se l’Alleanza antica proponeva infatti solo una
10
Cf. Num 21, 4-9, riletto in VM I 67-68 e commentato in VM II 271-277.
Il Nisseno cita Isaia, Geremia e Giona: cf. per tutto il passo TS 275, 18-277, 9.
12 Cf. IC 148, 12-13: ἡ ἀλήθεια ἐχοµένη τοῦ τύπου. L’idea secondo cui la verità rispecchi una condizione di
strettissimo legame (adombrato dalla costruzione di ἔχοµαι con il genitivo) tra l’immagine che rimanda a una
realtà oltremondana (il τύπος) e quella realtà stessa, unità tra terra e cielo, affonda le sue radici nella dottrina
dell’incarnazione. Questa idea era già stata espressa nelle omelie In Canticum dal Nisseno anche per descrivere
la condizione dell’uomo dopo la resurrezione dei corpi: essa sarà una profonda unità del pensiero (ἓν … ἔσται τὸ
φρόνηµα: 30, 17-18) in cui tutti i sentimenti saranno portati al loro compimento e non rovineranno o
contamineranno con lotte intestine la nuova condizione dell’uomo (cf. IC 30, 8-20).
13 Cf. IE 299, 20-301, 2.
14 VÖLKER 1955, p. 205.
15 Cf. anche VÖLKER 1955, p. 61: «L’incarnazione ha un ruolo [...] predominante in Gregorio», fatto che «si vede
inoltre dal ruolo limitato che per il Nisseno ha avuto la morte di Cristo. Egli l’ha ovviamente ricordata, ma il
numero dei passi che la riguardano rimane minimo, e inoltre essa appare quasi un doppione rispetto
all’incarnazione, ed una premessa per la resurrezione» (VÖLKER 1955, p. 64). Sulla dottrina dell’incarnazione
del Nisseno, anche se precedente alla polemica con Apollodoro di Laodicea, cf. CORBELLINI 2003, passim; Sulla
«place centrale que Grégoire accore à l’incarnation dans l’histoire du salut» (BOUCHET 1968, p. 618) cf. anche
BOUCHET 1968 passim.
16 Cf. DI 64, 15-19: ὃν δεῖ µετ' εὐφροσύνης καὶ ἀγαθῆς ἐλπίδος βαστάζοντας ἀκολουθεῖν τῷ σωτῆρι θεῷ, νόµον
καὶ ὁδὸν τοῦ βίου τὴν ἐκείνου ποιουµένους οἰκονοµίαν, καθὼς εἶπεν αὐτὸς ὁ ἀπόστολος· Μιµηταί µου γίνεσθε
καθὼς κἀγὼ Χριστοῦ.
17 Per una spiegazione del termine cf. MORESCHINI 1992, p. 132 n. 35: «Il termine ‘economia’ è di uso assai
antico nel cristianesimo primitivo, in quanto risale fino ai primi tempi della riflessione sul piano salvifico di Dio.
In ambito strettamente teologico e soteriologico, esso indica la disposizione […] degli avvenimenti umani e
divini insieme, per mezzo dei quali Dio è riuscito a salvare l’uomo che si era corrotto in seguito al peccato
originale».
155
11
serie di norme da rispettare, la venuta di Cristo ha portato all’uomo una strada, che consiste
nella stretta sequela del Dio salvatore (ἀκολουθεῖν τῷ σωτῆρι θεῷ: DI 64, 16-17); non più
dunque solo un cambiamento a livello etico, ma una conversione della stessa essenza della
vita.
Il mistero della verità era infatti già presente nell’Alleanza, ma doveva essere portato a
compimento attraverso l’insegnamento che manifesta la Buona Novella (τὸ τῆς ἀληθείας
µυστήριον τὸ διὰ τῆς εὐαγγελικῆς διδασκαλίας ἐπιτελούµενον: IC 267, 7-8), rendendo la
verità una esperienza visibile (τῇ φανερώσει τῆς ἀληθείας: IC 267, 10). Questa stessa
convinzione è riscontrabile anche nelle immagini del baluardo e della pietra, interpretate
rispettivamente come la Legge e il Vangelo: il primo si trova presso il secondo, vicini come
efficacia18. La pietra è però spirituale, mentre il baluardo è terreno (πνευµατικὴ µὲν ἡ πέτρα,
χοϊκὸς δὲ ὁ τοῖχος: IC 162, 14-15) e presenta elementi terrestri e corporei (τὸ σωµατικὸν καὶ
γεῶδες: IC 162, 15). La precisazione di Gregorio non propone di allontanarsi dalla realtà del
mondo: già in precedenza infatti notava come ciascuno dovesse guardarsi dall’essere carnale,
rivolgendo il proprio sguardo solo al mondo, ma anche psichico, disprezzando la saggezza
divina (οὐ ψυχικὸς οὐδὲ σαρκικός: IC 106, 1). L’uomo nuovo è invece un uomo spirituale
(ὅλος δι' ὅλου πνευµατικός: IC 105, 21), che compie il suo desiderio nel vedere Dio nella
carne (ἐν ἐπιθυµίᾳ … τῆς διὰ σαρκὸς θεοφανείας: IC 164, 5-6). Anche nel De vita Moysis 19
Gregorio approfondisce l’immagine della roccia, che arriverà ancora ad identificare con
Cristo; il Nisseno è qui sollecitato dal luogo in cui Dio promette che il legislatore sarà salvo
mentre passerà nella sua gloria, prima di permettergli di vedere le sue spalle (Exod 33, 20-23).
Il racconto ispirato, adattandosi in questo alle capacità di comprensione dell’uomo, che
esercita la propria ragione solo su ciò che può vedere e toccare, e portandolo per mano
(χειραγωγεῖ: VM II 242, 5), descriverebbe così un luogo concreto per indicare l’infinito e
l’illimitato. In questo caso il simbolo alluderebbe anche al luogo preparato da Dio per coloro
che, avendo perseverato, si sono meritati la corona di giustizia, immobile su quella roccia
nella sua corsa alla perfezione.
La conduzione da parte di Giosuè dell’esercito degli Israeliti contro gli Amaleciti è per
Gregorio una nuova figura del compimento da parte di Gesù della Legge: Mosè infatti, il
νοµοθέτης, non è in grado di combattere nelle vere battaglie, che devono essere guidate da un
uomo che in ebraico e in greco porta lo stesso nome di Cristo20. Anche la postura che il
legislatore è interpretata dal Nisseno nello stesso senso21: per consentire la vittoria del popolo,
18
Cf. IC 161, 18-162, 15.
Cf. VM II 219-255, in particolare II 220; 240-251.
20 Cf. Exod 17. 8-16, raccontato in VM I 39-40 e commentato in VM II 147-151.
21 Cf. Exod 17. 11-12, raccontato in VM I 40 e commentato in VM II 149-151.
156
19
Mosè deve tenere le braccia alzate; se le rivolge a terra, l’esercito cede. Il Nisseno vede nelle
braccia di Mosè rivolte verso l’alto una figura dell’interpretazione spirituale della Legge,
quella che avvenne all’avvento del Cristo, mentre il contrario ne rappresenterebbe la lettura
carnale, terrena, secondo la lettera. Il sacerdote che aiuta Mosè sarebbe dunque anticipazione
del vero sacerdozio della Chiesa che risolleva la Legge e la ancora alla vera roccia. La stessa
figura del legislatore che apre e solleva le braccia rimanda in modo evidente, secondo
Gregorio e gli autori che segue, al mistero della croce. Il loro legame sarebbe da imputare alle
parole dello stesso Gesù che, nel dire che né uno iota né una virgola della Legge sarebbero
passate, avrebbe indicato il legno su cui sarebbe morto, il cui segno verrebbe dall’intersecarsi
degli altri due22 . Mosè, figura della Legge, diventa quindi anticipazione dello stesso Cristo.
Già l’Antica Alleanza in un certo qual modo rendeva presente la divinità: le parole del
Cantico, ad esempio, secondo Gregorio racchiudono esse stesse un affettuoso voler bene, una
mutua offerta di sé nella disposizione d’amore, come accade nel matrimonio. Quelle parole
dunque incarnano il loro significato23. Da quando tuttavia ὁ λόγος σάρξ ἐγένετο (Ioh 1, 14)
una vera esperienza di Dio non può prescindere dal suo φαίνεσθαι, dal suo apparire
fenomenico cui il Vangelo introduce. «Nell’unione con la natura umana» infatti «il Cristo si fa
autentico mediatore tra Dio e l’uomo» 24.
Una ripresa significativa del tema dell’incarnazione è presente in un passo dell’omelia IV
dell’In Canticum 25. In esso si commenta il versetto di Cant 1, 5, nel quale si loda la bellezza
della Sposa e se ne paragonano gli occhi a delle colombe; l’esegeta come già poco sopra si
ricordava, rimarca che l’uomo riceve la forma di ciò in cui si fissa lo sguardo: per ritornare
bella, deve dunque appressarsi alla fonte della bellezza, purificando la propria natura caduta.
Il segno che, secondo l’esegeta, mostra un mutamento nell’essenza della Sposa è proprio la
lode degli occhi, che riflettono l’immagine della colomba e ne prendono per questo la forma.
La colomba, secondo una facile analogia, è figura della vita spirituale e dello Spirito Santo.
Tale mutamento è condizione necessaria attraverso cui la Sposa può guardare il suo amato:
come si legge in 1Cor 12, 3, solo lo Spirito permette di rivolgere lo sguardo verso Cristo.
Partendo dalle immagini belle i suoi occhi ormai puri hanno ormai visto il bello in sé e questo
ha mutato il metro di giudizio (ἡ τοῦ καλοῦ κρίσις: IC 106, 14) dell’anima; tale cambiamento
22
Cf. Matth 5, 18 e VM II 151.
Cf. IC 264, 2-6: σῴζεται δέ πως ἐν τοῖς λεγοµένοις ὡς ἐν γαµικῇ θυµηδίᾳ ἡ ἀγαπητικὴ φιλοφροσύνη δι'
ἀµοιβῆς παρ' ἀµφοτέρων ἀλλήλοις τὴν ἐρωτικὴν ἀντιχαριζοµένων διάθεσιν.
24 TARANTO 2009, p. 502. Ibidem lo studioso aveva appena mostrato come l’unione tra il divino e l’umano di cui
parla Gregorio è «pur sempre un’unione distinta»: l’opera salvifica dipende dal Logos, mentre al corpo viene
relegata la sola «attuazione attraverso la dimensione sensibile». Secondo tale lettura, «l’umanità è, perciò,
assunta al solo fine di essere sanata e nessun ruolo attivo pare avere ai fini del risanamento della propria natura:
di conseguenza non emerge alcuna capacità positiva della natura sensibile-intellegibile, la quale, dopo il peccato,
è di per se stessa capace solo per il male».
25 Cf. IC 101,16-112, 21.
157
23
tuttavia non sarebbe stato possibile senza il progetto salvifico di Dio (τῇ οἰκονοµίᾳ: IC 107,
10), per il quale lo Sposo stesso si è presentato alla natura umana «ombreggiato», «in un
letto» (πρὸς κλίνῃ ἡµῶν σύσκιος: Cant 1, 16). Nessuno può infatti vedere il volto di Dio e
vivere, secondo un passo dell’Esodo (Exod 33, 20) ricordato dall’esegeta; ombreggiando con
il corpo i raggi della natura divina, Cristo si è invece fatto tale che l’uomo lo accogliesse26
come capacità intellettuale e affettiva, secondo le possibili valenze del verbo δέχοµαι. Il letto
invece indica la mescolanza tra la natura divina e quella umana (τὴν πρὸς τὸ θεῖον ἀνάκρασιν
τῆς ἀνθρωπίνης φύσεως: IC 108, 11-12) avvenuta attraverso l’incarnazione.
Un ulteriore riferimento all’incarnazione, al suo valore salvifico e alla durezza del cuore
degli uomini è presente in modo significativo anche nel De vita Moysis 27: il riferimento è
all’episodio in cui, a seguito dell’idolatria degli Israeliti, Mosè ruppe le disposizioni di Dio
incise in un materiale creato da Egli stesso e fu costretto a sostituirle con tavole di materiale
terreno. Il Nisseno a tal proposito commenta che, guidati (ὁδηγηθέντας: VM II 215, 1) da
simili concetti, ci si può inoltrare nella comprensione della provvidenza divina: Paolo, come
si legge in 2Cor 3, 3, scrive che la nuova alleanza è scritta non su tavole di pietra, ma di carne,
e Gregorio propone di leggere in questo passo un riferimento ai cuori, entro cui fu scritta la
Legge durante la creazione dei protoplasti. Costoro tuttavia, come gli Israeliti, irretiti dal
suono del peccato, che nel racconto della Genesi fu il sibilo del serpente, mentre nell’Esodo
per Mosè fu il canto di chi si aggirava ubriaco per l’accampamento, ruppero l’alleanza con la
divinità e le tavole, gettate a terra, si ruppero. Il nuovo legislatore, di cui Mosè fu
prefigurazione, prese però per sé la nostra terra e se ne rivestì con la propria potenza,
conferendo in questo modo all’umanità una nuova infrangibilità, che si attua grazie la potenza
dello Spirito.
Come si è già visto, la conoscenza secondo Gregorio avviene solo a partire da ciò che si
presenta all’uomo attraverso i suoi sensi. Benché i beni dei misteri superino la sensazione e la
conoscenza umana, non è possibile prescindere da queste per trascenderle; per questo, «la
pedagogia del Verbo di Dio, a cui sottende la logica dell’Incarnazione, fa uso di strumenti
umani nella comunicazione del divino» 28, come possono essere nomi a noi conosciuti,
presenti nella consuetudine (συνήθεια: DB 91, 3) della vita umana, a cui occorre però riferire
l’interpretazione spirituale. Fedele a queste premesse, nelle sue opere Gregorio non manca di
commentare gli attributi di Cristo attraverso le denominazioni analogiche che gli sono
26
Cf. IC 108, 5-7ἦλθες τοίνυν ὁ ὡραῖος, ἀλλ' ὡς χωροῦµεν δέξασθαι τοιοῦτος γενόµενος· ἦλθες τὰς τῆς
θεότητος ἀκτῖνας τῇ περιβολῇ συσκιάσας τοῦ σώµατος.
27 Cf. VM II 214-216.
28 Cf. PENATI 1992, p. 47 n.4 in riferimento a DB 90, 19-91, 3.
158
conferite nelle Scritture; in questa sede se ne ricorderanno solo alcuni più legati ad un
contesto paideutico.
Cristo innanzitutto ricapitola in sé l’aspetto di maestro e guida: rivolgendosi infatti allo
Sposo, che nel testo ispirato è paragonato ad un pastore29 e rende in questo modo facile e
immediato all’esegeta il riferimento a Cristo buon pastore, l’anima vuole conoscere dove
questi diriga le sue pecore; Gregorio fa precedere il discorso della Sposa dall’imperativo
δίδαξον (IC 62, 1), perché quella del buon pastore è una ἀγαθὴ χειραγωγία (IC 62, 20), una
guida per mano da cui l’anima non vuole deviare.
Cristo, buon pastore, è anche il buon coltivatore; tale metafora ha anch’essa un riferimento
all’educazione. Gregorio affronta il tema durante l’esegesi di Cant 6, 230, approfondendo
l’immagine presentata dal testo sacro secondo cui lo Sposo scenderebbe nel suo giardino per
pascolare e cogliere gigli. La discesa nel giardino di tale γεωργός è secondo Gregorio chiaro
riferimento all’incarnazione divina (ὁ ἐν σαρκὶ φανερωθεὶς θεός: IC 436, 6) che si riappropria
della sua coltivazione, incanalando attraverso la sua parola la sorgente dell’insegnamento (τὴν
καθαρὰν καὶ θείαν τῆς διδασκαλίας πηγὴν: IC 437, 6-7). Il testo ispirato permette una
sovrapposizione con la figura del pastore: le pecore diventano naturalmente figura della
Chiesa e sono nutrite dai gigli, immagine di ogni cosa buona, vera e santa, secondo ciò che il
pastore stesso offre attraverso le parole di Paolo (διὰ τοῦ µεγάλου Παύλου τοῖς προβάτοις
προτίθησι: IC 438, 16). Il buon pastore diventa quindi il maestro che nutre con i suoi
insegnamenti il suo gregge (διατρέφεται παρὰ τοῦ καλοῦ ποιµένος τε καὶ διδασκάλου τὰ
ποίµνια: IC 439, 1-2). Nutrirsi di qualcosa, come si dirà più avanti nel commento, rende
infatti possibile l’appropriarsi della natura di ciò di cui ci si è nutriti31 ; tale idea sottende
anche l’identificazione di Cristo e dei frutti del melo dell’omelia IV32 . Il Nisseno aveva già
paragonato la condizione umana a quella di una vigna che la Sposa non seppe custodire33; in
essa fecero la loro tana le bestie selvatiche e le fiere, che la devastarono. Fu dunque
necessario che Dio stesso scendesse nella sua coltivazione, facendosi melo e innestando in sé
i germogli di tutti gli alberi, rendendoli così parte della nuova creazione, che nell’immagine
gregoriana è detta giardino. Egli infatti, come si legge nel commento del De perfectione, per
riscattare il genere umano si rese guida, creò una strada (ὁδοποιἠσῃ: DPe 202, 2) alla
risurrezione, ricapitolando in sé ogni cosa34. Condotta dunque dal suo desiderio35, l’anima si
29
Cf. Cant 1, 7.
Cf. IC 436, 1-439, 2.
31 Cf. IC 441, 10-11: τῷ γὰρ εἴδει τῆς τροφῆς συνδιατίθεται πάντως καὶ τὸ τρεφόµενον.
32 Cf. IC 116, 16-126, 3.
33 Cf. Cant 1, 6.
34 Sul motivo del quod non assumptum non sanatum, che prende le mosse da Origene ed è particolarmente caro
ai Cappadoci, cf. PIETRELLA 2009, p. 137, n. 181, dove si può trovare anche una rassegna della bibliografia
pertinente al tema.
35 Cf. IC 119, 5-6: σοι ἡ ἐπιθυµητικὴ δύναµις ἔγκειται, ἵνα σοι πόθον ἐµποιήσῃ τοῦ µήλου.
159
30
ripara dal sole delle tentazioni che la aveva prima bruciata36 e addolcisce i suoi sensi gustando
del frutto dell’albero, che è figura, oltre che di Cristo stesso, anche del suo insegnamento
(καρπὸς δὲ ἡ διδασκαλία πάντως ἐστίν: IC 118, 12).
Elemento proprio della persona di Cristo è infine la piena facoltà del κρίνειν. All’inizio
dell’omelia VII dell’In Canticum l’esegeta propone un attento commento di tutte le
caratteristiche che rendono Salomone prefigurazione del Messia, per permettere di
comprendere e spiegare l’immagine di Cant 3, 9 della lettiga costruita da quel re con i legni
del Libano 37. Aspetto precipuo della persona del re di Israele è il fatto che giudica il popolo
rettamente (τὴν δικαίαν κρίσιν: IC 204, 1), e per questo può essere segno del vero giudice
(τὸν ἀληθινὸν κριτὴν: 204, 2), cui il Padre celeste ha consegnato ogni giudizio, che, secondo
Gregorio, viene esercitato soprattutto attraverso il vaglio critico di ciò che si ascolta38. Non
bisogna dimenticare infatti che nel De oratione dominica39 Gregorio vede nelle braccia che il
padre getta al collo del figliol prodigo il giogo della ragione (τὸν λογικὸν ζυγόν: OD 27, 14)
che il Vangelo avrebbe posto nuovamente sulle labbra dell’uomo.
La logica dell’incarnazione a cui l’anima è educata è decisiva a tal punto che Gregorio
arriva a sostenere che la conoscenza stessa degli angeli (dunque esseri che già contemplano
Dio in spirito) viene accresciuta da questo evento 40. Il Nisseno parla sulla scorta di Paolo,
menzionando esplicitamente la lettera agli Efesini. In questa l’apostolo si rallegra della grazia
che gli era stata concessa di portare l’annuncio ai gentili del mistero di Cristo, adempimento
della volontà nascosta del Padre sin dall’inizio del tempo, e rivela come la Chiesa renda
manifesta agli stessi Principati e Potestà nei cieli la multiforme sapienza di Dio (cf. Eph 3,
8-12). Nel corso dell’omelia VIII dell’In canticum il Nisseno attraverso questo testo spiega
l’altrimenti difficile ἐκαρδίωσας ἡµᾶς di Cant 4, 9. Prima dell’incarnazione, spiega l’esegeta,
le potenze celesti conoscevano infatti una sapienza di Dio uniforme e semplice, che operava
conformemente alla propria natura creatrice, somma bellezza e fonte del bello. L’οἰκονοµία di
Dio, che ha il suo punto decisivo nell’incarnazione e la sua continuazione nella Chiesa,
mostra invece la paradossale unione di contrari41 : il Verbo che si fa carne, la vita intrecciata
alla morte, la vita che nasce dalla morte, la giustizia dal peccato, la benedizione dalla
36
Cf. Cant 1, 5.
Cf. IC 201, 3-205-20.
38 Cf. IC 204, 1-12; Gregorio cita in questo passo a supporto Ioh 5, 22 e Ioh 5, 30.
39 Cf. OD 27, 11-20.
40 IC 254, 13-20: φησὶ γάρ που τῶν ἑαυτοῦ λόγων ἐκεῖνος πρὸς Ἐφεσίους γράφων, ὅτε τὴν µεγάλην οἰκονοµίαν
τῆς διὰ σαρκὸς γεγενηµένης θεοφανείας ἡµῖν διηγήσατο, ὅτι οὐ µόνον ἡ ἀνθρωπίνη φύσις ἐπαιδεύθη τὰ θεῖα διὰ
τῆς χάριτος ταύτης µυστήρια, ἀλλὰ καὶ ταῖς ἀρχαῖς καὶ ταῖς ἐξουσίαις ἐν τοῖς ἐπουρανίοις ἐγνωρίσθη ἡ
πολυποίκιλος σοφία τοῦ θεοῦ διὰ τῆς κατὰ Χριστὸν ἐν τοῖς ἀνθρώποις οἰκονοµίας φανερωθεῖσα.
41 IC 255, 17-19: τὸ δὲ ποικίλον τοῦτο τῆς σοφίας εἶδος τὸ ἐκ τῆς πρὸς τὰ ἐναντία διαπλοκῆς συνιστάµενον νῦν
διὰ τῆς ἐκκλησίας σαφῶς ἐδιδάχθησαν.
160
37
maledizione e la gloria dal disonore42 . Il mistero diventa così un altro carattere della divina
sapienza (ἄλλον χαρακτῆρα τῆς θείας σοφίας ἐν τῷ µυστηρίῳ κατανοήσαντες: IC 256, 8-9),
fatto che gli amici dello sposo, cioè gli spiriti ministri, imparano dalla Chiesa (διὰ τῆς
ἐκκλησίας οἱ φίλοι τοῦ νυµφίου µαθόντες: IC 256, 7). Un andamento simile del discorso era
presente anche nell’omelia XI, nella quale Gregorio si sofferma ancora ad osservare come per
l’anima ogni esperienza di Dio sia legata alla sua azione nel mondo: pur purificata dalla
grossolanità della vita terrena, per sua natura l’anima può solo volgersi verso la natura
intellettuale, di cui è consanguinea; non può tuttavia comprenderla. La stessa esperienza di
Dio è legata all’attività di questi, alla sua forza creatrice che si dispiega per il creato e unica
entra nell’orizzonte dell’uomo, provocandogli ammirazione e venerazione43 . Ma nessuna
meraviglia, commenta poi l’autore, supera quella destata dall’incarnazione44 , lo stesso
paradosso che aveva consentito agli angeli di conoscere maggiormente la natura del loro
creatore.
Gregorio porta questo pensiero fino alle sue estreme conseguenze, cui l’autore accenna
quasi con riverenza: attraverso la bellezza della Sposa, la Chiesa, può essere vista la bellezza
dello Sposo, Cristo. È questo il compimento della dinamica dello specchio cui si era già
accennato: secondo una facile analogia, come il disco del sole non può essere visto
direttamente ma solo se riflesso nell’acqua, così persino gli angeli guardano l’aspetto di Dio
attraverso lo specchio del suo corpo, la Chiesa45 . Colui che dovrebbe poter essere contemplato
solo attraverso il νοῦς mostra invece una manifestazione fenomenica che non è possibile
eludere in alcun modo (τὸν διὰ τοῦ φαινοµένου κατανοούµενον: IC 257, 4-5): nell’omelia
XIII dell’In canticum Gregorio interpreta infatti le parole del Cantico, che presenta le
caratteristiche dello Sposo attraverso la descrizione della Sposa alle giovani di Gerusalemme,
come una descrizione del Cristo uomo, alla luce del suo corpo mistico. Secondo la logica
dell’incarnazione, solo attraverso la Chiesa il mondo può conoscere gli aspetti della natura
invisibile della divinità46 .
42
Per tutto il passo, cf. IC 255, 4-256, 5.
Cf. per tutto il passo IC 333, 13-337, 21; in particolare, si richiama l’attenzione su IC 334, 5-9: πάντας δὲ
λογισµοὺς καὶ πᾶσαν ἐρευνητικὴν νοη µάτων δύναµιν ἀνακινοῦσα καὶ περιεργαζοµένη καταλαβεῖν τὸ
ζητούµενον ὅρον ποιεῖται τῆς καταλήψεως τοῦ θεοῦ τὴν ἐνέργειαν µόνην τὴν µέχρις ἡµῶν κατιοῦσαν, ἧς διὰ τῆς
ζωῆς ἡµῶν αἰσθανόµεθα.
44 Cf. IC 338, 1-339, 4.
45 Cf. IC 256, 7-257, 5.
46 Cf. per tutto il passo IC 379, 1-390, 8, che interpreta Cant 5, 10-16.
161
43
III. 2 Gli apostoli
Come si legge nell’In Canticum, se le realtà invisibili si svelano a partire dai particolari
visibili infatti rivelatisi nell’economia della salvezza47 , esse mostrano un uomo nuovo,
l’essere rinnovato attraverso la generazione dall’alto48; questa nuova creazione (καινὴ κτίσις:
IC 385, 14) coincide con la costituzione della Chiesa (κόσµου γὰρ κτίσις ἐστὶν ἡ τῆς
ἐκκλησίας κατασκευή: IC 384, 21). Funzione di essa, come ricorda Gregorio sulla scorta di
Eph 4, 11-1349, è l’educazione e la perfezione dei santi (πρὸς τὸν καταρτισµὸν τῶν ἁγίων: IC
382, 16), cioè di coloro che sono stati salvati nell’appartenenza ad essa. Chi guarda infatti il
mondo sensibile e ne considera la bellezza e la sapienza che da essa traspare, per analogia
trova caratteristiche dell’artefice di tutto questo; allo stesso modo chi guarda alla nuova
creatura guida la propria conoscenza (χειραγωγῶν: IC 386, 8) alle realtà incomprensibili
attraverso ciò che può comprendere50.
Come si legge nell’In Canticum 51, la Chiesa opera attraverso la diversità dei carismi e delle
funzioni suscitate dallo Spirito, tra le quali si ritrova anche la funzione educativa dei maestri e
dei pastori. Il principio didascalico (ἀρχὴν … τῆς διδασκαλίας: IC 386, 18) che essa propone
parte da una istruzione che ha di mira naturalmente soprattutto l’aspetto religioso, e che
prende la mosse da ciò che è corpo (ἐκ γὰρ τοῦ σώµατος τῆς κατηχήσεως ἄρχεται: IC 386,
19): anche Matteo infatti, scrive Gregorio, sceglie di porre in incipit al suo Vangelo la
genealogia di Cristo, mistero che fu rivelato poi nella sua profondità da Giovanni52 . Sottolinea
l’importanza del corpo anche il prosieguo del discorso, che si sposta su argomenti di
mariologia. Il corpo implica infatti una nascita carnale: il Nisseno si profonde per questo in
spiegazioni e lodi dell’assoluta novità di un concepimento cui la natura umana non cooperò
ma fu strumento.
Per il cammino mistico che la Sposa propone (µυσταγωγεῖν: IC 387, 2) occorre dunque per
prima cosa che la coscienza afferri ciò che fu visto grazie alla fede53 , vale a dire che riceva ciò
che esperirono e toccarono coloro ai quali per primi fu concesso come dono riconoscere il
47
Cf. IC 384, 13-20.
Cf. IC 384, 21-385, 22.
49 Cf. IC 382, 12-20. Il testo di Eph 4, 11-13 è il seguente: 11καὶ αὐτὸς ἔδωκεν τοὺς µὲν ἀποστόλους, τοὺς δὲ
προφήτας, τοὺς δὲ εὐαγγελιστάς, τοὺς δὲ ποιµένας καὶ διδασκάλους, 12πρὸς τὸν καταρτισµὸν τῶν ἁγίων εἰς
ἔργον διακονίας, εἰς οἰκοδοµὴν τοῦ σώµατος τοῦ Χριστοῦ, 13µέχρι καταντήσωµεν οἱ πάντες εἰς τὴν ἑνότητα τῆς
πίστεως καὶ τῆς ἐπιγνώσεως τοῦ υἱοῦ τοῦ θεοῦ, εἰς ἄνδρα τέλειον, εἰς µέτρον ἡλικίας τοῦ πληρώµατος τοῦ
Χριστοῦ.
50 Cf. IC 386, 4-9: οὕτω καὶ ὁ πρὸς τὸν καινὸν τοῦτον κόσµον τῆς κατὰ τὴν ἐκκλησίαν κτίσεως βλέπων ὁρᾷ ἐν
αὐτῷ τὸν πάντα ἐν πᾶσιν ὄντα τε καὶ γινόµενον διὰ τῶν χωρητῶν τε καὶ καταλαµβανοµένων ὑπὸ τῆς φύσεως
ἡµῶν χειραγωγῶν τὴν γνῶσιν πρὸς τὸ ἀχώρητον.
51 Cf. IC 387, 13-390, 8.
52 Cf. Matth 1, 2-17, commentato in IC 386, 20-387, 1.
53 Cf. IC 387, 4: ἡ διάνοια πρὶν τοῦ ὀφθέντος διὰ τῆς πίστεως.
162
48
Messia e che da lui ebbero l’autorità di operare in suo nome. A tal proposito nell’omelia In
Sanctum Pascha54 il Nisseno cita come prova della potenza di Dio, capace di resuscitare
anche i morti, l’episodio di Lazzaro e del figlio della vedova di Nain; Gregorio quindi ricorda
come gli apostoli, i Dodici e tutti gli inviati di Cristo55, ricevettero lo stesso potere.
Commentando il passo di difficile comprensione in cui il Cantico paragona lo sposo ad un
cerbiatto e una gazzella (Cant 2, 9a) il Nisseno ricorda vari passi del Vangelo in cui Cristo
calpestò le montagne e i colli, vale a dire cioè le potenze demoniache schierate contro la
natura umana. I riferimenti sono brevissimi, in quanto l’esegeta si rivolgeva a degli ascoltatori
perfettamente in grado di comprenderli; l’unico punto che viene approfondito non riguarda
Cristo, colui che fu cerbiatto tra i cervi (ὁ νεβρὸς τῶν ἐλάφων: 143, 6), quindi primizia di una
nuova stirpe, secondo il dettato paolino56 , bensì i suoi µαθηταί, ai quali - per continuare
l’immagine - il cerbiatto concede di rivestire la natura dei cervi e di far parte quindi del suo
stesso essere57 . I discepoli sono quindi chiamati alle stesse opere del maestro e, attraverso
queste, a far vedere la grandezza di coloro che si sono levati in alto secondo virtù58 . Tutto il
passo dipende molto da vicino dal commento alla stessa opera di Origene, ma in questo punto
la prospettiva è diversa: se infatti l’Alessandrino poneva l’accento sulla Scrittura,
interpretando i monti della casa di Dio come i libri ispirati, il Nisseno rimarca piuttosto un
aspetto della Chiesa legato agli uomini che la compongono59.
Tale idea è presente anche in incipit dell’ultima omelia dell’In Canticum60; in essa
Gregorio ripercorre i primi incontri del Vangelo sottolineando come la dinamica umana che lì
viene descritta (cf. Ioh 1, 29-51) sia la stessa di quella che la sua esegesi riscontra rispetto alle
parole che la Sposa, ἡ διδάσκαλος, pronuncia alle giovinette. L’ἱστορία del Vangelo nota
infatti come il mistero (τὸ µυστήριον: IC 431, 7; 432, 12; 433, 3.9) che in quel momento si
stava rivelando si comunicava attraverso l’indicazione di un maestro o di un amico: Giovanni
Battista mostrò (ὑποδείξαντος: IC 431, 5) l’Agnello di Dio ad Andrea; questi, avendo saputo
54
Cf. SP 257, 14-16.
SIMONETTI 1984, p. 302, commentando VM II 133, laddove si interpretano le dodici fonti e le settanta palme
come gli apostoli e coloro che furono mandati da Cristo quando egli ancora predicava (cf. Luc 10, 1) osserva che
«Gregorio definisce apostoli non solo i dodici, ma anche i settanta missionari [...]: egli riprende l'antico uso che
dava al termine apóstolos il significato generico di inviato, missionario cristiano, prima di restringerlo a
significare soltanto i Dodici».
56 Gregorio sembra qui riecheggiare, per lo meno come intenzione, 1 Cor 15, 20 ss., dove Cristo è “primizia di
coloro che sono morti” (ἀπαρχὴ τῶν κεκοιµηµένων), colui che ha posto sotto i suoi piedi tutti i nemici, primo tra
tutti la morte.
57 IC 143, 7-8: ὁ καὶ τοὺς µαθητὰς εἰς τὴν τῶν ἐλάφων καταρτιζόµενος φύσιν. Il verbo usato, καταρτίζειν, vale
sia approntare, reintegrare che, in un significato più riflessivo, perfezionarsi; in esso dunque come eco si sente il
discorso, molto familiare a Gregorio, secondo cui la natura umana, ferita dal peccato, è reintegrata da Cristo
nella sua purezza originaria.
58 IC 143, 11-12: διὰ τούτων τὸ µέγεθος τῶν κατ' ἀρετὴν ὑψουµένων ἀναφανῆναι.
59 Come scrive SIMONETTI 1984, p. 301, «rispetto a Clemente e a Origene, Gregorio accentua di molto la
funzione della gerarchia ecclesiastica come mediatrice tra i fedeli e Dio, a testimonianza della separazione
sempre più netta che si veniva ormai stabilendo fra il corpo eletto dei sacerdoti e la massa dei fedeli».
60 Cf. IC 431, 1-434, 4.
163
55
dove abitasse, ne fece parte anche Simon Pietro, che ascoltò il fratello, credette alla venuta
dell’Agnello e divenne per questo perfetto nella fede; entrambi allargarono la grazia a Filippo,
che fu presentato a Gesù e così fu eletto seguace del Logos (ἀκόλουθος ἐχειροτονήθη τοῦ
λόγου: IC 432, 8) e fu reso, dice Gregorio, lampada che illuminò Natanaele. Filippo, a detta
dell’esegeta, solo per aver invitato l’amico a venire e vedere colui che gli stava annunciando
divenne guida per mezzo della grazia (ὁδηγὸς πρὸς τὴν χάριν: IC 433, 13-14) e gli permise di
lasciare l’ombra del fico, simbolo della Legge, che gli impediva di partecipare pienamente
alla luce.
La metafora della luce accompagna la figura degli apostoli61 : nella seconda omelia In
sanctum Stephanum62 si legge ad esempio di come Cristo giunse nel cosmo quasi come
forestiero per la salvezza del mondo e da lui fiorirono i frutti della Chiesa. Lui, vero testimone
della verità (ὁ µάρτυς τῆς ἀληθείας: SST II 97, 5), rifulse e con lui splendettero anche i
testimoni (µάρτυρες: SST II 97, 6) dell’economia della salvezza. I discepoli seguirono da
presso il maestro, viaggiando sulle orme del Signore, divenendo così, dopo Cristo, coloro che
lo portavano al mondo, dopo il sole coloro che portavano la luce a tutta la terra abitata.
Come i primi discepoli furono chiamati e guidati alla presenza del Logos (ὡδηγήθη;
φωταγωγηθεὶς: IC 434, 9), così è chiaro a coloro che sono stati ben istruiti (τοῖς
εὐµαθεστέροις ἀκροαταῖς: IC 434, 6) nella lettura del Cantico che alle anime giovinette
accade lo stesso 63: esse infatti sono istruite (διδαχθεῖσαι: IC 434, 20 e 435, 4) dalla Sposa nei
versetti precedenti sulle caratteristiche dell’amato64 . La maestra condurrà dunque le anime
verso Colui che cercano a somiglianza di Filippo65, che aveva mostrato a Natanaele l’uomo
Gesù: guida per le anime infatti è la carne del Verbo, attraverso cui solo possono imparare66.
Chi accetta di compiere questo cammino, in virtù della previa grazia dello Spirito, non rimane
uomo, ma modifica la propria natura, come insegna la Scrittura (παιδευσάτω ὁ λόγος: IC 29,
13) che successe ai discepoli. Cristo infatti attraverso le due domande poste a Cesarea di
Filippi67 distingue tra tutti gli uomini i propri µαθηταί, che furono purificati dall’incontro con
61
Sulla metafora della luce collegata ad apostoli e martiri, cf. Cap. VI.7.
Cf. SST II 97, 4-8: ἐπεδήµησε Χριστὸς τῷ κόσµῳ εἰς σωτηρίαν, καὶ µετ' αὐτὸν ἐβλάστησαν οἱ καρποὶ τῆς
ἐκκλησίας. ἔλαµψεν ὁ µάρτυς τῆς ἀληθείας, καὶ συνέλαµψαν οἱ µάρτυρες τῆς µεγάλης οἰκονοµίας.
ἠκολούθησαν οἱ µαθηταὶ τῷ διδασκάλῳ, τοῖς Κυριακοῖς ἴχνεσιν ὁδεύοντες· µετὰ Χριστὸν οἱ χριστοφόροι· µετὰ
τὸν ἥλιον τῆς δικαιοσύνης οἱ φωστῆρες τῆς οἰκουµένης.
63 Cf. IC 434, 8-14: ὡς γὰρ ὁ µὲν Ἀνδρέας τῇ φωνῇ τοῦ Ἰωάννου πρὸς τὸν ἀµνὸν ὡδηγήθη, ὁ δὲ Ναθαναὴλ
φωταγωγηθεὶς παρὰ τοῦ Φιλίππου καὶ τῆς περιεχούσης αὐτὸν τοῦ νόµου σκιᾶς ἔξω γενόµενος ἐν τῷ φωτὶ τῷ
ἀληθινῷ γίνεται, οὕτω καὶ αἱ νεάνιδες πρὸς τὴν εὕρεσιν τοῦ µηνυθέντος αὐταῖς ἀγαθοῦ καθηγεµόνι χρῶνται τῇ
τελειωθείσῃ διὰ τοῦ κάλλους ψυχῇ λέγουσαι πρὸς αὐτήν· … ἀκολούθως δὲ προσάγουσι τῇ διδασκάλῳ τὴν
πεῦσιν αἱ παρθένοι ψυχαί.
64 Cf. Cant. 5, 9-16 e relative esegesi.
65 Cf. IC 435, 8-10: καὶ ἡ διδάσκαλος καθ' ὁµοιότητα Φιλίππου τοῦ εἰπόντος· Ἔρχου καὶ ἴδε καθηγεῖται τῶν
παρθένων πρὸς τὴν τοῦ ζητουµένου κατάληψιν κτλ.
66 Cf. IC 435, 16-18: αὕτη µὲν οὖν ἡ σωµατικὴ τοῦ λόγου πρὸς τὰς νεάνιδάς ἐστιν ὁδηγία, δι' ὧν µανθάνουσι καὶ
ὅπου ἐστὶ καὶ ὅπου βλέπει.
67 Marc 8, 27-29.
164
62
Lui, che li aveva scelti68 . I comandi del Signore e i beni che questi commise a tutti gli uomini
ebbero da quel momento la necessità della mediazione dei discepoli69 .
Il progetto salvifico di Dio, l’ἐκκλησιαστικὴ οἰκονοµία (IC 40, 13), continua dunque nella
persona degli apostoli, i primi ad essere ammaestrati (µαθητευθέντες: IC 40, 14) dalla grazia:
essi, che videro con i loro occhi il Logos, consegnarono infatti per tradizione il bene che
avevano ricevuto perché anche la grazia si comunicasse e gli altri uomini ne fossero resi
partecipi70. L’espressione usata dal Nisseno è ἐκ διαδόσεως (IC 40, 17), che si commenterà a
breve, ed è ripresa enfaticamente poche righe più avanti (ἔκ τινος ἀρρήτου διαδόσεως: IC 41,
9) per indicare la consegna da parte del Logos stesso dei suoi misteri al discepolo Giovanni,
che giacque sul suo cuore.
Nella prima omelia In sanctum Stephanum71 Gregorio afferma che il martirio di Stefano e
la crudeltà che il popolo giudaico mostrò nei confronti della dottrina cristiana fu uno dei
motivi che spinsero gli apostoli a cacciare il demonio attraverso l’insegnamento dei misteri
(διὰ τῆς τῶν µυστηρίων διδασκαλίας: SST I 81, 9) da ogni dove, al di fuori della sola
Palestina. Come si legge infatti nell’Oratio catechetica magna 72, la chiamata di Dio si rivolge
a tutti, senza distinzioni; per tal motivo, aggiunge il Nisseno, agli apostoli fu concesso
all’inizio della loro predicazione di parlare la stessa lingua di tutti i popoli: nessuno, in questo
modo, sarebbe rimasto privo dei beni dell’insegnamento (διδαχῆς: OC 75, 10). In incipit
dell’omelia Contra Fornicarios73 il Nisseno ricorda infine come la tromba del precetto
apostolico renda evidente e manifesto attraverso la sua testimonianza (µαρτυροµένη: CFor
211, 5) molte cose, tra cui anche le caratteristiche della Chiesa, qui caratterizzata come
l’esercito della pietà: il contenuto del λόγος proposto dal vescovo sarà infatti approfondire
l’indicazione paolina di 1Cor 6, 18 secondo cui un uomo non deve soccombere o indulgere a
turpi piaceri che contaminino nello stesso tempo anima e corpo, contrastandola con le armi
della resistenza o, nel peggiore dei casi, della fuga.
III.3 La tradizione apostolica
Compito precipuo dei discepoli di Cristo fu proprio, secondo Gregorio fu rendere se stessi
simili al buon γεωργός, seminando le parole di ammaestramento della Buona Novella: queste,
68
Cf. IC 29, 12-20.
Cf. DDe 334, 14-17.
70 Agli apostoli è anche affidato il compito di cacciare il male dal cuore degli uomini e di rappresentare la
potenza divina che lo soverchia, prendendo nella loro rete le anime di coloro che si salvano, ormai non più
irretite dalle potenze demoniache: cf. IC 167, 1-11 e 15-19.
71 Cf. SST I 81, 3-17.
72 Cf. OC 75, 5-13.
73 Cf. CFor 211, 4-7.
165
69
piantate nel cuore dell’uomo attraverso l’udito, lo rendono partecipe della vita immortale. Per
tale ragione essi furono chiamati apostoli, gli inviati74: il Nisseno ricorda a tal proposito la
discesa dello Spirito Santo che permise ai discepoli di insegnare attraverso le loro lingue (τὴν
διὰ τῶν γλωσσῶν διδασκαλίαν: IC 301, 19) quello che fu loro portato dal vento dello Spirito,
caratterizzato dall’esegeta come il profumo degli ammaestramenti della fede75 . Tale
διδασκαλία è espressa nella sua forma compiuta nella tradizione apostolica, che Taranto
giustamente definisce come «il deposito dell’insegnamento autentico che dagli apostoli,
attraverso i suoi successori, si trasmette integro fino al tempo presente»76 e consente una retta
comprensione della parola rivelata77 .
Come si legge nel De instituto78, il dono fattivo dello Spirito, che ha la sua più grande
grazia nella carità, genera un cambiamento verso il meglio; Paolo chiama questa µεταβολή
(DI 61, 8) la generazione di una creatura nuova, una κτίσις καινή79. Questa nuova
generazione, appunta quindi Gregorio, si identifica con il canone apostolico (τὸ καινὴ κτίσις
ἀποστολικός ἐστι κανών: DI 61, 13) e consiste nella presenza familiare dello Spirito in
un’anima pura e irreprensibile, lontana da ogni macchia80. L’espressione ἀποστολικὸς κανών
è particolarmente interessante, in quanto mostra la strada che l’anima deve percorrere per
giungere alla purezza di cui si fa successivamente menzione: essa non è infatti abbandonata a
se stessa, ma ha la possibilità della sequela della Chiesa, che non a caso è ricordata nelle
citazioni paoline presenti in questo passo come la realizzazione di questa nuova creazione81.
Gli insegnamenti degli apostoli si ripropongono infatti nella guida di coloro che sono a
capo della Chiesa, diventando «garanzia di autenticità»82
della retta fede. In incipit
dell’Oratio catechetica magna83 , ad esempio, Gregorio esplicita l’intento dell’opera
74
Cf. IC 282, 1-3.
Cf. IC 301, 15-17: τὰ σωτήρια τῆς πίστεως δόγµατα … τὴν εὐωδίαν τῶν διδαγµάτων προχέοντα.
76 Cf. TARANTO 2009, p. 559 n. 69. Cf. anche TARANTO 2009, p. 564: «la tradizione è una realtà complessa, in
lei vengono a sintesi gli insegnamenti della Scrittura e l’insegnamento dei Padri, che a sua volta si fonda sulla
Parola rivelata».
77 Sull’unità di Scrittura e tradizione e sulla necessità di riferirsi a entrambe per una corretta γνῶσις del divino,
cf. VÖLKER 1955, pp. 144-148. Lo studioso tuttavia, pur sottolineando con attenzione il valore della Scrittura,
sembra non riconoscere con altrettanta evidenza l’apporto decisivo dell’insegnamento dei Padri nella visione
gregoriana (che pur, rispetto ai riferimenti alla Scrittura, ha meno attestazioni). Cf. invece TARANTO 2009, p.
563: «La tradizione è [...] la sostanza formale della Scrittura e la sua forza vitale: essa non solo la rende autentica
e presente nella storia ma la conserva viva ed attuale; la preserva, insomma, Parola viva del Dio vivo, elemento
ineludibile di confronto e di mediazione tra l’uomo e il suo Creatore. Per questo la chiesa, depositaria della
tradizione ed essa stessa tradizione vivente, è il necessario e unico stabile ponte tra il tempo e l’eterno: non è
possibile, secondo il Nisseno, giungere a salvezza se non per mezzo della Chiesa».
78 Cf. per tutto il passo DI 60, 18-62, 4.
79 Gregorio cita a tal proposito Gal 6, 15-16 e 2Cor 5, 17.
80 Cf. DI 61, 17-19: καινὴν κτίσιν ἐκάλεσε τὴν ἐν καθαρᾷ καὶ ἀµώµῳ ψυχῇ καὶ πάσης ἀπηλλαγµένῃ κακίας καὶ
πονηρίας καὶ αἰσχύνης ἐνοίκησιν τοῦ ἁγίου πνεύµατος.
81 Cf. Eph 5, 27 e DI 61, 14-17.
82 TARANTO 2009, p. 561.
83 Cf. OC 5, 1-10; si riporta in partic. OC 1-5: ὁ τῆς κατηχήσεως λόγος ἀναγκαῖος µέν ἐστι τοῖς προεστηκόσι τοῦ
µυστηρίου τῆς εὐσεβείας, ὡς ἂν πληθύνοιτο τῇ προσθήκῃ τῶν σωζοµένων ἡ ἐκκλησία, τοῦ κατὰ τὴν διδαχὴν
πιστοῦ λόγου τῇ ἀκοῇ τῶν ἀπίστων προσαγοµένου.
166
75
proponendo uno scritto necessario a coloro che sono preposti (τοῖς προεστηκόσι: OC 5, 2) al
mistero della pietà, perché essi con più efficacia possano perpetuare l’insegnamento degli
apostoli (κατὰ τὴν διδαχήν: OC 5, 3); una simile educazione, qui espressa nuovamente come
διδασκαλίας (OC 5, 5), è infatti la modalità specifica che permette alla Chiesa di crescere
attraverso il numero di coloro che si salvano.
Ne De deitate84 Gregorio si chiede la ragione per la quale nei primi anni del cristianesimo
di fronte agli apostoli una grande folla era condotta alla Chiesa, mentre ai suoi tempi
trascurava i discorsi grandi e bellissimi dei suoi maestri (διδασκάλων: DDe 337, 9), così che
questi rimanevano inefficaci. Già in precedenza aveva notato come l’azione di tali pastori non
portasse quasi ad un incremento dei salvati, ma anzi il desiderio eccessivo di scagliarsi l’uno
contro l’altro aveva spinto le verità (δογµάτων: DDe 335, 17) della fede verso le sconcezze
delle eresie, che si nutrono di desideri ingannevoli. Una prima risposta a tale questione, che il
Nisseno potrebbe aver mutuato da Origene85, riguarda i θαῦµατα: nei tempi antichi infatti il
discorso degli apostoli avrebbe ricevuto aiuto e conferma da simili portenti, così da poter
essere più facilmente ritenuto degno di fiducia. Gregorio non nega certo che simili opere
possedevano un grande invito a credere; tale modalità di annuncio continua, dice però il
vescovo, anche ai suoi tempi. Egli infatti afferma di conoscere familiarmente la perfezione di
uomini che condividono la sua stessa condizione umana, ma che conformandosi allo Spirito
danno testimonianza (µαρτυροῦσι: DDe 337, 17) alla verità del loro discorso attraverso la
forza delle loro guarigioni, uomini che vengono dalla patria di Abramo, in quanto guardando
al cielo escono dal modo comune di vivere, stando saldi di fronte alle passioni cui sarebbero
condotti dalla loro natura, non conoscendo (µαθόντες: DDe 338, 3) le dispute con i fratelli. Il
cristiano sa concludere che tali sono le perfezioni della fede cui è chiamato: perché allora, si
chiede Gregorio, gli uomini persistono nel non credere, se la grazia offre simili medicine, se
l’insegnamento (διδασκαλία: DDe 338, 11) del Logos sovrabbonda? Gli uomini tuttavia, si
rammarica il vescovo, sono frodati dalle passioni: non vi è nessun culmine che freni il
desiderio (ἐπιθυµίαν: DDe 338, 20) dell’eccesso, perché ciò che sempre si aggiunge a ciò che
già si possiede in avanzo stimola una brama che diventa esca di un nuovo desiderio del di più
e porta a considerazioni ingannevoli. Imitando (µίµησαι: DDe 340, 19) invece la beatitudine
evangelica che esalta coloro che hanno vera sete, anche gli eretici devono riconoscere,
comprendendo tale mistero nella sua profondità (καταµαθών: DDe 340, 21), che l’unico che
possa colmare e ridestare una simile sete è solo lo Spirito.
84
85
Cf. DDe 334, 5- 338, 22.
Cf. GEBHARDT p. 337 ad 11 sq: «cf. E.g. Origenis C Cel VII 8 (p 160, 4 sqq)»
167
Non è possibile infatti imbattersi nella pienezza del torrente della conoscenza di Dio;
all’uomo tuttavia è data qualche goccia della sua grandezza attraverso i santi e coloro che da
Egli sono portati86. Il testo che affronta questa tematica commenta Cant 5, 2, dove si
descrivono i riccioli corvini sul capo dello Sposo. Il capo naturalmente è identificato, evidente
riferimento paolino, con Cristo; i riccioli, da cui stillano gocce di insegnamento (διδασκαλία:
IC 326, 11; τῆς διδασκαλίας ὁ ὄµβρος: IC 392, 6), sono innanzitutto gli apostoli, e attraverso
essi coloro che hanno creduto al loro insegnamento e sono stati rinnovati dalla venuta del
Messia87: in un passo successivo infatti questi riccioli diventano non più neri per il peccato,
ma d’oro puro in quanto nella loro vita e nel loro insegnamento riluce la purezza di Cristo.
Tale fu anche Paolo, un tempo corvo, quindi bestemmiatore, persecutore e violento, ora
ricciolo della rugiada celeste, che stilla a tutto il corpo della Chiesa la compiutezza degli
oscuri misteri precedenti88 . La mediazione che gli apostoli, Paolo ed i santi offrono è infatti da
paragonare a gocce di rugiada di fronte all’infinità del mistero divino, ma a fiumi, mari e flutti
se giudicati di fronte alla pura capacità dell’uomo89.
Gli esempi di Pietro e Paolo, come si legge nell’omelia XIV, furono infatti seguiti anche da
altri santi della Chiesa90 : essi, divenuti bocca del corpo comune della Chiesa, stillarono mirra
e gigli, il fiore della purezza; diventarono in questo modo difensori della fede, attraverso
l’imitazione dei loro predecessori, fino al martirio91 : le figure degli apostoli non
rappresentano infatti mete irraggiungibili, bensì esempi che è possibile imitare92 . Le due
gambe dello Sposo lodate in Cant 5, 15 sono infatti interpretate come le colonne della Chiesa,
vale a dire gli apostoli, in particolare Pietro, Giacomo e Giovanni, secondo il dettato di
Paolo93 : l’esegesi di Gregorio si pone proprio come scopo dichiarato l’indicare la strada
attraverso cui ciascuno possa emulare costoro, diventando così degno del loro stesso titolo94.
Collazionando un nuovo passo paolino in questo caso riferito alla Chiesa tutta, nel quale si
legge che essa è colonna e fondamento della verità, l’esegeta sostiene che attraverso questo
simbolo il Cantico voglia alludere alle basi della fede che occorre avere per essere costituiti
nel marmo, vale a dire per avere una vita salda, immobile e splendente in ciò che è buono. Il
86
Cf. IC 326, 3-4: … διὰ τῶν ἁγίων τε καὶ θεοφορουµένων τῆς λογικῆς σταγόνος ἀπορρεούσης.
Cf. IC 325, 14-327, 7, ripreso quindi in IC 392, 1-393, 11.
88 Cf. IC 392, 1-393, 11; per la caratterizzazione di Paolo, si sottolinea IC 393, 1-2: τὸν τῶν ἀποκρύφων τε καὶ
σκοτεινῶν µυστηρίων λόγον ἐπιψεκάζων.
89 Cf. IC 327, 1: [scil. κύµατα] πρὸς τὴν ἡµετέραν κρινόµενα δύναµιν.
90 Cf. IC 405, 1-406, 1.
91 Cf. IC 405, 16-21: καὶ µυρία πρὸς τούτοις ἔστιν τῶν ἁγίων εὑρεῖν ὑποδείγµατα, πῶς τοῦ κοινοῦ σώµατος τῆς
ἐκκλησίας στόµα γενόµενοι τῆς νεκρωτικῆς τῶν παθηµάτων σµύρνης πλήρεις τοὺς ἀκροωµένους ἐποίουν
ἀνθοφοροῦντες διὰ τῶν κρίνων τοῦ λόγου, δι' ὧν οἱ µεγάλοι τῆς πίστεως πρόµαχοι διὰ τῆς ἀγαθῆς ὁµολογίας
κατὰ τὸν τῆς µαρτυρίας, καιρὸν ἐν τοῖς ὑπὲρ εὐσεβείας ἀγῶσι κατεσµυρνώθησαν.
92 Cf. IC 415, 13-419, 18, che commenta Cant 5, 15.
93 Cf. Gal 2, 9.
94 Cf. IC 416, 15-17: ἐπεὶ δὲ καὶ τοῦτο προσήκει µαθεῖν, πῶς ἔστι γενέσθαι στῦλον, ὡς ἂν καὶ ἡµεῖς ἄξιοι τῆς
τοιαύτης γενοίµεθα κλήσεως, πάλιν κτλ.
168
87
numero delle colonne, due, è per l’esegeta molto significativo: egli nota infatti che se nella
Legge antica erano molteplici le guide che portavano alla virtù e molte erano le regole della
Sapienza95 , il Vangelo ha offerto due comandamenti da cui dipendono tutta la Legge e i
profeti, secondo un versetto matteano (Matth 22, 40). Il primo consiste nell’amare con tutto se
stessi il Signore ed è accostato, attraverso un nuovo riferimento a Paolo (1Tim 1, 19), alla
fede (πίστις); il secondo invece esorta ad una disposizione d’animo verso il proprio prossimo
tale da amarlo come se stessi ed adombrerebbe, secondo la lettura che il Nisseno fa di Paolo,
il riferimento ad una buona coscienza (συνείδησις). Tali sono i presupposti, conclude
Gregorio, per diventare colonne alla maniera di Pietro, Giacomo e Giovanni (κατὰ Πέτρον καὶ
Ἰάκωβον καὶ Ἰωάννην: IC 419, 9-10), che diventano così esempi concreti che è non solo
possibile, ma anche doveroso eguagliare.
Anche nel De vita Moysis 96, trattando dell’interpretazione spirituale della tenda che Mosè
vide sul monte Sinai, si fa riferimento a Pietro, Giacomo e Giovanni come le colonne della
Chiesa; in aggiunta, si cita Giovanni Battista come lucernario che diffonde la luce. Il vescovo
comunque si premura di precisare che tutti coloro che con le proprie forze sostengono la
Chiesa e con le loro opere la illuminano sono detti colonne e lampade, realizzando quindi in
se stessi quello che prima avevano mostrato loro gli apostoli.
La preferenza verso Pietro, Giacomo e Giovanni, ricordata nel secondo encomio In
sanctum Stephanum 97, si basa sull’episodio della trasfigurazione (cf. Matth 17, 1-9) di cui essi
soli furono testimoni (µάρτυρας: SST II 103, 18); essa non fu accordata contro gli altri
apostoli, ma in vista delle prove che queste colonne avrebbero dovuto sopportare. Costoro, in
modi diversi, furono condotti a testimoniare la fede: Pietro, come il suo Signore, patì il
supplizio della croce, simbolo di regalità, in quanto pietra angolare e principe della Chiesa98 ; a
Giacomo fu tagliata la testa, affinché fosse evidente che il suo vero capo era Cristo; Giovanni
entrò nel coro dei martiri per le prove che passò, in quanto la testimonianza non deve essere
giudicata a partire da una morte segnata dal dolore, ma dalla scelta del proprio desiderio99.
Gregorio tuttavia tiene a precisare come lodando loro in realtà ci si riferisca a tutta l’armonia
apostolica: tutte le membra di un corpo, secondo la verità degli insegnamenti (κατὰ τὴν τῶν
δογµάτων ἀλήθειαν: SST II 104, 11) di Paolo (cf. 1Cor 12, 26), sono esaltate nella lode ad una
95
Cf. IC 418, 1-4: διὰ τούτων ἐκεῖνο κατασκευάζεσθαι τὸ πολυειδεῖς µὲν γίνεσθαι τὰς ἐκ τοῦ νόµου πρὸς
ἀρετὴν ὁδηγίας, πολλὰ δὲ καὶ τῆς σοφίας εἶναι τὰ παραγγέλµατα πρὸς τὸν αὐτὸν ὁρῶντα σκοπόν, κτλ.
96 Cf. VM II 184.
97 Cf. SST II 102, 13-104, 28.
98 Anche secondo encomio In sanctum Stephanum (cf. SST II 104, 29-33) afferma il primato di Pietro come
fondamento della Chiesa.
99 Cf. SST II 103, 6-8: παρὰ γὰρ δικάζουσιν, οὐκ ἀπὸ τῆς ἐκβάσεως τοῦ πάθους, ἀλλὰ παρ' αἱρέσεως τοῦ πόθου
κρίνεται τὸ µαρτύριον.
169
parte del corpo, e questo accade specialmente per coloro che sono uniti nella verità in una
perfetta comunione100.
La continuità della Chiesa e la profonda unione delle sue membra sono un aspetto
essenziale dell’ecclesiologia del Nisseno: nel secondo encomio In sanctum Stephanum101, ad
esempio, Gregorio tiene a precisare come non possano esistere i martiri senza gli apostoli, ma
che allo stesso modo non vi siano apostoli senza martiri: gli apostoli infatti devono essere
considerati i maestri dei martiri, e, proprio per questo, i martiri rispecchiano con una
immagine fedele ciò che hanno imparato e offrono testimonianza anche della bontà della vita
degli apostoli. In particolare, il protomartire Stefano portò la croce che gli conferì l’aspetto e
la personalità di questi ultimi, e nella perseveranza del martirio esaltò i suoi διδάσκαλοι e
divenne pienamente «στέφανος»: corona dei buoni maestri infatti non è l’onore che viene
dalla buona nomea, ma è il progredire e l’ampliarsi della Chiesa.
La consegna degli apostoli ha il suo prosieguo nell’insegnamento dei Padri (ἐκ πατρικῆς
παραδόσεως: VM II 45, 3), che la approfondisce e completa, collaborando attivamente
all’educazione dei fedeli: ad una simile autorità, ad esempio, Gregorio si richiama nel
secondo libro del De vita Moysis per introdurre la dottrina secondo cui all’uomo dopo la
caduta è stato affidato un angelo che lo ispiri al cammino verso le virtù, mentre il demonio ha
ordinato ad un suo sottoposto di fare altrettanto lungo la via del male102 .
Dal punto di vista terminologico è bene notare come per indicare la tradizione apostolica il
Nisseno ricorre alle aree lessicali nelle quali si inseriscono i termini διάδοσις e παράδοσις:
entrambi possono designare in modo per lo più sovrapponibile il lascito che costituisce il
canone (κανών 103) della Chiesa, con poche sfumature che li differenziano. I termini legati alla
διάδοσις si riferiscono più nello specifico ad qualcosa di imprescindibile che è necessario
attraversare per giungere alla verità (spesso nella formula ἐκ διαδόσεως: DI 40, 17 et al.)104;
100
Cf. SST II 104, 13-17: καὶ µάλιστα ἐπ' ἐκεί νων τῶν µακαρίων καὶ τελειοτάτων ἀνδρῶν, οἷς πάντα συµφωνεῖ
πρὸς ἀλήθειαν, καὶ ὁ τρόπος ὁµόγνωµος, καὶ ἡ πίστις ὁµόδοξος, καὶ ὡς κοινὰ τὰ τῆς εὐσεβείας πλεονεκτήµατα
τούτων, κοινὰ καὶ τὰ παρὰ τῆς ἀληθείας σεµνολογήµατα.
101 Cf. SST II 98, 24-99, 6: οὔτε τοίνυν µάρτυρες ἄνευ ἀποστόλων, οὔτε πάλιν ἀπόστολοι χωρὶς ἐκείνων.
διδάσκαλοι µὲν γὰρ µαρτύρων, ἀπόστολοι· εἰκόνες δὲ τῶν ἀποστόλων, οἱ µάρτυρες. εἰκόνα γοῦν τὴν ἐκείνων
καὶ τὸν χαρακτῆρα φέρων ὁ µακάριος Στέφανος σταυρὸν, καὶ διὰ τοῦ θανάτου πρῶτος τοῦ µαρτυρίου τὸν
στέφανον ἀνεδήσατο. ἀλλ' ὅµως διὰ τῆς ὑποµονῆς τοῦ µαρτυρίου τοὺς διδασκάλους ἀπεσέµνυνε, καὶ γέγονεν
ἀληθῶς στέφανος· στέφανος γὰρ τῶν καλῶν διδασκάλων οὐκ ἦν τιµὴ τῆς εὐφηµίας, ἀλλ' ἦν προκοπὴ τῆς
ἐκκλησίας.
102 Cf. VM II 45-47.
103 Il κανών è una regola mutuata dalla Scrittura o dalla tradizione ecclesiale che indirizzi ad un dato
comportamento. Gregorio offre l’esempio di un canone che fornisce ai suoi fedeli in EpC 6,22-7, 15: coloro che
hanno peccato di fornicazione devono essere allontanati dalla comunità dei fedeli a meno che non inizino un
cammino di penitenza, nel quale per i primi tre anni sono completamente esclusi dalla preghiera comune, per i
successivi tre ammessi al solo ascolto e quindi per un nuovo periodo consimile possono pregare, ma solo con chi
si deve purificare; solo alla fine di questo periodo (che in realtà può essere ridotto per la buona volontà del
penitente per sentenza ecclesiale) potrà essere riammesso nella comunità.
104 Cf. ad es. IC 40, 17; IC 41, 9; IC 453, 12;
170
tale consequenzialità necessaria è presente, ad esempio, nell’Adversus Macedonianos105,
laddove il vescovo propone l’immagine di una lampada divisa in tre fiammelle, nella quale la
prima fiamma trasmette istantaneamente106 (ἐκ διαδόσεως: AdvM 93, 5) la propria natura
anche alla terza attraverso la seconda, esempio che il Nisseno propone per illustrare i rapporti
tra la terza ipostasi della Trinità e le altre. Allo stesso modo il termine è richiamato 107 anche
per indicare come le dottrine eretiche che tolgano onore allo Spirito di conseguenza (κατὰ
διάδοσιν: AdvM 107, 1) si riflettano sul Padre attraverso il Figlio. La seconda area lessicale si
propone invece di mettere maggiormente in risalto la sfumatura della sequela, del Cristo come
dei Padri108.
La tradizione ereditata dai Padri è ultima pietra di paragone per qualsiasi questione o
ragionamento: nel trattato Ad Ablabium 109, ad esempio, il Nisseno dubita di poter proporre
una spiegazione definitiva che esaurisca i termini della questione trinitaria; la certezza del suo
discorso si basa invece sulla tradizione dei padri, che a lui (come ad ogni cristiana) è stata
data da custodire.
Tale παράδοσις è infatti per Gregorio sicuro criterio di verità. Nell’Adversus
Macedonianos110 si legge un appunto interessante riguardo al tema: in incipit il Nisseno
avverte di come sia necessaria la correzione di chi non segue i corretti insegnamenti (περὶ τῶν
δογµάτων: AdvM 89, 15). Il termine δόγµα, come si è già notato, non indica sempre in modo
specifico gli insegnamenti che seguono la retta dottrina cristiana; per questo Gregorio sceglie
di precisare in incipit come l’eresia con la quale discuterà nega alcuni insegnamenti impartiti
seguendo le dottrine dei padri (τοῖς τῶν πατέρων ἑπόµενοι δόγµασιν: AdvM 89, 18),
richiamandosi quindi ad essi come fonte della verità di ciò che si professa. Il Nisseno afferma
infatti che, per confutare simili credenze, non avrà bisogno che della testimonianza
(µαρτυρίᾳ: AdvM 90, 22) offerta dalla Scrittura e di ciò che esse hanno insegnato
(µεµαθήκαµεν: AdvM 90, 23), anche attraverso la mediazione degli esegeti che hanno
preceduto Gregorio.
Nel De instituto111 si legge un appunto particolarmente significativo sul valore della
tradizione apostolica: il fine della pietà, l’argomento di cui il trattato vuole occuparsi, non è
105
Cf. AdvM 93, 3-14.
L’idea della trasmissione ritorna in QuEH 124, 18, laddove l’espressione ἐκ διαδόσεως è usata per indicare la
trasmissione - il contagio - di una malattia che passa da una persona all’altra.
107 Cf. AdvM 106, 25-107, 2.
108 Cf. ad es. AdvM 92, 33; AdA 42, 22; DI 64, 1; VM I 49, 9; VM II 45, 3;
109 Cf. AdA 39, 1-4: εἰ δὲ καὶ ἀτονώτερος ἐλεγχθείη τοῦ προβλήµατος ὁ ἡµέτερος λόγος, τὴν µὲν παράδοσιν ἣν
παρὰ τῶν πατέρων διεδεξάµεθα φυλάξοµεν εἰς ἀεὶ βεβαίαν τε καὶ ἀκίνητον, τὸν δὲ συνήγορον τῆς πίστεως
λόγον παρὰ τοῦ κυρίου ζητήσοµεν.
110 Cf. AdvM 89, 1-91, 12.
111 Cf. DI 63, 20-64, 4: ὁ µὲν οὖν σκοπὸς τῆς εὐσεβείας τοιοῦτος, ὃν αὐτός τε ὁ κύριος καὶ οἱ παρ' ἐκείνου τὸ
εἰδέναι λαβόντες ἀπόστολοι παρέδοσαν ἡµῖν· εἰ δὲ διὰ µακροτέρων ἀποδεικνύντες εἰς µῆκος προηγάγοµεν τὸν
λόγον, τοῦ παραστῆσαι τὴν ἀλήθειαν µᾶλλον ἢ τοῦ συντεµεῖν τὰ λεγόµενα φροντίζοντες, µεµφέσθω µηδείς.
171
106
un prodotto dell’affannosa e nobile ricerca dell’uomo, come per la filosofia greca precedente;
esso è piuttosto una consegna (traditio) da parte di Dio stesso attraverso la mediazione del
Verbo, che si fa strada nel tempo fino a Gregorio e ai suoi ascoltatori (ἡµῖν: DI 64, 1) grazie
agli apostoli, che accolsero quella conoscenza e la trasmisero (παρέδοσαν: DI 64, 1) come
insegnamento. Il Nisseno, come esegeta e come vescovo, nuovo anello quindi della catena
apostolica, dovrà dunque presentare questa verità (παραστῆσαι τὴν ἀλήθειαν: DI 64, 2-3) nel
modo più conveniente.
La παράδοσις dei Padri ha infatti anche valore, per il Nisseno, di criterio pastorale, forse
anche superiore ad alcune indicazioni dell’Antico Testamento: trovandosi ad esempio
nell’Epistula canonica112 a discutere della riammissione nella Chiesa di coloro che hanno
compiuto un sacrilegio, il vescovo sottolinea come tale mancanza fosse ritenuta dalla Scrittura
pari a quella di un assassinio volontario. Sembra che le intenzioni dell’autore non si
discosterebbero molto da un simile giudizio; la constatazione però che i Padri ritengono che
tale mancanza sia più lieve di un adulterio, porta il Nisseno a riconsiderare anche il dato
scritturistico.
III. 4 La Chiesa
Il disegno che Dio ha nei confronti della sua creatura, vale a dire la sua incarnazione e la
sua presenza nella Chiesa, è nel De vita Moysis il mistero (τὸ θεῖον τῆς παρὰ ἄνθρωπον
οἰκονοµίας µυστήριον: VM II 159, 1-2) che proclamano le trombe che accolgono gli Israeliti
mentre si accingono a salire sul monte Sinai con la guida di Mosè: già forti all’inizio (ed in
esse Gregorio vede le parole dei profeti dell’Antico Testamento), esse divennero ancora più
imponenti con la novella evangelica; il popolo eletto tuttavia aveva orecchie che non
accolsero l’annuncio ed era lontano da una simile obbedienza (ἀπειθοῦς: VM II 159, 3)113,
finché non fu educato da chi aveva compreso simili misteri114. Tale educazione è compito
precipuo della Chiesa, che è il ventre, l’alveo entro cui il credente è generato in Dio; essa,
attraverso i suoi insegnamenti dà la possibilità di attingere alla verità e conduce l’uomo ad
uniformarsi ad essa, perché si salvi115.
112
Cf. EpC 12, 4-14
Cf. VM II 158-159.
114 Cf. VM II 160.
115 Cf. DFS 141, 7-11: λέγει γὰρ περὶ τῶν ἁµαρτωλῶν, ὅτι ἀπηλλοτριώθησαν ἀπὸ µήτρας καὶ έπλανήυησαν άπὸ
γαστρός. µήτραν οἶµαι τῶν κατὰ θεὸν γεννωµένων τὴν ἐκκλησίαν λέγεσθαι· αὕτη γὰρ κυοφορο῀θσα τῇ ἰδίᾳ
νηδύϊ τοὺς ἐν αὐτῇ τελεσφορουµένους εἰς φῶς διὰ τῆς πίστεως ἄγει.
172
113
Sono molti i passi in cui la Chiesa è letta come la continuità fenomenica di Cristo che
consente all’uomo di essere introdotto alla sua presenza e alla sua vita attraverso un cammino
educativo, di insegnamenti. Se ne propongono pertanto alcuni esempi.
Nella ricapitolazione della vita del battezzato che Gregorio opera nell’omelia De tridui
spatio116 , dopo aver contemplato la nuova nascita che genera l’acqua santificata, secondo la
promessa del Salvatore, si nomina la nutrice di questa nuova esistenza, la Chiesa, e dei suoi
insegnamenti (µαζὸς τὰ διδάγµατα: TS 278, 7): dopo Cristo infatti sono questi che rivestono il
ruolo del seno materno; il pane eucaristico diventa il nutrimento che porta all’età matura,
identificata con un alto stile di vita, seguita dalle nozze con la Sapienza, dalle speranze che
nascono da essa come figli e, infine, dalla beatitudine eterna.
Durante l’omelia XIII dell’In Canticum 117 le giovani di Gerusalemme, cui la Sposa si era
finora rivolta, le chiedono di descrivere loro la bellezza del suo amato, avendo visto le ascese
cui era pervenuta. La Sposa, che da quel passo è figura sempre più spesso della Chiesa
piuttosto che dell’anima, riveste nuovamente l’autorità di maestra (ἡ διδάσκαλος), fatto che si
era riscontrato solo saltuariamente in precedenza ma che diventerà un appellativo abituale
fino alla conclusione dell’opera118. Si è già notato infatti come chi si accosti al testo sacro ne
riceva insegnamenti e le sue azioni siano caratterizzate dai verbi µανθάνω o µαθητέυω119: il
testo del Nisseno a partire da questo momento offre la stessa caratterizzazione terminologica
riferita però agli ammaestramenti della Sposa, che insegna le verità rivelate120 ed educa con le
sue parole121 le anime desiderose di apprendere da lei (ταῖς µαθητευοµέναις ψυχαῖς: IC 45,
20).
Come maestra, la Sposa modella il suo discorso in base ai suoi ascoltatori122: per render
loro più desiderabile Cristo, il suo Sposo, pone quindi davanti ai loro occhi le caratteristiche
che le anime ancora giovinette possono comprendere e quindi desiderare. Il discorso prende le
mosse dalle due nature del Messia, l’una increata e divina, l’altra creata e umana; la seconda
viene detta subito essere la strada per la prima. Per l’uomo infatti è impossibile abbracciare
con l’intelletto l’essenza increata del Logos: esso tuttavia si è mostrato, continua l’esegeta, in
forma umana senza che la sua gloria fosse diminuita (a tal proposito Gregorio ricorda Ioh 1,
14). La maestra dunque volge il suo sguardo a questa natura, l’unica davvero accessibile per
l’uomo, predicando incessantemente alle giovanette quello che lei chiama il mistero della
pietà, vale a dire l’infinito amore del Creatore che si è piegato sulla sua creatura in forma
116
Cf. TS 278, 3-11 e PIETRELLA 2009, p. 117 n. 66.
Cf. per tutto il passo IC 379, 1-390, 8.
118 Cf. IC 377, 14; IC 434, 17; 435, 8.15; per le Omelie precedenti, cf. ad es. IC 45, 20 e IC 134, 5.
119 Cf. Cap. Per un lessico dell’educazione in Gregorio.
120 Cf. ad es. IC 51, 10-11: τοῦτο παρὰ τῆς διδασκάλου τὸ δόγµα µανθάνοµεν.
121 Cf. ad es. IC 56, 2-3: παιδεύουσα (scil. ἡ νὐµφη) διὰ τῶν λεγοµένων ἡµᾶς, ὅτι κτλ.
122 Cf. IC 381, 14-16: ἡ διδάσκαλος … ποιεῖται τὸν λόγον ὅσα δύναται γενέσθαι χωρητὰ τοῖς ἀκούουσιν.
117
173
umana e unisce a sé chi diviene parte del suo corpo mistico, comunicando loro la sua natura.
In virtù di questo mistero guardando la Chiesa, conclude Gregorio, si guarda direttamente a
Cristo123 . È questa la ragione per la quale la Sposa, la maestra, può condurre per mano
(χειραγωγεῖ: IC 383, 19) le giovani cui si rivolge alla teofania di Dio nella carne, come fecero
gli apostoli, tra i quali Gregorio ricorda innanzitutto Giovanni124. Questo discepolo nella
prima omelia è la figura esplicativa, per l’esegeta, della sposa che preferisce il latte del Logos
al vino della conoscenza profana; le giovinette, che rappresentano le anime non ancora adulte
nella fede che desiderano accostarsi alla conoscenza di Dio, si devono proporre di imitare
(µιµησώµεθα: IC 41, 2) la sposa e di amare le sue mammelle, attraverso cui lei allatta coloro
che sono ancora infanti in Cristo125.
III.4.1
Le immagini della Chiesa
Nell’omelia VII dell’In Canticum Gregorio lega le lodi dello Sposo per l’aspetto della sua
amata a parti del corpo della Chiesa, secondo l’insegnamento paolino delle molte membra
presenti nel corpo unico di cui Cristo è il capo (cf. 1Cor 12, 12-27). L’ἔπαινος riguarda,
nell’ordine, gli occhi, i capelli, i denti, la bocca e le labbra, le guance, il collo, le spalle e le
mammelle126 . Nell’esegesi di queste immagini è possibile riscontrare interessanti riferimenti
al tema dell’educazione.
La prima lode spetta alle membra più degne (τῶν κυριωτέρων µελῶν: IC 216, 17), vale a
dire gli occhi. Attraverso questi infatti l’uomo percepisce la luce, riconosce ciò che gli è
favorevole, amico, e ciò che invece gli sarebbe dannoso, nemico, discerne ciò che gli è
proprio da ciò che gli è estraneo; ma soprattutto gli occhi sono guide e maestri di ogni nostra
azione, che tracciano per noi una strada sicura. Rispetto al criterio di utilità si trovano dunque
ad essere preminenti rispetto agli altri sensi127 . Ritroviamo in questo brano molti termini
appartenenti all’area semantica dell’educazione: per quanto riguarda i sostantivi gli occhi
sono διδάσκαλοι, ὑφηγηταί e ὁδηγοί, mentre la loro azione è variamente connotata ora come
τὸ φῶς ἀντιλαµβάνειν, ora come ἐπιγιγνώσκειν e διακρίνειν; momenti consecutivi, se si
123
Cf. IC 383, 3-5: οὐκοῦν ὁ πρὸς τὴν ἐκκλησίαν βλέπων πρὸς τὸν Χριστὸν ἄντικρυς βλέπει τὸν ἑαυτὸν διὰ τῆς
προσθήκης τῶν σῳζοµένων οἰκοδοµοῦντα καὶ µεγαλύνοντα.
124 Cf. IC 383, 18-20: πρὸς τὴν διὰ σαρκὸς γενοµένην ἡµῖν θεοφάνειαν χειραγωγεῖ τὰς παρθένους (ὅπερ δὴ καὶ ὁ
µέγας Ἰωάννης πεποίηκεν κτλ).
125 Cf. IC 41, 1-4.
126 Cf. IC 214, 19-244, 2.
127 Cf. IC 216, 18-217, 5: τί γὰρ ὀφθαλµῶν ἐν τοῖς µέλεσιν ἡµῶν ἐστι τιµιώτε ρον, δι' ὧν ἡ τοῦ φωτὸς ἀντίληψις
γίνεται, παρ' ὧν ἐστιν ἡ τῶν φιλίων τε καὶ πολεµίων ἐπίγνωσις, οἷς τὸ ἴδιόν τε καὶ τὸ 6.217 ἀλλότριον
διακρίνοµεν, οἳ πάσης ἐργασίας ὑφηγηταὶ καὶ διδάσκαλοι γίνονται καὶ τῆς ἀπλανοῦς ὁδοιπορίας ὁδηγοὶ
συµφυεῖς καὶ ἀχώριστοι, ὧν ἡ θέσις τῶν ἄλλων αἰσθητηρίων ὑπερκειµένη τὸ προτιµότερον τῆς ἀπ' αὐτῶν
γινοµένης ἡµῖν πρὸς τὸν βίον ὠφελείας ἐνδείκνυται.
174
osserva con attenzione, di un approccio critico al reale, in primis visivo, ma passibile di una
più ampia analogia.
Non stupisce quindi che il testo proponga figure del Vecchio Testamento che ebbero questa
funzione: Samuele, Ezechiele, Michea (benché il riferimento corretto, come sottolinea anche
Moreschini, sia invece Amos128), Mosè. Occhi, insomma, furono tutti coloro preposti alla
guida del popolo (ὀφθαλµοὶ πάντες ἐκεῖνοι οἱ εἰς ὁδηγίαν τοῦ λαοῦ τεταγµένοι: IC 217,
11-12). Nella Chiesa svolgono convenientemente questa funzione coloro che guardano senza
sosta al sole della giustizia, perifrasi usuale per indicare Dio, senza quindi essere accecati da
opere che vi si oppongono (e che quindi sono visivamente caratterizzate come tenebra); essi
devono distinguere ciò che è proprio della natura dell’uomo, cui egli tende attraverso la sua
speranza (τὸ δι' ἐλπίδος προκείµενον: IC 217, 19), e separarlo da ciò che invece le è estraneo,
in quanto effimero. Attraverso questo discernimento chi ricopre la funzione degli occhi riesce
dunque a vedere con chiarezza cosa è nemico e cosa invece è amico dell’uomo, segno del
vero Amico della sua natura a cui chi è preposto a un tale compito deve condurre129 . L’occhio
puro e sano dunque si propone come retta guida per le azioni (̔τῶν πρακτέων ὑφηγητής: IC
218, 6), maestro di ciò che è conveniente (τῶν συµφερόντων διδάσκαλος: IC 218, 6) e
conduce per mano lungo la strada verso Dio (τῆς ἐπὶ τὸν θεὸν πορείας χειραγωγὸς: IC 218, 7).
Questo legame tra occhi e educazione è rafforzato, in seguito, dalla considerazione
secondo cui due sono le possibili ἐνεργεῖαι della vista, delle quali l’una è rivolta alla verità ed
ha come conseguenza una partecipazione più stretta con Dio, fondamento di una personalità
unita, mentre la seconda erra nei vaneggiamenti e porta ad una divisione delle anime, che si
diceva apostrofate come τῶν ἀπαιδεύτων ψυχαί (IC 259, 6)130 .
Secondo una nuova possibile interpretazione, richiamata ancora nell’omelia VII, la lode
del Logos potrebbe poi attestare (µαρτυρεῖ: IC 218, 16) la purezza di chi appartiene secondo
questa forma al corpo della Chiesa: non rivolgendo il loro sguardo a nulla che sia estraneo
all’uomo, e quindi materiale e corporeo, gli occhi prendono la forma di ciò che realmente li
cattura, la grazia dello Spirito. Attraverso gli occhi (e gli uomini che nella comunità dei
credenti ne ricoprono la funzione) la vita dell’uomo si conforma a quella dello Spirito, sia
nelle azioni che rifulgono davanti agli altri uomini, sia in ciò che guarda solo Dio131: maestri
dunque non sono coloro che posseggono la verità, ma che ad essa si conformano in un
rapporto di imitazione e sequela. Nell’omelia XIV, dove l’immagine è ripresa, si nota che
l’efficacia degli occhi si mostra compiuta quando la vista acuta guida (τὴν ἀγαθὴν ὁδηγίαν:
128
Cf. MORESCHINI 1997, p. 180, n. 62.
Cf. IC 217, 13-218, 5.
130 Cf. IC 258, 21-261, 4.
131 Cf. IC 218, 17-219, 19.
129
175
IC 406, 15; ὁδηγηθῆναι, IC 406, 17) l’uomo a perseguire fino in fondo il suo impegno nelle
buone opere132.
Gli occhi, preposti a guardare, osservare e sorvegliare133 , per svolgere bene ciò cui sono
chiamati, devono ripulirsi da ogni cisposità; fuor di metafora, chi è stato da Dio assegnato a
servire la Chiesa come occhi deve togliere da sé il vizio attraverso le acque abbondanti delle
virtù e il latte. Queste acque, dove il testo suggerisce di posare, insegnano un continuo
impegno nel dedicarsi agli ammaestramenti riguardo alla divinità (τὴν γὰρ διηνεκῆ
προσεδρείαν τῆς περὶ τὰ θεῖα µαθήµατα προσοχῆς: IC 397, 6-7) 134. Il latte invece suggerisce
all’esegeta una spiegazione diversa: esso, pur essendo un liquido, non riflette immagini non
sussistenti delle cose che ha di fronte, così come negli occhi della Chiesa non deve esserci
nulla di vano e senza effettiva realtà135. In tal modo gli occhi, protetti dalla trincea dei divini
insegnamenti come da sopracciglia136, possono svolgere il loro lavoro ed essere utili per tutti.
La lode successiva riguarda i capelli. Questa parte del corpo, osserva Gregorio, in sé non
presenta alcuna sensazione; tali sono coloro che nella Chiesa non sono mossi nel loro animo
dai rivolgimenti delle azioni del mondo137. Il riferimento appena successivo al monte Galaad
permette all’esegeta di precisare meglio il suo pensiero: perfezionano la loro vita nelle virtù,
morti alle lusinghe del mondo, coloro che abbracciano la vita eremitica, vero segno del
passaggio dal paganesimo alla vita filosofica secondo i precetti di Dio (πρὸς τὴν κατὰ θεὸν
φιλοσοφίαν: IC 223, 5)138. Gregorio subì potentemente il fascino di questa scelta a fronte, per
citare un solo esempio, della vita di sua sorella Macrina139 . Nell’omelia XV, dove il tema della
lode dei capelli è ripreso, l’encomio viene rivolto invece alla figura del sapiente; costui,
secondo Prov 10, 12, deve essere lodato perché nasconde il loro sentire, morto ad ogni
sensazione, senza gonfiarsi d’orgoglio per gli onori che riceve e senza angustiarsi per le
tribolazioni cui va incontro140 . Sempre rispetto ai capelli si nomina anche la capra141. Il
Nisseno a tal proposito spiega che un simile animale sarebbe potuto essere stato scelto per il
132
Cf. IC 406, 7-21.
Cf. IC 394, 18-20.
134 Cf. IC 397,4-399, 3. I riferimenti all’ambito dell’insegnamento sono presenti in IC 397, 9 (διδάσκων) e IC
397, 17 (µάθηµα τοίνυν ἐστίν κτλ.).
135 Cf. IC 396, 9-397, 3.
136 Cf. IC 398, 18-19.
137 Cf. IC 219, 20- 221, 21.
138 Cf. IC 221, 22-223, 9.
139 Riguardo al fascino che esercita la vita monastica sul Nisseno, avverte MATEO-SECO p. 206 che «su elogio del
monacado no es tanto trasposición de la vida ascética de algunas corrientes filosóficas, cuanto consecuencia de
su piensamiento en torno al origen del hombre y su caîda. Frente a la ambición de felicidad material, Gregorio de
Nisa propone no tener como hermoso más que la pureza de alma; como riquezas, más que la carencia de
posesiones; como patria, la virdud».
140 Cf. IC 450, 14-452, 16.
141 Cf. IC 452, 17-454, 6.
176
133
folto vello o perché procede senza timore sulle strade impervie delle montagne, così come si
cammina senza timore sulla strada delle virtù.
Della spiegazione del passo che riguarda i denti si è già trattato142: essi sono immagine
delle guide che attraverso un vaglio critico della parola divina conducono ad una maggiore
comprensione e assimilazione del cibo dell’anima, le discipline, e legano le figure di maestri e
sacerdoti.
Le labbra della Sposa143, cioè la bocca della Chiesa, non fanno che da controcanto alla
ὑφήγησις dei denti, cioè dei maestri144 : appropriandosi dell’insegnamento di questi infatti la
Chiesa diventa un solo labbro e una sola voce; il nastro cui sono paragonate nella parola
ispirata diventa simbolo della concordia perché unione di tanti fili differenti, rossi a motivo
del sangue attraverso cui si è compiuta la salvezza, cui il testo insegna a guardare (βλέπειν
διδάσκεται: IC 229, 2).
Non pertiene direttamente alla tematica educativa, se non in una interpretazione più lata
che si appoggi alla semplice esortazione alla virtù, la figura del melograno cui è paragonato
quindi il rossore delle guance della Sposa145 , segno evidente della sua verecondia. Il frutto
infatti reca all’interno di una scorza asprigna una polpa molto dolce; allo stesso modo, una
vita austera e decorosa è suggello per i beni della temperanza, alcuni visibili, ma i più non
nascosti solo all’occhio di Dio.
Più legata al tema si presenta invece l’immagine del collo146. In essa è ripreso il concetto
dell’insegnamento come l’energia che nutre il corpo della Chiesa, ciò attraverso cui esso trova
la sua forza147 ; cardine della spiegazione è tuttavia l’exemplum di Paolo, che incarna la
trasposizione sul piano spirituale delle caratteristiche anatomiche di questa parte del corpo.
L’esegeta presenta infatti come preambolo alla sua spiegazione una descrizione accuratissima,
sin ai più minuti particolari, affinché attraverso essi si svelino le realtà nascoste148. Il collo
sostiene il capo (figura naturalmente di Cristo, sulla base di Eph 4, 16), così come Paolo portò
in sé Cristo, che si esprimeva in lui149. Le vertebre da cui il collo è chiuso nella parte
142
Cf. Cap. II.4.
Cf. IC 228,4-229, 20.
144 Cf. IC 228, 9-10: τῇ γὰρ τῶν ὀδόντων (τουτέστι τῇ τῶν διδασκάλων) ὑφηγήσει τὸ στόµα τῆς ἐκκλησίας
συµφθέγγεται.
145 Cf. IC 229, 21-231, 4.
146 Cf. IC 233, 6-236, 11.
147 Cf. IC 235, 5-7.
148 Questo era già accaduto nelle omelie precedenti: cf. La descrizione della fioritura del fico presente in IC 154,
20-155, 14. In questo brano si ricorda come prima della fioritura dei suoi dolci frutti, il fico produca all’inizio
della primavera delle escrescenze (i “grossi”, οἱ ὄλυνθοι) che maturano eliminando il primo e più terreno umore
della piante (: 155, 4) e preannunciano i veri frutti commestibili. L’interpretazione, esposta subito dopo (155,
14-156, 13), è la seguente: pur essendo ormai passati i mali, non si è ancora nella stabilità delle virtù; non appena
salvata l’anima caccia fuori tutto ciò che c’è in lei di terreno e inutile attraverso la confessione (δι'
ἐξοµολογήσεως: 156, 8), mostrando un’impronta della futura beatitudine.
149 Cf. 2 Cor. 13, 3.
177
143
posteriore sono molte e, anche se diverse, sono ordinate in unità attraverso i nervi, le midolla
e i legamenti; in questo il collo è perfetta immagine dell’apostolo delle genti che riunì in
armonia per mezzo del legame della pace e dell’amore persone molto diverse. La possibilità
data a questa parte del corpo di rendere possibili i movimenti della testa verso tutte le
direzioni è quindi letta come la capacità che ebbe l’apostolo di piegarsi sui più miseri come di
innalzarsi verso i misteri più profondi di Dio, come poi di scansare con attenzione le insidie
che gli sopravvenivano. Guardando quindi alla parte anteriore di esso, il Nisseno sottolinea
come la trachea sia il passaggio del fiato attraverso cui è ventilato il fuoco che risiede nel
cuore e che si propaga per tutto il corpo; il fiato è naturalmente figura dello Spirito, che
vivifica e riscalda il cuore. Sempre lo Spirito rende possibile il prorompere della voce, con cui
si possono esplicare i movimenti del cuore: rispetto a questo Paolo fu una trachea sonora e
ben risonante delle parole della verità. Le sue parole poi erano dolci e vivificanti e
diventarono vero nutrimento per il corpo della Chiesa, così come attraverso le fauci e la gola
il cibo può giungere a ciò che è preposto a riceverlo. Il collo infine è saldo in mezzo alle
spalle, che raffigurano lo zelo e nell’agire e nell’eseguire: esse sono infatti perno per le
braccia, che permettono di compiere le opere attraverso cui ci si procura la salvezza150 .
Infine, prima di concludere con il passo del Cantico secondo cui la sua amata sarebbe tutta
bella (Cant 4, 7), lo Sposo ne loda le mammelle, paragonandole a cerbiatti che si nutrono di
gigli, simbolo di purezza151 . Non vi sono in questa immagine simboli che possano essere
ricondotti alla tematica educativa; un parco riferimento si ritrova quando attraverso il verbo
διακρίνειν 152 si sottolinea come necessario il saper distinguere ciò che nutre la natura umana
da ciò che la danneggia. Paolo diventa nuovamente modello esemplificativo, in quanto si
pone come mammella per chi è ancora infante, offrendo il latte a chi è appena nato nella
Chiesa.
Le lodi dell’amata da parte dello Sposo sono quindi riprese nell’omelia IX. In essa infatti
Gregorio commenta Cant 4, 11 paragonando l’anima ad un’ape sulla base dello zelo e
dell’attenzione (ἐκ µελέτης τε καὶ προσοχῆς: IC 268, 17) che contraddistinguerebbe
entrambe153 . Già una delle tradizioni dei Proverbi dopo aver indicato come esempio la
formica aveva proposto l’elogio dell’ape in un contesto paideutico, esortando il discepolo
della sapienza a recarvisi presso per impararne la laboriosità: essa infatti conosce l’importanza
delle sue fatiche, che sono utili ai re come ai privati cittadini in quanto portano alla salute; pur
150
Cf. IC 237, 13-16.
Cf. IC 238, 13-242, 13.
152 IC 241, 13-14, dove si ritrova l’immagine degli occhi: διακριτικῶν ὀφθαλµῶν ἐστι χρεία.
153 Cf. IC 268, 16-271, 6.
178
151
essendo debole, onora la sapienza e per questo è onorata154 . Già Basilio aveva additato l’ape
come l’animale che i giovani dovevano imitare nell’approcciarsi ai testi classici, in modo non
indiscriminato ma critico, suggendo da essi la verità e tralasciando il resto, come le api
ricavano il miele da fiori scelti, lavorando solo ciò che serve loro e non curandosi del resto155;
questo testo costituisce sicuramente un riferimento per il Nisseno, che però propone per
l’immagine una diversa prospettiva. L’ape infatti nelle omelie In Canticum è segno
dell’anima, ormai diventata maestra grazie alle ascese precedenti156 ; essa deve volare sul
prato delle parole divinamente ispirate per non astenersi da alcun buon insegnamento
(µηδενὸς ἀπέχεσθαι τῶν ἀγαθῶν µαθηµάτων: IC 269, 11-12): ciascun fiore infatti possiede
qualcosa che serve al possesso della sapienza. A imitazione della saggezza dell’ape (κατὰ
µίµησιν τῆς σοφῆς ἐκείνης µελίσσης: IC 269, 18), che costruisce per sé e per i frutti del suo
lavoro un favo, l’anima deve riporre nel proprio cuore questa industriosità (ἐν … τῇ ἑαυτοῦ
καρδίᾳ τὴν φιλεργίαν ταύτην: IC 268, 15) e nella memoria, in teche distinti, le varie discipline
(τῶν πολυειδῶν µαθηµάτων ἀσυγχύτους ἐν τῇ µνήµῃ τὰς θήκας: IC 269, 16-17). Il suo lavoro
è permutare, attraverso le virtù, le fatiche di questa terra con i beni eterni, diventando così
esempio di disciplina e laboriosità. Il cuore, colmo di queste virtù che provengono da
un’educazione che ha toccato tutti gli ambiti (πλήρης σοι γέγονεν ἡ καρδία τῶν ἐκ τῆς
παντοδαπῆς παιδεύσεως κηρίων: IC 270, 7-8), stilla miele e latte a seconda di chi i trova di
fronte: la maestra infatti, secondo un principio educativo rispettato da Dio stesso, non propone
un discorso che abbia un’unica forma (οὐ µονοειδῶς: IC 270, 13), ma avendo di mira l’utile
(τὴν ὠφέλειαν ἐπιδεικνύµενος: IC 270, 14) adatta il suo parlare convenientemente alle
capacità di coloro che lo ricevono, offrendo il miele a chi è più perfetto (τοῖς τελειοτέροις: IC
270, 15), mentre il latte per chi è ancora infante nei misteri divini (τοῖς νηπιάζουσιν: IC 270,
16), su modello del ministero paolino. La lingua infatti richiama in modo evidente alla facoltà
della parola, una potenza molteplice (τὴν ποικίλην ταύτην τοῦ λόγου δύναµιν: IC 271, 5) che
si esplica nella sovrabbondanza dei carismi (τῶν πνευµατικῶν χαρισµάτων περιουσίαν: IC
268, 18).
Da ultimo, occorre analizzare le omelie XIII e XIV, che si propongono di commentare
versetti del Cantico che lodano la bellezza dello Sposo, espressione delle caratteristiche
visibili del corpo di Cristo, la Chiesa, attraverso cui la Sposa educa le anime giovinette.
154
Cf. Prov. 6, 8 a/b/c: [8a] ἢ πορεύθητι πρὸς τὴν µέλισσαν καὶ µάθε ὡς ἐργάτις ἐστὶν τήν τε ἐργασίαν ὡς
σεµνὴν ποιεῖται [8b] ἧς τοὺς πόνους βασιλεῖς καὶ ἰδιῶται πρὸς ὑγίειαν προσφέρονται ποθεινὴ δέ ἐστιν πᾶσιν καὶ
ἐπίδοξος [8c] καίπερ οὖσα τῇ ῥώµῃ ἀσθενής τὴν σοφίαν τιµήσασα προήχθη.
155 Cf. Bas. Or. in adul. 4, 9.
156 Rivolgendosi direttamente al lettore, Gregorio sottolinea il valore del percorso conoscitivo dell’anima
attraverso ciò che ha imparato scrivendo νοεῖς δὲ πάντως ἐκ τῶν µαθηµάτων τὴν διδάσκαλον ἥτις ἐστίν (IC 269,
2-3).
179
Prima lode dello Sposo riguarda il suo capo, i cui riccioli sono d’oro puro; si è già avuto
modo di notare come l’immagine offra un fecondo parallelo con una raffigurazione
precedente, nella quale tali riccioli erano simbolo degli apostoli; sono quindi riproposte senza
significativi ampliamenti, le immagini degli occhi e dei denti già analizzate nell’omelia VII.
L’immagine delle mascelle157, con cui si apre la serie delle lodi dell’omelia XIV, si
presenta come una variazione su quella dei denti. Non tutti infatti necessitano del latte
dell’infanzia dell’età spirituale, ma possono aspirare ad un nutrimento più corposo, scovato
dagli occhi. Le mascelle, come i denti, consentono di sminuzzare questo nutrimento e di
sostentare in questo modo il corpo. Le mascelle sono paragonate a fiale; una prima ipotesi
esplicativa di questo paragone riguarda l’insegnamento cristiano: come la fiala mostra linee
diritte e senza tortuosità, così esso è semplice, privo di doppiezza e inganno (τὸ ἁπλοῦν τε καὶ
διηπλωµένον καὶ ἄδολον τῆς διδασκαλίας: IC 401, 20-21); la fiala, secondo l’interpretazione
offerta dal Nisseno di Cant 5, 13a158, non contiene il profumo ma essa stessa è fatta di una
simile sostanza. L’esegeta offre dunque l’esempio di Paolo, sottolineando come egli fosse una
fiala che emanava di fronte a ciascuno il profumo di cui questi abbisognava, mostrando così
di possedere in sommo grado la grazia dell’insegnamento (τῆς διδασκαλίας ἡ χάρις: IC 403,
17).
Vengono quindi lodate le labbra159, paragonate a gigli, attraverso cui promana il profumo
della mirra, la parola. L’insegnamento del testo, spiega Gregorio, si riferisce alla vita
intellettuale che fa trasparire luminosa e brillante la verità grazie alla meditazione dei beni del
cielo, che porta ad una mortificazione della vita rivolta invece ai beni terreni.
Mani della Chiesa160 sono invece coloro che trattano dei beni messi in comune secondo i
dettami dei comandamenti, in modo puro e privo di peccati. Il Nisseno ricorda a questo
proposito l’arte della scultura, che attraverso il tornio tolgono dalla pietra le particolarità che
impediscono l’imitazione della forma archetipale (πρὸς τὸ ἀρχέτυπον εἶδος … τὸ µίµηµα: IC
408, 1-2); allo stesso modo lavorano gli incisori di smeraldi161 . Fuor di metafora questo
avviene, nell’uomo, attraverso l’uso del tornio dei ragionamenti (διὰ τῆς τῶν λογισµῶν
τορείας: IC 408, 4) cui introduce la retta visione guidata da chi, nella Chiesa, ha la funzione di
occhio.
La lode interessa quindi il ventre dello Sposo: esso è paragonato ad una tavola d’avorio su
pietra di zaffiro 162. Dei due materiali del passo, su cui si appunta l’esegesi del Nisseno,
157
Cf. IC 399, 15-403, 21.
Il testo recita: σιαγόνες αὐτοῦ ὡς ϕιάλαι τοῦ ἀρώµατος ϕύουσαι µυρεψικά.
159 Cf. IC 403, 22-406, 6.
160 Cf. IC 406, 7-409, 12.
161 Cf. IC 410, 22-411, 4.
162 Cf. Cant 5, 14, che Gregorio commenta in IC 411, 15-415, 12.
180
158
l’avorio rappresenterebbe il compimento delle tavole della Legge, il materiale cioè sul quale
dopo la Buona Novella sono riposti i buoni insegnamenti (τὰ θεῖα µαθήµατα: IC 414, 2) che
prima erano appannaggio delle incisioni su pietra: esso consiste nella scrittura indelebile della
memoria - come fossero incisioni nell’avorio - nella quale si conservano le visioni di Dio (διὰ
τῆς µνήµης τὰς θείας ὁράσεις ἀπογραφόµεθα: IC 413, 17). Il termine «ventre» usato dal
Cantico indicherebbe dunque metaforicamente l’aspetto intellettuale e raziocinante dell’anima
(τὸ διανοητικὸν καὶ τὸ λογιστικὸν τῆς ψυχῆς: IC 414, 1), la parte pura del cuore (τὸ καθαρὸν
τῆς καρδίας: IC 413, 16): in esso si imprime nitida e non confusa la memoria delle parole
divine. Lo zaffiro invece, pietra azzurro intenso, portava la nomea di ricreare e confortare la
vista; gli occhi, secondo una simbologia più volte incontrata, indicano coloro che con zelo si
applicano allo studio dei comandamenti divini e chi introduce altri ad essi; lo zaffiro, color del
cielo, sarebbe quindi segno (τὸ δὲ τοιοῦτον αἴνιγµα σύµβολον γίνεται: IC 415, 7) di uno
sguardo rivolto verso l’alto che ricrea e ristora gli occhi dell’anima.
Il versetto 5, 15 del Cantico presenta una lode delle gambe dello Sposo163: queste sono
paragonate a delle colonne salde, di marmo, piantate su basi d’oro. La lettura proposta è
facilmente adattabile al testo di partenza: le colonne, fondamento della dimora di Dio, la
Chiesa, sono gli apostoli, in particolare Pietro, Giacomo e Giovanni.
La gola164 , ultima lode particolare prima dell’encomio finale, rappresenta invece coloro
che furono ministri e interpreti della parola (τοὺς ὑπηρέτας τε καὶ ὑποφήτας τοῦ λόγου: 425,
4-5); tra essi campeggiano Giovanni Battista e Paolo, che parlavano in virtù di Cristo stesso,
che prestava loro la voce (τὴν φωνὴν ἑαυτοῦ χρήσας: IC 425, 9-10).
III.4.2
I pastori
Come si legge all’inizio dell’omelia In diem luminum 165 i componenti del popolo santo, la
Chiesa, resi tali per aver fatto esperienza (πεπειραµένοι: IDL 222, 17) dei beni eterni, hanno il
compito di guidare (ὁδηγοῦντες: IDL 222, 20) con cura e attenzione al cammino di coloro che
sono messi sulla retta strada (µελέτῃ καὶ προσαγωγῇ: IDL 222, 19), come padri validi
(πατέρες χρηστοί: IDL 222, 19), coloro che non sono stati ancora iniziati a tali misteri alla
perfetta comprensione.
163
Cf. IC 415, 13-419, 18.
Cf. IC 424, 20-426, 1.
165 Cf. IDL 222, 13-21.
164
181
In incipit del De beneficentia166 , Gregorio ricorda il significato educativo di coloro che,
nella Chiesa, sono posti come guide: colui che presiede la comunità e coloro che si ritrovano
ad essere maestri per la propria pietà e il proprio vissuto, che rispecchia le virtù, mostrano
infatti una stretta somiglianza con i maestri di scuola e coloro che educano ai primi rudimenti.
Essi ricevono dai padri dei figli ancora infanti e non possono condurli subito alle sfumature
più perfette del sapere, ma devono insegnare loro i fondamenti, educandoli alla scrittura delle
lettere e al loro nome, oltre che a pronunciarlo correttamente; allo stesso modo le guide della
Chiesa per prima cosa devono proporre degli insegnamenti fondamentali e solo in seguito
portare alla conoscenza di ciò che è più perfetto.
Compito precipuo degli anziani, dei πρεσβύτεροι, come si legge in Paolo (1Tim 5, 17), è
infatti la fatica della predicazione e dell’insegnamento, motivo per il quale l’apostolo li ritiene
degni d’onore. Questa pratica si realizza tuttavia innanzitutto non come pura parola, ma deve
riverberarsi nella condotta di vita. Gregorio sottolinea questo aspetto della predicazione
ecclesiastica nella prima omelia In Ecclesiasten167 laddove cerca di dare una interpretazione
dei λόγοι ἔγκοποι, “discorsi faticosi”, di cui tratta Eccl 1, 8. Il Nisseno, aveva appena
condannato le anime infanti che non sapevano riconoscere la vanità dei piaceri terreni; il testo
dell’Ecclesiaste, collegato ad un passo della prima lettera a Timoteo sulla base dell’assonanza
con il κοπιῶντες paolino, permette all’esegeta di mostrare che i λόγοι di cui vuole rendere
ragione non possono essere riferiti ad anime imperfette, bensì agli anziani, che hanno varcato
l’età della dissolutezza per giungere alla calma della vecchiaia. Solo costoro, che hanno
incarnato in sé la fatica e il travaglio, possono comprendere cosa sia un discorso che viene
offerto per il vantaggio dell’anima e l’utilità degli uomini: esso non consiste di mere parole,
ma è incarnazione di un agire virtuoso che si vede nelle opere. Gli anziani che offrono simili
discorsi faticosi devono dunque realizzare innanzitutto in se stessi quello che insegnano,
conducendo in tal modo altri alla vita che mostrano168. Nell’omelia In diem luminum 169 viene
ben delineatala figura del sacerdote cristiano: questi, pur rimanendo in apparenza immutato
dopo la sua ordinazione, è nei fatti trasformato dalla potenza del Λόγος: se prima era parte
166
Cf. DBen 93, 3-16: ὁ τῆς ἐκκλησίας ταύτης πρόεδρος καὶ οἱ τῆς ἀπλανοῦς εὐσεβείας καὶ τῆς κατ' ἀρετὴν
πολιτείας διδάσκαλοι πολλὴν ἔχουσι πρὸς τοὺς γραµµατιστὰς καὶ τοὺς παιδευτὰς τῶν πρώτων στοιχείων τὴν
ὁµοιότητα. ὥσπερ γὰρ ἐκεῖνοι τοὺς νηπίους καὶ ψελλιζοµένους ἔτι παῖδας παρὰ τῶν πατέρων ὑποδεξάµενοι οὐκ
εὐθὺς ἐπὶ τὰ τελειότερα τῶν µαθηµάτων ἄγουσιν, ἀλλὰ πρῶτον ἐν τῷ κηρῷ τὸ ἄλφα χαράξαντες καὶ τὰ ἑξῆς τῶν
στοιχείων τά τε ὀνόµατα αὐτῶν εἰδέναι διδά σκουσι καὶ τοῖς τύποις τοῖς γραφεῖσιν ἐνασκοῦσι τὴν χεῖρα, µετὰ δὲ
τοῦτο ταῖς συλλαβαῖς προσβιβάζουσι καὶ τῶν ὀνοµάτων ἑξῆς παιδεύουσι τὴν ἐκφώνησιν· οὕτως καὶ οἱ τῆς
ἐκκλησίας καθηγεµόνες τοῖς στοιχειώδεσι πρῶτον τῶν µαθηµάτων προσάγοντες τὸν ἀκροατὴν κατὰ προκοπὴν
παρέχουσι τῶν τελειοτέρων τὴν γνῶσιν. Una indicazione similare si legge anche in DBen 94, 3-5: τὸ δὲ πρῶτον
µάθηµα ἀσκηθεῖσιν ὑµῖν καλὸν ἐκ προαγωγῆς µεταδοῦναι τῶν µειζόνων καὶ ἀνδρικωτέρων λοιπὸν διδαγµάτων.
167 Cf. IE 291, 15-293, 1.
168 Cf. IE 292, 19-23: δέον µὴ ῥῆµα νοεῖσθαι τὸν λόγον, ἀλλὰ τὴν ἐν τοῖς ἔργοις ἀρετὴν εἰς διδασκαλίαν βίου
τοῖς ὁρῶσιν προτι θεµένην ἀντὶ λόγου γίνεσθαι τοῖς διδασκοµένοις. πάντες οὖν οἱ τοιοῦτοι λόγοι ἔγκοποι, τῶν
τὴν ἀρετὴν ὑφηγουµένων πρῶτον ἐν ἑαυτοῖς κατορθούντων, ἅπερ διδάσκουσι.
169 Cf. IDL 225, 25-226, 8.
182
della moltitudine degli uomini, ora è reso santo e onorabile, una guida (καθηγεµών: IDL 226,
3) e un maestro di santità (διδάσκαλος εὐσεβείας: IDL 226, 4), in quanto disvela
(µυσταγωγός: IDL 226, 5) i misteri nascosti, trasformato non nel corpo ma nell’anima170 .
Esempio di ottimo pastore fu il vescovo Melezio171 , come si legge in una delle parti
encomiastiche dell’orazione funebre che Gregorio gli indirizza172: egli infatti è descritto guida
sicura nei marosi, valido timoniere, certa ancora di giudizio contro le derive eretiche, che ora
la Chiesa lamenta di aver perso; tutto il passo è giocato su una metafora nautica, facilmente
riconducibile all’idea della sequela di un maestro: come gli egiziani, pur essendo di un’altra
stirpe, piansero sul patriarca Giacobbe (cf. Gen 50, 7-11), così con una ragione ancora più
profonda, imitando (µιµήσασθε: IM 445, 6) l’esempio biblico, i convenuti devono piangere
Melezio, che con loro condivideva la stirpe e il padre celeste173.
Nel De vita Moysis 174 si ritrova, a questo proposito, un breve spunto polemico nei
confronti dei ministri che si preoccupano esclusivamente dell’amministrazione di ciò che
appare (τὸ φαινόµενον µόνον: VM II 118, 2), definizione volutamente ambigua, che sembra
racchiudere in sé sia un aspetto personale sia uno più pubblico e pastorale. Coloro che sono
posti a capo devono invece preoccuparsi innanzitutto di ciò che Dio solo vede175, non mirando
ad essere onorati dagli uomini quanto ad essere ascoltati nella loro coscienza pura176, anche se
questo può voler dire esercitare dei rimproveri177 .
Un episcopo non deve infatti dimenticare mai uno stretto rapporto con il suo gregge178 : in
incipit dell’omelia In diem luminum 179, ad esempio, Gregorio si rallegra che ciascuno abbia
rinunciato alle preoccupazioni della carne per attendere al servizio divino, mostrando così al
vescovo nuovamente cosa sia la sua Chiesa e come la moltitudine di cui è costituita, che
170
Scrive HARL 1984 p. 100: «L’autorité épiscopale est d’origine divine. La volonté de Grégoire est en effet
d’établir l’origine divine des fonctions épiscopales».
171 Per una introduzione alla vita del vescovo, cf. CACACE 2006, pp. 11-23.
172 Cf. IM 444, 1-12.
173 Cf. IM 451, 1-11. Sull’invito a condolersi, cf. CACACE 2006, p. 138: «un’esortazione del genere può apparire
superflua e quasi innaturale, ma non lo è, se si considerano le divisioni dottrinarie fra opposti schieramenti e le
inimicizie fra singole personalità, che in Oriente laceravano il corpo della Chiesa in una misura sconosciuta
all’altra metà dell’Impero».
174 Cf. VM II 117-118.
175 Gregorio ha qui in mente Matth 6, 1-6.
176 Sulle qualità del vescovo ideale secondo Gregorio si è espresso STERK 1998, pp. 229-239, analizzando
l’ecomio In Basilium fratrem e il De vita Gregorii Thaumaturgi. Sinteticamente l’autore afferma (p. 238): «the
qualities Gregory of Nyssa admired in church leaders [...] were clearly monastic virtues - voluntary poverty,
humility, continence, disdain for the body, and the pursuit of virtue above all worldly happiness. When it came to
the selection of a bishop the question of social status seemed of no account». Rispetto all’educazione profana,
poco oltre si legge «Whatever the Nyssan's reservations about pagan learning, he seemed unable to dismiss the
value of education for leaders in the church, even if best abandoned in pursuit of a higher goal».
177 HARL 1984, pp. 98-99 sottolinea la funzione di rimprovero che il vescovo può dover esercitare; la studiosa
lega tale riferimento alla «autorité sèvére» di Basilio, di cui tuttavia il Nisseno non tratta esplicitamente nei suoi
scritti.
178 Cf. TARANTO 2009, p. 562 «Gregorio esprime l’importanza del legame tra i fedeli con i loro pastori; costoro
sono deputati a guidare la comunità per grazia divina e devono, per essere autentici maestri, mantenersi fedeli
alla tradizione ecclesiale».
179 Cf. IDL 221, 3-222, 12.
183
riempie anche lo spazio antistante all’edificio. Il pastore infatti non è insensibile all’affetto per
il suo gregge, che anzi lo spinge a prepararsi con più serietà nella predicazione, più conscio di
sedere come da vedetta per ciascuno che gli sia stato affidato; di contro, il Nisseno rimprovera
anche la mancata attenzione verso la festa della domenica precedente, ammettendo di
accusare, in questo caso, un profondo dolore. Tale partecipazione emotiva da parte del
vescovo di Nissa richiama, d’altra parte, la circostanza dell’esilio che questi ebbe a subire e
che lo allontanò da coloro che gli erano stati affidati.
III.4.3
Le eresie
Si oppongono alla retta πίστις i movimenti ereticali, per rispondere ai quali Gregorio
scrisse gran parte delle sue opere pastorali. Come si legge infatti nella Oratio catechetica
magna180, gli eretici operano una fantastica costruzione che perverte gli insegnamenti (περὶ
τῶν δογµάτων µυθοποιίας: OC 6, 4) ricavati dalla vera fede.
Gregorio sa bene che anche nella Chiesa può regnare il dissidio; se l’uomo non è
abbastanza forte da porvi rimedio, per evitare danni peggiori alla propria anima deve fuggire.
È questo il consiglio che l’esegeta offre commentando, nel II libro del De vita Moysis181,
l’episodio in cui il legislatore, dopo aver ucciso un egiziano, vorrebbe appianare la
controversia sorta tra due suoi connazionali ma viene aspramente rimbeccato, tanto da
scegliere l’esilio volontario prima che la voce del suo assassinio giunga alle autorità. I due
connazionali che litigano diventano infatti simbolo dei dissidi che lacerano la Chiesa al suo
interno, a causa delle idee erronee delle eresie, dai quali occorre fuggire per apprendere
misteri più grandi e profondi (πρὸς µείζονά τε καὶ ὑψηλοτέραν τῶν µυστηρίων διδασκαλίαν:
VM II 16, 9-10), come Gregorio invita a fare a somiglianza della narrazione storica (καθ'
ὁµοιότητα τοῦ ἱστορικοῦ ὑποδείγµατος: VM II 16, 8-9).
Come si legge nell’Adversus Arium et Sabellium182, Gregorio esorta a imitare
(µιµησάµενος: AdvAS 77, 31) l’azione di Dio, che fa sorgere la luce del giorno sui giusti e gli
ingiusti (cf. Matth 5, 45), rendendo partecipi anch’essi delle vere speranze e non nascondendo
loro la verità. Ciò che permette di confutare i ragionamenti ingannevoli rimane comunque il
ricordo della ἀποστολικὴν διδασκαλίαν (AnAp 158, 32-159, 1)183. Commentando ad esempio
la dottrina di Apollinare184 secondo cui era impossibile che Cristo, disceso dal cielo, avesse
180
Cf. OC 5, 17-6, 13.
Cf. VM II 16, che commenta Exod 2, 13-15.
182 Cf. AdvAS 77, 26-78, 2.
183 Cf. AnAp 158, 31-159, 3.
184 Cf. AnAp 184, 18-22: τίς τῶν εὐαγγελιστῶν σαρκὸς ἕνωσιν διηγήσατο; ποῖον δὲ τῶν ἀποστολικῶν
διηγηµάτων τὴν τοῦ ἀνθρώπου πρόσληψιν οὑτωσὶ κατὰ τὴν λέξιν ἐδίδαξε; τίς νό µος, ποῖοι προφῆται, τίς
θεόπνευστος λόγος, ποῖον συνόδου δόγµα τοιοῦτόν τι ἡµῖν παρακατέθετο;
184
181
aggiunto alla propria natura un congiungimento con l’uomo, il Nisseno, oltre a ribadire il
mistero dell’incarnazione, si scaglia contro il lessico impreciso usato dall’eretico: le fonti
della vera certezza, da cui solo si può ricevere un efficace insegnamento, devono essere infatti
reperte nella Scrittura ispirata, soprattutto nelle narrazioni evangeliche; ad essi si affiancano,
in pari grado, gli insegnamenti della Chiesa riunita (συνόδου δόγµα: AnAp 184, 21-22); solo
sulla base di questi retti insegnamenti si può distinguere la verità185. Ciò che invece ha come
radice qualcosa che non viene da Dio, ma esclusivamente dall’uomo, benché educhi
(πεπαιδευµένοι: AnAp 207, 17), porta a dottrine eretiche186 .
Vero baluardo contro l’eresia sono infatti l’incarnazione e la continuità fenomenica di
Cristo nella Chiesa187 , autentica «realtà di appartenenza del vero credente»188 : solo attraverso
tali guide è possibile educare gli occhi dell’anima ad una corretta visione, che giova a tutto il
corpo. L’occhio, come si diceva189 , è figura nel Cantico di coloro che discernono ciò che è
utile all’uomo, guide e maestri di ogni azione, in quanto guardano senza sosta al sole della
giustizia e indicano a tutti la retta via. Esiste tuttavia una doppia energia visiva nell’anima: la
prima guarda verso la verità, l’altra erra verso ciò che è vano190; solo la prima però coglie la
natura immutabile ed eterna del mistero di Dio. Una visione sbagliata, anche se Gregorio non
ne nega necessariamente l’acutezza, può infatti portare ad avere traveggole; chi ne è preda
vaneggia, perché dopo aver rivolto per un attimo lo sguardo a Dio erra in immaginazioni che
hanno come fondamento la materia (ταῖς ὑλικαῖς φαντασίαις ἐπιπλανῶνται: IC 258, 12). Tali
anime turbate e divise sono caratterizzate dall’esegeta come τῶν ἀπαιδεύτων ψυχαί (IC 259,
6), anime che non hanno ricevuto una παίδευσις 191: una ψυχή simile non può dunque dirsi
una, unita, perché divisa in tutte le passioni cui la portano i suoi vaneggiamenti; il guardare
all’unico Logos e l’accettare su di sé il suo giogo porta invece ad una profonda unità nella
personalità (come la Scrittura figurerebbe nell’espressione ἐν µιᾷ di Cant 4, 9).
Accogliere gli insegnamenti salutari (τῶν ὑγιεινῶν δογµάτων: IC 285, 13) dello Spirito,
riproposti dalla Chiesa, è infine anche ciò che consente all’uomo di usare correttamente la
facoltà che lo distingue dagli altri esseri, il λογισµός, per condurre la propria vita al suo
compimento, senza orientare la propria scelta verso altre strade, come gli eretici192.
Nell’omelia XIII dell’In Canticum il Nisseno sostiene infatti che l’avvicinarsi a Dio non può
185
Cf. AnAp 185, 1-21; si segnala la presenza del verbo ἐδιδάχθηµεν in 185, 12.16 e di µαθόντες in 185, 16.
Cf. AnAp 207, 15-18.
187 Cf. IC 257, 6-258, 20.
188 Cf. TARANTO 2009, p. 559.
189 Ci si riferisce ancora a IC 216, 3-219, 19.
190 Cf. IC 257, 13-15: διπλῆς γὰρ οὔσης τῇ ψυχῇ τῆς ὀπτικῆς ἐνεργείας καὶ τῆς µὲν τὴν ἀλήθειαν ὁρώσης, τῆς δὲ
ἑτέρας περὶ τὰ µάταια πλανωµένης.
191 Per tutto il passo cf. IC 258, 21-261, 4.
192 Cf. IC 285, 12-14.
185
186
avvenire senza un corretto uso della propria facoltà razionale, disgiunta dalle passioni193 : essa
deve permettere una visione chiara del vero essere delle cose (τὸ ἀπλανὲς τῆς περὶ τὸ ὄντως
ὂν ὑπολήψεως: IC 376, 9). I termini e l’ordine di questi due approcci sono significativi. Il
verbo ὑπολαµβάνω, da cui il nomen actionis ὑπόληψις, propone infatti nel suo significato
traslato194 un atteggiamento di risposta ad una previa vocazione195 ; esso identifica anche un
accogliere (fisicamente o come opinione) fondato su notizie precedenti o opinioni già
costituite196. Nel testo del Nisseno attraverso queste scelte si vuole probabilmente sottolineare
come la correttezza richiesta per giungere a Dio riguardi l’accoglimento della fede ricevuta
dagli apostoli: non è infatti casuale la successiva esortazione a non cadere nelle supposizioni
errate degli eretici, che hanno smarrito questa retta via, fabbricando con il pensiero
(ὑπονοίαις: IC 376, 10) ciò che invece ha accolto chi rimane sulla retta via (ὑπολήψεως: IC
376, 9)197 ; questo permanere tuttavia può accadere solo dopo aver ricevuto e accettato
l’annuncio, che ha rivelato all’uomo a cosa è destinato e la strada per raggiungere il proprio
compimento. Questo, conclude l’esegeta, è il ναί che la Sposa chiede alle giovinette, vale a
dire guardare a Dio nel modo in cui lo si deve venerare e trascorrere la vita in una
disposizione d’animo scelta che lo permetta, vale a dire l’assenza di passioni, sinergia di
conoscenza e libertà198. Cristo stesso aveva richiesto un simile assenso, la conferma cosciente
della verità che, in quanto esterna all’uomo, non può essere che accolta nella misura in cui è
concessa199 .
193
Cf. IC 376, 12-13: ὁ καθαρὸς λογισµὸς πᾶσαν ἐµπαθῆ διάθεσιν τῆς ψυχῆς ἐξορίζων.
Il significato più concreto, più determinato dal punto di vista spaziale, il verbo sottolinea l’azione del
prendere sopra di sé: tale è la nube che, negli Atti, accoglie Cristo che ascende al cielo ponendosi ai suoi piedi e
nascondendolo agli apostoli (Act 1, 9).
195 Questo il significato del verbo in Lc 7, 43 e 10, 30.
196 Questo il valore del termine in Act 2, 15, dove Pietro scalza la falsa opinione (presentata in Act 2, 13) che si
era già fatta la folla di Gerusalemme sentendo gli apostoli parlare in lingue diverse, dopo la discesa dello Spirito
Santo. In 3 Gv 8 il verbo indica la proposta di accoglienza fatta da Giovanni nei confronti di fratelli stranieri
convertiti al cristianesimo, dei quali aveva avuto notizie.
197 Cf. IC 376, 9-11: ἓν µὲν τὸ ἀπλανὲς τῆς περὶ τὸ ὄντως ὂν ὑπολήψεως, ὡς µὴ ταῖς ἠπατηµέναις ὑπονοίαις εἰς
ἐθνικάς τε καὶ αἱρετικὰς περὶ τοῦ θείου δόξας ἐκφέρεσθαι, ὅπερ ἐστὶν ὡς ἀληθῶς τὸ ναί.
198 Cf. IC 376, 19-377, 12.
199 Per tutto il passo, cf. IC 371, 11-377, 12.
186
194
Cap. IV
χριστιανισµός ἐστι τῆς θείας φύσεως µίµησις
DPr 136, 7-8
IV.1 La dinamica dell’imitazione
Nell’omelia In sanctum et salutare Pascha1 Gregorio afferma che la sorgente del Paradiso
disseta la Chiesa e inebria le creature in forza del cambiamento prodotto dalla parola del buon
seminatore, che ha arato le anime grazie al suo insegnamento (διδασκαλίας: SSP 311, 3), di
modo tale da far abbondare i frutti delle virtù: a fronte di eventi così grandi l’uomo può solo
esultare, e la forma di questa gioia deve avere la forma dell’imitazione (µιµεῖσθαι: SSP 311,
6) delle parole già presenti nei profeti e rinnovate nell’economia della salvezza.
Compito dell’uomo che vuole raggiungere il compimento, dopo l’incarnazione, è infatti
assimilare sé agli apostoli così come essi si immedesimarono nella persona di Cristo, che nel
Vangelo pose se stesso come esempio da imitare e da cui imparare attraverso la sequela2.
Benché infatti sequela e imitazione normalmente si diversifichino, a motivo forse di un
diverso uso della libertà3, «ciò che cristianamente si può chiamare “imitazione” non è altro
che la sequela del discepolo, configurata e fondata da Cristo stesso»4 . Proprio perché ha
compiuto questa opera di imitazione (µεµίµηται: IC 293, 10) dello Sposo fino a rendersi del
tutto simile a lui, come suggerisce il valore risultativo del perfetto, la Sposa del Cantico ha
raggiunto la perfezione.
La dinamica della µίµησις5 è possibile per la creatura in quanto nella sua essenza si
mostrano ombre e imitazioni della potenza inesprimibile della natura divina6 , le stesse che
permettono anche la possibilità della conoscenza attraverso la via analogiae. Il fondamento
della partecipazione alla natura divina è dunque intrinseco all’essere dell’uomo: se non vi
1
Cf. SSP 310, 27-311, 11; cf. anche la discussione in merito alle varianti del testo in questo passo presente in
PIETRELLA 2009, p. 160, n. 31.
2 In Matth 11, 29 Cristo dice Μάθετε ἀπ' ἐµοῦ, ὅτι πρᾶός εἰµι καὶ ταπεινὸς τῇ καρδία; Gregorio riprende il
concetto in IC 126, 9-10, dove scrive [scil. ὁ Χριστός] πάντων τῶν ἀγαθῶν πολιτευµάτων ἐν ἑαυτῷ δείξας τὰ
ὑποδείγµατα κτλ. L’espressione τὰ τῶν ἀγαθῶν ὑποδείγµατα è ripresa ancora in IC 127, 1.
3 Scrive VON BALTHASAR 1972, p. 89, che «tra sequela e imitazione concettualmente v’è un abisso».
4 VON BALTHASAR 1972, p. 89.
5 I termini riferiti a tale famiglia lessicale indicano sempre un progresso dell’uomo; si è trovato riferito
all’imitazione di un atteggiamento che porta al vizio solo VM II 70, 3, dove l’espressione usata è τῇ πρὸς τὸ
ἄλογον µιµήσει.
6 Cf. OC 12, 4-8: ὥσπερ δὲ τὸν λόγον ἐκ τῶν καθ' ἡµᾶς ἀναγωγικῶς ἐπὶ τῆς ὑπερκειµένης ἔγνωµεν φύσεως,
κατὰ τὸν αὐτὸν τρόπον καὶ τῇ περὶ τοῦ πνεύµατος ἐννοίᾳ προσαχθησόµεθα, σκιάς τινας καὶ µιµήµατα τῆς
ἀφράστου δυνάµεως ἐν τῇ καθ' ἡµᾶς θεωροῦντες φύσει.
187
fosse alcunché di comune sarebbe infatti impossibile postulare il compimento dell’uomo nella
divinità, risultando tali essenze ontologicamente del tutto separate. La µετουσία cui aspira
l’uomo è dunque già connaturata (συγγενές: DIP 79, 15) al suo essere da principio, atta a
ricevere ciò che le è già in qualche modo simile7 . Per questo Gregorio non cessa mai di
ribadire che all’inizio dei tempi la creatura umana riproduceva (ἀποµιµούµενος: DM 53, 20)
la grazia del suo archetipo attraverso l’ἀπάθεια. La creatura umana fu creata infatti εἰκὼν
θεοῦ8. Ottimamente Taranto riassume così la condizione ontologica precedente alla caduta:
«l’uomo, quando venne plasmato, fu costituito nella pienezza dell’essere derivato, poiché fu
fatto ad immagine del suo Creatore. L’immagine risplendeva nell’uomo come la possibilità
compiuta di poter vivere nel bene e nella felicità senza fine»9.
La somiglianza con Dio, ribadisce il Nisseno sin dal De virginitate10, non è opera della
creatura né realizzazione delle facoltà umane, ma dipende dalla generosità divina, che gliela
donò sin dalla sua prima nascita; l’uomo deve solo preoccuparsi di riportare la propria anima
alla bellezza primigenia, secondo l’insegnamento (δόγµα; διδάσκειν: DV 300, 16) del
Vangelo. L’anima porta già in se stessa le caratteristiche, le vestigia di una simile buona
bellezza, e le rende tanto più evidenti quanto più accoglie in sé e imita (κατὰ µίµησιν: DB 80,
25) le impronte dei divini caratteri; così nella bellezza visibile ciò che appare di bello è solo
7
Cf. DIP 79, 4-24. Cf. anche SIMONETTI 1984, p. 281: «Il concetto di partecipazione è di origine platonica. Ma
la teologia cristiana l'ha interpretato in senso diverso, in quanto l'uomo può partecipare di Dio, unico vero essere,
non per natura, come era per Platone, ma soltanto per grazia. Per Gregorio partecipare di Dio significa diventare
amico di Dio, ch'è il culmine del cammino verso la perfezione: [VM] Il 320».
8 «Il concetto di eikon occupa un posto di rilievo nella speculazione di Gregorio, che lo elabora a partire da Gen.
1,26 e lo sviluppa soprattutto in VM II 47.231.318. Dai passi gregoriani appare chiaro che εἰκών e ὁµοίοσις
coincidono, perché il punto di partenza - l’uomo a immagine di Dio - coincide con quello di arrivo a cui tende lo
sforzo umano di rendersi simile a Dio; in ciò Gregorio concorda con Athan. Contra gen. 2 = PG 25.5 C; De
incar. 4 = PG 25.104 C» (LOZZA 1991, p. 118). Come mostra LADNER 1953 passim, tale concetto è mutuato
altresì anche dalla filosofia classica, in special modo dalle ultime opere platoniche e dalla filosofia neoplatonica;
in esse si legge come l’idea di εἰκών abbia subito un processo di risemantizzazione attraverso il quale si nota
«the transfer of the image concept from the sensible to the intellectual realm» (p. 5). Se in Plato Phaedr. 250 B
l’immagine artistica, in quanto imitazione della natura, imitazione essa stessa del mondo delle idee, andava
rigettata, nei dialoghi della vecchiaia il concetto è passato a indicare anche l’opera del demiurgo, e la creazione
artistica può indicare il vero; l’εἰκών rimaneva comunque sempre qualcosa di gnoseologicamente secondario.
Non si sa bene «when exactly in later Platonismthe status of the term and concept eikon, image, was raised to
join the company of intelligible essences so that, paradoxically enough, the Platonic ideas could be called
incorporealor invisible image» (p. 7). Da questi presupposti si muove la speculazione di Filone, che costituisce
un importante collegamento tra il pensiero platonico sull’immagine e quello degli scrittori cristiani. Paolo, che
pure conosceva la produzione filoniana, si appunta invece al solo riferimento genesiaco e la speculazione sulla
natura dell’immagine ha riferimento prettamente cristologico. Da tali presupposti si sviluppa il pensiero cristiano
sul tema, che ha un momento di particolare fioritura nelle controversie trinitarie del IV sec., in special modo
quelle sulla natura di Cristo. Per una analisi del tema dell’uomo immagine di Dio letto in rapporto anche agli
autori precedenti al Nisseno, cf. anche VÖLKER 1955, pp. 72-77. Per un discorso sistematico sulla concezione
gregoriana dell’uomo come immagine di Dio che contempli anche un discorso diacronico e l’evoluzione del
pensiero del Nisseno, cf. TARANTO 2009, pp. 398-424.
9 TARANTO 2009, p. 398.
10 Cf. DV 300, 8-15.
188
successivo all’imitazione dell’idea archetipale, presente nell’aspetto vivente e sostanziale
della realtà che si ha davanti11.
L’uomo tuttavia ha perso nella caduta la possibilità di realizzare per proprio naturale
impulso la bellezza insita nella sua immagine. La condizione ontologica di εἰκών è
imprescindibile anche per il riscatto operato dall’economia della salvezza: per coloro che lo
desiderino, come si legge nell’Antirrheticus adversus Apolinarium 12, non è solo possibile, ma
anche facile imitare ciò che ha una comunanza essenza. Come se fosse un quadro, la creatura
umana viene dipinta nuovamente dalla parola evangelica ad imitazione del solo beato (πρὸς
τὴν τοῦ µόνου µακαρίου µίµησιν: DB 81, 13-14). Tale dinamica si conclude con l’ὁµοίωσις,
uno stato che non conosce passi ulteriori data la perfetta adesione a ciò che si stava imitando.
Occorre notare, per inciso, che il riferimento all’arte della pittura13 , che ricorda da vicino il
concetto di εἰκών, diventa per il Nisseno esempio privilegiato della dinamica dell’imitazione.
D’altronde, come ricorda Gregorio nel De instituto 14, chi desidera entrare nella più perfetta
familiarità con qualcuno deve in qualche modo, attraverso la pratica dell’imitazione,
assumerne la forma: lo stesso deve fare l’anima che desidera diventare sposa di Cristo.
Gregorio affronta il tema di questa tensione all’identità richiamandosi al concetto della strada
della ἀρετή, che permette di conquistare la bellezza di Cristo. «L’imitazione che [...] rende
l’uomo simile a Cristo», appunta Taranto15, «è qualcosa di essenziale; non è una semplice
imitazione formale», che altrimenti risulterebbe «fittizia». Lo stesso proponevano nelle loro
lettere Giovanni (1Ioh 3, 3) e Paolo (1Cor 11, 1), citati dal Nisseno subito dopo a commento.
Come scrive ancora Taranto16, è questo un passo ulteriore da parte della creatura, che
presuppone il fondamento ontologico dell’εἰκών ma lo trascende nell’adesione a Cristo, che lo
innalza alla parentela (συγγένεια) con Dio e che si esplica in una condotta morale conforme ai
suoi insegnamenti.
11
Cf. DB 80, 23-81, 3: ὥσπερ γὰρ ἐπὶ τῆς σωµατικῆς εὐµορφίας, τὸ µὲν πρωτότυπον κάλλος ἐν τῷ ζῶντι
προσώπῳ ἐστὶ καὶ ὑφεστῶτι, δευτερεύει δὲ τούτου τὸ κατὰ µίµησιν ἐπὶ τῆς εἰκόνος δεικνύµενον· οὕτως καὶ ἡ
ἀνθρωπίνη φύσις, εἰκὼν οὖσα τῆς ὑπερκειµένης µα καριότητος, καὶ αὐτὴ τῷ ἀγαθῷ κάλλει χαρακτηρίζε, ὅταν
ἐφ' ἑαυτῆς δεικνύει τὰς τῶν µακαρίων χαρακτήρων ἐµφάσεις. PENATI 1992, p. 34 n. 12 scrive che in questo
passo «viene utilizzata la terminologia platonica che esprime il rapporto tra il mondo sensibile e le idee per
indicare la relazione tra l’uomo e Dio. È l’unica volta, nell’ambito degli scritti esegetici sul Nuovo Testamento,
che compare il concetto di Idea platonica come archetipo ideale («τὸ πρωτότυπον κάλλος») e,
significativamente, viene introdotto per illustrare il rapporto di esemplarità che sussiste tra Dio e l’uomo». La
studiosa propone ivi anche una bibliografia critica a riguardo.
12 Cf. AnAp 178, 2-3: πρὸς γὰρ τὸ ὁµογενὲς ῥᾳδία γίνεται τοῖς βουλοµένοις ἡ µίµησις, τοῦ δὲ ὑπερβεβηκότος ἡ
ὁµοίωσις ἄπορος.
13 Cf. DB 81, 7-17.
14 Cf. DI 50, 1-9. Si riporta DI 50, 1-4: ∆εῖ οὖν τὸν ἐπιθυµοῦντα οἰκειωθῆναί τινι τὸν ἐκείνου τρόπον τῇ µιµήσει
λαβεῖν ᾧ οἰκειοῦται· οὐκοῦν ἀνάγκη καὶ τὴν Χριστοῦ ποθοῦσαν γενέσθαι νύµφην τῷ τοῦ Χριστοῦ ὁµοιωθῆναι
κάλλει δι' ἀρετῆς κατὰ δύναµιν.
15 Cf. TARANTO 2009, pp. 551-552; si confronti anche il par. “l’imitazione di Cristo come fondamento del
rinnovamento integrale”, pp. 549-555.
16 Cf. TARANTO 2009, p. 404.
189
Scopo della vita secondo virtù, come si legge espressamente nel De beatitudinibus 17, è
dunque il rendersi uguali a Dio, l’ὁµοίωσις θεοῦ. Tale concetto è spunto già platonico, che si
riscontra nella Respublica e nel Theaetetus; tale assimilazione si realizza nella pratica della
giustizia e della virtù, secondo saggezza, vale a dire praticando quella giusta misura che ha
come termine di paragone la divinità stessa, come si afferma nelle Leges18; il concetto è
quindi assunto dalla speculazione cristiana19 attraverso l’autorità paolina20. Nel pensiero del
Nisseno il termine indica l’assimilazione dell’uomo con la divinità alla conclusione del
cammino ascetico che viene chiesto alla creatura, in forza della sua originaria parentela con
Dio21; questo può avvenire solo in una tensione che ha come suo contenuto l’imitazione
nell’esercizio della propria libertà22 . Per il Nisseno dunque origine, destino della creatura e
metodo affinché essa si compia si identificano, una concezione che si riverbera anche nell’uso
linguistico: il Cappadoce infatti, scrive Penati23 , «non distingue tra εἰκών e ὁµοίωσις,
solitamente distinte nella tradizione patristica», in quanto per lui «l’‹immagine› si confonde
con il dinamismo morale».
Non è tuttavia possibile che l’uomo raggiunga questo traguardo nella sua completezza, per
quanto tenda ad esso attraverso l’imitazione: la beatitudine in se stessa, stabilità perfetta nel
bene, è irraggiungibile per una natura soggetta al mutamento e alla storia come è l’uomo24 ; si
può anzi affermare che «lo stesso sussistere come immagine è per Gregorio il segno che
17
Cf. DB 82, 24-83, 5: τέλος τοῦ κατ' ἀρετὴν βίου ἐστὶν ἡ πρὸς τὸ θεῖον ὁµοίωσις. ἀλλὰ µὴν τὸ ἀπαθὲς καὶ
ἀκήρατον ἐκφεύγει πάντη τὴν παρὰ ἀνθρώπων µίµησιν. οὐδὲ γάρ ἐστι δυνατὸν πάντη τὴν ἐµπαθῆ ζωὴν ὁµοιωθῆ
ναι πρὸς τὴν τῶν παθῶν ἀνεπίδεκτον φύσιν. εἰ οὖν µόνον τὸ θεῖον µακάριον, καθὼς ὁ ἀπόστολος ὀνοµάζει, ἡ δὲ
τοῦ µακαρισµοῦ κοινωνία τοῖς ἀνθρώποις διὰ τῆς πρὸς τὸν θεόν ἐστιν ὁµοιώσεως, ἡ δὲ µίµησις ἄπορος· ἄρα
ἀνέφικτός ἐστιν ἡ µακαριότης τῇ ἀνθρω πίνῃ ζωῇ. ἀλλ' ἔστιν ἃ τῆς θεότητος δυνατὰ τοῖς βουλοµένοις πρόκειται
εἰς µίµησιν.
18 Cf. G. Reale, Per una nuova interpretazione di Platone, Milano 2003, p. 711; i passi citati sono Plat. Resp. X
613 B; Tht. 176 B; Leg. IV 716 C 4- D 1.
19 «L'intimité des rapports que créait déja la structure platonicienne de “participation” est accrue par l'apport
stoïcien de la parenté avec la nature divine d'une part, l'apport évangélique de l'autre» (VON BALTHASAR 1942, p.
84).
20 LADNER 1953, p. 13 scrive che «in patristic thought the concept of mimesis, imitation, which had been
accorded at best a relative dignity by Plato, can stand on the higher level of assimilation to and followership of
God, because of St. Paul's designation of himself, and of the Christian in general, as µιµητὴς Χριστοῦ.»
21 Nell’Oratio catechetica magna il Nisseno esprime sinteticamente la tensione umana a riappropriarsi della sua
condizione originaria attraverso la locuzione appositiva ἐν γὰρ τῇ ὁµοιώσει τῇ κατὰ τὴν εἰκόνα (OC 18, 7-8).
MORESCHINI 1992, p. 136 n. 43 spiega che «l’espressione, che deriva dal famoso passo di Gen., I, 26, ove κατ'
εἰκόνα non è altro che una reduplicazione di καθ' ὁµοίωσιν, fu intesa nel cristianesimo antico, e soprattutto in
ambiente alessandrino, profondamente influenzato dalla filosofia platonica, nel senso che εἰκών fosse la
somiglianza originaria dell’uomo con Dio, che lo aveva creato simile a sé, mentre ὁµοίωσις indicava la
assimilazione dell’uomo a Dio in seguito alla ascesi».
22 L’imitazione che richiede il cristianesimo è del tutto avulsa dalla meccanicità; richiede anzi un uso pieno della
propria προαίρεσις. Cf. AnAp 226, 29-227-1: ἐπειδὴ τῷ ἑκουσίως ἀποθανόντι συναποθνήσκειν χρὴ θέλοντας,
προσήκει τὸν ἐκ προαιρέσεως αὑτοῖς ἐπινοῆσαι θάνατον· οὐ γάρ ἐστι διὰ τοῦ κατηναγκασµένου ἡ πρὸς τὸ
ἑκούσιον µίµησις.
23 PENATI 1992, p. 37 n. 15. Cf. anche VON BALTHASAR 1942, p. 89 e TARANTO 2009, pp. 405-6. Scrive
DESALVO 1996, p. 114 che «se “immagine” designa l’essere dell’uomo, “somiglianza” è l’operazione propria di
questo essere [...]: la somiglianza è l’esercizio di questo rispecchiamento» del Creatore; «con il peccato»,
continua la studiosa a p. 115, «il binomio εἰκών-ὁµοίωσις si è “aperto” o diastematizzato: l’uomo deve diventare
ciò che è già per natura».
24 Cf. TARANTO 2009, p. 407.
190
l’uomo è un essere diveniente»25. Vi sono tuttavia degli attributi della divinità che sono
proposti come possibili da imitare per coloro che lo desiderino e riportano la natura umana
alla sua condizione originaria di εἰκών; questo avviene grazie alla partecipazione alla
beatitudine divina, espressa dai termini µετουσία26 o κοινωνία. La studiosa afferma inoltre che
«nel sistema di Gregorio […] ὁµοίωσις è sinonimo di partecipazione»27, come il vescovo
intenderebbe appuntandosi su 1Tim 6, 15. Uno degli attributi della divinità che l’uomo può
imitare (µιµησάµενος: DB 83, 15; µιµήσασθαι: DB 84, 5) riguarda ad esempio la volontaria
umiltà dell’animo, della quale esempio (ὑπόδειγµα: DB 83, 7) fu, come si legge in 2Cor 8, 9,
Cristo stesso: rendendosi simile a Lui nella volontà, la creatura può raggiungere una
comunione di beatitudine con il Creatore, come si esorta attraverso la prima esortazione del
discorso della montagna28. Allo stesso modo, come si legge nel De beatitudinibus29 , la
misericordia e la beneficenza consentono all’uomo di rendersi simile a Dio (θεοῦσιν: DBen
103, 10) e ad imprimere in sé tramite l’imitazione delle sue caratteristiche (πρὸς µίµησιν
ἀποτυποῦσι: DBen 103, 10).
L’uomo impara (µανθάνοµεν: IC 439, 6) il canone (cioè il modello) e il culmine del
compimento della virtù grazie alla frase della Sposa secondo cui il suo vivere ormai consiste
nel suo diletto, cioè nel suo Sposo30 . Perfezione dell’anima è infatti diventare immagine
perfetta della bellezza del proprio archetipo31 , Dio (εἰκόνα τοῦ ἀρχετύπου κάλλους: IC 439,
10-11), come una pittura perfettamente conforme al modello o uno specchio costruito a regola
d’arte, che restituisce tal quale il riflesso di ciò che gli è davanti32 . Il riferimento scritturistico
25
TARANTO 2009, p. 420.
La nozione di µετουσία (partecipazione) presenta in Gregorio una accezione originale rispetto alla tradizione
neoplatonica, essendo utilizzata per escludere ogni intermediario tra il Creatore e ciò che è creato. Il termine è
ricollegabile al verbo µετέχειν, che «esprime il concetto platonico di partecipazione (µέθεξις), che condiziona il
rapporto fra un oggetto concreto e l’idea universale. Gregorio, che si ispira anche a Arist. Met. I 9 990 b 30, vi
ricorre spesso, e quasi sempre per indicare la familiarità tra l’uomo e Dio» (LOZZA 1991, p. 115). Forma
particolare di µετουσία, si legge in TARANTO 2009, p. 415, è la dimensione razionale dell’uomo: commentando il
nono cap. del De hominis opificio lo studioso scrive: «nel dono dell’immagine, con la ragione, la creatura riceve
il potere di aprirsi all’eterno: per questo in lei vive l’ordine soprannaturale del divino. Tale ordine, per la sua
principale valenza di correlazione, non viene perciò donato, ma partecipato: l’uomo, infatti, attraverso il pensiero
partecipa al piano della trascendenza. Il µετέχειν acquista una valenza “binaria”: Dio partecipa alla creatura il
suo ordine, affinché l’uomo possa partecipare di lui.»
27 PENATI 1992, p. 37 n. 15.
28 Cf. per tutto il passo DB 83, 5-84, 28; in particolare si legga DB 84, 1-9: ἐπεὶ οὖν ἐµπέφυκέ πως τὸ κατὰ τὴν
ἔπαρσιν πάθος παντὶ σχεδὸν τῷ κοινωνοῦντι τῆς ἀνθρωπίνης φύσεως, διὰ τοῦτο ἐντεῦθεν τῶν µακαρισµῶν ὁ
κύριος ἄρχεται, οἷον ἀρχέγονόν τι κακὸν ἐκβάλλων ἐκ τῆς ἕξεως ἡµῶν τὴν ὑπερηφανίαν, ἐν τῷ συµβουλεύειν
µιµήσασθαι τὸν ἑκουσίως πτωχεύσαντα, ὅς ἐστιν ἀληθῶς µακάριος, ἵνα ἐν ᾧ δυνάµεθα καθὼς ἂν οἷοί τε ὦµεν
ὁµοιωθέντες ἐκ τοῦ πτωχεῦσαι κατὰ προαίρεσιν, καὶ τὴν τοῦ µακαρισµοῦ κοινωνίαν ἐφελκυσώµεθα.
29 Cf. DBen 103, 8-12.
30 Cf. Cant 6, 3, commentato in IC 439, 3-5: ὁ δὲ ἐφεξῆς λόγος, ὃν ἡ καθαρὰ καὶ ἀκηλίδωτος νύµφη πεποίηται
λέγουσα· Ἐγὼ τῷ ἀδελφιδῷ µου καὶ ὁ ἀδελφιδός µου ἐµοί, κανὼν καὶ ὅρος τῆς κατ' ἀρετήν ἐστι τελειότητος.
31 Già in DV 276, 15-21 Gregorio attribuiva come scopo della rinuncia dei piaceri della carne l’imitazione
(µιµεῖσθαι: DV 276, 16; µιµήσεως: DV 276, 21), nella misura consentita a ciascuno, della bellezza primigenia.
32 Cf. IC 439, 11-440, 7. L’immagine dello specchio in Gregorio deriva probabilmente da Plato Alcib. I 132 F e
Plot. Enn. IV, 3, 11; 5, 7; VI, 2, 22.
191
26
più immediato è naturalmente Paolo 33, che il testo dice imitare (µιµεῖται: IC 440, 11) le parole
che direbbe un simile specchio se fosse dotato di libertà34 . Altra immagine altrettanto efficace
usata per ribadire questo concetto è quella di un recipiente di cristallo, nel quale appare con
chiarezza ciò che vi si trova all’interno, determinandone così luminosità o opacità35 . Per
l’uomo raggiungere una virtù significa dunque mostrarne anche esteriormente la forma,
facendola cioè brillare di fronte a tutti36: esempio evidente è ancora Paolo, che mostrava con
la vita tutte le cose buone che viveva nella sua anima37 .
È questo, nella teologia del Nisseno, il modo più fecondo che l’uomo possa trovare per
avere esperienza di Dio. Il Cantico dei Cantici propone molte immagini che sono interpretate
secondo questa chiave di lettura. Una di queste, presente nell’omelia III, è il profumo del
nardo: esso rappresenta il buon olezzo che si forma grazie alla purezza delle virtù e per questo
si pone come di fronte all’essere inaccessibile (ἀντ' ἐκείνου ἡµῖν γίνεται: IC 89, 20), imitando
(µιµουµένη: 89, 29) con la purezza ciò che è immacolato per natura: grazie alla virtù infatti è
possibile ricavare per via analogica a partire da un’immagine la bellezza archetipale (διά τινος
εἰκόνος τὁ ἀρχέτυπον κάλλος ἀναλογίσασθαι: IC 91, 3.4). Allo stesso modo viene utilizzata
l’immagine dello specchio. L’anima dell’uomo infatti, se pura, riflette in sé il disco del sole
(Dio) e permette di fissare ciò su cui altrimenti non si potrebbe fermare lo sguardo38: se uno è
figlio, presenta infatti in sé la stessa natura di chi lo ha generato39 . Culmine di questa
imitazione è infine, come si legge in IC 135, 1-2, imitare la purezza angelica attraverso
l’ἀπάθεια.
La dinamica dell’imitazione è ben descritta in un passo del De instituto40: quando infatti,
nell’ultima parte del trattato, Gregorio sottolinea l’importanza e la necessità dell’orazione,
arriva a parlare della frequenza con cui sarebbe auspicabile pregare. L’esegeta non propone
una regola, in quanto solo Cristo stesso può ispirare in tal senso; i superiori devono certo
favorire una più profonda attenzione che manifestano alcuni41 : costoro infatti diventano utili,
a detta del Nisseno, non solo per gli stessi monaci, ma anche per i fanciulli e coloro che
necessitano ancora di insegnamenti (τοῖς ἔτι νηπίοις καὶ δεοµένοις διδασκαλίας: DI 82,
17-18); grazie all’ambivalenza dei termini, Gregorio qui potrebbe riferirsi a chi è giovane dal
33
I passi cui Gregorio allude o cita sono Rom 6, 11; Gal 2, 20; Phil 1, 21.
Cf. IC 440, 7-442, 10.
35 Cf. IC 441, 12-18.
36 Cf. IC 442, 1-3: ὁ διὰ τῆς ἀγαθῆς πολιτείας ἐµφορηθεὶς ἐπίδηλον ποιεῖ διὰ τοῦ βίου ἑκάστης ἀρετῆς τὸ εἶδος
διὰ τοῦ ἤθους ἐπιδεικνύµενος.
37 Cf. IC 442, 6-9: πάντα γὰρ ταῦτα ἐντὸς τῆς ψυχῆς γενόµενα τῷ καθαρῷ διαδείκνυται βίῳ, καλλωπίζοντά τε
τὸν περιέχοντα καὶ αὐτὰ διὰ τοῦ εἰσδεξαµένου καλλωπιζόµενα.
38 Cf. ad es. IC 90, 10-16.
39 Cf. IC 468, 9-10: τῷ γὰρ τέκνῳ πάντως ἡ τοῦ γεγεννηκότος ἐπιθεωρεῖται φύσις.
40 Cf. DI 82, 12-22.
41 Cf. DI 79, 15-80, 14.
192
34
punto di vista fisico o a chi è ancora bambino rispetto all’età spirituale42. Costoro infatti, di
fronte a un esempio imponente di virtù, sono esortati e spinti all’imitazione di ciò che vedono
(εἰς µίµησιν ὧν ὁρῶσι: DI 82, 19).
IV.1.1
Imitazione e sequela
Nell’Oratio catechetica magna la dinamica dell’imitazione è caratterizzata come sequela.
Il Nisseno, parlando infatti del rito del battesimo43 afferma che l’uomo si salva non per
l’introduzione ad una dottrina (ἐκ τῆς κατὰ τὴν διδαχὴν ὑφηγήσεως: OC 86, 9), ma per la
partecipazione alla natura divina, che nella carne rese affine e connaturò a sé la natura della
sua creatura. Era necessario, scrive quindi il vescovo, che si trovasse un modo per stabilire nei
fatti una affinità tra colui che segue e colui che guida; questo era possibile solo in un processo
di imitazione. Gregorio offre due esempi di questa dinamica. Il primo riguarda
l’addestramento dei soldati: coloro infatti che stanno ricevendo una educazione
(παιδευόµενοι: OC 86, 22) a muoversi in ordine e bene armati da ciò che vedono vengono resi
davvero esperti nell’arte del combattimento solo attraverso chi è già stato educato (παρὰ τῶν
πεπαιδευµένων: OC 86, 19) a simili movimenti, cosa che non avviene in chi non esegue ciò
che gli viene mostrato; per questo chi si impegna a compiere il bene dovrà seguire
nell’imitazione colui che conduce ad attuare quello che mostra. Non è infatti possibile
raggiungere lo stesso fine se non percorrendo le medesime strade44, come dimostra il secondo
esempio del Nisseno, che richiama l’immagine di un labirinto da cui è impossibile districarsi
se non seguendo i passi della guida. Il battesimo diventa dunque il modo in cui sia possibile
l’imitazione (µίµησις: OC 87, 18; 88, 4; ἀπεµιµήσατο: OC 88, 12) dei tre giorni della morte e
della resurrezione di Cristo45. A causa della povertà della sua natura, la creatura non può
tuttavia raggiungere la perfetta imitazione della sua guida; essa è infatti immersa nel tempo e
nel mutamento, dunque otterrà il compimento solo in un cammino, distruggendo il vizio e
pentendosi del male, rendendolo inefficace attraverso l’acqua, immagine della morte46. Se
infatti l’imitatore ricevesse dall’acqua la morte e la resurrezione, questo sarebbe non più una
imitazione, ma lo stesso avvenimento capitato a Cristo; la povertà della natura umana tuttavia
42
Cf. Cap. V.1.3.
Cf. OC 86, 6-92, 25.
44 Cf. OC 86, 23-87, 4: κατὰ τὸν αὐτὸν τρόπον τῷ πρὸς τὴν σωτηρίαν ἡµῶν ἐξηγουµένῳ πάντως οἷς ἴση πρὸς τὸ
ἀγαθόν ἐστιν ἡ σπουδὴ ὁµοίως ἐπάναγκες διὰ µιµήσεως ἕπεσθαι, τὸ παρ' αὐτοῦ προδειχθὲν εἰς ἔργον ἄγοντας.
οὐ γὰρ ἔστι πρὸς τὸ ἴσον καταντῆσαι πέρας, µὴ διὰ τῶν ὁµοίων ὁδεύσαντας.
45 Cf. OC 87, 17-18: τίς οὖν ἐστὶν ἡ ἐπίνοια δι' ἧς καὶ ἐν ἡµῖν πληροῦται τοῦ παρ' ἐκείνου γεγονότος ἡ µίµησις;
46 Cf. OC 89, 1-7: ἐπὶ δὲ τῶν ἀκολουθούντων τῷ καθηγου µένῳ οὐ χωρεῖ τὴν ἀκριβῆ µίµησιν δι' ὅλων ἡ φύσις,
ἀλλ' ὅσον δυνατῶς ἔχει, τοσοῦτον νῦν παραδεξαµένη, τὸ λεῖπον τῷ µετὰ ταῦτα ταµιεύεται χρόνῳ. τί οὖν ἔστιν ὃ
µιµεῖται; τὸ τῆς ἐµµιχθείσης κακίας ἐν τῇ τῆς νεκρώσεως εἰκόνι τῇ γενοµένῃ διὰ τοῦ ὕδατος τὸν ἀφανισµὸν
ἐµποιῆσαι, κτλ. Altri riferimenti alla µίµησις: µιµήσεως: OC 89, 11; τὸν µιµούµενον: 89, 15; µίµησις: 89, 15.
193
43
non lo permette. Per questo è stato istituito un gesto che corrisponde efficacemente alla
sepoltura e alla resurrezione del salvatore47 . Il battesimo, come si legge nell’omelia In diem
luminum48, consente dunque all’uomo di imitare Cristo, signore, maestro e guida.
La dinamica dell’imitazione è la strada che Cristo scelse per redimere l’uomo, come scrive
il vescovo nella prima delle omelie De beatitudinibus49. Per comprendere infatti cosa sia la
vera beatitudine e l’insegnamento proposto dal Salvatore, Gregorio ricorda che l’uomo fu
plasmato ad immagine (κατ' εἰκόνα: DB 80, 20) del suo Creatore, l’unico essere per se stesso
beato; la felicità, per questo, consiste nella partecipazione (κατὰ µετουσίαν: DB 80, 22) alla
vita divina. Il retto insegnamento (παιδεὐµενοι: DBen 102, 14) della Scrittura e della Chiesa
deve tendere dunque a persuadere ad imitare (µίµησις: DBen 102, 16), per quanto possibile ad
una creatura, il creatore50.
Attraverso gli apostoli e il loro insegnamento, occorre dunque imitare Cristo stesso,
habitus dell’anima che implica il conoscere la conseguenza delle proprie scelte e non tirarsi
indietro se queste portano a percorrere la strada che aprì lui stesso, vale a dire quella del
sacrificio e della croce51. Come si legge nell’orazione In Basilium fratrem52, è difficile per la
natura umana l’imitazione di ciò che è oltre la sua essenza. Per tale motivo, l’economia
salvifica ha posto dei modelli vicini cui guardare e ispirarsi. Come Gregorio sostiene infatti
nell’In iscriptiones Psalmorum53, il piano di salvezza dello Spirito fa in modo che le azioni
compiute dai santi nel passato siano una guida per la vita di coloro che li seguirono, di modo
tale che l’imitazione conduca ad un bene identico. La memoria di tali fatti consente infatti che
sorga un desiderio di imitare (πόθῳ τῆς τῶν ὁµοίων µιµήσεως: IPS 161, 9) i comportamenti
virtuosi, che spegne i bruciori della passione.
Alla fine del Prologo del De vita Moysis54 Gregorio scalza una naturale - anche se
superficiale - obiezione al metodo dell’imitazione (µιµήσεως: VM I 13, 10; µιµήσοµαι: VM I
14, 7). È possibile infatti immedesimarsi in uomini che ebbero in sorte condizioni di vita
molto diverse da quelle in cui si vive? La risposta chiama in causa l’uso del discernimento
(κρίνοµεν: VM I 14, 9) e del metodo esegetico: è infatti necessaria una interpretazione della
47
Cf. OC 89, 18.23: ἐπεὶ δέ, καθὼς εἴρηται, τοσοῦτον µιµούµεθα τῆς ὑπερε χούσης δυνάµεως ὅσον χωρεῖ ἡµῶν
ἡ πτωχεία τῆς φύσεως, τὸ ὕδωρ τρὶς ἐπιχεάµενοι καὶ πάλιν ἀναβάντες ἀπὸ τοῦ ὕδατος, τὴν σωτήριον ταφὴν καὶ
ἀνάστασιν τὴν ἐν τριηµέρῳ γενοµένην τῷ χρόνῳ ὑποκρινόµεθα.
48 Cf. IDL 228, 15-16: ἡµεῖς δὲ τὸ βάπτισµα παραλαµβάνοντες εἰς µίµησιν τοῦ κυρίου καὶ διδασκάλου καὶ
καθηγεµόνος ἡµῶν κτλ.
49 Cf. DB 80, 20-81, 17.
50 Cf. DBen 102, 14-18.
51 Cf. DI 71, 11-15.
52 Cf. IB 122, 16-17: ἄπορος γὰρ τῇ ἀνθρωπίνῃ φύσει τῶν ὑπὲρ φύσιν ἡ µίµησις.
53 Cf. IPS 160, 18-161, 23; cf. in part. IPS 160, 26-161, 3: πρὸς τοῦτο γὰρ οἶµαι τὴν τοῦ ἁγίου πνεύµατος
οἰκονοµίαν ὁρᾶν, ὥστε τὰ προλαβόντα τῶν ἁγίων ἀνδρῶν κατορθώµατα εἰς ὁδηγίαν προκεῖσθαι τῷ µετὰ ταῦτα
βίῳ, πρὸς τὸ ἴσον τε καὶ ὅµοιον ἀγαθὸν προαγούσης ἡµᾶς τῆς µιµήσεως.
54 Cf. VM I 14-15.
194
pura lettera per discernere cosa questa effettivamente insegni (µεµαθήκαµεν: VM I 15, 3) e
che a cosa occorra improntare la vita per raggiungere ciò che essa promette.
La dinamica dell’imitazione ha buon esito per l’uomo in rapporto alla persona che si
prende a modello: nel Contra usuraios 55 ad esempio Gregorio condanna fortemente coloro
che, praticando l’usura, danno ad essa nomi differenti, meno spregevoli ma contro verità, ad
imitazione (κατὰ µίµησιν: CU 202, 15) dei Greci, che chiamarono Eumenidi, benigne, demoni
che odiavano e uccidevano gli uomini. Allo stesso modo il rapporto di discepolanza deve
offrire un vero maestro, o si corrompe dall’interno56: gli usurai infatti, venuti a sapere del
suicidio di uno dei loro debitori, trovano il modo di non addossarsi la colpa di ciò che è
accaduto, degni discepoli di astrologhi egiziani (τῶν µαθηµατικῶν Αἰγυπτίων ... µαθηταί: CU
203, 29) che, filosofando, non riconoscono i loro crimini.
Non ogni modello è infatti necessariamente positivo: nell’orazione In illud: quatenus uni
ex his fecistis mihi fecistis57 Gregorio sottolinea come non si debbano imitare (µιµεῖσθαι:
QuEH 114, 5; µιµούµενοι: QuEH 114, 11) le figure che nel Vangelo offrono esempi contrari
al messaggio di misericordia in esso presente, come coloro che di fronte all’uomo sorpreso
dai ladri non si fermarono ad aiutarlo (cf. Luc 10, 30-37).
IV.1.2
Il De professione christiana
Uno scritto che affronta con particolare enfasi il tema dell’imitazione è il De professione
christiana, un breve trattato ascetico che l’autore dedica al suo più giovane amico Ammonio.
L’occasione dichiarata per la stesura di quest’opera, che introduce sin dall’inizio in un
contesto educativo, è il lungo debito che il Nisseno avrebbe contratto di fronte alle numerose
lettere che il suo corrispondente gli aveva scritto58. Gregorio mostra un profondo affetto e
rispetto intellettuale per il suo interlocutore, indugiando con piacere nella parte iniziale sul
ricordo delle conversazioni che li intrattenevano e avevano come argomento la virtù e
l’esercizio della pietà: in esse il più giovane replicava diligentemente, con acume e spirito
critico, a ciò che il compagno più anziano proponeva e, alla fine, dirimeva; per descrivere
questo rapporto didascalico Gregorio propone l’immagine di un plettro, Ammonio, che
pizzica e fa risuonare la cetra del Nisseno59. L’autore, imitando quelle discussioni, decide
quindi di trattare di un tema per lui più che importante: cosa sia la professione cristiana e cosa
comporti il dirsi cristiani. Ciascuno desidera infatti essere chiamato con il nome più
55
Cf. CU 202, 14-21.
Cf. CU 203, 14-204, 1.
57 Cf. QuEH 114, 3-11.
58 Cf. DPr 129, 1-130, 20.
59 Cf. DPr 130, 7-11.
56
195
congeniale alla sua natura, per non risultare ridicolo agli occhi del mondo, che lo potrebbe
altrimenti accusare di aver usurpato una denominazione non propria, alla prova dei fatti (ἐπὶ
τῆς πείρας: DPr 131, 4) non calzante per la mancanza dell’educazione specifica necessaria
(τῇ ἀπαιδευσίᾳ: DPr 131, 3). A tal proposito il Nisseno ricorda una storiella molto diffusa tra i
pagani, che Jaeger pensa avesse ritrovato in Luciano 60: ad Alessandria un giocoliere riuscì ad
addestrare una scimmia in modo tale che compisse agili movimenti di danza; cammuffata
abilmente con dei vestiti, riusciva ad ingannare anche gli spettatori. La sua vera natura si
mostrò tuttavia, nel bel mezzo dello spettacolo, davanti ai frutti secchi di cui era ghiotta,
perché per mangiarli si lacerò la maschera e mostrò cosa realmente era tra le risate del
pubblico. Allo stesso modo, commenta il Nisseno, si comportano gli uomini che si rivestono
del nome cristiano senza che questi la loro essenza: di fronte agli allettamenti del nemico si
riveleranno infatti per quello che realmente sono. Simili uomini, attraverso una imitazione
puramente esteriore (διὰ µιµήσεως ἐσχηµατισµένης: DPr 133, 12-13), recitano la parte dei
cristiani come se fossero a teatro (τὸν χριστιανισµὸν ὑποκρίνονται: DPr 133, 13); Gregorio
quindi desidera comprendere pienamente cosa significhi un tale nome, per non rivestirsene
impropriamente di fronte a colui che vede anche ciò che è nascosto dall’apparenza61: l’autore
giudica infatti necessario che la fede cambi realmente la forma profonda della natura umana62 .
L’analisi dell’essenza del cristianesimo parte dalla ricerca del significato del nome
attraverso cui questa realtà è stata qualificata. Esso, secondo l’autore, deve essere ricondotto
innanzitutto alla concezione di Cristo come βασιλεύς, secondo l’accezione prevalente che
questa parola riveste nella Sacra Scrittura63. La sovranità predicata dal testo sacro si estende a
tutte le virtù, che dunque dovranno fregiare chiunque voglia per sé il nome cristiano: nel
battesimo il credente diventa partecipe della natura divina ed è posto in comunione con i nomi
più alti, legati tra loro in modo così stretto che non si può afferrarne uno senza trascinare a sé
anche gli altri64 . Chi si appropria del nome di Cristo deve quindi mostrare nella sua vita le
virtù che questi porta con sé65: il cristianesimo consiste infatti nell’imitazione della natura
divina (χριστιανισµός ἐστι τῆς θείας φύσεως µίµησις: DPr 136 7-866 ). Una simile definizione,
continua Gregorio, non deve sembrare eccessiva: guardando infatti agli insegnamenti della
Scrittura (διὰ τῶν γραφικῶν διδαγµάτων: DPr 136, 12) durante la prima creazione la natura
60
Cf. DPr 131, 11-133, 1. Cf. anche l’apparatus fontium ad 131, 11, nel quale si rimanda a Lucian. Pisc. 36.
Cf. DPr 133, 2-20.
62 Cf. DPr 133, 4-5, dove il concetto è espresso in forma negativa: οἱ µὴ ἀληθῶς αὐτὴν τὴν φύσιν ἑαυτῶν τῇ
πίστει µορφώσαντες κτλ.
63 Cf. DPr 133, 21-134, 6.
64 Cf. DPr 134, 13-135, 21.
65 Cf. DPr 135, 22-24.
66 Cf. anche DPr 137, 12.
196
61
umana fu costituita perfetta immagine del creatore; dopo la Caduta, è il nome cristiano che
consente all’uomo di ritornare nella sua condizione primigenia67.
L’uso di questo appellativo risulta però non esente da pericoli. Per spiegare un simile
concetto Gregorio propone di figurarsi un sedicente esperto dell’arte della pittura cui venga
commissionato il ritratto di un re per coloro che risiedono nelle province lontane; se costui
approntasse un’immagine sconveniente, brutta e deforme, si attirerebbe l’ira delle autorità: le
persone ignare infatti offenderebbero la bellezza del modello, presupponendo che l’immagine
che hanno davanti agli occhi lo riproduca fedelmente68 . Allo stesso modo chi non ha ancora
ricevuto una almeno parziale conoscenza dei misteri sarà portato a credere che Dio si
rispecchi nella vita di chiunque, a torto o a ragione, si dica cristiano e che gli è dato di
osservare: vedendo i segni del bene, ritiene tale anche il Dio cristiano, e viceversa. Il Nisseno
sottolinea con forza questo punto, rilevando che l’imitazione di Dio come essenza del
cristianesimo sia una pretesa chiara a tutti (φανεροῦ πᾶσιν ὄντος: DPr 137, 22); per questo la
Scrittura, dice, condanna con forza chi usurpa il nome della divinità e lo rende motivo di
bestemmia tra i popoli69. Compito che il Signore diede ai cristiani, conducendo in questa
nuova mentalità (πρὸς ταύτην µάλιστα τὴν διάνοιαν ὁδηγῶν ἡµᾶς ὁ κύριος: 137, 28), è invece
diventare perfetti come il Padre70, rendendo se stessi uguali a lui (ὁµοιοῦσθαι θεῷ: DPr 138,
14) non attraverso un impossibile cambiamento della propria natura, ma attraverso
l’imitazione delle buone azioni di Dio, facendo fiorire la virtù in ogni opera, parola e
pensiero71. La possibilità dell’imitazione e quindi della somiglianza con Dio risiede anche nel
fatto che la natura divina abbraccia e penetra ciascun essere, che non può consistere se non di
essa72, come educa (παιδεύει: DPr 139, 5) la Scrittura: in forza di questa condizione
ontologica e dell’aiuto dato da Dio stesso attraverso la sua guida e il suo sostegno, come
Gregorio afferma attraverso Ps 138, 8-10 73, l’uomo può raggiungere la perfezione. A questo
fine non si perviene attraverso le proprie forze, bensì grazie al proprio desiderio e alla volontà
(ὁ τὸν οὐράνιον µιµεῖσθαι κελεύων πατέρα: DPr 140, 3); è necessario infine allontanandosi
anche dalla sola immagine del male74 . Una simile scelta, sottolinea Gregorio, non comporta
nessuno sforzo fisico; la vita orientata al cielo è facile e leggera, poiché non cerca tesori
terreni ma è tutta protesa alle ricchezze celesti che nessuno potrà rubare, come educa
67
Cf. DPr 136, 8-19.
Cf. DPr 137, 2-12
69 Cf. DPr 137, 12-27.
70 Cf. Matth 5, 48.
71 Cf. DPr 137, 27-138, 23; si legga in particolare 138, 14-18: ἀλλὰ σαφὴς ὁ περὶ τούτου λόγος, ὅτι οὐ τῇ φύσει
τὴν φύσιν, τὴν ἀνθρω πίνην λέγω τῇ θείᾳ, συγκρίνεσθαι κελεύει τὸ εὐαγγέλιον, ἀλλὰ τὰς ἀγαθὰς ἐνεργείας,
καθὼς ἂν ᾖ δυνατόν, µιµεῖσθαι τῷ βίῳ.
72 Cf. DPr 138, 24-139, 4.
73 Cf. Psal. 138/9, 8-10, spec. 10: ἡ χείρ σου ὁδηγήσει µε καὶ καθέξει µε ἡ δεξιά σου, ricordato in DPr 139, 9-13.
74 Cf. DPr 140, 2-8.
197
68
(ὑφηγεῖται: DPr 140, 12) il Vangelo75 . Natura profonda dell’essere cristiano, come si ricava
dall’analisi di questo trattato, è dunque la µίµησις τοῦ θεοῦ.
IV.1.3
Il De perfectione
Sulla stessa linea del De professione si situa anche il De perfectione, dedicato al monaco
Olimpio. Anche in questo trattato l’autore si premura di indagare cosa sia implicato nel nome
dato ai seguaci del Nazareno, per trovare in esso un maestri e una guida per la conduzione
della propria vita76. Ai cristiani è chiesto di compiere ciò che è promesso nell’appellativo che
hanno deciso di portare; perché questo si realizzi è necessario, sottolinea il Nisseno, indagare
con maggiore profondità il mistero di Cristo, da cui tale denominazione deriva. La filosofia
sottesa a questo discorso viene esplicitata, nel trattato, poco più avanti: secondo Gregorio i
nomi costituirebbero i segni attraverso cui è possibile conoscere la vera realtà delle cose, la
loro natura sostanziale (ἡ ὑποκειµένη φύσις: DPe 177, 15); una denominazione può per
questo essere propria o meno in base al rapporto che si instaura tra ciò che quella parola
indica come essenza e ciò a cui è riferita in quel momento77. Per attribuirsi un dato nome,
occorre dunque diventare ciò cui questo si riferisce78 : nel caso specifico del cristiano, un
uomo merita di ricevere un tale appellativo se ne rispetta i caratteri peculiari, che il Nisseno
identifica essenzialmente nella conoscenza delle qualità di Cristo e nella loro imitazione o, se
questa è impossibile, nella venerazione che esse fanno scaturire79 . Citando quindi 2Tim 3, 17,
il Nisseno lega il nome cristiano anche all’integrità della persona, non mutilata dai vizi e in
pace; ad essa si oppongono il Minotauro e le figure create nei miti antichi, irrispettose della
vera essenza degli esseri, simboli di una creatura divisa tra natura razionale e irrazionale, in
perenne lotta interiore80.
La strada più certa per la comprensione del nome cristiano viene riconosciuta in Paolo: egli
può essere infatti guida sicura perché più di tutti conobbe cosa è Cristo e attraverso ciò che
fece educò chi si dica cristiano a ciò che realmente deve essere81 . Tutta la trattazione si
75
Cf. DPr 140, 8-19.
Cf. DPe 174, 20-23: ἐπειδὰν δὲ τοῦτο νοήσωµεν, τότε δι' ἀκολούθου καὶ οἵους προσήκει ἡµᾶς διὰ τῆς περὶ τὸν
βίον σπουδῆς ἐπιδειχθῆναι σαφῶς µαθησόµεθα, διδασκάλῳ καὶ ὁδηγῷ πρὸς τὸν βίον τῷ ὀνόµατι χρώµενοι.
77 Cf. DPe 177, 14-178, 1.
78 Cf. DPe 178, 2-3: οὐκοῦν τοὺς ἀπὸ τοῦ Χριστοῦ ἑαυτοὺς ὀνοµάζοντας πρῶτον γενέσθαι χρὴ ὅπερ τὸ ὄνοµα
βούλεται, εἴθ' οὔτως ἑαυτοῖς ἐφαρµόσαι τὴν κλῆσιν.
79 Cf. DPe 178, 11-14: χαρακτῆρες δὲ τοῦ ὄντως Χριστιανοῦ πάντα ἐκεῖνά ἐστιν, ὅσα περὶ τὸν Χριστὸν
ἐνοήσαµεν. ὧν ὅσα µὲν χωροῦµεν, µιµούµεθα· ὅσα δὲ οὐ χωρεῖ ἡ φύσις πρὸς µίµησιν, σεβόµεθά τε καὶ
προσκυνοῦµεν.
80 Cf. DPe 178, 15-181, 15.
81 Cf. DPe 174, 24-175, 4: οὐκοῦν τὸν ἄγιον Παῦλον πρὸς τὰ δύο ταῦτα καθηγεµόνα ποιούµενοι ἀσφαλεστάτην
ἕξοµεν ὁδηγίαν πρὸς τὴν τῶν ζητουµένων σαφήνειαν. οὔτος γὰρ µάλιστα πάντων ἀκριβῶς καὶ τί ἐστιν ὁ Χριστὸς
κατενόησε καὶ οἵον εἴναι χρὴ τὸν ἐπονοµαζόµενον αὐτῷ δι' ὦν ἐποίησεν ὑφηγήσατο κτλ.
198
76
svolgerà dunque a partire dagli appellativi cristologici usati dall’apostolo nelle sue lettere,
attraverso la spiegazione dei quali Gregorio mira a far comprendere maggiormente ciò a cui i
cristiani sono chiamati82 attraverso la testimonianza della loro vita (ἐκ τοῦ βίου τὴν µαρτυρίαν
ἔχειν: DPe 177, 13-14).
La prima qualifica di Cristo, che ne fonda la venerazione, è quella di potenza e sapienza di
Dio83: il creato mostra infatti grandi e ineffabili meraviglie (τὰ µεγάλα ταῦτα καὶ αφραστα τῆς
κτίσεως θαύµατα: DPe 182, 13-14) che solo l’eterna sapienza avrebbe potuto concepire; allo
stesso modo, solo la divina potenza sarebbe riuscita a portare a compimento tali origini,
rendendo atti concreti ciò che prima era solo presente nella mente di Dio. Chi dunque
comprende cosa sia la potenza, viene dominato da essa nel suo cuore; allo stesso modo, chi
invoca la sapienza potrà parteciparvi. Cristo è quindi detto pace in quanto rende l’uomo una
creatura unita e non divisa tra pensieri carnali e legge divina, sottomettendo i primi e
bandendo dal cuore la lotta interiore84; analogamente, la figurazione del salvatore come luce
insegna ai cristiani (µανθάνοµεν: DPe 184, 23) a vivere ai raggi del sole della giustizia, vale a
dire le virtù85.
Per la qualifica successiva, che sottolinea il mistero del sacrificio di Cristo che fu riscatto
per il mondo86 , il Nisseno si richiama nuovamente alla dinamica dell’imitazione e
significativamente introduce la sezione con i verbi µανθάνειν (DPe 185, 11.13) e παιδεύειν
(DPe 185, 13). Tramite la redenzione l’uomo non è più padrone di se stesso, ma è diventato
possesso di Cristo, che ne ha comprato la vita a prezzo del suo sangue; compimento del vivere
sarà dunque guardare in ogni cosa al proprio Signore per conformarsi al suo volere,
specialmente nella condotta di vita87 . Anche l’appellativo cristologico che si riferisce alla
Pasqua e al sacerdozio88 offre al Nisseno la possibilità del medesimo commento: seguendo
l’insegnamento di Paolo presente in Rom 12, 1-2, Gregorio enfatizza come il vero sacrificio
chiesto al cristiano per immedesimarsi nel suo redentore sia la sottomissione del λόγος, quindi
della natura stessa che caratterizza l’uomo (λογικὴ λατρεία γενόµενος), non conformandosi
alla mentalità del mondo. Poiché dunque il volere di Dio non può apparire nella carne se essa
non compie un simile sacrificio, Cristo stesso per primo ha fatto di sé una simile offerta,
insegnando (διδάσκει: DPe 187, 10) a compiere lo stesso. Dopo una digressione di natura più
82
Cf. DPe 175, 14-176, 17.
Cf. DPe 182, 7-183, 19.
84 Cf. DPe 183, 19-184, 21.
85 Cf. DPe 184, 21-185, 10.
86 Cf. DPe 185, 11-186, 7.
87 Cf. DPe 185, 16-22: εἰ τοίνυν δοῦλοι τοῦ λυτρωσαµένου γεγόναµεν, πρὸς τὸν κυριεύοντα πάντως ὀψόµεθα,
ὡς µηκέτι ἡµᾶς ἑαυτοῖς ζῆν, ἀλλὰ τῷ κτησαµένῳ ἡµᾶς διὰ τοῦ τῆς ζωῆς ἀνταλλάγµατος. οὐκέτι γὰρ ἑαυτῶν
ἐσµεν κύριοι, ἀλλ' ὁ ὠνησάµενός ἐστι τῶν ἰδίων κτηµάτων δε σπότης, ἡµεῖς δὲ αὐτοῦ τὰ κτήµατα. οὐκοῦν νόµος
εσται τῆς ἡµετέρας ζωῆς τὸ τοῦ κυριεύοντος θέληµα.
88 Cf. DPe 186, 7-187, 12.
199
83
filosofica, che vede nella teologia paolina una risposta alle aporie sollevate rispetto al
problema della creazione sorte più che altro in ambito neoplatonico 89, il discorso esamina altri
appellativi cristologici, tra cui quello della pietra, dell’architetto e della roccia posta a
fondamento della fede (Gregorio cita anche la qualifica di pietra angolare benché non si
ritrovi nelle lettere paoline)90. Rispetto ad essi, l’autore si richiama nuovamente alla necessità
dell’imitazione (µιµούµενοι: DPe 192, 21) della saldezza di Dio, per quanto possibile
all’uomo: la sola possibilità per la creatura di avere un fondamento saldo è infatti avere come
principio e fine di ogni buon insegnamento e azione lo stesso Cristo 91.
Del resto, la dinamica dell’imitazione è fondata dal fatto che Paolo educa (παιδεὐει: DPe
194, 10) a riconoscere che Gesù è immagine, icona del Dio invisibile e ineffabile92: se dunque
un uomo desidera rendersi tale, compiendo così la propria vita, dovrà imprimere (τυποῦσθαι:
DPe 195, 7) nella sua vita la forma, l’aspetto (εἶδος: DPe 195, 8) di colui che si è fatto per noi
esempio (ὑπόδειγµα: DPe 195, 7)93 . L’arte che rappresenta più chiaramente questa dinamica,
a parere del Nisseno, è ancora identificata nella pittura94. Quando si è educati ad essa, un
maestro mostra un’immagine bella, un esempio che ciascuno deve imitare95 ; allo stesso modo,
quando uno si trovi ad essere pittore della propria vita, deve imitare l’esempio di Cristo
avendo come esecutrice del lavoro la propria e come tavolozza di colori le varie virtù96 . Come
nel De professione, anche in questo caso si sottolinea il pericolo di rendere un’immagine non
rispettosa del modello, aggiungendo ad esso le tinte del vizio; compito dell’uomo è invece
divenire immagine dell’immagine (γενέσθαι ἡµᾶς τῆς εἰκόνος εἰκόνα: 196, 12), imitatori97
alla maniera di Paolo, improntando la propria vita all’umiltà, alla mitezza e alla magnanimità,
secondo la prescrizione evangelica (Matth 11, 29).
Da Paolo si impara (µαθὠν: DPe 197, 20) anche che Cristo è la testa della Chiesa98.
Siccome le membra hanno la stessa natura del capo, in quanto a essenza, occorre che chi
desidera far parte del corpo si deve impegnare ad accordarsi alle altre in armonia; il vizio in
89
Cf. LILLA 1979, p. 93 n. 77.
Cf. DPe 192, 15-194, 3.
91 Cf. DPe 192, 26-193, 1: διδασκόµεθα γὰρ διὰ τούτων [scil. ὀνοµάτων], ὅτι πάσης ἀγαθῆς πολιτείας καὶ
παντὸς ἀγαθοῦ µαθήµατός τε καὶ ἐπιτηδεύµατος καὶ ἀρχὴ καὶ τέλος ἐστὶν ὁ κύριος.
92 Cf. DPe 194, 4-5: Εἰκόνα δὲ τοῦ θεοῦ τοῦ ἀοράτου τὸν Χριστὸν ὀνοµάζων ὁ Παῦλος [Col. 1, 15] τὸν ἐπὶ
πάντων θεὸν καὶ µέγαν θεόν.
93 Cf. DPe 195, 5-8: οὐκοῦν εἰ µέλλοιµεν γίνεσθαι καὶ ἡµεῖς εἰκὼν θεοῦ τοῦ ἀοράτου, πρὸς τὸ ἐκκείµενον ἡµῖν
τοῦ βίου ὑπόδειγµα τυποῦσθαι προσήκει τῆς ζωῆς ἡµῶν τὸ εἶδος.
94 Cf. DPe 195, 14-197, 18.
95 Cf. DPe 195, 14-196, 2: εἰ τὴν ζωγραφικὴν ἐπαιδευόµεθα τέχνην, προθέντος ἡµῖν τοῦ διδασκάλου
κεκαλλωπισµένην τινὰ µορφὴν ἐπὶ πίνακος, ἔδει πάντως τὸ ἐκείνης κάλλος ἐπὶ τῆς ἰδίας ἔκαστον ζωγραφίας
µιµήσασθαι, ὤστε τοὺς πάντων πίνακας κατὰ τὸ ἐκκείµενον τοῦ κάλλους ὑπόδειγµα καλλωπισθῆναι κτλ.
96 Cf. DPe 196, 2-5: ἐπειδὴ τῆς ἰδίας ἔκαστος ζωῆς ἐστι ζωγράφος, τεχνίτης δὲ τῆς δηµιουργίας ταύτης ἐστὶν ἡ
προαίρεσις, χρώµατα δὲ πρὸς τὴν ἀπεργασίαν τῆς εἰκόνος αἱ ἀρεταί κτλ.
97 Cf. DPe 196, 11 (µίµησιν); 196, 13 (µιµήσεως ἐκµαξαµένους τὸ πρωτότυπον κάλλος); 196, 14 (ὁ Παῦλος
µιµητὴς τοῦ Χριστοῦ); 196, 16 (ἡ τῆς εἰκόνος µί µησις).
98 Cf. DPe 197, 19-200, 3.
200
90
questo caso diventa come una spada che separa dalle altre parti. La presenza invece delle
caratteristiche di Cristo nelle sue membra, vale a dire della sua pace, della santificazione e
della verità, rende testimonianza (µαρτυρεῖται: DPe 199, 8) dell’unione del corpo e del suo
capo; il concetto è ripreso anche nella spiegazione successiva, che si appunta sulla qualifica di
Cristo come primizia dei morti e primo di molti fratelli99 : con la sua redenzione infatti il
salvatore ha concesso una strada (ὁδοποιἠσῃ: DPe 202, 2) per raggiungere il Padre, che
consiste nell’imitazione (διὰ τοῦ µιµήσασθαι: DPe 206, 12), per quanto possibile all’uomo,
della incorruttibilità di Dio.
Cristo è poi qualificato come ἀρχή, principio100. Come tale, tutto ciò che da questi dipende
e sorge (ed anche da questo è guidato, come ricorda il termine καθηγούµενος, guida, di DPe
208, 5) ne eredita la natura; tensione del cristiano dovrà dunque il divenire ὁµοφυῶς (DPe
208, 5) rispetto ad egli. Anche in questo caso Gregorio conclude la spiegazione
dell’appellativo cristologico esortando l’interlocutore all’imitazione, in questo caso a far parte
dell’esercito del vero re, non ponendo solo la sua effige sulle proprie armi, in modo posticcio,
ma rivestendone l’armatura. Questa immagine è usata per indicare un rivestimento che ricopra
tutta la vita: nella conduzione di quest’ultima infatti si rende evidente colui che realmente la
guida101 .
Dopo aver analizzato quest’ultima qualifica, il Nisseno sceglie di non proseguire nella
disamina specifica degli altri nomi utili per essere instradati alla vita virtuosa (πρὸς τὸν κατ'
ἀρετὴν βίον ὁδηγηθῆναι: DPe 209, 16-17), ma preferisce concludere il suo trattato con una
ricapitolazione che conduca per mano (χειραγωγίαν: DPe 209, 21) nuovamente allo scopo del
discorso102. Il cristiano, assumendo questo appellativo nel suo significato proprio, secondo
quindi ciò che gli è stato tramandato dal canone apostolico (κατὰ τὸ δόγµα τῶν ἀποστόλων:
DPe 209, 24-210, 1), non può non mostrare nella sua vita la potenza degli altri nomi che
conducono il pensiero a Cristo. L’esistenza del cristiano, a detta del vescovo, si caratterizza
per tre aspetti fondanti: il pensiero, inteso come principio di ogni discorso; il discorso, che
svela i pensieri nascosti dell’anima; l’azione, che rende atto ciò che si è pensato103. Una vita
che non rispetti tutte e tre queste dimensioni e non le indirizzi a Cristo rimarrebbe monca e
sotto il potere del nemico. Il cristiano avrà dunque il compito di esaminare nel proprio intimo
i propri pensieri, le parole e le azioni, e giudicarle se conformi o meno al suo salvatore: nel
99
Cf. per tutto il passo DPe 200, 4-204, 8.
Cf. DPe 207, 19-209, 13.
101 Cf. DPe 209, 6-9: δῆλον γὰρ ὅτι τὸ ἐπίσηµον αὐτοῦ τῆς ὁπλίσεως δείξει τὸν βασιλεύοντα, ἀντὶ τῆς
ἐνσκιαγραφουµένης τοῖς ὅπλοις εἰκόνος ἐν τῷ χαρακτῆρι τοῦ βίου δεικνύον τὸν καθηγούµενον.
102 Cf. per tutto il passo DPe 209, 14-214, 6.
103 Cf. DPe 210, 4-11: τρία τὰ χαρακτηρίζοντα τοῦ Χριστιανοῦ τὸν βίον ἐστί· πρᾶξις, λόγος, ἐνθύµιον. ἐκ
τούτων ἀρχικώτερον τῶν αλλων ἐστὶ τὸ ἐνθύµιον. ἀρχὴ γὰρ γίνεται λόγου παντὸς ἡ διάνοια, δεύτερον δὲ µετὰ
τὴν ἐνθύµησιν ὁ λόγος ἐστί, τὴν ἐντυπωθεῖσαν τῇ ψυχῇ διάνοιαν διὰ τῆς φωνῆς ἐκκαλύπτων, τρίτην δὲ τάξιν
ἐπέχει µετὰ τὸν νοῦν καὶ τὸν λόγον ἡ πρᾶξις, τὸ νοηθὲν εἰς ἐνέργειαν ἄγουσα.
201
100
caso sorgano da quest’ultimo, posseggono la stessa purezza del modello e ne trasferiscono
nella vita del fedele la bellezza. La perfezione della vita cristiana, conclude quindi il
Nisseno104, consiste dunque nell’unione dell’anima, delle parole e degli atti della vita ai nomi
che descrivono il nome di Cristo, vero contenuto della dinamica dell’imitazione; questo
consentirà al fedele di ricevere una vita integra e completa attraverso la santificazione del
corpo, dell’anima e dello spirito, che saranno infine lontani dal contatto con il male, secondo
l’augurio che si ritrova in Paolo (cf. 1Thess 5, 23). Segue infine come conclusione
l’esortazione acciocché la mutevolezza insita nella realtà dell’uomo diventi tensione infinita
al bene.
IV.1.4
Altre opere
La dinamica dell’imitazione è dunque centrale nella speculazione del Nisseno. È possibile
ritrovarne traccia anche in altre opere, benché i riferimenti non le informino nella loro
interezza.
Il tema viene legato dal trattato In Illud: Tunc et Ipse Filius al tema della sottomissione. In
quest’opera105 il Nisseno si interroga sul versetto paolino di 1Cor 15, 28 secondo cui, alla fine
dei tempi, dopo aver ridotto al nulla le potestà del mondo, Cristo stesso sarà sottomesso al
Padre, tema notevole della discussione trinitaria del IV sec. presso gli ariani come altri eretici,
tra cui Eunomio, che postulavano la subordinazione delle persone della Trinità106 . Gregorio
lega la «sottomissione» del figlio, argomento principale del discorso, alla consequenzialità
della salvezza: a detta del Nisseno infatti nella parusia Cristo sarà la primizia, ma verrà
immediatamente seguito (ἀκολυθήσει: TeI 15, 14) da chi si è fatto per quanto possibile suo
imitatore, come il vescovo ricorda spesso di Paolo107; quindi seguiranno coloro che, come
Gregorio dice di Timoteo, avranno imitato il loro maestro che li conduceva a Cristo o chi
avesse per loro una simile funzione. La grazia infatti concessa inizialmente ad un uomo (nel
caso specifico Paolo, che guadando all’unico bene si spogliò del suo male fino ad accogliere
104
Cf. DPe 212, 17-213, 1: Τοῦτο τοίνυν ἐστὶ κατά γε τὴν ἐµὴν κρίσιν τὸ ἐν τῷ Χριστιανῷ βίῳ τέλειον, τὸ
πάντων τῶν ὀνοµάτων, οἷς τὸ τοῦ Χριστοῦ διασηµαίνεται ὄνοµα, τὴν κοινωνίαν ἔχειν ἐν ψυχῇ τε καὶ λόγῳ καὶ
ἐν τοῖς τοῦ βίου ἐπιτηδεύµασιν, ὥστε ὁλοτελῆ τὸν ἁγιασµὸν κατὰ τὴν εὐλογίαν τοῦ Παύλου ἐφ' ἑαυτοῦ
ἀναδέξασθαι ἐν ὁλοκλήρῳ τῷ σώµατι καὶ τῇ ψυχῇ καὶ τῷ πνεύµατι ἔξω τῆς πρὸς τὸ κακὸν ἐπιµιξίας διηνεκῶς
φυλασσόµενον.
105 Cf. TeI 15, 5-21. Si riporta, perché particolarmente significativo, il passo TeI 15, 5.12-17: ὥστε µετὰ τὸν ἐν
τῷ Χριστῷ ἄνθρωπον [...] τὸν ὡς ἦν δυνατὸν µιµητὴν τοῦ Χριστοῦ γενόµενον ἐν τῇ τοῦ κακοῦ ἀλλοτριώσει, ὁ
τοιοῦτος τῇ ἀπαρχῇ κατόπιν ἀκολουθήσει ἐν τῷ τῆς παρουσίας καιρῷ· καὶ πάλιν τούτῳ, λέγω δὲ καθ' ὑπόθεσιν,
ὁ Τιµόθεος, ἂν οὕτω τύχῃ, ὁ καθὼς οἷός τε ἦν µιµησάµενος ἐν ἑαυτῷ τὸν διδάσκαλον, ἤ τις τοιοῦτος ἕτερος.
106 Per una storia della esegesi di questo versetto nei Padri fino al IV sec., si veda E. Schendel, Herrschaft und
Unterwerfung Christi: 1. Korinther 15, 24-28 in Exegese und Theologie der Väter biz zum Ausgang des 4.
Jahrunderts, Tübingen 1971.
107 A tutto il passo sono sottesi 1Cor 4, 16; 1Cor 11, 1; Phil 3, 17.
202
in se stesso Cristo) sarà accordata a tutti una volta che il Vangelo sarà annunciato e seguito in
tutto il mondo attraverso l’imitazione108 . Verrà quindi chi sarà giudicato secondo le varie
gradazioni della sua partecipazione alla virtù o al vizio, più o meno rispettosi della sovranità
della divinità e più o meno soggetti alla dinamica della µίµησις.
Tra tutti i beni, scrive ancora Gregorio, la sottomissione a Dio è il principale: essa è infatti
identificata109 come l’estraneità dal male, che si realizza attraverso l’imitazione (µίµησιν: TeI
16, 14) di Cristo, atto libero della creatura che ha come esito la mescolanza con il redentore
(τῇ ἀπαρχῇ συµµιχθὲν: TeI 16, 15), una fusione con il vero bene che eliminerà dal corpo ogni
residuo di male. Essa dunque indica la perfetta partecipazione al corpo di Cristo e dunque la
salvezza della natura umana, in quanto liberazione da ogni vestigia del male: non è infatti
possibile liberarsi da esso se non partecipando attraverso la propria ὑποταγή al Padre110.
La conclusione della seconda omelia raccolta nel De oratione dominica111, che commenta
il primo versetto del Padre Nostro, propone nuovamente il tema dell’imitazione, esortando a
guardare con attenzione la propria condotta di vita: solo se effettivamente avrà ritrovato in
essa i segni della parentela divina, un uomo così formatosi (πολιτευσάµενος,: OD 30, 4) potrà
rivolgere a Dio l’appellativo di Padre.
Un nuovo riferimento alla µίµησις è presente nella terza omelia della stessa opera112: per
commentare il versetto del Padre Nostro secondo cui l’uomo deve santificare il nome di Dio,
Gregorio ricorda il versetto di Isaia nel quale Dio, per bocca del profeta, maledice coloro a
causa dei quali il Suo nome viene bestemmiato tra le genti113 . Secondo una linea
argomentativa già riscontrata nel De professione e nel De perfectione, Gregorio ricorda come
coloro che non hanno ancora creduto alla verità guardino con attenzione alla vita di coloro
che hanno accolto la fede nel mistero divino (τὴν τοῦ µυστηρίου πίστιν: OD 35, 11); se
costoro si professano cristiani, ma mostrano una condotta discorde, per le persone al di fuori
della loro fede sono causa di accuse non tanto contro la loro vita, ma contro il mistero che
dicono di professare, come se fosse questo ad insegnare (διδάσκοντος: OD 35, 18) un simile
comportamento. Al contrario, lodare il nome del Signore coincide, nell’ottica del Nisseno, con
la gloria che risplende attraverso le opere buone dell’uomo; nessuno, chiosa il vescovo,
potrebbe impedire di desiderare per sé una vita così adorna di bene.
108
Cf. TeI 24, 18-20.
Cf. TeI 16, 9-22.
110 Cf. TeI passim; per la sottomissione a Dio come compimento dell’uomo, cf. in special modo TeI 16, 9-24, 18;
su Paolo cf. TeI 23, 22-24, 17.
111 Cf. OD 29, 27-30, 6.
112 Cf. OD 35, 6-37, 7.
113 Cf. Is 52, 5.
203
109
L’uomo imita (µιµούµενος: OD 51, 11) la vita degli angeli, come si legge nella quarta
omelia del De oratione dominica114 , condiscendendo alla propria natura di essere anche
carnale115 , ma non permettendo che questo lo faccia indulgere più del necessario alle
preoccupazioni ad essa correlate, come ad esempio il nutrimento. Per questo, continua il
Nisseno, all’uomo è stato prescritto di chiedere ciò che basta a conservare la nostra vita fisica,
senza altri lussi non necessari: è questo un insegnamento (δόγµατα: OD 51, 23) che, a parere
del Nisseno, possiede una vasta ampiezza nella sua filosofia (τὸ πλάτος τῆς φιλοσοφίας: OD
51, 23). Esso esorta infatti a evitare gli inganni del serpente con la morigeratezza, per evitare
di essere vinti dalla brama dell’avidità e del possesso, che si può realizzare solo in un
confronto con chi non fa mostra di tanti beni e soffre per questo. La richiesta del pane
quotidiano viene invece legata dal Nisseno al versetto genesiaco (Gen 3, 19) secondo cui
l’uomo dovrà lavorare e mangiare del sudore della sua fronte, ammonendo così anche coloro
che si arricchiscono contro giustizia, contro il comandamento divino.
Nella quinta omelia raccolta nel De oratione dominica116, laddove il Nisseno commenta il
versetto del Padre Nostro sulla remissione dei debiti, il concetto di imitazione lega il fedele e
Dio in una modalità alquanto singolare. Gregorio infatti, dopo aver sottolineato come Cristo si
ponga come modello per l’imitazione e una volta citato il consueto versetto paolino in cui
l’apostolo delle genti esorta ad essere suoi imitatori come lui lo è di Cristo (1Cor 11, 1), rende
avvertito il cristiano di come Dio voglia che la sua disposizione verso il bene sia un esempio
per tutti. Il Nisseno quindi prosegue il suo discorso in modo molto ardito, come egli stesso
sottolinea: l’ordine dei valori è in qualche modo cambiato da questo versetto della preghiera:
in essa l’orante chiede infatti che, come in lui si compie il bene attraverso l’imitazione di Dio,
così spera che Egli lo imiti nelle sue buone azioni117, commisurando però la sua misericordia
alla sua potenza.
Gli ultimi versetti del Padre Nostro, commentati nell’ottava omelia del De oratione
dominica118, raggiungono, a detta del Nisseno, l’autentica vetta della virtù, e richiamano
nuovamente al tema dell’imitazione: con queste parole infatti l’uomo si propone di imitare
114
Cf. OD 50, 27-58, 22.
Nel passo appena precedente (cf. OD 48, 14-50, 27), Gregorio aveva esposto l’insegnamento (διδασκαλίαν:
OD 48, 16) del divino intelletto sulla creazione. In esso si dividono le creature razionali sulla base della loro
corporeità: vi sono infatti creature corporee, gli uomini, e incorporee, gli angeli. Questi ultimi, non soggetti alla
materia e al mutamento, non sono toccati dal male; non così però gli uomini, chiamati a rispondere anche alle
loro necessità fisiche. Da quest’ultimo punto nasce la spiegazione del pane quotidiano citato nella successiva
invocazione della preghiera.
116 Cf. OD 61, 9-62, 16.
117 Cf. OD 61, 15-22: ὥσπερ ὁ θεὸς πρόκειται τοῖς τὸ ἀγαθὸν κατορθοῦσιν εἰς µίµησιν, καθὼς εἶπεν ὁ
ἀπόστολος, Μιµηταί µου γί νεσθε, καθὼς κἀγὼ Χριστοῦ, οὕτως τὸ ἔµπαλιν τὴν σὴν διάθεσιν ὑπόδειγµα τῷ θεῷ
πρὸς τὸ ἀγαθὸν γενέσθαι βούλεται, καὶ ἀντιµεθίσταται τρόπον τινὰ ἡ τάξις, ὥστε τολµῆσαι, καθάπερ ἐν ἡµῖν τὸ
ἀγαθὸν ἐπιτελεῖται τῇ πρὸς τὸ θεῖον µιµήσει, οὕτως ἐλπίσαι µιµεῖσθαι τὸν θεὸν τὰ ἡµέτερα, ὅταν τι τῶν ἀγαθῶν
κατορθώσωµεν. La forma µίµησαι è usata anche in OD 61, 23 e 62, 9.
118 Cf. OD 59, 1-61, 8.
204
115
(µιµήσαιτο: OD 59, 9; µίµησιν: 59, 11) i tratti peculiari della divinità, per rendersi il più
possibile simile a lui. La caratteristica di Dio che viene ricordata dalle parole della preghiera,
secondo Gregorio, è il potere di rimettere i peccati, proprio di Lui solo119. Chiedendo dunque
che i propri debiti vengano rimessi nella misura in cui anche chi prega abbia adempiuto a
questo, le parole di Cristo insegnano (διδάσκει: OD 59, 11) a mostrare la propria libertà
attraverso le opere (διὰ τῶν ἔργων τὴν παρρησίαν λαβεῖν: OD 59, 12) 120, esercitando la
misericordia come Dio e imitandolo con l’atto della propria libera scelta (διὰ τῆς
προαιρέσεως ὁµοιούµενος: OD 59, 20), quindi esortano a chiedere il necessario perdono per
le proprie mancanze.
Il concetto di imitazione è ripreso anche nella settima omelia del De beatitudinibus121,
dove Cristo chiama beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio. Dopo
aver riconosciuto l’enormità della promessa, che si può compiere solo attraverso l’ulteriore
grazia della pace, che la divinità concede in abbondanza affinché l’uomo la possa condividere
con i fratelli122, il Cappadoce elenca i vizi contrari alla pace e i mali a cui essi portano;
afferma quindi che chi rigetta dalla propria vita la malattia dell’invidia e della rabbia,
contribuendo a creare legami di unione con i propri simili, compie un’opera veramente degna
della potenza divina, perché bandisce dall’esistenza propria e altrui i mali. È questo il motivo
per cui la settima beatitudine lo proclama figlio di Dio, in quanto un uomo simile diventa
imitatore (µιµητής: DB 159, 14) del vero figlio dell’Altissimo, che ha donato per grazia simili
beni agli uomini123 . Imitatore di Dio è infatti colui che mostra nella sua vita ciò che è proprio
dell’energia divina (ἐνεργείας: DB 159, 18), cioè di quelle caratteristiche che consentono di
percepire l’operato e la presenza della divinità. È questo, conclude il Nisseno, il compito
assegnato alla creatura, significativamente espresso con lo stesso termine dell’azione divina
(ἐνέργειαν: DB 159, 21)124; un simile imitatore (µιµητής: DB 160, 8) non potrebbe che essere
ritenuto beato.
119
Cf. Luc 5, 21.
Il testo di molti codd., non accolto da Callahan nel suo testo critico, riporta un concetto similare: Πρῶτον
ἑαυτοῖς συγγνῶναι τῇ τῶν βεβιωµένων παρρησίᾳ τὴν πρὸς τὸν θεὸν ὁµοιότητα, καὶ τότε θαρρεῖν πατέρα ἑαυτῶν
τὸν θεὸν λέγειν κτλ.
121 Cf. DB 159, 8-160, 10.
122 Cf. DB 148, 25-154, 4.
123 Cf. DB 159, 13-15: διὰ τοῦτο υἱὸν θεοῦ τὸν εἰρηνοποιὸν ὀνοµάζει, ὅτι µιµητὴς γίνεται τοῦ ἀληθινοῦ θεοῦ, ὁ
ταῦτα τῇ ζωῇ τῶν ἀνθρώπων χαριζόµενος.
124 Cf. DB 159, 17-22: οἱ µιµηταὶ τῆς θείας φιλανθρωπίας, οἱ τὸ ἴδιον τῆς θείας ἐνεργείας ἐπὶ τοῦ ἰδίου
δεικνύντες βίου. Ἀναιρεῖ καθόλου καὶ εἰς τὸ µὴ ὂν περιίστησιν, ὁ τῶν ἀγαθῶν εὐεργέτης καὶ Κύριος, πᾶν ὅσον
ἐστὶ τοῦ ἀγαθοῦ ἔκφυλόν τε καὶ ἀλλότριον. ταύτην νοµοθετεῖ καὶ σοὶ τὴν ἐνέργειαν, ἐκβάλλειν τὸ µῖσος,
καταλύειν τὸν πόλεµον κτλ.
205
120
Nelle opere dedicate a grandi figure la tematica dell’imitatio Christi è naturalmente
importantissima125 : Gregorio il Taumaturgo ad esempio viene detto imitatore dei profeti
(µιµητῇ τῶν προφητῶν: VG 35, 20) e di Pietro (µιµητὴς τοῦ Πέτρου: VG 43, 8); la grande
lode di Gregorio a Melezio si appunta nel fatto che questi imitò (ἐµιµήσατο: IM 451, 1) il
proprio signore ed in questo modo, come a Cana Cristo mutò l’acqua in vino, così il suo
imitatore (ὁ µιµητής: IM 451, 2) cambiò le acque dell’eresia in vino puro attraverso la forza
della fede. Negli encomi tale dinamica (µιµήσεως: ST 65, 2) è riconosciuta anche nei
confronti di altri personaggi della Scrittura: ad esempio, come si legge nel De Sancto
Theodoro126, per la collocazione geografica e la pazienza nelle sofferenze modello di Teodoro
sarà Giobbe. In explicit della stessa opera127 si riscontra un simile orientamento del discorso,
laddove la tradizionale invocazione per l’intercessione del santo sulla comunità riunita attorno
al suo culto nomina tutto il coro dei martiri, ed in particolare ricorda Pietro, Paolo e Giovanni,
cui il martire viene in qualche modo avvicinato, affinché imiti il continuo soccorso che essi
portano alle comunità da loro fondate e organizzate.
Per inciso, come poi sceglie di fare anche il Nisseno, occorre notare infine che la pratica
dell’imitazione è centrale dal punto di vista del passaggio delle conoscenze da una
generazione all’altra. Gregorio esprime questo pensiero parlando dei vari mestieri128 : essi
infatti ebbero tutti inizio da una sola persona, ma subito entrò nella vita dell’umanità tutta per
imitazione (κατὰ µίµησιν: IC 453, 20) di colui che lo aveva scoperto. Come si legge infatti nel
Contra fatum129, le esperienze di un popolo, che ne formano la memoria, assurgono alla
funzione di maestro per le generazioni future.
125
Riguardo alla tensione all’imitazione che Gregorio nei suoi scritti «utiliza casi siempre», MATEO-SECO p. 198
avverte che questo «no [...] debe estimarse como recurso meramente retórico», in quanto «en más de una
ocasión, el de Nisa desciende a señalar en concreto qué es lo imitable en la vida que está narrando», sia da parte
dell’ascoltatore, sia da parte del santo di cui si sta trattando l’encomio, per evidenziare il cammino che egli
stesso ha dovuto percorrere.
126 Cf. ST 64, 23-65, 3.
127 Cf. ST 70, 29-71, 17.
128 Cf. IC 453, 11-21. Si riportano due stralci significativi: 453, 11-12.20-21: πᾶν ἐπιτήδευµα δι' ἑνὸς ἀρχόµενον
εἰς πολλοὺς διαδίδοται … ἑνός τι ἐπιτηδεύσαντος εἰσῆλθε κατὰ µίµησιν εἰς τὸν βίον τὸ ἐπιτήδευµα.
129 Cf. CF 51, 21-21: ἡ µνήµη τοῖς ἐφεξῆς διδάσκαλος γίνεται.
206
IV.2 La προαίρεσις
Molto è stato scritto sulla concezione di προαίρεσις che il Nisseno presenta nelle sue
opere130 ; in questa sede si cercherà di far risaltare alcuni passi che leghino più strettamente il
termine alla tematica educativa.
La libertà è caratteristica essenziale della beatitudine divina, che si esprime, come scrive il
Nisseno nel De mortuis131, in autonomia e indipendenza; di ciò era fregiato anche l’uomo,
prima della caduta132 , in quanto εἰκὼν θεοῦ. Tale caratteristica fu resa debole dal peccato
originale, ma è rigenerata dalla redenzione e da una profonda adesione a Cristo133.
Nell’economia attuale dunque la libertà è quindi condizione di possibilità per l’uomo, nella
sua essenza legato al divenire134, di tornare nuovamente alla beatitudine celeste. Come si
legge nel De oratione dominica135 , la distanza tra l’umano e il divino non può infatti definirsi
come di luogo, quasi come se per partecipare della vita divina un congegno meccanico
potesse cambiare la vita del corpo, pesante e greve, in quella dello spirito, ma può essere
colmata nella sola dimensione della scelta (ἐν µόνῃ τῇ προαιρέσει: OD 28, 16) che persegua il
desiderio (τῇ ἐπιθυµίᾳ: OD 28, 17) che si trova nel suo cuore: l’uomo dunque, attraverso la
sua libertà, può scegliere di imitare Cristo, realizzando così il volere divino, o, come è scritto
nel De instituto, il primo uomo e la sua disobbedienza, rendendosi simile a lui anche nella
sofferenza136 . Anche l’Oratio catechetica137 appunta che la προαίρεσις si configura come ciò
che conduce l’uomo verso il suo fine, rendendo atto il movimento del desiderio rivolto al bene
per natura.
130
Sull’analisi del concetto di libertà in Gregorio cf. DAL TOSO 1998, passim, e la trattazione riassuntiva sul
tema presente in DESALVO 1996, pp. 117-129: in esso la studiosa distingue una libertà che potrebbe essere vista
in un certo qual modo in potenza, «parentela “strutturale” della libertà umana con quella divina» (p. 120),
l’αὐτεξουσία, lo svolgersi diastematico del movimento della scelta, la προαίρεσις (di cui solo si tratterà in questa
sede), e la «libertà liberata», l’ἐλευθερία. Per una analisi del tema della προαίρεσις letto in rapporto anche agli
autori precedenti al Nisseno, cf. soprattutto VÖLKER 1955, pp. 77-82.
131 Cf. DM 54, 1-5.
132 Cf. LOZZA 1991, p. 142: «Che l’uomo abbia un’affinità con Dio e che essa sia costituita soprattutto dal libero
uso della ragione e della volontà è un postulato che risale ad almeno Plat. Phaed. 95 C, e che la tradizione stoica
e accademica ribadiscono: cfr. Cic. De leg. I 25: est igitur homini cum deo similitudo. Gregorio riafferma
ripetutamente questo filosofema».
133 Cf. TARANTO 2009, p. 402: «Il possesso dell’immagine, come realtà connaturata all’uomo, garantisce perciò
l’esercizio della libertà, che diviene possibile attraverso il rinnovamento introdotto dalla nuova economia».
134 Come scrive DESALVO 1996, p. 10, la προαῖρεσις è «la forma del divenire per la creatura umana - ed è la
libertà la causa della forma attuale di tale divenire».
135 Cf. OD 28, 11-17: οὐ γὰρ τοπικὴ τοῦ θείου πρὸς τὸ ἀνθρώπινόν ἐστιν ἡ διάστασις, ὥστε τινὸς µηχανῆς ἡµῖν
καὶ ἐπινοίας γενέσθαι χρείαν, τὸ βαρύ τε καὶ ἐµβριθὲς καὶ γεῶδες τοῦτο σαρκίον πρὸς τὴν ἀσώµατόν τε καὶ
νοερὰν διαγωγὴν µετοικίζειν, ἀλλὰ νοητῶς τῆς ἀρετῆς τοῦ κακοῦ κεχωρισµένης ἐν µόνῃ τῇ προαιρέσει τοῦ
ἀνθρώπου κεῖ πρὸς ὅπερ ἂν ἐπικλιθείη τῇ ἐπιθυµίᾳ, ἐν ἐκείνῳ εἶναι.
136 Cf. DI 44, 1-3: ὃ πάλαι µὲν πέπονθεν ὁ πρῶτος πλασθείς, νῦν δὲ πάντες οἱ τὴν τούτου παρακοὴν αὐθαιρέτῳ
προαιρέσει µιµούµενοι.
137 Cf. OC 56, 8-10: ἐ̓πί τι πάντως ἡ προαίρεσις ἵεται, τῆς πρὸς τὸ καλὸν ἐπιθυµίας αὐτὴν φυσικῶς ἐφελκοµένης
εἰς κίνησιν.
207
Scrive Taranto che «il libero arbitrio non è altro che l’esercizio concreto delle potenzialità
intrinseche alla natura umana»138 , vale a dire l’autodeterminarsi della più profonda essenza
dell’uomo, il λόγος. Come si legge nell’Oratio catechetica magna139 , solo gli esseri senza
anima o senza λόγος sono condotti da una volontà a loro esterna. Intelligenza e libertà sono
invece profondamente relate140 : la qualità precipua dell’uomo, la ragione, serve infatti come
strumento della scelta, riconoscendo la verità verso cui dirigere l’agire; allo stesso tempo, tale
azione autodeterminata porta a compimento il riconoscimento operato dalla natura noetica,
che altrimenti risulterebbe menomata141.
Il valore essenziale della προαίρεσις nel pensiero di Gregorio emerge con forza anche
nell’impianto generale del Contra fatum. La tematica si dispiega appieno in una parte della
confutazione che il Nisseno opera del determinismo astrale142 ; sembra utile però in questa
sede richiamare l’incipit dell’opera. In esso il Nisseno, invitato da un interlocutore non
138
Cf. TARANTO 2009, p. 484.
Cf. OC 76, 6-77, 6. Cf. in part. OC 76, 11-15: µόνων γὰρ τῶν ἀψύχων ἢ τῶν ἀλόγων ἐστὶ τῷ ἀλλοτρίῳ
βουλήµατι πρὸς τὸ δοκοῦν περιάγεσθαι. ἡ δὲ λογική τε καὶ νοερὰ φύσις, ἐὰν τὸ κατ' ἐξουσίαν ἀπόθηται, καὶ τὴν
χάριν τοῦ νοεροῦ συναπώλεσεν.
140 Scrive giustamente DESALVO 1996, p. 60: «l’impulso proprio dell’intelletto è la προαίρεσις; suo fine proprio
è il bene. È dunque in quanto l’oggetto appetito dai sensi viene riconosciuto come buono dall’intelletto, che ha
luogo l’impulso della scelta verso di esso».
141 Tale stretta correlazione tra libertà e intelligenza è spiegata doviziosamente in TARANTO 2009, pp. 424-439.
Lo studioso argomenta come «l’elemento portante della struttura-immagine [scil. dell’uomo guardato a partire
dalla sua essenza di εικών] è allora l’intelligenza-libertà. Grazie ad essa, infatti, è possibile determinare l’oggetto
del desiderio e così intraprendere il percorso che conduce la creatura al bene o al male» (p. 424). L’intelletto
diviene luce e nocchiero che conduce, attraverso un retto giudizio, l’uomo nella sua interezza, instradando le
pulsioni che sorgono dai sensi e permettendo un retto volgersi morale: «la libertà morale è l’estrinsecazione della
libera intelligenza, la quale sussiste come entità vitale e sostanziale in quanto facoltà egemone dell’individuo. In
virtù di essa, l’uomo non è né potrebbe essere sottomesso a qualunque potestà esterna, almeno che egli
liberamente non lo voglia. La libera volontà-intelligenza è perciò il fulcro della vita umano-individuale.
L’estrinsecazione dell’intelligenza avviene così soprattutto in ambito esistenziale e di conseguenza in quello
morale. L’uomo opera, infatti, la scelta dell’opzione fondamentale attraverso la libera determinazione della
volontà» (p. 435). Cf. anche DESALVO 1996, p. 123: «l’elemento decisivo e il “principio di individuazione” della
natura intellettuale non è un atto conoscitivo bensì una mossa della libertà. [...] Gregorio sostiene che il nucleo
ultimo e vero della persona non risiede nel suo intelletto ma nella sua libertà, ovvero che se oggettivamente è la
ragione il fattore distintivo e definitorio dell’essere umano (ci parla infatti di “natura intellettuale”),
soggettivamente (al livello in cui si instaura la “differenza” tra gli individui a cui il Nostro si riferisce) è la libertà
come scelta a decidere di tale natura. Ciò è significativo perché comporta tra l’altro che la conoscenza stessa non
sia un primum assoluto, ma che venga anch’essa attuata attraverso un atto di scelta».
142 Cf. soprattutto CF 43, 27-45, 10. Il termine προαίρεσις, nelle sue varie declinazioni, si riscontra in tale passo
in CF 44, 1.4.24.25; 45, 2.4. Il filosofo pagano aveva sostenuto che il movimento degli astri avesse la forza della
necessità su tutte le caratteristiche degli uomini; il Nisseno, a tal proposito, incalza il suo interlocutore mostrando
la diversità delle sorti degli uomini: se infatti il bene e il male si ottengono senza l’implicazione della libertà,
perché sorge la diversità delle vite delle creature? In tal caso nell’essere superiore, il fato, verrebbe meno
l’istanza di giustizia che Gregorio preserva per il cristianesimo attraverso la continua riproposizione della
tematica della caduta e della redenzione. Se la sorte fosse una entità insensibile, priva di volontà morale
(ἀπροαίρετον: CF 44, 24), il suo distacco dal bene implicherebbe una vicinanza al male; non è però possibile che
creature che mostrano di possedere la libertà e possono scegliere il bene siano soggette a una forza che non
sceglie, dunque non libera, in quanto risulterebbe assurdo che ciò che non ha governi ciò che ha; di questo però
la dottrina pagana vorrebbe rendere testimonianza (µαρτυρεῖται: CF 45, 1). Allo stesso modo, le facoltà che si
attribuiscono ai vari segni zodiacali non son di per se stesse positive; se fossero dovute alla loro volontà,
bisognerebbe concludere che, potendo scegliere la sorte migliore, ne hanno desiderato una inferiore; allo stesso
modo, se queste facoltà non derivano loro da una libera scelta (οὐκ ἐκ προαιρέσεως: CF 48, 5), sopra di esse vi
sarebbe un ulteriore destino, in un circolo senza fine.
208
139
determinabile con sicurezza143 , si ripromette di raccontargli una conversazione avvenuta con
un filosofo pagano a Costantinopoli, che sarà caratterizzato successivamente come un uomo
educato nella filosofia classica (ἀνδρί τινι πεπαιδευµένῳ τὴν ἔξω φιλοσοφίαν: CF 32, 11). La
differenza di formazione culturale rendeva difficile, al Nisseno, l’annuncio: se infatti il
vescovo cercava di persuadere il pensatore all’accettazione della dottrina (δόγµατος: CF 32,
13) cristiana, questi gli opponeva il determinismo di cui era imbevuto, secondo il quale non
era nelle sue mani la facoltà di scegliere se accogliere o meno ciò che gli veniva presentato:
una simile decisione sarebbe dipesa dal volere del fato, che avrebbe già preordinato le sue
scelte. Se in un primo momento Gregorio ammette di aver pensato che una simile
argomentazione nascondesse semplicemente il rifiuto di imparare (τὸ µαθεῖν: CF 32, 23)
qualcosa sulla fede, in quanto l’autore ribadisce nuovamente il profondo paganesimo del suo
interlocutore, ben presto il vescovo si rese conto che la questione era più radicale. La
concezione secondo cui la vita dell’uomo, le sue scelte, la virtù e il vizio, sono già dirette da
una necessità esterna a lui, mina alla radice i presupposti della dottrina cristiana, fondata sul
libero movimento dell’uomo che, seguendo il proprio desiderio ordinato dal logos, può
giungere alla consapevolezza della presenza del divino e accoglierne così l’annuncio. A detta
di quel filosofo invece nelle pratiche di vita non ha potere il λογισµός della creatura144 ;
perfino l’inclinazione, di interesse o rifiuto, che in altri scritti del Nisseno rappresenta la
preziosa scintilla per un approfondimento di ciò che l’uomo desidera, era da questi
subordinata alla decisione della ἀνάγχη145 . Simili ragionamenti portavano tuttavia con sé
limiti e aporie, che Gregorio decide di smascherare da filosofo: «all’impianto filosofico dello
scritto», scrive Bandini146 , può essere ricondotta la scelta, da parte dell’autore, di limitare in
modo drastico le citazioni delle Scritture, «assenza che ci mostra un Nisseno desideroso di
porre la discussione su un terreno comune con la cultura pagana e di difendere il libero
arbitrio dell’uomo con argomentazioni di tipo esclusivamente razionale, accettabili da
credenti e non credenti, senza ricorso a dogmi di fede». L’attuarsi della libertà umana fonda
infatti la possibilità di rivolgere se stessi al fatto cristiano sia prima che dopo l’accoglienza
dell’annuncio evangelico: solo un cuore desideroso, come si è visto, può riscontrare la
risposta alle sue attese nella persona di Cristo («Il desiderio si manifesta come primo vero
143
Cf. BANDINI 2003, p. 38.
Cf. CF 33, 21-24: πάντα τῆς αἰτίας ἐκείνης ἐξάπτων προσετίθει καὶ τῶν κατὰ τὸν βίον ἐπιτηδευµάτων
µηδαµοῦ τὸν λογισµὸν τοῦ αἱρουµένου κύριον εἶναι, πάντας δὲ τῷ κράτει τῆς εἱµαρµένης ὑπηρετοῦντας.
145 Cf. CF 34, 4-10: καὶ πάντα τὰ τοιαῦτα διεξιὼν ἰσχυρὰν ᾤετο τοῦ µὴ παραδέξασθαι τὸν λόγον ἡµῶν αἰτίαν
ἐπιδεδεῖχθαι τὸ µὴ ἐφ' ἡµῖν εἶναι ὅπερ ἂν θέλωµεν κατ' ἐξουσίαν αἱρεῖσθαι, ἀλλὰ δεῖν ἀναµεῖναι τὴν ἀνάγκην
ἐκείνην, ἧς τὸ ἐνδόσιµον πρὸς τὴν τοιαύτην ὁρµὴν παρασχούσης ἐπάναγκες εἶναι προσθέσθαι τῷ λόγῳ καὶ µὴ
βουλόµενον, ἄνευ δὲ ἐκείνης καὶ σφόδρα προαιρουµένου µὴ δυνατὸν εἶναι γενέσθαι.
146 Cf. BANDINI 2003, p. 26-27; l’autore a p. 27 scrive ancora come nel Contra fatum non si ritrovi «il mistico,
ma il letterato di valore e il pensatore robusto».
209
144
attore umano del rapporto libero con il divino», scrive Desalvo147). Le dottrine che tentano di
minare la dinamica della libertà devono essere confutate sul loro stesso campo. Nelle pagine
del trattato si ritrova infatti «non il mistico, ma il letterato di valore e il pensatore robusto»148:
il logos è infatti terreno comune a tutti gli uomini, ed è in questa arena che Gregorio decide di
confrontarsi. Solo nella conclusione il vescovo accennerà, «con un certo ritegno», sembra
almeno a Bandini149 , ad un argomento più specificatamente cristiano e teologico.
La dinamica dell’imitazione, come si è già notato, necessita dell’implicazione e del
movimento della προαίρεσις: la salvezza, come Gregorio ricorda citando l’episodio giovanneo
di Nicodemo150 , deriva da una nascita dall’alto; l’efficacia tuttavia dell’economia divina
corrisponde alla intima disposizione d’animo di colui che vi si accosta151. Tale tema è presente
più diffusamente all’inizio dell’interpretazione spirituale del De Vita Moysis152, Gregorio si
trova infatti a commentare la nascita del legislatore, che subì le angherie del tiranno
(l’avversario) per il fatto di essere un maschio. L’esegeta si chiede quindi come sarebbe
possibile imitare attraverso la propria libertà (ἐκ προαιρέσεως ἡµεῖς µιµησόµεθα: VM II 1, 3)
ciò che in realtà non è scelto da alcuno, cioè la propria nascita; la tensione
all’immedesimazione deve tuttavia cominciare (τῆς µιµήσεως ἄρξασθαι: VM II 1, 6) da ciò
che sembra offrire, dice Gregorio, le difficoltà maggiori: il discorso successivo invita
ciascuno, soggetto al mutamento della propria condizione nel tempo, a rendersi genitore di se
stesso nello spirito attraverso una nascita che, diversamente degli esseri generati nella carne,
non dipende da un impulso esterno. Un simile parto ha come sua origine la προαίρεσις e rende
ciascuno responsabile della forma che decide di assumere.
Tale decisione è tuttavia sempre successiva rispetto all’iniziativa divina. Si prenda ad
esempio il passo che si propone di interpretare Cant 4, 16153: esso legge nelle immagini lì
proposte l’iniziativa di Dio che decide di scendere nel giardino del mondo e si nutre del frutto
dei suoi alberi, che Gregorio intende appunto con la libertà dell’uomo, portandola a
compimento. La φιλανθρωπία (IC 304, 16) del creatore, il suo amore verso l’uomo, si attua
147
DESALVO 1996, p. 206. Icasticamente, la studiosa a p. 205 scrive che «è nel desiderio l’inizio della libertà».
Cf. anche DESALVO 1996, p. 204: «se il desiderio costituisce la pura recettività della natura umana bisognosa del
compimento, esso individua la premessa necessaria e la radice di ogni movimento che la persona mediante la sua
scelta opera».
148 Cf. BANDINI 2003, p. 27.
149 Cf. BANDINI 2003, p. 27.
150 Cf. Ioh 3, 1-13, spec. 3, 6. Gregorio in OC 101, 21 riferisce al fariseo il participio µαθών.
151 Cf. per tutto il passo OC 98, 21-102, 3; in particolare cf. OC 99, 1-100-2: κατὰ γὰρ τὴν διάθεσιν τῆς καρδίας
τοῦ προσιόντος τῇ οἰκονοµίᾳ καὶ τὸ γινόµενον τὴν δύναµιν ἔχει.
152 Cf. VM II 1-5. Cf. in part. VM 3, 3-9: τὸ δὲ οὕτω γεννᾶσθαι οὐκ ἐξ ἀλλοτρίας ἐστὶν ὁρµῆς, καθ' ὁµοιότητα
τῶν σωµα τικῶς τὸ συµβὰν ἀπογεννώντων, ἀλλ' ἐκ προαιρέσεως ὁ τοιοῦτος γίνεται τόκος. Καὶ ἔσµεν ἑαυτῶν
τρόπον τινὰ πατέρες, ἑαυτοὺς οἵους ἂν ἐθέλωµεν τίκτοντες καὶ ἀπὸ τῆς ἰδίας προαιρέσεως εἰς ὅπερ ἂν ἐθέλωµεν
εἶδος, ἢ ἄρρεν ἢ θῆλυ, τῷ τῆς ἀρετῆς ἢ κακίας λόγῳ διαπλασσόµενοι.
153 Cf. IC 303, 3-308, 4.
210
infatti nella sua κατάβασις (IC 304, 16): l’anima, desiderosa di salire verso l’alto, può per
questo implorare di essere condotta per mano da colui che è al di sopra di tutto154 . In questo
modo il frutto dell’uomo, la sua libertà, diventa pane mescolato al miele di Dio, vale a dire
cambia la propria natura in una dolcezza ineffabile. Il termine usato da Gregorio per indicare
la commistione di umano e divino, συναναµεµιγµένῳ (IC 306, 4), ricorda da vicino il termine
συνανάκρασις, che indica la realtà dell’incarnazione155 . La condiscendenza di Dio verso
l’uomo non ha limite: Gregorio sottolinea infatti come la risposta alla preghiera della Sposa di
scendere nel proprio giardino come profumo abbia sorpassato in generosità la richiesta,
perché Dio ha reso gli alberi fecondi del proprio frutto, modulando la propria offerta su chi la
avrebbe ricevuta. Per chi gioisce del buon profumo, commenta l’esegeta, Dio si propone come
mirra e aromi, portando attraverso la mortificazione delle membra terrene all’unguento della
vita pura; per chi cerca un nutrimento più compiuto Egli diventa pane e miele; per chi ha sete,
diventa vino e latte, adatto anche a chi è ancora infante nella fede.
Di fronte all’iniziativa divina, la libertà di scelta prevede la possibilità sia di una
accettazione che di un rifiuto. Alla libertà umana è infatti lecito scegliere ciò che le pare
opportuno156 . L’insegnamento della verità, appunta Gregorio nel De vita Moysis 157, ha per
questo esiti diversi a fronte delle disposizioni d’animo di coloro che accolgono la parola
divina: pur mostrando infatti in modo eguale ciò che è bene e ciò che è male, dipende dalla
προαίρεσις dell’uomo il volgersi verso la luce di questa rivelazione o il rimanere nelle tenebre
dell’errore.
Nella seconda omelia In Ecclesiasten 158 il Nisseno scrive come il libero arbitrio sia per
natura buono e non soggetto a nessuna necessità; la caduta verso il male dunque è qualcosa
contro la sua natura159, e si è potuta verificare solo per una mancanza di regolatezza e di
educazione (il termine usato in IE 302, 2 è proprio ἀπαιδαγωγήτως) nella sua attuazione:
senza seguire la legge divina, sommo pedagogo, che non aveva carattere di necessità ma di
154
Cf. IC 304, 19-305, 1: ἡ ἀνιοῦσα πρὸς τὸ ἄνω ψυχὴ τὴν παρὰ τοῦ ὑπερκειµένου χειραγωγίαν
προσκαλουµένη.
155 A questo termine si aggiunge il successivo συνανακεκραµένον (IC 306, 7), che nell’identità del prefisso
esprime la medesima idea.
156 Cf. DM 37, 15-16: κατ' ἐξουσίαν τὸ δοκοῦν ἑλοµένης τῆς προαιρέσεως.
157 Cf. VM II 65, 4-10: ἡ γὰρ διδασκαλία τῆς ἀληθείας πρὸς τὰς διαθέσεις τῶν δεχοµένων τὸν λόγον
συµµεταβάλλεται. Ἐπίσης γὰρ πᾶσι τοῦ λόγου τὸ καλὸν ἢ τὸ κακὸν προδεικνύντος, ὁ µὲν εὐπειθῶς πρὸς τὸ
δεικνύµενον ἔχων ἐν φωτὶ τὴν διάνοιαν ἔχει, τῷ δὲ ἀντιτύπως διακειµένῳ καὶ µὴ καταδεχοµένῳ πρὸς τὴν ἀκτῖνα
τῆς ἀληθείας τὴν ψυχὴν διαβλέψαι παραµένει τῆς ἀγνοίας ὁ ζόφος.
158 Cf. IE 301, 22-302, 5: ἀγαθὸν γὰρ τῇ φύσει τὸ αὐτεξούσιον καὶ ἀδούλωτον, τὸ δὲ ὑπεζευγµένον ἀνάγκαις οὐκ
ἄν τις ἐν ἀγαθοῖς ἀριθµήσειεν. ἀλλ' ἡ αὐτεξούσιος αὕτη τῆς διανοίας ὁρµὴ ἀπαιδαγωγήτως πρὸς τὴν αἵρεσιν τῆς
κακίας ἀπορρυεῖσα περισπασµὸς τῆς ψυχῆς ἐγένετο ἀπὸ τῶν ὑψηλῶν τε καὶ τιµίων πρὸς τὰς ἐµπαθεῖς τῆς
φύσεως κινήσεις κατασπασθείσης.
159 Cf. LOZZA 1991, p. 141, che commenta il sintagma θεοειδὴς ὁ ἄνθρωπος di DM 54, 2 richiamando Plot. I 6,
9; ad esso aggiunge che, «poiché l’essenza di Dio è la libertà e poiché l’uomo è stat creato a immagine di Dio,
egli non può essere privo della libertà di volgersi o al bene o al male. Tenendo infine conto che il male ha una
realtà puramente negativa, l’uomo esercita veramente la sua libertà solo quando sceglie il bene».
211
guida, l’impulso buono dell’uomo scivolò verso la tentazione e il conseguente asservimento ai
moti più disordinati della sua natura.
L’educazione alla libertà è dunque per Gregorio assolutamente necessaria. Commentando il
versetto di Cant 5, 5160 l’esegeta rimarca il fatto che la mirra, vale a dire la mortificazione
della cortina della carne, stilli dalle dita stesse della Sposa, quindi dall’anima in cammino.
Questa νεκρώτης ha un forte valore dal punto di vista etico: essa rappresenta infatti la sequela
di tutti i comportamenti umani secondo virtù ed il rifuggire quelli che vi si oppongono, sino a
far morire simili passioni dell’animo. Le due nature di cui è costituito l’uomo posseggono
infatti ciascuna un istinto suo proprio, spesso discordante dal secondo: l’uno, leggero e lieve,
di natura intellettuale, tende verso l’alto mentre l’altro, pesante e greve, di natura materiale,
tende all’opposto; il secondo deve venir meno affinché l’altro determini l’esistenza del
soggetto. La libertà si trova al centro delle due nature e determina quale di essa prevale161,
facendo seguire alla scelta un comportamento conforme. Le dita da cui stilla il profumo sono
infatti interpretate dall’esegeta come le azioni compiute dalla propria volontà. Se la mirra
fosse gettata sulle dita dall’esterno, si potrebbe pensare che ciò che indica sia, in un passo di
sentore aristotelico, un accidente momentaneo162 e non il cambiamento della sua natura, che
ha origine nell’intimo. Se non fosse stata preceduta da una mortificazione volontaria, si
spinge a commentare l’esegeta, neppure la resurrezione avrebbe avuto il suo effetto
salvifico163. Per ottenere il suo compimento, l’uomo deve dunque educare la propria libertà in
vista della scelta di quei comportamenti che le dischiuderanno la strada che dovrà percorrere:
seguendo le immagini di cui tratta l’esegeta si legge infatti che solo dopo aver stillato mirra le
mani della Sposa possono toccare la serratura dell’apertura stretta e angusta della vera vita, le
cui chiavi furono date dal Logos a Pietro e ai suoi successori (τὸ κλεῖθρον ἐγχειρίζει τοῖς κατὰ
Πέτρον ὁ λόγος: IC 353, 5-6). Le mani (le opere) e le chiavi (la fede) sono entrambe
necessarie, secondo il Nisseno, per guadagnare la vita vera164.
Una simile posizione era già presente in nuce nel De beatitudinibus: nel commento alla
quinta beatitudine165 Gregorio, dopo una consueta introduzione che ricorda termini legati
all’ambito dell’educazione166 , riconosce infatti come l’uomo possieda nella sua anima il
principio di ciascun bene, in quanto immagine del Creatore. Questo consente alla creatura di
trarre da se stessa il bene che desidera, senza necessità esterna; allo stesso modo, il male
160
Cf. IC 342, 9-347, 6.
Cf. IC 345, 19-346, 1.
162 Cf. IC 343, 13-16: οὐ γὰρ ἑτέρωθεν ἐγγενέσθαι τῇ χειρὶ λέγει τὴν σµύρναν (ἦ γὰρ ἂν ἐνοµίσθη διὰ τούτου
περιστατικὸν αὐτῇ καὶ ἀκούσιον συµβῆναι τὸ διὰ τῆς σµύρνης δηλούµενον), κτλ.
163 Cf. IC 343, 9-10: οὐ γὰρ ἂν ἐνήργησεν ἡ ἀνάστασις µὴ προκαθηγησαµένης τῆς ἑκουσίου νεκρότητος.
164 Cf. IC 353, 5-6.
165 Cf. DB 129, 1-131, 8.
166 Gregorio introduce il passo con i termini δογµάτων (DB 129, 2) e µαθεῖν (DB 129, 3); successivamente usa
anche il verbo διδασκόµεθα (DB 129, 8).
212
161
giunge all’essere solo una volta liberamente scelto (ἔξω προαιρέσεως: DB 129, 21). L’uomo
ha ricevuto dunque da Dio una forza di autogoverno e di autodeterminazione (ἡ αὐτοκρατής
τε καὶ αὐτ εξούσιος δύναµις: DB 129, 23) tale da poter decidere il proprio destino ultimo: il
giudizio divino dell’ultimo giorno rispecchierà infatti, afferma il vescovo, l’atteggiamento che
l’uomo ha conservato nella sua libera scelta. La creatura, ne consegue, è in un certo qual
modo giudice di se stessa167.
Nell’opera di Gregorio desiderio, conoscenza e libertà sono dunque profondamente relati:
quanto più forte è il desiderio, tanto più la libertà è chiamata a muoversi, senza alcuna
costrizione, ma in forza di una proposta cui aderire: la virtù, compimento sommo della
dinamica della προαίρεσις, è infatti senza padrone e libera da qualsiasi necessità168. È proprio
in forza di questa convinzione che Gregorio commenta, nelle omelie In canticum, una
apostrofe alla Sposa da parte dello Sposo, che le porge un invito a farsi vicino a lui seguendo
la volontà che le viene dall’intimo (Cant 2, 14: δεῦρο σεαυτῇ), che nel suo commento il
Nisseno chiama una perfetta disposizione d’animo (τὴν τελείαν κατάστασιν: IC 161, 6), un
movimento della libertà. Lontano da posizioni gnostiche, Gregorio sottolinea infatti come una
retta conoscenza da sola non sia bastevole a garantire la salvezza: le fonti dei buoni
insegnamenti infatti non renderebbero l’anima sempre più bella senza che essa maturi una
familiarità sempre maggiore con il suo Signore attraverso il libero arbitrio, che si esterna nelle
buone opere; queste poi rendono possibile un rinnovamento profondo della natura stessa
dell’uomo ad opera dello Spirito, fino a raggiungere quella condizione di perfezione che in
quel passo delle omelie In Canticum l’esegeta esprime con il termine παρθενία169 . Il desiderio
libero dell’uomo si compie dunque, superate le ombre della Legge antica e nella luce del
Vangelo170 , nella visione da parte dell’anima di Dio nella carne, cui il Logos conduce per
mano171.
Frutto della nuova libertà che l’uomo acquista attraverso la grazia è infine la παρρησία, la
possibilità di parlare liberamente faccia a faccia con Dio 172.
167
Cf. DB 133, 14-134, 21.
Cf. IC 160, 17-161,1: ἀδέσποτον γὰρ ἡ ἀρετὴ καὶ ἑκούσιον καὶ ἀνάγκης πάσης ἐλεύθερον.
169 Cf. IC 263, 12-16: οὐκ ἂν αὐτῆς καλλιωθείσης ἐν ταῖς τῶν ἀγαθῶν διδαγµάτων πηγαῖς … εἰ µὴ πρῶτον
ἀδελφὴν ἑαυτὴν τοῦ κυρίου διὰ τῶν ἀγαθῶν ἔργων ἐποίησε καὶ εἰς παρθενίαν διὰ τῆς ἄνωθεν γεννήσεως
ἀνακαινισθεῖσα.
170 Cf. IC 144, 18-164, 15.
171 Cf. IC 164, 5-6: ὁ … λόγος ἐχειραγώγησε, καὶ ἐν ἐπιθυµίᾳ γίνεται τῆς διὰ σαρκὸς θεοφανείας.
172 Cf. ad es. DI 49, 1.
213
168
IV.2.1
Il male
Nell’Oratio catechetica magna173 il Nisseno indaga l’origine del male174. La prospettiva
entro cui si muove l’autore è facilmente rintracciabile nel neoplatonismo175 , laddove si
afferma che il male è una privazione del bene scelta dal libero arbitrio della creatura; tuttavia
esso fu in un certo qual modo mescolato dal tentatore alla stessa natura umana. Gregorio
infatti riconosce nell’uomo due possibili oggetti verso i quali questi rivolge la propria energia
conoscitiva (ἡ κατανόησις: OC 21,7), la realtà intellegibile e quella sensibile. Queste due
materie sono nettamente distinte, platonicamente176, in ambiti specifici: se la natura
intellegibile è incorporea, intangibile, priva di forma, più nobile, in quanto ad essa si rivolge il
νοῦς, la natura sensibile è predominio dei sensi. Luogo di quest’ultima realtà è la materia; la
natura intellettuale, secondo il vescovo, si colloca al di là di ciò che è sensibile, in una
sostanza sottile e mobile, l’etere, al di là delle regioni del mondo: sono queste le intelligenze
angeliche. Nella teoria creazionistica del Nisseno l’uomo si porrebbe al confine di queste due
sostanze, plasmato dalla terra ma nobilitato dal soffio divino, che attraverso la mescolanza
(συνανάκρασις 177: OC 22, 8) della sua natura sensibile con l’intellegibile lo rese partecipe
della realtà oltremondana; questo insegna (διδάσκει: OC 22, 12) infatti la parola ispirata.
Colui che sarebbe poi diventato il tentatore, adirato che una creatura a lui sottomessa
partecipasse della stessa divinità, fu irretito dall’invidia: anche gli angeli, in quanto creature,
possono essere infatti soggetti al mutamento, e questa intelligenza si distolse dal vero bene,
aprendo la strada ai vizi. L’avversario dunque assalì facilmente l’uomo, servendosi
dell’inganno, e pervertì le qualità che gli erano state donate in quanto µίµηµα di Dio (OC 25,
16), tra tutte la possibilità di parlare liberamente faccia a faccia con il creatore (παρρησίας:
OC 25, 16): mescolò infatti la possibilità del vizio al suo libero arbitrio, indebolendo la
benedizione divina, come quando, esemplifica Gregorio, all’olio della lucerna viene aggiunta
dell’acqua e la fiamma si indebolisce.
173
Cf. OC 21, 1-26, 12.
La migliore sintesi sulla tematica del male si indica in TARANTO 2009, pp. 64-87. Nella stessa opera l’autore
si sofferma anche sulla tematica del peccato, analizzandone l’origine e la sua permanenza nella storia attraverso
le passioni: cf. TARANTO 2009, pp. 467-483.
175 Cf. MORESCHINI 1992, p. 139, n. 49.
176 Cf. MORESCHINI 1992, p. 140, n. 50.
177 Lo stesso termine, in altri contesti, indica nello specifico la mescolanza tra la natura divina e umana che
Cristo assunse attraverso l’incarnazione.
214
174
In incipit del De mortuis 178 Gregorio annota che la genesi del male risiede in un giudizio
errato del bene cui l’uomo tende: il male infatti è tinto di una superficiale a fallace apparenza
di bene, che induce l’uomo all’inganno e all’errore, che anzi arriva a fornire al male stesso
una parvenza di sostanza179 . Il decadimento del desiderio e del piacere in risposte puramente
carnali180
(benché il male non si identifichi con la materia181 ) diventa dunque una
conseguenza della mancanza di volontà (ἀβουλία: DB 108, 21) o piuttosto della cattiva
volontà (κακοβουλία: DB 108, 22) che ha allontanato l’uomo dalla divinità, non una necessità
ingeneratasi nel seno stesso della creazione.
La volontà dell’uomo è per natura incline al bene, ma essa, dopo la caduta, è stata
debilitata nella sequela di ciò che pure le è proprio per natura, pur mantenendo intatta la
dinamica della libertà182. Il male, nota con rammarico il Nisseno nella sesta omelia del De
beatitudinibus183, fa parte in qualche modo della possibilità della natura umana, anzi
costituisce una deriva in cui essa cade necessariamente se non aderisce in piena volontà
all’economia salvifica: la generazione dell’uomo, la sua crescita e il termine della vita non si
può estraniare completamente dalle πάθη, ben definite da Taranto come «la traduzione
dell’amore per il non-essere»184. Insinuatasi nella natura dei progenitori, la malattia infatti
prosegue nei discendenti, che ne ripropongono l’essenza185.
Sarà dunque la libertà umana che segue o meno l’insegnamento salvifico, esplicitando così
la sua azione in virtù o vizio, che darà forma alla vita (µορφοῦται βίος: DB 148, 15) della
creatura: l’uomo è chiamato a scegliere nella sua libertà verso quale εἰκών dirigere i propri
178
Cf. DM 29, 9-18: ἐπειδὴ γὰρ πᾶσιν ἀνθρώποις φυσική τις πρὸς τὸ καλὸν ἔγκειται σχέσις καὶ πρὸς τοῦτο
κινεῖται πᾶσα προαίρεσις τὸν τοῦ καλοῦ σκοπὸν πάσης τῆς κατὰ τὸν βίον σπουδῆς προβαλλοµένη, τούτου χάριν
ἡ περὶ τὸ ὄντως καλὸν ἀκρισία τὰ πολλὰ τῶν ἁµαρτανοµένων εἴωθεν ἐξεργάζεσθαι, ὡς εἴ γε πρόδηλον πᾶσιν ἦν
τὸ ἀληθῶς ἀγαθόν, οὐκ ἂν ἐκείνου ποτὲ διηµάρτοµεν ᾧ φύσις ἡ ἀγαθότης ἐστίν, οὐδ' ἂν ἑκουσίως τῇ τῶν κακῶν
συνηνέχθηµεν πείρᾳ, εἴπερ µὴ ἐπεκέχρωστο τὰ πράγµατα διεψευσµένῃ τινὶ τοῦ καλοῦ φαντασίᾳ.
179 Cf. TARANTO 2009, p. 67: «è la creatura a fornire una sorta di esistenza al male, prima ritenendo la parvenza
fenomenologica di un ente, poi giudicandola un bene e in fine scegliendola; in questo modo la ragione distoglie
il suo sguardo dal bene, applica in maniera errata le sue categorie conoscitive e si muove verso il non-essere.
Così il male assume una dimensione in qualche modo pseudo-sostanziale». Cf. anche a p. 87, dove si legge che
«il male che penetra nell’umana natura si insinua in lei poiché la creatura è spinta verso il non-essere da un
impulso che è l’amore errato verso ciò che passa»; lo studioso aveva appena scritto, a p. 85, che «nonostante la
creatura possa con l’aiuto di Dio non avere nessuna tendenza verso il male, se lasciata alle sole proprie forze, la
sua volontà non è in grado di resistere all’impulso verso il non essere».
180 In DV 282, 12-16 si legge come i piaceri della carne facciano allontanare dagli insegnamenti (δόγµατα: DV
282, 12) della Chiesa e dalla guida (ὁδηγίαν: DV 282, 15) dello Spirito, conducendo invece verso ciò che
insegnano (διδασκαλίας: DV 282, 16) i demoni.
181 «Le mal, et là Grégoire se sépare profondément de Plotin, le mal n’est pas la matière: c’est le désordre
spirituel, le détournement de Dieu (ἐπιστροφή)» (VON BALTHASAR 1942, p. 49).
182 «In seguito all’errore della volontà, [la creatura umana] ha perso la capacità di scorgere autonomamente il
vero oggetto del suo desiderio, amando ciò che le appare bene; ma le è rimasta sempre la capacità di
scegliere» (TARANTO 2009, p. 421).
183 Cf. DB 145, 1-13.
184 TARANTO 2009, p. 481.
185 Scrive TARANTO 2009, p. 483 che «la molla che spinge coloro che scelgono il bene è il desiderio di Dio, che
l’inclinazione perversa non è riuscita ad oscurare. Coloro che invece hanno ceduto al dominio delle passioni,
hanno oscurato il bene con il male, cosa che nell’ordine della naturalità attuale risulta assai agevole per essere
l’uomo intrinsecamente corrotto dalla colpa originale»
215
passi e le proprie scelte, se quella divina o quella del demonio186 . Bene riassume Penati187 :
«l’uomo è sempre ‹immagine di›; la sua vita, con le scelte morali che comporta, si configura
come rapporto dinamico con un ‹volto›: o è quello misterioso del Padre, o è quello
dell’Avversario».
Tale fu ad esempio la possibilità data al Faraone, al quale Dio permise che gli si indurisse il
cuore benché egli gli offrisse a più riprese la parola di Mosè, che, ascoltata, avrebbe
ammorbidito la sua posizione188 . Allo stesso modo Gregorio interpreta l’ottenebramento del
paese agli occhi degli Egiziani189: in quel passo, scrive l’esegeta, l’ombra non era dovuta a
ragioni fisiche, come l’interposizione tra quella terra e il sole di un muro o di un monte, in
quanto gli Ebrei godevano ancora della luce, bensì a una scelta dello spirito di ciascuno.
Interpretando infatti secondo una facile trasposizione la luce come la vita virtuosa, il Nisseno
poteva senza remore affermare che l’uomo possiede le cause della luce e della tenebra nella
sua natura e nella sua libera scelta (ἐν τῇ ἑαυτῶν φύσει τε καὶ προαιρέσει: VM II 80, 7) e per
tal motivo può scegliere di seguire la via della luce o di camminare nell’oscurità. Artefice del
male è l’uomo stesso: la divinità piuttosto estirpa dall’uomo la malvagità che egli stesso ha
creato, così come il medico fa espellere al paziente i succhi nocivi presenti nel corpo di questi
che si sono ingenerati da un cattivo nutrimento 190. Icasticamente, il Nisseno scrive che la vera
medicina contro le passioni è l’insegnamento (διδασκαλία: IE 384, 14) del Vangelo, della
Scrittura.
Le strade che l’uomo può percorrere sono caratterizzate nel De beatitudinibus l’una
direzionata alla vita mondana, l’altra fedele alle promesse e oltremondana191; in precedenza il
Nisseno aveva appuntato come la libertà si muovesse ora ora verso la saggezza, ora verso la
stoltezza192. Trascorrere l’esistenza nei piaceri del secolo, afferma Gregorio, non permette di
ricercare le realtà più elevate, frutto della speranza immortale193 . Tale condanna da parte del
Nisseno tuttavia non deriva, come nei testi neoplatonici, da una concezione secondo cui il
piacere e la materialità sono da rigettare in quanto tali, sin dal loro principio: benché essa,
nella condizione attuale, sia profondamente relato al male morale, prima della caduta infatti
Dio aveva decretato che il godimento del bene - anche nella materia - fosse per l’uomo scevro
186
Cf. DB 148, 14-22.
PENATI 1992, p. 113 n. 34.
188 Cf. VM II 74-76.
189 Cf. VM II 80-82.
190 Cf. VM II 87.
191 Cf. DB 109, 1-10.
192 Cf. DB 95, 6-8: διπλῆ τῆς ἑκά στου προαιρέσεώς ἐστιν ἡ κίνησις, κατ' ἐξουσίαν πρὸς τὸ δοκοῦν προϊοῦσα,
ἔνθεν πρὸς σωφροσύνην, ἐκεῖθεν πρὸς τὸ ἀκόλαστον.
193 Cf. DB 107, 12-14.
216
187
e non mescolato al male, fattore che fu aggiunto solo all’atto della disubbidienza umana194. «Il
male non risiede infatti nella materia, ma prende forma quando si giudica la realtà transeunte
un bene»195 , in qualche modo alterando l’essere stesso. Se invece la spinta della volontà è
correttamente direzionata verso il bene, non prevarica o fa violenza sul resto della realtà,
evitando così il male; anche questo, scrive per inciso il Nisseno, offre testimonianza della
perfezione con cui è stato creato l’intelletto dell’uomo 196. Come ben riassume Penati197,
«Gregorio rifiuta l’identificazione del male con la materia, che invece caratterizza la
concezione del male della tradizione platonica. Il male […] viene prodotto dalla scelta
dell’uomo, che ne costituisce, in un certo senso, la sostanza (ὑπόστασις)».
«Il peccato, costituendosi intrinsecamente come perseveranza nel non-essere, conduce
l’uomo alla sofferenza»198. In conseguenza di ciò, la creatura nella sua condizione attuale
deve partecipare sia alla gioia che al dolore; tali sensazioni però possono entrambe condurre
ad un porto sicuro o alla dannazione199. Il dolore in sé infatti non è necessariamente un male,
in quanto è possibile leggerlo come come parte della παιδεία divina200.
In incipit della quarta omelia del De oratione dominica 201 il vescovo affronta nuovamente
il tema del male ricavando un insegnamento dalla pratica della medicina: secondo quest’arte
la salute si identifica nel giusto equilibrio tra i vari componenti organici, mentre la malattia
consiste nella prevaricazione contro natura di uno di questi sugli altri. Allo stesso modo sanità
dello spirito è il compimento della volontà di Dio, lo stato naturale dell’anima, non
assoggettato più alla prevaricazione del male. Dopo la caduta tuttavia il volere dell’uomo si
trova indebolito: come, per tornare alla metafora medica, il corpo non ritorna sano così
facilmente una volta che si è ammalato, così anche il ritorno verso il bene è più faticoso della
caduta. Una nuova ferita trova infatti un terreno su cui attecchisce facilmente ed i rimedi sono
sempre più difficili. Nella vita dell’anima, un impulso verso il male trova nell’anima spazio
sufficiente per mettere in atto i suoi piani; qualora invece insorga nell’uomo uno slancio
buono, egli ha bisogno che Dio stesso lo conduca a compimento202. Nel passo in esame il
194
Cf. DB 108, 22-28: τοῦ γὰρ θεοῦ ἀµιγὲς τοῦ κακοῦ τὸ ἀγαθὸν ἐν τῇ ἀπο λαύσει ἡµῶν νοµοθετήσαντος, καὶ
καταµιγνύναι τῷ καλῷ τὴν τοῦ κακοῦ πεῖραν ἀπαγορεύσαντος, ἐπειδὴ ἡµεῖς ὑπὸ λαιµαργίας ἑκουσίως τοῦ
ἐναντίου ἐνεφο ρήθηµεν, λέγω δὲ τῆς τοῦ θείου Λόγου παρακοῆς ἀπογευσάµενοι, διὰ τοῦτο χρὴ πάντως ἐν
ἀµφοτέροις γενέσθαι τὴν ἀνθρωπίνην φύσιν, καὶ µετασχεῖν ἐν µέρει τοῦ τε λυποῦντος καὶ τοῦ εὐφραίνοντος.
195 TARANTO 2009, p. 71.
196 Cf. AnAp 199, 2-3: ἡ γὰρ ἑκούσιός τε καὶ ἀβίαστος πρὸς τὸ ἀγαθὸν ὁρµὴ µαρτυρία τῆς τοῦ νοῦ τελειότητος
γίνεται.
197 PENATI 1992, p. 91 n. 12; cf. anche DB 129, 20-21: αὐτὸ δὲ ἐφ' ἑαυτοῦ κατ' ἰδίαν ὑπό στασιν ἔξω
προαιρέσεως, οὐδαµοῦ τὸ κακὸν εὑρίσκε κείµενον.
198 TARANTO 2009, p. 478.
199 Cf. DB 98, 22-109, 19.
200 Cf. Cap. V.3.2.
201 Cf. OD 44, 14-48, 13.
202 Cf. OD 48, 3-7: διὰ τοῦτο πρὸς µὲν τὸ κακὸν ἡµῖν τῆς ὁρµῆς γινοµένης οὐ χρεία τοῦ συνεργοῦντος,
αὐτοµάτως ἐν τῷ θελήµατι ἡµῶν τῆς κακίας ἑαυτὴν τελειούσης· εἰ δὲ πρὸς τὸ κρεῖττον γένοιτο ἡ ῥοπὴ, τοῦ θεοῦ
χρεία τοῦ τὴν ἐπιθυµίαν εἰς ἔργον ἄγοντος.
217
Nisseno spiega quindi come la preghiera del Padre Nostro, invocando su di sé la volontà del
Signore, chieda che la supremazia del male venga meno e operi nel cuore la salvezza. La
volontà di Dio deve infatti essere accolta dalla προαίρεσις umana affinché scacci le tenebre
del male, come un raggio di sole in una caverna buia, e ponga ogni cattivo movimento del
proprio volere nel non essere203.
Per contrastare nella vita terrena l’azione del maligno l’uomo può dunque solo giocare la
propria προαίρεσις in conformità al bene, vale a dire vivere secondo virtù204. Senza la scelta
dell’uomo che si rivolga al bene, eliminando da sé ogni residuo di ciò che la porterebbe al
male, non è infatti possibile che la creatura, in ultima analisi, eserciti in tutte le sue
potenzialità il λόγος. Un simile uomo, come si legge nel De perfectione, non potrà fregiarsi
del nome di cristiano 205: secondo il vescovo, sarebbe infatti simile a uno di quegli esseri
mitologici il cui corpo era immaginato tale da trasgredire le leggi naturali, mescolando nature
diverse. L’anima di colui che non segue la sua ragione a buon diritto può dunque essere
associata all’immagine del Minotauro206. Allontanare il vizio dalla libera scelta dunque è
rendere l’esistenza estranea alle opere malvagie207, atteggiamento che si realizza in una opera
di educazione208.
La battaglia tra vizio e virtù209 in cui la creatura umana si trova immersa richiede
l’intervento attivo della προαίρεσις: l’uomo infatti rende vincitore nella propria vita il
contendente al quale si accosta, e di questi riceve la forma. Tale è ad esempio l’interpretazione
spirituale di Exod 2, 11-12, dove si racconta di come Mosè si inserisca in un litigio tra due
uomini uccidendo l’assalitore del proprio connazionale, figure subito interpretate come il
vizio e la virtù 210. La medesima immagine ritorna, sempre nel De vita Moysis, qualche
capitolo più avanti211; in questo caso l’esegesi si appunta sulla dottrina patristica dell’angelo
custode e del demonio che invitano chi accompagnano a perseguire il diverso cammino che
203
Cf. OD 46, 25-28: ὥσπερ γὰρ ἐν τοῖς ζοφώδεσι τῶν σπηλαίων φωτὸς εἰσκοµισθέντος ὁ ζόφος ἐξαφανίζεται,
οὕτω τοῦ σοῦ θελήµατος ἐν ἐµοὶ γενοµένου πᾶσα πονηρὰ καὶ ἄτοπος τῆς προαιρέσεως κίνησις εἰς τὸ µὴ ὂν
περιΐσταται.
204 Cf. DPr 140, 19-141, 16.
205 Cf. DPe 179, 8-10: οὔτως οὐδ' ἄν Χριστιανὸς ἀκριβῶς ὀνοµασθείη ὁ τὴν κεφαλὴν ἄλογον ἔχων, τουτέστιν ὁ
τὴν τοῦ παντὸς κεφαλὴν ἥτις ὁ λόγος ἐστὶν ἐν τῇ πίστει µὴ ἔχων.
206 Cf. DPe 178, 20-179, 22.
207 Cf. DB 146, 12-14: τὸ γὰρ τῆς προαιρέσεως ἐξελεῖν τὴν κακίαν, ἐκ πολλοῦ τοῦ περιόντος ἐστὶν ἀλλότριον
τῶν πονηρῶν ἔργων τὸν βίον ἐργάσασθαι.
208 In DB 144, 14-148, 22, l’ultima parte dell’orazione VI, Gregorio ripropone al lettore il dubbio secondo cui sia
possibile all’uomo la purezza del cuore e lo scioglie sulla base della possibilità educativa si ritrovano molti
termini legati a questo ambito: 145, 15 (ἐδιδάχθηµεν); 145, 26 (διδασκαλίας); 146, 4 (διδασκαλίας); 146, 4
(µαθεῖν); 146, 20 (ἐδιδάχθης); 146, 21 (µάθε); 147, 2 (προσεµαρτύρησεν,); 147, 20 (διδασκαλίαν); 148, 14
(µαθόντες).
209 Il vizio è etichettato in DV 311, 21-312, 2, sulla base di un riecheggiamento di 1Tim 1, 10, come ciò che è
contrario all’insegnamento che offre salvezza.
210 Cf. VM II 14-15.
211 Cf. VM II 43-47.
218
loro propongono: il primo offre, attraverso puri ragionamenti, i doni della virtù, mentre il
secondo gli mostra i piaceri materiali e immediati che rendono schiavi i sensi di coloro che vi
incorrono. Di fronte a entrambe le scelte l’uomo non è forzato da nessuna necessità, bensì ha
la possibilità di offrire il suo consenso dove scelga.
Come conclusione del suo commento al Padre Nostro, Gregorio affronta in breve l’ultima
invocazione, che chiede di non indurre l’uomo nella prova e di liberarlo dal male212.
L’insegnamento della preghiera (ὴ τοιαύτη διδασκαλία τῆς προσευχῆς: OD 73, 5) è molto
chiaro, in quanto il termine πειρασµός è subito letto come un altro nome del male da cui
l’uomo deve fuggire ritirandosi dal mondo, non in senso strettamente fisico, ma sicuramente
spirituale: senza un appiglio, un’esca nei beni mondani infatti la tentazione non può afferrare
il cuore dell’uomo. Allo stesso modo, la prova offre all’uomo l’esperienza di cui necessita per
affrontarla nuovamente o fuggirla.
Molti sono i vizi che insidiano l’anima, ma essa deve conservarsi pura da ciascuno di essi.
Nel De virginitate213 Gregorio paragona la situazione dell’anima a quella di una bellissima
donna concessa in sposa ad un grande re; molti uomini (i vizi, fuor di metafora) la insidiano, a
causa della sua bellezza, ma essa deve conservare il proprio talamo puro da qualsiasi
seduttore: uno solo infatti è bastevole a contaminarlo, al punto che non vi salga più il
legittimo sposo. Per questo occorre rifiutare completamente il male, senza cadere
nell’inganno a causa del quale l’anima ineducata (ἀπαιδεύτου: DV 314, 15) cambia vizio
senza essere resa libera214 .
Allo stesso modo, tutta l’omelia Contra fornicarios 215 è costruita attraverso l’utilizzo di
lessico militare: Paolo, lo stratega, conduce l’esercito di coloro che sono salvati attraverso la
tattica della pietà, predicando la resistenza alle tentazioni e la fuga di fronte ai dardi della
fornicazione, che lorda non solo l’anima di colui che si abbandona a tale pratica, ma anche il
corpo, male che altri peccati non hanno la capacità di provocare. Un riferimento alla virtù
come armatura contro le insidie del nemico è presente anche nel De vita Moysis 216 durante
l’interpretazione spirituale dei piccoli scudi dorati che ornano il mantello del sacerdote che
serve nella tenda della testimonianza.
Nel De instituto Gregorio sottolinea come due siano gli elementi che costituiscono l’uomo
in armoniosa unità (ὁ εἷς ἄνθρωπος ἥρµοσται: DI 54, 20-21), il corpo e lo spirito. Senza
lasciarsi fuorviare da un facile manicheismo, il Nisseno esorta a vigilare su entrambi, in
quanto il corpo dell’uomo è tempio di Dio (καθάπερ ναῷ θεοῦ: DI 55, 2), come già aveva
212
Cf. OD 72, 11-74, 5.
Cf. DV 312, 2-21.
214 Cf. DV 313, 16-314, 10.
215 Cf. CFor passim, spec. CFor 211, 4-213, 5.
216 Cf. VM II 198.
213
219
detto Paolo (cf. 1Cor 3, 17), e l’anima ne è la sua parte immortale. Come ingaggiando
battaglia217 contro gli agguati della malvagità che tentano di cogliere di nascosto le difese
dell’uomo e di far capitolare il suo atteggiamento razionale improntato alla pietà (τὸν τῆς
εὐσεβείας λογισµόν: DI 55, 7-8), ciascuno è chiamato a far fronte contro queste tentazioni e a
custodire la sua anima; strumento di questa custodia è la già citata facoltà raziocinante
dell’uomo modellata dalla pietà e resa forte dal timor di Dio, dalla grazia dello Spirito e dalle
opere della virtù218. Il lessico militare, che esprime l’ἀγών dell’uomo per riappropriarsi della
purezza primigenia, rappresenta un filo rosso dell’opera: il Nisseno infatti poco oltre219
ricorda come il tentatore provi in ogni modo ad irretire l’anima dell’uomo con le proprie
malvagità, simili a lacci (βρόχους: DI 62, 5) e frecce infuocate (τὰ βέλη … τὰ πεπυρωµένα:
DI 62, 12), immagini per le passioni. Il contrapporsi alla legge divina da parte del demonio
mostra come armi le svariate malizie dell’inganno (τὰ τῆς ἀπάτης σοφίσµατα: VM II 63, 5),
che cercano di rappresentare un’alternativa alla luce della verità, la retta fede e la piena virtù;
nel De vita Moysis 220 queste due istanze sono presentate a partire dalle figure dei serpenti
egiziani e del bastone del legislatore, attraverso cui l’uomo virtuoso compie prodigi.
Un’elaborata metafora militare chiude anche l’ottava e ultima omelia In Ecclesiasten221 : il
nemico, attraverso i moti delle passioni, tenta di abbattere il muro dell’anima, che con
immagine platonica e origeniana222 è associata ad una città. Viene descritta la strategia di
assalto, per poi sciogliere la metafora e mostrare nella ragione ciò che non si indebolisce di
fronte al primo assalto, irta di opliti per respingere il male, nei traditori gli uomini che con le
loro lusinghe traggono verso la tentazione, e in tutti i diversi schieramenti i vari vizi, tutti
caratterizzati da una diversa funzione dell’esercito assediante, i cui nomi è possibile
apprendere (µαθεῖν: IE 431, 10) dal Vangelo (cf. Matth 15, 18-20). Tale esercito deve essere
affrontato con l’armatura della fede e la sua attuazione nelle opere, connubio senza il quale
non vi è salvezza. Neppure la pianta del piede sarà nuda, in forza dell’insegnamento
(διδασκαλία: IE 434, 19) evangelico, che nella metafora rappresenta i calzari, affinché nulla
sia esposto alle offese. Una volta edotti (µεµαθήκαµεν: IE 435, 1) su ciò che minaccia l’uomo
e contro cui deve combattere, occorre apprendere (µαθεῖν: IE 435, 2) chi possa portargli aiuti
e di chi si possa testimoniare (διαµαρτύρεται: IE 435, 3) un rapporto di alleanza e pace:
217
Il lessico di DI 55, 1-18 presenta molti termini che richiamano al lessico militare: παραγρυπνεῖν (2); un
richiamo può essere visto anche in τηροῦντα (2); φρουρεῖν (6.10); φυλακῆς (6.12); λόχος (6); δουλώσῃ(8);
στρατηγόν (11); ἐπιβοῶντα (11); ἐπικελευόµενον (11); ὠχυρωµένος (15); καθοπλίσας (15).
218 Cf. DI 55, 13-15: ψυχῆς δὲ φρουρὰ λογισµὸς εὐσεβὴς φόβῳ θεοῦ καὶ χάριτι πνεύµατος καὶ ἀρετῆς ἔργοις
ὠχυρωµένος.
219 Cf. DI 62, 4-63, 19.
220 Cf. VM II 63-65.
221 Cf. IE 429, 1-436, 17.
222 Cf. LEANZA 1990, p. 169 n. 29.
220
questo nuovo l’esercito è dunque interpretato come la schiera degli angeli, secondo la
testimonianza (µαρτύρονται: IE 435, 11) dei profeti, o come l’insieme delle virtù.
Bisogna ricordare infine come la metafora agonale diventi centrale nelle omelie che
trattano dei martiri223 ; in particolare, il lessico militare ricopre un ruolo particolarmente
efficace nella seconda parte del primo encomio In XL Martyres224, laddove il Nisseno presenta
il plotone destinato al martirio come la schiera dei soldati di Cristo, vestita delle virtù, che nel
suo nome sconfigge definitivamente l’avversario.
La forza della volontà umana è spesso insufficiente a simili prove: gli insegnamenti della
Scrittura ed in primis di Paolo 225 (da notare l’uso di µάθε in DI 62, 19), esortano per questo
l’uomo a vestirsi delle virtù come se fossero armi (ὅπλα: DI 62, 19) e parti di una armatura,
della quale scudo è la fede e spada è la parola rivelata, che sola può allontanare le
macchinazioni del nemico.
Una prima virtù che aiuti in tale agone, scrive Gregorio nel De beatitudinibus226 è la
mitezza lodata in Matth 5, 5; essa non è da intendersi come lentezza o semplicemente calma:
già solo il ricordo delle metafore sportive di Paolo227 , il pugile che ha inferto ferite e lividi
all’antagonista ormai vinto, esortano alla corsa verso Cristo. La mitezza invece deve essere
intesa come un freno nei confronti degli impulsi della natura, che, lontani dal controllo della
ragione, inclinerebbero facilmente verso il vizio228. Se infatti la deriva verso il male è veloce e
difficilmente contenibile, la lentezza nei confronti di esso diventa dunque testimonianza
(µαρτυρία: DB 95, 5) di un progresso verso le realtà più alte.
La difesa più sicura rispetto agli adescamenti e alle armi del maligno rimane comunque la
stretta sequela della divinità. Il Nisseno afferma questo commentando l’episodio del De vita
Moysis229 nel quale si legge come il legislatore non fu toccato dal pungolo dell’invidia o da
alcuna recriminazione laddove invece i suoi consanguinei più stretti furono irretiti. L’episodio
biblico vuole infatti che Aronne e Miriam fossero colpiti da questo male e si lamentarono
presso il popolo, dicendo che anche attraverso di loro il Signore aveva parlato. Chiamatili a sé
alla tenda, dopo aver testimoniato nuovamente la sua predilezione per Mosè Dio fece
scendere su Miriam la lebbra. Per intercessione del fratello tuttavia ne fu guarita dopo sette
giorni. Gregorio adduce quindi come motivazione dell’umiltà di Mosè il fatto che questi si era
ormai rivestito di tutte le virtù, cosicché nessun dardo del maligno più lo toccò. Questo
223
Cf. ad es, SST I 75, 13-77, 5.
Cf. XLM Ib 148, 6-151, 15.
225 Gregorio cita a proposito, intervallando la citazione con commenti propri, Eph 6, 14-18.
226 Cf. DB 93, 7-95, 5.
227 Cf. 1Cor 9, 24; Hebr 12, 1; Gal 5, 7; Phil 1, 30; 2, 16; 1Tim 1, 18; 2Tim 4, 7-8.
228 Cf. DB 94, 16-18: ἀλλ' ἔοικε τοιοῦτόν τι φιλοσοφεῖν ὁ Λόγος, ὅτι πολλὴ πρὸς τὴν κακίαν ἐστὶν ἡ εὐκολία, καὶ
ὀξύῤῥο πον ἐπὶ τὸ χεῖρον ἡ φύσις.
229 Cf. VM I 62, interpretato in II 256-263, che commenta Num 12, 1-15.
221
224
tuttavia fu possibile solo perché prima Dio stesso lo aveva educato attraverso la sua guida
(πρὸς τὴν ἀσφαλῆ τῆς ἀρετῆς ὁδηγίαν προδιδάξαντος: VM II 263, 6-7).
La sequela della divinità si attua, secondo un passo del De instituto, nel compiere quello
che è detto essere il culmine dei comandamenti (τὸ ἄκρον τῶν ἐντολῶν: DI 63, 14-15), vale a
dire l’amore verso Dio e il prossimo230 . Il secondo si mostra come declinazione del primo;
questo è inteso come conoscenza e timore della divinità, movimenti del cuore umano che non
sorgono senza sforzo o in modo automatico, ma attraverso grandi fatiche e attenzioni, avendo
come alleata la forza stessa di Cristo. Il rapporto con Dio ha dunque come prima conseguenza
l’attenzione verso i fratelli, che ne costituiscono il segno. Senza questa relazione, ribadisce
l’esegeta, l’uomo diventa preda dei ragionamenti perversi (λογισµοῖς πονηροῖς: DI 72, 16)
dell’artefice del male, che lo irretisce attraverso un uso improprio della sua facoltà razionale:
egli stesso scende in campo (ἀγωνίζεται: DI 75, 23) per trovare il modo di cacciare la
riverenza verso Dio e per sostituire all’amore verso la divinità illecite voluttà231 . I
comandamenti della Scrittura e il servizio dei fratelli vengono in questo modo percepiti come
opprimenti invece che latori di gioia232 e l’uomo cade nel vizio peggiore, quello della superbia
(εἰς ἀλαζονείαν καὶ τῦφον: DI 72, 19)233. Come si legge infatti anche nel Contra fatum 234, ciò
che preme di più ai demoni è distogliere lo sguardo dell’uomo da Dio, perché questi non
tragga dalla comunione con la divinità la sua parte di bene.
Per chi invece è ripieno dell’amore verso Dio la fatica richiesta dai comandamenti è facile
e dolce, in quanto l’ἀγάπη rende gradita ogni prova235. Intenzione del De instituto è anche
proprio quella di rendere avvertito chiunque legga il trattato di queste macchinazioni,
esortandolo ed educandolo alla corsa per la salvezza (τὸν σωτήριον δρόµον: DI 77, 10)
attraverso quello che l’esegeta chiama il combattimento per la giustizia (τὸν ὑπὲρ τῆς
δικαιοσύνης ἀγῶνα: DI 77, 11). Frutto e guadagno di questa lotta è, nella vita terrena,
l’acquisizione delle virtù236; attraverso queste le insidie del nemico diventano sempre più
estranee, mentre le opere buone sempre meno faticose, in quanto un’anima simile è spinta dal
solo amore per Cristo, deliziandosi dei suoi dolori addirittura più di quanto coloro che in
questa vita amano onori e glorie si deliziano in essi237 . La morte del diavolo, che rappresenta
per l’uomo la vittoria sul nemico del suo compimento, dal punto di vista strettamente umano
230
Cf. Deut. 6, 5, ripreso in Matth 22, 34-40 e Mc 12, 28-34; cf. anche DI 63, 14-19.
Cf. DI 75, 22-76, 13.
232 Cf. invece DI 70, 15-19.
233 Cf. DI 71, 20-73, 3. Il motivo della vanagloria umana che non ha ragioni adeguate per sussistere (l’uomo
nasce e muore senza che possa scegliere come o quando; si dice signore di un campo, quando Dio è Signore di
tutto il creato…) è presente anche in DV 269, 17-270, 13.
234 Cf. CF 62, 19-63, 2: τὸ γὰρ ἀποστῆσαι τὸν ἄνθρωπον τοῦ πρὸς τὸν θεὸν βλέπειν κἀκεῖθεν ἑαυτῷ τὴν τῶν
ἀγαθῶν µοῖραν παρασκευάζειν, ἀντὶ παντὸς τοῖς δαίµοσι σπουδάζεται.
235 Cf. DI 75, 20-22.
236 Cf. DI 83, 1-84, 6.
237 Cf. DI 84, 7-86, 3.
222
231
non consiste nell’eliminare la malvagità dal mondo, cosa che solo Dio può realizzare, ma nel
combatterla attraverso il concorso delle virtù togliendo così al male la sua efficacia nella
realtà238 .
IV.3 Ἀρετή ed ἐπέκτασις
Bellezza dell’anima che persuade allo stupore e all’imitazione è, per Gregorio, il possesso
della virtù239 . Nel De perfectione240 , quando Gregorio commentando gli appellativi
cristologici si trova a discutere della qualifica di pietra angolare, si legge che Cristo fonda
ogni buon comportamento, apprendimento o azione, essendo di essi principio e insieme
scopo241. Sulla speranza che genera la sua presenza, come il Nisseno afferma sulla scorta di
Paolo, occorre porre il principio (ἀρχή: DPe 193, 4) della vita, regolare i pensieri e le azioni,
di modo tale da appropriarsi del vertice che egli rappresenta. Il desiderio del compimento
deve a tal punto informare l’esercizio della προαίρεσις che tutti gli atti della vita ne siano
toccati e cambiati242 .
La virtù è una via intermedia tra i due estremi della mancanza e dell’eccesso, come si
esplicita soprattutto nel De Vita Moysis 243 e nell’In canticum244, concetto ereditato dalla
filosofia greca, specialmente di scuola aristotelico-peripatetica245; ancora nell’In canticum la
virtù è definita non solo come vedere il bene e mutare nella partecipazione al meglio, ma
anche nel rimanere saldi nel bello246 ; ma soprattutto le virtù sono il frutto, il vantaggio
(ὄφελος: DI 83, 14) e il guadagno (κέρδος: DI 83, 16) che l’uomo riceve perseguendo un
cammino di filosofia (φιλοσοφίας ὁδός: DI 83, 3); la loro presenza, anche appena il germoglio
(βλάστην: DI 83, 4) di queste, assicura di essere su una strada di giustizia, mentre la loro
238
Cf. DI 74, 3-18. Si riporta 74, 13-14: θάνατος γὰρ διαβόλου τὸ ἄπρακτον ἔχειν καὶ ἀνενέργητον τὴν κακίαν.
Per una analisi del tema della virtù e del progresso ascetico letto in rapporto anche agli autori precedenti al
Nisseno, cf. soprattutto VÖLKER 1955, pp. 123-130.
240 Cf. DPe 192, 15-194, 3.
241 Cf. DPe 192, 26-193, 1: διδασκόµεθα γὰρ διὰ τούτων [scil. ὀνοµάτων], ὅτι πάσης ἀγαθῆς πολιτείας καὶ
παντὸς ἀγαθοῦ µαθήµατός τε καὶ ἐπιτηδεύµατος καὶ ἀρχὴ καὶ τέλος ἐστὶν ὁ κύριος.
242 Cf. DPe 173, 1-3: Πρέπουσα τῇ προαιρέσει σου ἡ σπουδὴ ἡ περὶ τοῦ γνῶναι πῶς ἄν τις διὰ τοῦ κατ' ἀρετὴν
βίου τελειωθείη, ὤστε διὰ πάντων κατορθωθῆναί σου τῇ ζωῇ τὸ ἀµώµητον.
243 Cf. ad es. VM II, 288.
244 Cf. ad es. IC 284, 5-13.
245 «Gregorio segue lo schema aristotelico delle virtù: a ognuna di esse si accompagnano due vizi, l’uno per
eccesso e l’altro per difetto [...]: cfr. Arist. EN II 7 1107 a 33» (LOZZA 1991, p. 105). Cf. anche LANGERBECK p.
284 ad 5-15, dove vi è un elenco di passi in ui Gregorio affronta specificatamente il tema (De virg 282, 25-283,
25; Vita Moys 420 A/B; In eccl. 697 C/D; In Psal 529 B Migne) e si nota come non si conosca l’esatta fonte
filosofica pagana, rispetto alla quale il critico ipotizza che Gregorio abbia una dipendenza indiretta attraverso la
mediazione di uno scritto di Origene; cf. anche MORESCHINI p. 226 n. 54. Il Nisseno non cita tuttavia
direttamente alcun filosofo, accontentandosi di un semplice φασί (IC 284, 7). Come uno dei possibili punti di
sintesi del pensiero del Nisseno sulla virtù si veda TARANTO 2009, pp. 489-493.
246 Cf. IC 123, 19-124, 3.
223
239
assenza, sostiene l’esegeta, renderebbe inutile il πόνος del percorso; questa fatica invece a
fronte dell’utile che offre è resa per l’anima sopportabile e gradita247.
Nel De vita Moysis 248 si legge che il vivere secondo virtù comincia con una nascita
spirituale di ogni momento, per la quale genitori sono i buoni pensieri e levatrice è la
προαίρεσις: tali parti provocano dolore all’avversario, in quanto portano in sé già i segni della
vittoria nell’agone contro di questi.
Come Gregorio afferma con chiarezza soprattutto nell’Epistula canonica249, l’anima si
presenta tripartita nella facoltà logica, che caratterizza l’uomo in quanto tale, in quella
concupiscibile, motore del desiderio, e quella irascibile, soggetta quindi alle passioni
(suddivisione era già platonica250 ); l’accordo di queste diverse partizioni consente all’uomo la
vita nella virtù; in caso contrario, la creatura decade nel vizio. In quest’ultimo caso, un buon
educatore, come un buon medico, dovrà comprendere il disturbo specifico di ciascuno e
applicare ad esso la cura adeguata.
Coloro che vivono in modo virtuoso mostrano nella loro esistenza quasi un’impronta della
natura divina251 : come si legge nel De instituto252, l’anima, odiando il peccato e affidandosi a
Dio, sotto il governo delle virtù e trasformata nella vita, diventa nuova e rigenerata, riacquista
cioè la bellezza primigenia, raggiungendo lo scopo per cui era stata creata. La condotta di vita
infatti rispecchia, secondo il Nisseno, ciò che inabita nel cuore. Trattando della dignità
sacerdotale di cui Dio insignì solo la tribù dei Leviti, Gregorio si sofferma a commentare il
frutto della mandorla di cui germogliò il bastone di Aronne di fronte all’altare del Signore, al
contrario degli altri bastoni appartenenti alle altre casate, che rimasero immutati253 : questo
frutto è duro all’esterno, ma, giunto a maturazione dopo lungo tempo, è dolce. Allo stesso
modo la vita del sacerdote deve essere imperniata intorno alla virtù della continenza, e solo
dopo lungo tempo, spezzata la corteccia lignea che lo racchiude, ne appare il frutto invisibile.
Il vescovo cita quindi la massima evangelica secondo cui dai frutti si riconosce l’albero, così
come dalla condotta dell’uomo si può capire che cosa abbia nel cuore (Luc 43, 45). È utile, a
questo proposito, menzionare anche il racconto dell’indovino Balaam, presente sempre nel De
vita Moysis254, che il Nisseno chiosa notando come coloro che cercano di maledire chi vive
secondo virtù in realtà debbano per forza volgere la loro maledizione in benedizione. La vera
lode del cristiano viene infatti dalla realtà della sua vita, che se vissuta nella sua pienezza di
247
Cf. DI 83, 1-84, 6.
Cf. VM II 4.
249 Cf. EpC 2, 4-23.
250 Cf. SILVAS 2007, p. 215 n. 7, dove si rimanda a Plat. Resp. 440e-441a e Phaed. 246a–b, 253d–254e.
251 Cf. IC 271, 15-16: … τινὰ χαρακτῆρα τῆς ὑπερκειµένης φύσεως διὰ τῆς ἀστειοτέρας ζωῆς.
252 Cf. DI 61, 19-62, 4.
253 Cf. Num 17, 16-25, raccontato in VM I 70-71 e commentato in VM II 282-286.
254 Cf. Num 22, 2-24, 25 raccontato in VM I 73-74 e commentato in VM II 291-296.
224
248
virtù non può portare a calunnie: materia della diffamazione è infatti il vizio, che non
dovrebbe essere presente nella vita di un cristiano che realizza il suo essere.
Scrive Gregorio nel De beatitudinibus255 che l’ἀρετή ha una natura tale che la sua
spartizione non genera una diminuzione di sé, anzi si ritrova presente tutta intera in coloro che
ne contendono il possesso. L’esempio citato nell’opera, comune anche ad una orazione
dell’imperatore Giuliano256, è quello del sole, la cui luce si distribuisce a chiunque guardi
verso di lui rimanendo intero in ciascuno.
La virtù, tuttavia, non è uniforme ma variegata così come i fili di un tessuto; un simile
ornato come incenso raggiunge le profondità di Dio e riveste dell’incorruttibilità del cielo
l’uomo che ha scelto di seguire questa strada, imitando così la divina beatitudine e
mostrandola agli altri uomini257 . Per esplicitare questo concetto il Nisseno verso la fine
dell’omelia III commenta il termine ὁρµίσκοι di Cant 1, 10 collegandolo a ὅρµος 258. Oltre che
per dei monili questa parola, secondo l’esegeta, era infatti usata anche per indicare baie
costiere e insenature naturali di forma circolare; paragonando dunque il collo della cavalla
(l’anima) a degli ὁρµίσκοι, il Cantico suggerirebbe di accostarlo sia alle collane di virtù sia ai
porti tranquilli a cui queste conducono. Questo termine sarebbe quindi usato al plurale per
indicare tutta una congerie di virtù: una sola di esse infatti non sarebbe stata sufficiente ad una
vera lode, perché l’uomo si compie solo rendendo la propria vita virtuosa nella sua globalità;
per questo per lodare davvero l’anima occorreva che il testo attestasse la presenza di tutte le
virtù, che si acquistano in un cammino 259.
Pur partecipando di tutte le virtù, c’è chi ne farà fruttare in special modo alcune e chi altre.
Gregorio accenna al tema quando si trova a commentare, nel De vita Moysis 260, gli ornamenti
che si applicano sopra i mantelli del sacerdote che presta servizio nella tenda della
testimonianza, ed in particolare l’oggetto dorato posto davanti al petto dell’uomo ornato da
dodici pietre incise dai nomi dei patriarchi e disposte su quattro file; la descrizione continua
notando come questa piastra sia sorretta da piccoli scudi dello stesso materiale che scendono
dalle spalline. Secondo il Nisseno il racconto insegna (παιδεύοντος ἡµᾶς τοῦ λόγου διὰ τοῦ
σχήµατος: VM II 199, 5) a premunirsi contro gli assalti cui la vita espone: come infatti i
piccoli scudi proteggono la persona, così questo oggetto va a riparare il cuore dagli strali del
nemico; questo può avvenire, nell’uomo, solo se questi adorna la propria ἀρετή con gli
255
Cf. DB 79, 16-26.
PENATI 1992, p. 21 n. 8 rimanda alla terza orazione dell’imperatore, nel quale «compare un analogo paragone
tra la diffusione della luce solare e la comunicazione della virtù. Si tratta di un luogo comune dell’eliolatria dei
neoplatonici […] riletto in chiave cristiana».
257 Cf. IC 271, 10-272, 21.
258 Cf. IC 79, 16-80, 17.
259 Cf. IC 81, 19-82, 1: εἰ γὰρ ἦν ἑνὶ µόνῳ προσεικασµένη ὁρµίσκῳ, ἀτελὴς ἂν πάντως ὁ ἔπαινος ἦν ὡς οὐ τὴν
αὐτὴν καὶ ἐπὶ τῶν λοιπῶν ἀρετῶν µαρτυρίαν ἔχων.
260 Cf. VM II 199.
225
256
esempi dei patriarchi, facendola risplendere ora in un modo ora in un altro, secondo ciò che
gli è più congeniale.
Occorre tuttavia che l’uomo compia un progresso nella virtù. Essere innalzati verso Dio,
come si legge in incipit della quinta omelia del De beatitudinibus 261, consiste nel mantenere lo
sguardo fisso verso l’alto e, con l’incessante desiderio di raggiungere traguardi sempre più
alti, non rimanere fermi ma proseguire in un progresso infinito nel bene262 . L’immobilismo è
infatti considerato una conseguenza del peccato; non è casuale che l’immagine che Gregorio
sceglie per quest’ultimo sia l’inverno, nel quale ogni vita viene bloccata nella morsa del
gelo263 e come si impara (µεµαθήκαµεν: DB 149, 7) nell’episodio evangelico del paralitico,
per il quale il Logos non solo lo sollevò, ma gli impose di camminare264 . La condizione
propria dell’anima è invece quella del moto, ed in particolare dell’infinito progresso verso le
virtù265. Esso tuttavia non giunge attraverso una sorte che la trascini quasi in modo automatico
(ἐξ αὐτοµάτου τινὸς συντυχίας: DB 188, 1) né attraverso una casualità che non chiami in
causa una scelta (κατ' ἄκριτόν τινα ἀποκλήρωσιν: DB 188, 2), ma è un cammino che richiede
una fatica (πόνος: DB 188, 3), termine attraverso cui l’esegeta richiama l’impegno attivo e
consapevole della propria προαίρεσις.
L’uomo infatti, in base alle proprie scelte, guadagna e merita una maggiore o minore
perfezione, donatagli da Dio. Una esemplificazione di questo concetto si ritrova durante
l’esegesi del penultimo versetto preso in esame da Gregorio nella sua lettura del Cantico266.
Prima di rivolgersi direttamente alla spiegazione del testo, l’esegeta fa infatti una premessa e
ricorda al lettore l’esistenza di due distinte creazioni: la prima di esse precede la caduta
dell’uomo, la seconda consiste nel progetto salvifico di Dio per riscattare la sua creatura.
Trattando quindi più nel dettaglio di quest’ultima, Gregorio sottolinea la diversa gradualità
con cui il cambiamento si fa strada nell’essere267: la natura propria di ciò che esiste infatti, sin
dal principio, porta in sé traccia dell’inizio da cui provengono e del confine (τὸ πέρας: IC 458,
1.11) loro imposto; in particolare la natura umana, creata subito perfetta perché immagine di
Dio (κατ' εἰκόνα θεοῦ καὶ ὁµοίωσιν: IC 458, 7), a causa del suo rapporto con il male fu
esclusa dalla permanenza nel suo essere originario, il bene. La nuova creazione, che rese
261
Cf. DB 124, 1-5: οὐκ ἔστιν ἄλλως πρὸς τὸν Θεὸν ὑψωθῆναι, µὴ ἀεὶ πρὸς τὰ ἄνω βλέποντα, καὶ τὴν τῶν
ὑψηλῶν ἐπιθυµίαν ἄληκτον ἔχοντα, ὡς µὴ ἀγαπᾷν ἐπὶ τῶν ἤδη κατορθωθέντων µένειν, ἀλλὰ ζηµίαν ποιεῖσθαι, εἰ
τοῦ ὑπερκειµένου µὴ ἅψαιτο.
262 Per una trattazione puntuale del tema dell’ἐπέκτασις in Massimo il Confessore e Gregorio di Nissa, cf.
BLOWERS 1976.
263 Per l’interpretazione spirituale di questa immagine, cf. IC 152, 16-153, 9.
264 Cf. Matth 9, 5 ss.
265 Descritto come τὴν πρὸς τὸ κρεῖττον πρόοδόν τε καὶ ἐπαύξησιν διὰ τῆς µεταβατικῆς κινήσεως (IC 149, 9-10).
266 Cant 6, 8 (Ἑξήκοντά εἰσιν βασίλισσαι, καὶ ὀγδοήκοντα παλλακαί, καὶ νεάνιδες ὧν οὐκ ἔστιν ἀριϑµός)
commentato in IC 457, 9-466, 5.
267 Cf. IC 457, 19-460,
226
necessaria l’estensione nel tempo come presupposto di un cambiamento, diede tuttavia alla
natura umana ha la possibilità di tornare alla sua condizione originale raschiando da sé il male
(Gregorio utilizza qui la plastica immagine dell’eliminazione della corteccia di un albero)
attraverso la continua scelta di una condotta di vita onesta (διὰ τῆς ἀστειοτέρας ἀγωγῆς: IC
459, 3), in un cammino continuo che, conformemente alla dottrina, meriterà una retribuzione.
Nella conclusione del De perfectione il Nisseno ribadisce come a suo parere il compimento
per un cristiano consista nel non fermarsi mai nella propria crescita verso ciò che è
migliore268 . In tutto il trattato aveva affermato che per essere tale, il fedele di Cristo doveva
imitarne la natura, per quanto gli era possibile; nelle ultime pagine si esorta quindi a unire i
propri pensieri, le proprie parole e gli atti della vita ai termini che esplicitano le qualifiche di
Cristo, riunendo il proprio essere in unità e tenendosi lontani dal male. Alle obiezioni che
l’autore immagina più probabili, che si appuntano sull’impossibilità per un essere che
partecipa del divenire come l’uomo di godere dell’immutabilità nel bene propria solo di Dio,
Gregorio ribatte affermando come senza un degno avversario non ci sarebbero merito e
vittoria: l’esortazione finale del Nisseno propone dunque di combattere contro la mutevolezza
insita nella natura umana, non mirando ad abbatterla - perché parte dell’essenza dell’uomo -,
ma impedendo ad essa di allontanare dal bene. L’uomo può infatti dirigere la propria
mutevolezza verso il bene, in una ascesa infinita che non conosce limite.
Alla fine dell’Oratio catechetica magna 269 Gregorio sottolinea come alla nuova nascita cui
introduce il battesimo occorre rivolgersi in piena libertà: la προαίρεσις diventa infatti per
l’uomo ciò che sempre lo genera in ciò che è immateriale o ciò che è terreno. Neppure questa
rigenerazione sarebbe però bastevole: essa infatti di per sé non muta la natura dell’uomo, né il
suo elemento razionale, né quello intellettivo, né quello capace di accogliere la conoscenza270:
per essere davvero efficace la grazia del battesimo deve dunque riverberarsi nella vita. Tale
sacramento, secondo il dettato evangelico (Ioh 1, 12), offre infatti la possibilità di diventare
figli di Dio; il figlio tuttavia deve mostrare la stessa natura di colui che lo ha generato.
L’ascesa continua, il movimento senza fine che il battesimo apre per l’uomo ha una sua
figurazione plastica nell’immagine del pellegrino e del viandante: la vita dell’uomo deve
essere infatti considerata un cammino indirizzato alla meta della speranza271 . Tale figura è
268
Cf. DPe 214, 4-6: αὕτη γάρ ἐστιν <ἡ> ὡς ἀληθῶς τελειότης τὸ µηδέποτε στῆναι πρὸς τὸ κρεῖττον
αὐξανόµενον µηδέ τινι πέρατι περιορίσαι τὴν τελειότητα. Anche l’incipit del breve trattato In sextum Psalmum
(cf. ISS 187, 3-10) pone anch’esso davanti al lettore l’immagine del progresso infinito cui l’uomo è condotto per
mano (χειραγωγοῦνται: ISS 187, 6; ὁδηγούµενος: ISS 187, 10).
269 Cf. OC 98, 8-106, 18.
270 Cf. OC 102, 15-19: ἀλλὰ µὴν ἡ ἀνθρωπότης αὐτὴ καθ' ἑαυτὴν µεταβολὴν ἐκ τοῦ βαπτίσµατος οὐ προσίεται,
οὔτε τὸ λογικὸν οὔτε τὸ διανοητικὸν οὔτε τὸ ἐπιστήµης δεκτικὸν οὐδὲ ἄλλο τι τῶν χαρακτηριζόντων ἰδίως τὴν
ἀνθρωπίνην φύσιν ἐν µεταποιήσει γίνεται.
271 Cf. DM 49, 6-7: ὁδὸς γὰρ πρὸς τὸ ἐλπιζόµενον ὁ παρὼν γίνεται βίος.
227
proposta da Gregorio sin dalla sua prima opera, il De virginitate272 : in essa si legge come
coloro che hanno rivolto il pensiero alla vera ricchezza, perché ad essa educati, non fanno
come coloro che non hanno ricevuto una simile grazia (ἀπαιδεύτοις: DV 271, 18), abbattuti
dalle disgrazie della vita, ma non si curano delle avversità cui vanno incontro perché pervasi
dalla meta del loro viaggio. Il pellegrino infatti non si cura se sta attraversando una pianura,
una foresta o un deserto, ma si dirige verso la sua meta senza guardare dolori o piaceri che gli
ingombrano la strada, dirigendo la sua nave alla meta celeste come un bravo nocchiero
(κυβερνήτης: DV 272, 13).
Altrettanto chiaro è un passo del De vita Moysis 273, laddove il Nisseno commenta i cibi e
l’abbigliamento prescritto al popolo d’Israele nella notte della sua fuga. Il cibo concesso agli
Israeliti quella notte è costituito dalla carne dell’agnello di cui si è versato il sangue, da azzimi
ed erbe amare, un cibo non raffinato ma preparato alla buona sul fuoco; gli abiti e il modo in
cui i commensali consumano il pasto, proprio di persone sobrie e che hanno fretta, mostrano
all’esegeta una grande fretta: gli abiti consentiranno loro un lesto viaggio. La lettera del testo
mira ad un significato superiore: al testo sacro infatti non interessa prescrivere (ὑφηγουµένου:
VM II 105, 3) una modalità di mangiare, cui già la natura umana e il desiderio naturale
provvede, ma in segni indica che la condizione umana è quella del viaggiatore, del viandante,
spinto sin dalla nascita dalla forza delle cose stesse a travalicarle, ad uscire da esse274 : bisogna
dunque prepararsi in modo consono con abiti e calzature, acciocché le spine della vita, che
potrebbero essere i peccati, non entrino in noi. Allo stesso modo l’esegeta interpreta la tunica
come le occupazioni di questa vita, che i meno saggi vestono con piacevole indulgenza,
mentre i più accorti stringono il più possibile, attenti ad altri beni.
Anche la corsa al bene è un’immagine sulla quale Gregorio ritorna spesso, memore di Phil
3, 12; nel De vita Moysis 275 in particolare offre di essa una significativa interpretazione che
prende le mosse dal passo biblico nel quale Dio risponde alla richiesta del legislatore di
vederne il volto276. La divinità infatti risponde a questo desiderio, proprio dell’essere stesso
dell’uomo, invitando Mosè a fermarsi in un luogo a lui vicino, presso una roccia; finché tutta
la gloria del Signore non fosse passata, il legislatore sarebbe stato coperto dalla mano di Dio,
che il Nisseno non esita ad identificare con l’Unigenito; gli sarebbe stato concesso di
contemplare però le spalle del Signore. Il vescovo di Nissa dunque ricava da questo episodio
272
Cf. DV 271, 16-272, 14.
Cf. VM II 102-111.
274 Cf. VM II 106, 1-7: ἀλλὰ δῆλον ἂν εἴη ὅπερ ἡ τοῦ ὁδοιπορικοῦ σχήµατος διασκευὴ δείκνυσι δι' αἰνίγµατος.
Κελεύει γὰρ ἄντικρυς ἐπιγνῶναι τὸν τῇδε βίον ὅτι παροδικῶς ἐπιφοιτῶµεν τῇ παρούσῃ ζωῇ, ἅµα τῇ γενέσει πρὸς
τὴν ἔξοδον ὑπ' αὐτῆς τῆς ἀνάγκης τῶν πραγµάτων συνελαυνόµενοι, πρὸς ἣν παρεσκευάσθαι χρὴ χερσί τε καὶ
ποσὶ καὶ τῇ λοιπῇ τῇ πρὸς τὴν ὁδὸν ἀσφαλείᾳ.
275 Cf. VM II 242-244.
276 Cf. Per tutto il passo Exod 33, 18-23.
228
273
come vi sia una corrispondenza, nell’ascesi dell’uomo, tra corsa ed immobilità: Mosè infatti
realizza la corsa del suo desiderio nel permanere nel luogo assegnatogli da Dio. Uno stabilirsi
saldi nel bene richiede infatti che l’uomo riconosca senza esitazioni ciò che è bene a fronte di
una chiara comprensione dell’essere (ταῖς περὶ τῶν ὄντων ὑπολήψεσιν: VM II 243, 10-11). Un
possesso reale e certo del bene consente infatti di poggiare i piedi sulla vera roccia, Cristo,
evitando così di rimanere nella sabbia delle interpretazioni, che non consente di progredire,
pur facendo grandi passi.
Nel De instituto Gregorio mostra l’immagine del coltivatore delle virtù277 . Le sue
caratteristiche sono la semplicità e la purezza; il suo compito è sia etico, cioè non allontanare
il proprio comportamento dalle virtù, sia conoscitivo, vale a dire non separare la propria
ragione aperta alla religiosità dalla retta fede. La stretta coordinazione (µήτε … µήτε) dei due
membri della frase fa supporre che per Gregorio entrambe queste condizioni siano necessarie
e non possano essere disgiunte. Chi coltiva le virtù deve avere un carattere orientato ad un
unico scopo, semplice e inesperto rispetto alle passioni che lo condurrebbero sulla cattiva
strada; egli non deve seminare nella sua anima sia la malvagità che l’ἀρετή, guardando solo a
quest’ultima e irrigandola con fonti immacolate. La descrizione pare a tratti utopica; il
Nisseno tuttavia contempla anche con realismo la possibilità della tentazione e annota che chi
si abbarbica in Dio riceve da questi aiuto: la forza dell’uomo è nella richiesta della grazia;
come la vedova del Vangelo di fronte al giudice spietato, non bisogna stancarsi di supplicare
(προσευχεῖν: DI 57, 21).
IV.3.1
Preghiera
Anche alla preghiera occorre essere educati. Nell’incipit della prima omelia sul Padre
Nostro, edite come De oratione dominica278, si legge infatti come lo stesso Λόγος divino
277
Cf. DI 55, 18-57, 24. Si riporta, perché particolarmente interessante, DI 55, 18-56, 3: χρὴ δὲ τὸν τῆς ἀρετῆς
γεωργὸν ἁπλοῦν τινα εἶναι καὶ βέβαιον, µόνους εἰδότα γεωργεῖν τοὺς τῆς εὐσεβείας καρπούς, καὶ µήτε τὸν βίον
ἐκτρέπειν ποτὲ πρὸς τὰς τῆς κακίας ὁδοὺς µήτε τὸν λογισµὸν τῆς εὐσεβείας ἀφέλκειντῆς πίστεως, ἀλλ' εἶναι
µονότροπόν τινα καὶ εὐθῆ καὶ ἄπειρον τῶν ἔξω τῆς ἰδίας ὁδοῦ κειµένων παθῶν.
278 Cf. OD 5, 2-6, 2. Si riporta, perché particolarmente importante, OD 5, 2-5: εὐχῆς ἡµῖν διδασκαλίαν ὁ θεῖος
ὑφηγεῖται λόγος, δι' ἧς τοῖς ἀξίοις αὐτοῦ µαθηταῖς, τοῖς ἐν σπουδῇ τὴν γνῶσιν τῆς προςευχῆς ἐπιζητοῦσιν, ὅπως
οἰκειοῦσθαι προςήκει τὴν θείαν ἀκοὴν διὰ τῶν ῥηµάτων τῆς προσευχῆς ὑποτίθεται.
229
introduca ad un simile insegnamento i propri discepoli279 : essi, scrive il Nisseno, furono degni
di ricevere una simile educazione a come instaurare un pieno rapporto di vicinanza e
gratitudine nei confronti di Dio (εὐχῆς: OD 5, 2) grazie alla loro appassionata ricerca che
mirava a conoscere le parole (προσευχῆς280: OD 5, 4) attraverso cui questa interazione
sarebbe stata possibile. Gli uomini che costituiscono l’assemblea cui Gregorio rivolge questa
omelia tuttavia non sono come gli apostoli: essi infatti hanno bisogno dell’intervento del
vescovo che, audacemente (τολµήσας: OD 5, 6), li ammaestri (διδάσκεσθαι: OD 5, 7) per
prima cosa non tanto su come sia necessario pregare, ma che faccia loro scoprire il valore che
a questa azione pertiene281 . Una simile attività, sacra e divina, a detta del Nisseno era
trascurata e omessa dai più. Gregorio, attraverso questo incipit, si dichiara dunque pronto a
testimoniare con la sua parola (λόγῳ διαµαρτύρασθαι: OD 5, 13) l’importanza del precetto
paolino secondo cui occorre essere perseveranti nella preghiera282 ; poco oltre il Nisseno
ricorderà anche il passo del Vangelo lucano in cui si ricorda l’insegnamento di Cristo (ἡµᾶς
διδαχθῆναι τῷ λόγῳ: OD 8, 15) a pregare sempre283 . Il discorso prosegue ricordando, a titolo
di esempio, vari negotia umani284 : il commerciante e il compratore, l’artigiano e il retore,
l’avvocato e il giudice, fino a citare qualunque arte (µὲν τὴν τέχνην µετιών: OD 6, 20) si
muovono non per dedicare il loro tempo a Dio, ma alle loro occupazioni. La speranza di
costoro è dunque riposta nell’opera delle loro mani, nel loro ingegno o in quello dei propri
discepoli piuttosto che in un rapporto di vicinanza e gratitudine nei confronti di Dio (τὴν
279
Anche nel Contra usuraios si legge che Cristo, maestro di pietà, propose ai suoi discepoli un modello
semplice da seguire per la preghiera: Cf. CU 201, 12-14: ὁ δὲ σωτὴρ ἡµῶν καὶ τῆς εὐσεβείας διδάσκαλος εὐχῆς
κανόνα καὶ τύπον ἀπέριττον τοῖς µαθηταῖς εἰσηγούµενος κτλ. In seguito (CU 203, 13) sarà a tal proposito
utilizzato il verbo ἐδίδαξεν. Per uno studio puntuale sulla caratterizzazione del Cristo come maestro di preghiera,
cf. ALEXANDRE 2003 passim. Del lavoro si vuole sottolineare particolarmente come la studiosa noti come
Gregorio si inserisca in una tradizione già precedente, ma «accorde à cette représentation du Christ Maïtre de
prière une place essentielle» (p. 41): essa fa risaltare i termini legati al lessico dell’educazione di alcuni passi e
rimarca come «il y a une éducation à la prière» (p. 41); tale insegnamento è caratterizzato come una iniziazione,
una µυσταγωγία (p. 42); si approfondisce quindi l’accostamento tra Cristo legislatore e Mosè, affermando come
il primo apra il monte della perfezione all’intera Chiesa attraverso il tramite della preghiera. Il maestro di
preghiera diventa quindi «Maïtre de vie», e l’ascesa verso Dio, altro nome con cui è caratterizzata la preghiera,
diventa l’ascesa di tutta la vita (cf. p. 44).
280 Per una distinzione tra εὐχή e προσευχή cf. OD 21, 15-22, 15: in questo passo Gregorio distingue
l’atteggiamento di di vicinanza e gratitudine a Dio, che si esplica nel voto, nella promessa mossa dalla pietà
(εὐχή), e l’atto del pregare, della supplica (προσευχή), come si legge in OD 21, 20-22: εὐχὴ µὲν ἔστιν ἐπαγγελία
τινὸς τῶν κατ' εὐσέβειαν ἀφιερουµένων, προσευχή δὲ αἴτη σις ἀγαθῶν µετὰ ἱκετηρίας προσαγοµένη θεῷ. Come
l’atto di gratitudine e la vicinanza del cuore, che culminano nel voto, precedono l’avvicinarsi fiducioso
attraverso la richiesta e la supplica, così l’εὐχή precede la προσευχή. Questa offerta riguarda i doni graditi al
Signore, che la Scrittura insegna (διδάσκει: OD 22, 6) di anteporre ad ogni richiesta.
281 Sul modo di intendere la preghiera da parte di Gregorio, i termini da questi usati e paralleli possibili con
autori cristiani e non si veda PENATI 1997 passim. Si vuole qui ricordare come fondamentali per tale concezione
nissena siano Origene e Basilio: cf. VÖLKER 1955, pp. 233-235.
282 Cf. Rom 12, 11.
283 Cf. Luc 18, 1 ricordato in OD 8, 15-16.
284 Cf. OD 6, 2-7, 2.
230
εὐχήν: OD 6, 22), fatto che in ultima analisi snatura le proprie doti285 : esse infatti portano
l’uomo, che ne sia cosciente o meno, al desiderio di un possesso sempre più sfrenato di ciò a
cui la sua attitudine lo muove. Il vescovo mostra quindi come l’atteggiamento che subentra in
coloro che non si dedicano alla preghiera sia il peccato, identificato subito nel vizio del
possesso, l’avarizia (ἡ πλεονεξία: OD 7, 7)286 : ne è un esempio l’agricoltore che, dimentico
dei suoi reali bisogni, allarga i propri terreni a discapito dei propri confinanti o gli attori delle
cause giudiziarie che si piegano ad un interesse di comodo piuttosto che ricercare la verità.
Questa deviazione dell’animo umano non è altro che idolatria287: la preghiera, ribadendo con
precisione e costanza il rapporto tra Dio e l’uomo, non lascia dunque che le proprie capacità o
attitudini diventino idoli che fanno dimenticare la vera divinità, sventando le trame del
nemico.
Gli uomini tuttavia non vogliono accogliere l’alleanza della divinità in ciò che essi hanno
per le mani, lasciando così che il peccato si mescoli alla loro vita288. Da qui la necessità che il
vescovo aveva dichiarato all’inizio, di sottolineare il valore intrinseco della preghiera prima di
introdursi alla comprensione dell’orazione donata agli apostoli dal Logos stesso.
Poco oltre, nello stesso testo289, la preghiera è presentata dal Nisseno come la possibilità
dell’uomo di non essere separati da Dio: in essa infatti nasce la comunione con lui290 . La
preghiera è infatti difesa del pudore e pedagogia dell’animo (θυµοῦ παιδαγωγία: OD 8, 19);
Gregorio nomina quindi i molti vizi dell’uomo e la correzione che la preghiera apporta ad
essi. L’elenco delle grazie alle quali apre la προσευχή continua richiamando i profondi e
buoni aneliti dell’uomo nei rapporti con gli altri, rispetto alle varie età o condizioni che può
attraversare la sua vita e al lavoro a cui è chiamato: suggello della perfezione in ogni ambito è
l’esercizio della preghiera, il rapporto con Dio. Il vescovo accenna anche (solo nominalmente)
ai numerosissimi esempi della storia della salvezza che potrebbero renderne chiara l’efficacia.
Oltre che per richiedere, la preghiera è anche l’unico mezzo che l’uomo possiede per
contraccambiare, per il poco che sia possibile, ciò che ha ricevuto da Dio291 . Neppure l’intera
285
Si guardi ad esempio OD 6, 23-25, dove colui che si dispone a dirigere il suo discorso (e la propria ragione,
secondo le possibilità del termine λόγος) con cura, ma da se stesso, non usa le sue capacità secondo la loro vera
potenzialità (οὐ λογίζεται), perché ha dimenticato chi gliele ha concesse: ὁ τὸν λόγον δι' ἐπιµελείας κατορθῶν
ἑαυτῷ οὐ λογίζεται τὸν δεδωκότα τὸν λόγον.
286 Cf. OD 7, 2-26.
287 Cf. OD 7, 8: πλεονεξία δέ ἐστιν εἰδωλολατρεία. Il Nisseno identifica idolatria e avarizia anche in un passo
successivo, OD 47, 10-14, in cui si evidenzia un duplice significato del termine εἰδωλολατρεία: il culto folle
degli idoli (τήν τε περὶ τὰ εἴδωλα µανίαν: OD 47, 12) e il desiderio smodato verso l’oro e l’argento (τὴν περὶ τὸ
ἀργύριον καὶ χρυσίον ἐπιθυµίαν: OD 47, 11-12), quindi l’avarizia, in quanto, come ricorda Ps 113, 4, l’oro e
l’argento sono gli idoli delle genti.
288 Cf. OD 7, 22-26: καὶ τί ἄν τις τὰ καθ' ἕκαστον λέγοι δι' ὧν ἡ ἁµαρτία πολυσχιδῶς καὶ πολυτρόπως τῇ
ἀνθρωπίνῃ ζωῇ καταµίγνυται; ἧς αἴτιον οὐδὲν ἕτερόν ἐστιν ἢ τὸ µὴ συµπαραλαµβάνεσθαι παρὰ τῶν ἀν θρώπων
τὴν τοῦ θεοῦ συµµαχίαν πρὸς τὰ ἐν χερσὶ σπουδαζόµενα.
289 Cf. OD 8, 13-9, 13.
290 Cf. OD 8, 16-17: ἐκ γὰρ τοῦ προςεύχεσθαι περιγίνεται τὸ µετὰ θεοῦ εἶναι.
291 Cf. OD 9, 14-11, 12.
231
esistenza sarebbe bastevole a ricambiare degnamente il divino benefattore, che si concede
all’uomo in ogni divisione del tempo, vale a dire il passato, il presente ed il futuro: l’uomo è
infatti debitore del proprio esserci, della propria nascita e del mondo che è stato preparato
perché uno ne potesse trarre vantaggio e del compimento delle proprie speranze del futuro.
Solo del presente ciascuno è signore, a motivo della propria προαίρησις; il Nisseno lamenta
tuttavia come il più delle volte la creatura non faccia buon uso di questo suo possesso,
dimenticando il dovuto ringraziamento che sorgerebbe spontaneo se uno prendesse coscienza
dei doni ricevuti. La preghiera è infatti per i più richiesta di qualcosa di non conforme alla
sublimità della divinità, perché legato al male o frutto di una errata conoscenza dei propri
desideri. Attraverso le riflessioni che il Nisseno propone in questa prima omelia lui e i suoi
ascoltatori saranno educati a capire ciò che non bisogna chiedere, perché non conforme alla
vera natura dell’orare; i restanti discorsi che compongono l’opera approfondiranno invece
quali richieste occorra davvero rivolgere al Padre292 .
La preghiera è dunque, come ben afferma Penati293 , «ritorno alla coscienza di sé, della
propria dipendenza creaturale»; una volta che l’uomo vi sia educato, è essa stessa maestra. Un
simile concetto è esplicitato, ad esempio, nel De perfectione294 , laddove Gregorio esorta i suoi
interlocutori a rifiutare il maligno, apportatore di morte, e a ricercare il vero sovrano datore di
giustizia e di pace; l’insegnamento della preghiera consente a chi si pone in rapporto con il
divino di imparare chi sia il vero re, affinché questi diriga la sua vita. Allo stesso modo, nella
quinta omelia del De oratione dominica295 Gregorio, per esortare con più forza i suoi
interlocutori e offrire a loro e a se stesso una guida che conduca per mano (χειραγωγία: OD
62, 19) il ragionamento, ricorda le manchevolezze dell’uomo nei confronti di Dio e il castigo
a cui queste hanno portato: il testo del Padre Nostro, nei versetti sulla remissione dei debiti,
sottolinea come le parole della preghiera con il loro insegnamento educhino (παιδεύειν ἡµᾶς
τῇ διδασκαλίᾳ τῆς προσευχῆς ὁ λόγος: OD 63, 19-20) a non essere irriverenti di fronte a Dio,
anche se uno si riconoscesse simile al giovane ricco del Vangelo, che tentò di condurre la
propria vita avendo come pedagogo i precetti divini (ταῖς ἐντολαῖς τὴν ζωὴν ἑαυτοῦ
παιδαγωγήσας: OD 63, 24). Anche Elia, Giovanni Battista, Pietro, Paolo e Giovanni o gli altri
uomini testimoniati (µεµαρτυρηµένων: OD 64, 11) dalla Scrittura ebbero bisogno della grazia
divina; per questo occorre evitare di assomigliare al Fariseo della parabola evangelica296,
292
Cf. OD 19, 25-29.
Cf. PENATI 1997, p. 176.
294 Cf. per tutto il passo DPe 207, 19-209, 13, in particolare 208, 14-20: ὁ γὰρ κατὰ τὴν διδασκαλίαν τῆς
προσευχῆς ἐλθεῖν ἐπ' αὐτὸν τὴν τοῦ θεοῦ βασιλείαν εὐχόµενος, µαθὼν ὅτι δικαιοσύνης τε καὶ εἰρήνης ἐστὶ
βασιλεὺς ὁ ἀληθινὸς βασιλεύς, κατορθώσει πάντως τῷ ἰδίῳ βίῳ τὴν δικαιοσύνην τε καὶ εἰρήνην, ἵνα βασιλεύσῃ
αὐτοῦ ὁ τῆς δικαιοσύνης τε καὶ τῆς εἰρήνης βασιλεύς.
295 Cf. OD 62, 17-66, 17.
296 Cf. Luc 18, 10-14.
232
293
lasciandosi istruire (ἐδιδάχθη: OD 64, 18) dal testo ispirato che insegna che nessun uomo può
passare un giorno lontano dal peccato, in quanto gli uomini sono tutti discendenti di Adamo.
La preghiera esorta quindi l’uomo a guardare i propri bisogni per non insuperbire.
È questo il motivo per cui Gregorio nel De instituto, rifacendosi sempre all’apostolo delle
genti297, esorta a pregare incessantemente: coloro che amano la verità camminano pieni di
letizia, con fatica e buona volontà, verso il vero scopo della vita, la perfezione dell’essere
cristiano, cui si arriva attraverso una fede forte, una speranza fondata298 , cercando con tutte le
proprie forze di vivere all’altezza del nome di cristiano.
La tensione che il cristiano deve vivere verso il bene contrastando le passioni che lo
spingerebbero verso il male è l’esortazione principe dell’opera gregoriana; il vescovo tuttavia,
come si è visto, non ignora la difficoltà insita in un simile proponimento. Come il Nisseno
sottolinea chiaramente nel De instituto299, esistono infatti alcuni mali talmente radicati nel
profondo dell’anima che essa è incapace da sola di eliminarli; è necessaria la forza dello
Spirito, che deve però essere domandata. Il trattato, a partire da questa osservazione, apre un
ampio squarcio sul valore della preghiera per educare ad essa i suoi interlocutori300: Cristo
stesso infatti, raccontando l’episodio della vedova che non smise di importunare il giudice
finché non ebbe giustizia, esortò a perseverare in essa; Paolo si affannava perché attraverso la
continua richiesta allo Spirito coloro che gli erano stati affidati crescessero nell’età spirituale:
solo la preghiera infatti può ottenere loro la partecipazione e la pienezza della sorgente di ogni
conoscenza301 . L’esegeta torna sull’argomento nell’ultima parte del trattato302, prendendo le
mosse questa volta dalle virtù: queste, pur essendo diverse l’una dall’altra, contribuiscono
tutte al cammino dell’uomo, tanto da non permettere di indicarne una più degna di essere
perseguita rispetto alle altre. Implicandosi reciprocamente e tenendo avvinto chi le ricerca, lo
conducono alla vetta di ciò che desidera; tra esse tuttavia, secondo l’ammonimento paolino di
Rom 12, 12, spicca la preghiera, che del coro delle virtù è come il corifeo (κορυφαῖός τις τοῦ
χοροῦ τῶν ἀρετῶν: DI 78, 9-10), perché permette la partecipazione alla vita stessa di Dio303;
proprio per questo l’anima dell’uomo deve riconoscere in essa una guida e un alleato (ὁδηγὸν
καὶ σύµµαχον: DI 78, 14) che la conduce verso la letizia dello Spirito, immagine e caparra
della gioia eterna. Il Nisseno esorta quindi a perseverare in questa strada, lasciando libero
ciascun monaco di decidere la frequenza della sua orazione, secondo la sua retta coscienza304.
297
Oltre ai passi sopra ricordati, il Nisseno cita infatti anche 2Cor 13, 13 e 1 Tess. 5, 23.
Cf. DI 63, 11-13: τοῦτο γάρ ἐστι τὸ πέρας εἰς ὃ δεῖ φθάσαι διὰ πίστεως ἰσχυρᾶς καὶ ἐλπίδος βεβαίας τοὺς τῆς
ἀληθείας ἐραστὰς ἐν ἡδονῇ µετὰ ἀγῶνος καὶ προθυµίας βαδίζοντας.
299 Cf. DI 54, 9-19.
300 Cf. DI 54, 20-59, 17.
301 Cf. DI 57, 17-59, 4.
302 Cf. DI 77, 15-89, 12.
303 Cf. DI 78, 9-13.
304 Cf. DI 79, 15-80, 14.
233
298
Se vi fosse qualcuno che, ispirato da Dio, cercasse con più assiduità l’aiuto dello Spirito
attraverso l’orazione, occorre concedere a questi l’opportunità di pregare quanto il Signore
stesso gli ispira305 : un uomo siffatto è un guadagno per tutti. Anche in questo caso bisogna
infatti favorire la dinamica dell’imitazione: i superiori, oltre a sostenerne lo slancio, devono
infatti additare simili figure a chi deve ancora essere toccato da questo desiderio, oltre che ai
fanciulli e ai giovani, spinti per natura all’emulazione306.
Solo in questo modo ci si può contrapporre agli inganni del nemico e ci si può spingere
verso l’uomo perfetto, compiuto307 : compito dell’uomo è infatti modellare la propria anima
attraverso la pietà, il che corrisponde al compimento della volontà di Dio stesso308. Il dono
della grazia, conclude il Nisseno, è dunque commisurato alle fatiche di chi la accoglie309.
Dalla preghiera nasce infine una profonda fiducia nei confronti della divinità. Il tema viene
ripreso durante la quarta omelia del De oratione dominica310 quando il Nisseno tratta della
richiesta del pane quotidiano: in essa infatti l’avverbio σήµερον, oggi, insegna (µάθοις: OD
56, 25) nuovamente che la vita dell’uomo è effimera, e ad egli appartiene solamente il
presente: il futuro è infatti un mistero. Secondo il precetto evangelico di Matth 6, 34311 ogni
giorno ha la sua pena, e non bisogna preoccuparsi del domani: ad esso infatti penserà Dio che,
come fa sorgere il sole, così fornirà ciò di cui l’uomo abbisogna. A sottolineare questo
concetto, Gregorio sottolinea come gli animali, esseri quindi inferiori all’uomo perché
manchevoli del λόγος, possiedono per natura (cioè per volere divino) un istinto e possono
acquisire delle conoscenze da soli, di modo da provvedere al loro presente ed essere in esso
tranquilli312. L’uomo, al contrario, si preoccupa moltissimo del futuro, ma riferendosi solo alle
sue necessità materiali, senza seguire i segni che lo educherebbero (παιδευόµεθα: OD 57, 23)
a guardare la vita fisica come qualcosa di effimero, e solo l’anima come qualcosa di
immortale: in questo modo le sue speranze, riposte in beni che non soddisfano, non si
realizzano e inficiano anche il valore della vera speranza, quella donata da Dio. Il Nisseno
esorta quindi a lasciarsi guidare a comprendere (διδαχθῶµεν: OD 58, 10) ciò che occorre
davvero chiedere, affidandosi a Dio per quanto riguarda il presente e cercando solo, come si
conclude l’omelia, il regno dei cieli e la sua giustizia.
305
Cf. DI 80, 15-81, 12.
Cf. DI 82, 12-22.
307 Cf. DI 44, 26-45, 25.
308 Cf. DI 46, 4-5: θέληµα τέλειον τοῦ θεοῦ λέγων τὸ ὑπὸ εὐσεβείας µορφωθῆναι ψυχήν.
309 Cf. DI 46, 25-26: τοῖς τοῦ δεχοµένου πόνοις ἡ δωρεὰ µετρεῖται τῆς χάριτος.
310 Cf. OD 56, 23-58, 22.
311 Tutto il passo è costruito sulla falsariga di Matth 6, 25-34.
312 Cf. OD 57, 18-21: εἶτα βοῦς µὲν, ἢ ὄνος, ἢ ἄλλο τι τῶν ἀλόγων αὐτοδίδακτον τὴν ἐκ φύσεως ἔχει
φιλοσοφίαν, καὶ τὸ παρὸν εὖ διατίθεται, τῶν δὲ εἰς τὸ ἑξῆς αὐτῷ φροντὶς οὐδεµία; In questo caso il termine
φιλοσοφία, a detta di CALDARELLI 1983, p. 99 n.28, «non può essere altro che la capacità pratica, insita in ogni
creatura animata, di risolvere i problemi della sopravvivenza».
234
306
IV.3.2
Obbedienza
In virtù di questa forza e gloria celeste, come si legge alla fine del De instituto313, l’uomo
può affrontare qualsiasi combattimento, fatto che mostra l’inabitazione nell’anima dello
Spirito (τῆς ἐν ὑµῖν ἐπιδηµίας τοῦ πνεύµατος: DI 87, 6). Il vescovo tuttavia sa bene che una
simile condizione di perfezione è rara a realizzarsi: per chi si trova infatti più indietro nel
cammino spirituale, Gregorio raccomanda semplicemente l’obbedienza (τὴν ὑπακοήν: DI 87,
13), da perseguire con tutte le proprie forze. La sequela richiesta dall’educazione ha infatti
come presupposto il riconoscersi più bisognosi di altri (καταδεέστερος: DI 71, 2) e mostra
come fine ultimo una convenienza personale del discepolo, vale a dire il compimento della
propria vita e il raggiungimento della vera felicità: nel De instituto314 Gregorio scrive infatti
che colui che segue i propri superiori, che si devono comportare come pedagoghi e dottori,
riconoscendo in essi i propri maestri, chi ubbidisce loro con gioia e si lascia spingere anche
attraverso il proprio diletto alla perfezione condurrà sulla terra la vita degli angeli come vero
discepolo di Cristo (µαθητὴς … Χριστοῦ: DI 71, 3). Questa qualifica, la stessa degli apostoli
nei Vangeli e di Paolo, fa supporre che il Nisseno consideri possibile una esperienza piena
nella vita del Dio fatto carne, così come per coloro che lo incontrarono mentre visse,
determinata dalla sequela e dall’obbedienza nei confronti della Scrittura e della Chiesa. Nel
De instituto infatti il vescovo sottolinea con efficacia come l’amore o l’odio verso Dio si
rendano evidenti nella vita di un uomo attraverso le sue azioni, ed in particolare attraverso
quanto egli segua i precetti ricavati dalla Scrittura vissuta alla luce del canone apostolico; la
non osservanza di essi, manifesta o nascosta, allontana profondamente dalla presenza di
Dio315.
Questa obbedienza tuttavia, e Gregorio tiene a sottolinearlo, non è qualcosa di impossibile
o gravoso per le capacità dell’uomo. Mostrare questo è infatti uno degli scopi della stesura del
De instituto316, e l’ultima esortazione con cui il trattato si conclude: Dio infatti non chiede
nulla che non sia adeguato alle possibilità di ciascuno di fare del bene, desiderando che
nessuno fallisca nel suo cammino: anche un bicchiere d’acqua è foriero di salvezza, come si
legge in Matth 10, 42 o in Marc 9, 41, e Gregorio non si risparmia, nelle ultime pagine del suo
trattato, nel far notare l’incommensurabilità di un simile amore che l’uomo deve solo
accettare.
313
Cf. DI 86, 3-89, 12.
Cf. per tutto il passo DI 68, 15-70, 19. Si riporta perché particolarmente significativo 70, 15-19: ἐὰν οὕτως
ἔχητε πρὸς ἀλλήλους οἵ τε ἐφεστῶτες καὶ οἱ τούτοις χρώµενοι διδασκάλοις, οἱ µὲν πειθόµενοι µετὰ χαρᾶς τοῖς
ἐπιταττοµένοις, οἱ δὲ µεθ' ἡδονῆς τοὺς ἀδελφοὺς ἐπὶ τὸ τέλειον προσαγόµενοι, καὶ ταῖς τιµαῖς ἀλλήλους
προηγῆσθε, τὸν τῶν ἀγγέλων ἐπὶ τῆς γῆς ζήσεσθε βίον.
315 Cf. DI 53, 3-54, 19.
316 Cf. DI 87-88.
235
314
La partecipazione alle beatitudini, quindi il compimento dell’uomo, non è altro che la
comunione con la divinità317 , cui si è innalzati attraverso ciò che è stato detto da Dio sul
monte. Un simile discorso bene introduce la beatitudine della misericordia, in quanto questa è
detta essere la caratteristica di Dio dai Salmi, da Giona e dalla legge mosaica318 . Questa è una
disposizione d’animo caritatevole verso coloro che si trovano in situazioni penose: essa
riunisce in sé l’ardore della carità e l’afflizione attenta nei confronti di un altro. La carità,
argomenta quindi il vescovo, rappresenta il vertice delle virtù319.
La promessa che offre una vita improntata alla virtù travalica qualsiasi aspettativa umana:
nella seconda omelia del De oratione dominica320 Gregorio commenta l’appellativo che il
cristiano consegna a Dio ogni volta che recita il Padre Nostro: Πάτερ. Il Nisseno afferma che,
se pure avesse la capacità di volare in alto con la mente e abbracciare la sublimità del cielo,
fino a elevarsi al cospetto di Dio, non si sa capacitare di quale anima, di quale libertà
(παρρησίας: OD 23, 12) un uomo fa uso per pronunciare un simile appellativo, così familiare,
nei confronti della divinità. Pur dopo aver avuto una percezione di cosa sia Dio attraverso i
suoi appellativi, pur dopo essere stato educato e condotto quasi per mano (χειραγωγούµενος:
OD 23, 13) alla comprensione della gloria indicibile, pur dopo aver imparato (µαθών: OD 23,
15) quali siano le caratteristiche immutabili della natura divina e aver colto con la propria
mente tutto ciò che si pensa sulla divinità, come potrebbe, si chiede il Nisseno, avere l’ardire
di pronunciare un nome simile?321 Si elencano quindi le qualità divine delle quali l’uomo,
dopo la caduta, non fu più partecipe; la mediazione del Vangelo e di Paolo consente però di
notare come l’uomo sia chiamato figlio dell’ira o della luce322 in base al suo comportamento;
il Signore dunque, a detta del Nisseno, attraverso la preghiera insegnò (διδάσκῃ: OD 25, 10)
agli uomini il più alto ed elevato modello di vita: la verità infatti non può mentire, ma
ammaestra (διδάσκει: OD 25, 12) gli uomini a mostrare una vera parentela con colui che
chiamiamo padre attraverso la condotta di vita. Allo stesso modo, la locuzione ἐν τοῖς
οὐρανοῖς deve ricordare all’uomo la sua vera patria323 : attraverso la mediazione della parabola
317
Cf. DB 124, 13-15.
Callahan propone in apparato i seguenti passi: Ps 85, 15; 102, 8; 110, 4; 114, 5; 144, 8; Ion 4, 2; Exod 22, 26;
36, 6.
319 Cf. DB 126, 1-127, 16. Si sono trovati a proposito particolarmente perspicui i passi DB 126, 25-27 (ἔλεός
ἐστιν ἐπὶ τῶν δυσφορούντων ἐπί τισιν ἀνιαροῖς ἀγαπητικὴ συνδιάθεσις) e 126, 29-127, 2 (εἴ τις ἀκριβῶς ἐξετά
σειε τὸ τοῦ ἐλέου ἰδίωµα, ἐπίτασιν εὑρήσει τῆς ἀγαπητικῆς διαθέσεως, τῷ κατὰ τὴν λύπην πάθει
συµµεµιγµένην).
320 Cf. OD 22, 16-26, 19.
321 Cf. OD 23, 11, 21.
322 Cf. OD 25, 2-9. I passi biblici di riferimento sono, nell’ordine, Eph 2, 3; 2Thess 2, 3; Ioh 17, 12; 1Thess 5, 5;
Luc 16, 8; Ioh 12, 36; Eph 5, 8.
323 Cf. OD 26, 20-29, 4.
236
318
del figliol prodigo324, richiamata alla mente del vescovo dalle parole del ragazzo, che si dice
colpevole contro il cielo e contro il padre, tanto da non essere degno di essere chiamato suo
figlio, Gregorio afferma che Cristo avrebbe insegnato a chiamare Padre colui che è nei cieli
per suscitare nell’uomo un più vivo desiderio dei beni celesti ponendolo sulla strada che
conduce ad essi325 . E la via, come spesso il Nisseno ricorda, consiste nel la fuga dai vizi
terreni e nel desiderio di diventare simili a Dio, imprimendo in sé i caratteri delle virtù e
passando così, senza fatica, dalla vita terrena a quella celeste.
La parentela (συγγενείας: 151, 26) con Dio, compimento della felicità per l’uomo e
risultato della sua libera propensione, è comunque una grazia che eccede qualsiasi merito
umano; la grazia stessa opera anzi perfino nel raggiungimento da parte dell’uomo della
condizione richiesta da Dio. Il tema viene analizzato doviziosamente nella settima omelia del
De beatitudinibus326, che commenta la promessa di Cristo per coloro che sono operatori di
pace: in essa l’argomentazione si snoda a partire dal riconoscimento della natura di carne e
polvere dell’uomo327, profondamente diversa dall’essenza divina che non si può neppure
nominare, e interpreta la nomea di figli di Dio come il traguardo che l’infinita bontà elargisce
a chi pure aveva disonorato la propria natura; attraverso questa parentela, l’uomo riceverà
anzi un onore simile a quello della divinità. Il motivo della grazia si estende quindi anche allo
stato cui Cristo aveva accennato: saranno chiamati figli di Dio, secondo Matth 5, 9, gli
operatori di pace, ma tale opera si configura essa stessa come un altro dono, in quanto l’uomo
non può pervenire ad essa da solo. «Pace» è somma dolcezza: essa è infatti il presupposto
necessario all’accoglimento degli altri beni, che perderebbero la loro piacevolezza senza un
contesto favorevole, e aiuto nei confronti delle afflizioni, che da essa vengono stemperate;
parole veementi sono invece scagliate contro le atrocità della guerra, che infettano qualsiasi
piacere. Anche se non ci fosse, scrive Gregorio, la promessa della parentela con la divinità già
la pace stessa potrebbe essere considerata dunque un dono bastevole ai saggi; da esso si nota
quindi nuovamente la sovrabbondanza dell’amore divino (τὴν τῆς φιλανθρωπίας ὑπερβολὴν:
DB 153, 19), che ricompensa l’uomo che segue il proprio diletto e piacere328. Per questo Dio
non volle che l’uomo possedesse tale ricchezza commisurata solo a quanta il singolo ne
potesse godere, ma in abbondanza, tanto che ne potesse offrire a chiunque329.
324
Cf. Luc 15, 11-32. Le parole del figlio che richiamano lo sbaglio nei confronti del cielo e sono collegate alla
preghiera del Padre Nostro sono in Luc 15, 18.21.
325 Cf. OD 27, 27-28, 2: οὕτω καὶ ἐνταῦθα δοκεῖ µοι διδάσκων ὁ κύ ριος τὸν ἐν τοῖς οὐρανοῖς ἐπικαλεῖσθαι
πατέρα µνήµην σοι ποιεῖσθαι τῆς ἀγαθῆς πατρίδος, ὡς ἂν ἐπιθυµίαν σφοδροτέραν τῶν καλῶν ἐµποιήσας
ἐπιστήσειέν σε τῇ ὁδῷ τῇ πρὸς τὴν πατρίδα πάλιν ἐπαναγούσῃ.
326 Cf. DB 148, 25-154, 4.
327 Cf. DB 149, 23-150, 3; il passo è corredato dal Nisseno da numerose citazioni bibliche.
328 Cf. DB 153, 19-21: ἐν τούτῳ τοίνυν ἔστι τὴν τῆς φιλανθρωπίας ὑπερβολὴν ἐπιγνῶναι, ὅτι τὰς ἀγαθὰς
ἀντιδόσεις, οὐ πόνοις καὶ ἱδρῶσιν, ἀλλ' εὐπα θείαις τρόπον τινὰ καὶ θυµηδίαις κεχάρισται.
329 Cf. DB 153, 26-154, 4.
237
Come si apprende dalla conclusione del De vita Moysis 330, compimento della vita di un
uomo è essere chiamato servo di Dio (οἰκέτης κυρίου: VM II 314, 2), appellativo che il
legislatore ebbe per parola stessa di Dio. Un uomo, commenta il Nisseno, non può ricevere un
nome simile se non una volta superato in valore tutto ciò che c’è nel mondo, secondo
l’insegnamento che si ricava dal racconto (παιδευόµεθα διὰ τῶν εἰρηµένων: VM II 315, 1-2).
Il compimento della vita non si attua per timore, bensì per amore: come si ricava dalla stessa
opera331 , secondo Gregorio la perfezione consiste nel guadagnare la vita virtuosa non per
paura del castigo o mercanteggiando in qualche modo la salvezza, ma per amore dell’amicizia
di Dio, giudicando temibile solo il decadere da essa.
La tensione che fa nascere la pratica dell’imitazione necessita della presenza di una
testimonianza viva, che rispetti la dinamica dell’incarnazione. Nello specifico, ciò che la
Scrittura attesta nei due testamenti, la venuta di Cristo e l’annuncio degli apostoli, devono
avere incidenza nella realtà per muovere il desiderio dell’uomo. Il Nisseno esprime questa
dinamica fondandola sulla presenza di Cristo nella Chiesa. Come già si notava infatti la
Scrittura offre una guida verso la saggezza e la conoscenza di Dio; allo stesso modo la Sposa,
diventata sin dall’omelia II ἡ διδάσκαλος 332, offre la sua guida alle anime desiderose di
apprendere i beni celesti. Il termine che Gregorio usa per esprimere la guida da parte della
Scrittura e da parte dell’anima è identico (ὑφήγησις: IC 44, 10; 46, 1), quasi a sottolineare
anche dal punto linguistico l’identità teologica tra la parola rivelata e l’opera della Chiesa. Il
desiderio delle giovanette sorge poi dal fascino del miracolo (θαῦµα) operato dal
cambiamento della Chiesa in grazia della generosità del suo amato: la Sposa stessa mostra
infatti la sua bellezza per esortare le giovinette a diventare come lei e desidera che le anime
che stanno imparando da lei apprendano grazie all’esempio (µανθάνειν διὰ τοῦ ὑποδείγµατος:
IC 47, 4) della sua vita.
330
Cf. VM II 314-317.
Cf. VM II 320, 321.
332 La prima attestazione è IC 45, 20; a questa ne seguiranno altre, tra cui si vuole ricordare IC 134, 5 e, verso la
fine dell’opera, IC 377, 14; IC 434, 17; 435, 8.15.
238
331
Cap. V
V.1
La testimonianza
La categoria della testimonianza si basa su quell’aspetto fondante della natura dell’uomo
che lo porta a volgersi e protendersi con il desiderio verso ciò che vede di buono e di
lodevole1. La bellezza possiede infatti una evidenza che basta a se stessa, senza la necessità di
un discorso che la impreziosisca, qualcosa che il cuore dell’uomo riconosce di schianto come
θαῦµα2 : con la stessa logica la testimonianza degli uomini grandi muove verso l’imitazione.
È questa l’immagine con cui si chiude, ad esempio, l’ultima omelia che commenta il
Cantico dei Cantici: le fanciulle, le concubine e le regine3, le tre immagini che Gregorio legge
come tre possibili aspetti dell’aetas spiritualis dell’uomo in cammino verso il suo
compimento, guardano infatti all’unica colomba, colei che è per grazia riuscita a vivere con
pienezza il vincolo di unità promesso da Cristo in Ioh 17, che l’esegeta aveva anche spiegato
come la gloria dello Spirito cui l’uomo tende. Che queste tre figure guardino e lodino la
colomba, come viene scritto nelle ultime righe dell’opera, è prova del fatto che anche esse
cerchino ciò che viene lodato, cioè la profonda unità in Cristo, compimento del proprio
desiderio.
Dio, nella sua onniscienza, è testimone per eccellenza4 e si esprime attraverso la parola
rivelata. La Scrittura tuttavia chiede di fronte al λογισµός dell’uomo che si attesti la verità
delle parole che tramanda. Un esempio di questo potrebbe essere il commento che Gregorio
compie durante l’interpretazione di Cant 2, 8-9. In questo passo l’esegeta commenta la
difficile immagine del cerbiatto e della gazzella che supera d’un balzo monti è colline, che poi
si muta nella voce dello Sposo che attraversa le inferriate della casa dell’amata. Si è già
accennato5 come i due animali siano, nella parola profetica ed evangelica, figurae Christi,
come i dirupi siano immagini del male e come l’attenzione del Nisseno evidenzi la chiamata
dei discepoli a condividere la natura del loro maestro; la voce dello Sposo era invece intesa
come prefigurazione dell’incarnazione. Interpretando i due versetti Gregorio propone dunque
1
Cf. IC 468, 18-19: φύσις δὲ πᾶσίν ἐστι πρὸς τὸ µακάριόν τε καὶ ἐπαινούµενον τῇ ἐπιθυµίᾳ συντείνεσθαι.
Cf. DV 252, 16-22.
3 Per tutto il passo cf. IC 457, 9-466, 5.
4 Cf. OD 72, 1
5 Cf. Cap. III.2.
2
239
una rilettura la storia della salvezza preannunciata nei profeti, rivelata nel Vangelo e resasi
infine evidente nella manifestazione di Dio nella carne6: secondo l’esegeta però la voce dello
Sposo di cui parla il passo deve essere identificata con la voce divina in virtù delle opere che
essa compie, descritte nelle immagini successive. La parola di Dio per essere riconosciuta
come tale dunque deve ricevere testimonianza della propria verità nelle opere che compie e
che attraverso essa sono compiute, constatabili nell’esperienza dell’uomo: non è un caso che
questa sentenza sia incastonata tra un riferimento alla manifestazione di Dio nella carne e un
passo dei Salmi nel quale si annuncia il compimento visibile delle promesse.
V.1.1
Nelle opere
Come si legge icasticamente nella Apologia in Hexaemeron7 la parola di Dio è fatto, opera:
la manifestazione del Λόγος divino fu riconosciuta infatti non nelle parole, ma dalla sua
potenza fattiva8 . Allo stesso modo le opere, scrive il Nisseno nel De virginitate9 , non sono
puramente accessorie, ma costituiscono una intrinseca necessità dell’essere cristiano: ogni
discorso senza le opere è simile a una immagine dipinta, magari di colori splendidi, ma senza
vita; d’altra parte anche il Vangelo stesso, come si legge in Matth 5, 19, loda ὁ ποιῶν καὶ
διδάσκων.
La testimonianza (µαρτυρία) è dunque qualcosa di profondamente relato all’essere
cristiano. Lo Spirito infatti, che ha mostrato la sua potenza in pienezza negli Apostoli perché
ne fossero testimonianza alle chiese di Cristo, attraverso il battesimo prende dimora e rimane
nel cuore del fedele come collaboratore (συνεργὸν καὶ σύνοικον: DI 44, 21-22) in base alla
misura della fede con cui questi si è accostato al dono. È interessante nel passo appena citato
il suggerimento offerto dalla continua ripetizione dell’avverbio σύν, che indica una stretta
collaborazione tra la grazia divina e la libertà umana: il bene posto nel nostro cuore attraverso
la grazia del battesimo deve infatti maturare attraverso le opere della fede, manifestazione
della propria προαίρεσις10. Per la salvezza non basta infatti la pura conoscenza: Gregorio,
6
Cf. IC 140, 9-15: προβλέπει τάχα τὴν διὰ τοῦ εὐαγγελίου φανερωθεῖσαν ἡµῖν τοῦ θεοῦ λόγου οἰκονοµίαν τὰ
εἰρηµένα, τὴν προκαταγγελθεῖσαν µὲν διὰ τῶν προφητῶν, φανερωθεῖσαν δὲ διὰ τῆς κατὰ σάρκα τοῦ θεοῦ
ἐπιφανείας· µαρτυρεῖται γὰρ τοῖς ἔργοις ἡ θεία φωνὴ καὶ συνάπτεται τῷ λόγῳ τῆς ἐπαγγελίας ἡ ἔκβασις, καθώς
φησιν ὁ προφήτης (Ps. 47, 9) ὅτι Καθάπερ ἠκούσαµεν, οὕτω καὶ εἴδοµεν.
7 Cf. ApH 21, 1-2: έπὶ γὰρ τοῦ θεοῦ, κατά γε τὴν ἡµετέραν ὑπόληψιν, τὸ ἔργον λόγος ἐστί.
8 Cf. ApH 22, 13-14: ὡς οὐκ ἐν ῥήµασιν ὄντος τοῦ λόγου, ἀλλὰ τῆς εἰς τὰ σηµεῖα δυνάµεως, οὕτως
ὠνοµασµένης.
9 Cf. DV 334, 6-13.
10 Cf. DI 44, 14-25; di questi si riporta DI 18-24: … τὴν χάριν, ἧς οἱ ἅγιοι πληρωθέντες ἀπόστολοι ταῖς τοῦ
Χριστοῦ ἐκκλησίαις τοὺς καρποὺς ἐπεδείξαντο τοῦ πληρώµατος, τοῦτο τοῖς τὴν δωρεὰν εἰλικρινῶς δεξαµένοις
κατὰ τὸ µέτρον τῆς ἑκάστου τῶν µετειληφότων πίστεως συνεργὸν καὶ σύνοικον παραµένει, οἰκοδοµοῦν ἐν
ἑκάστῳ τὸ ἀγαθὸν πρὸς τὴν τῆς ψυχῆς ἐν τοῖς τῆς πίστεως ἔργοις σπουδὴν.
240
durante il commento di Cant 5, 1211, passo nel quale si ripropone una lode degli occhi, che
vengono paragonati a colombe, tiene infatti a precisare come per la vita del corpo e il suo
raggiungimento della perfezione esista una interdipendenza tra gli occhi e le mani: la capacità
di distinguere il vero deve essere infatti unita all’attività pratica. Gregorio invita dunque i suoi
fedeli a fare in modo che una condotta filosofica costituisca per loro un monito di educazione
per la vita, e che l’anima rifugga la sferza del male12; allo stesso modo la lingua deve essere
educata a parlare al momento opportuno dal timore reverenziale nei confronti di Dio13. La
comprensione e la contemplazione necessitano dunque di opere che rendano atto ciò che si
discerne, mentre le sole opere non produrrebbero ciò che è davvero utile all’uomo se non
guidate dalla vera pietà14. Non sarà inutile notare come un atteggiamento attento all’ortoprassi
che non disgiunga da essa il suo fondamento ontologico e gnoseologico è già riscontrabile in
Basilio, soprattutto in forza della sua esperienza monastica15.
Il rinnovamento che introduce il cristianesimo nella vita della creatura è ben sottolineato
anche nel De vita Moysis16, dove si legge che il popolo d’Israele scampò dalla minaccia
egiziana attraverso le acque del mar Rosso, simbolo del battesimo. Una volta ricevuto questo
sacramento, continua il Nisseno, è necessario che la vita cambi nella sua globalità, senza che
nessun residuo di vizio la contamini; coloro che invece per ignoranza dei precetti mescolano
questa nuova vita al comportamento precedente rimangono schiavi dei loro vecchi padroni.
Allo stesso modo, è necessario vuotare il sacco della propria anima dal nutrimento egiziano
per poter accogliere un pane che viene direttamente dal cielo, l’unico che, di un solo aspetto
ma di qualità molteplice, poteva essere proporzionato alla natura del desiderio di ciascuno17.
Cristo stesso nel Vangelo propone i canoni di una nuova vita (τοὺς τοῦ βίου κανόνας: IDL
239, 11) per coloro che sono disposti ad essere ammaestrati (µαθητευοµένους: IDL 239, 12)
dalle sue parole18.
La vita teoretica, che il Nisseno chiama anche filosofia o vita spirituale, non deve dunque
mai essere disgiunta dalla filosofia pratica, vale a dire dalle opere che rendono testimonianza
11
Cf. IC 393, 12-397, 4.
Cf. DBen 95, 4-5: παιδαγωγείτω τοίνυν τὸν βίον τῶν Χριστιανῶν τρόπος φιλόσοφος, καὶ ἡ ψυχὴ φευγέτω τῆς
κακίας τὴν βλάβην.
13 Cf. DBen 95, 22-23.
14 Cf. IC 393, 21-394, 6.
15 Cf. VÖLKER 1955, p. 109, soprattutto quando l’autore sottolinea come «in generale troviamo negli scritti
ascetici di Basilio un gran numero di indicazioni e consigli di ordine pratico, che debbono servire ad eliminare il
peccato e derivano dalla sua esperienza monastica».
16 Cf. VM II 125-129.
17 Cf. VM II 137-140.
18 Cf. IDL 237, 23-239, 19. SIMONETTI 1984, p. 301-2 osserva che «chi ha partecipato della dolcezza della
risurrezione di Cristo (per mezzo del battesimo) si mette alla scuola del Vangelo. Ma per un cristiano mettersi
alla scuola del Vangelo non corrisponde ad uno stadio definito della vita spirituale, bensì si estende a tutti:
perciò, nel contesto del discorso che Gregorio viene svolgendo, questo concetto va inteso nel senso di iniziarsi
alla vita secondo il Vangelo, di cominciare a praticarla seriamente».
241
12
alle proprie scelte. Tale concetto è richiamato, ad esempio, durante la descrizione del vestiario
del sacerdote che presta culto nella tenda dell’alleanza19 : Gregorio infatti prende spunto da
tale immagine per interpretare le cinghie che allacciano gli ornamenti che coprono il petto e il
cuore come la necessaria correlazione che l’uomo virtuoso deve istituire tra la θεωρία,
simboleggiata dal cuore, e gli ἔργα, il cui segno sono le braccia.
Il tema ripercorre molti passi delle opere del Cappadoce. Commentando ad esempio il
versetto del Cantico nel quale si descrive il tetto e il soffitto della casa dei due Sposi l’esegeta
sottolinea come Cristo sia oltre che l’artefice della costruzione anche la materia stessa
attraverso cui si costruisce20 : è lui che innalza nell’uomo la sua dimora e lo fa attraverso le
virtù, materiale che non imputridisce e che rende simili a Lui. Da queste parole, continua
quindi Gregorio, gli uomini sono educati (παιδεύεσθαι: IC 112, 9) non solo a far prosperare le
virtù nell’anima, entrate ormai nella propria condotta di vita, in segreto, ma anche a non
trascurare una buona condotta che appaia sotto gli occhi di tutti21: riprendendo infatti stralci
delle lettere paoline perfettamente incastonati nel discorso si esorta quindi a risplendere di
fronte a Dio e di fronte agli uomini, per recar loro una buona testimonianza attraverso le
opere22 ; questo abbellisce il soffitto della nostra vita innalzato da Cristo e cesellato da
architetti come Paolo. Forse più icasticamente nell’orazione funebre In Flacillam 23 Gregorio
mostra come sommo motivo di lode della defunta il fatto che la testimonianza della sua virtù
fosse di fronte agli occhi di tutti.
La vita di un cristiano, come Gregorio afferma nell’omelia In diem luminum24 in prima
persona (µοι: IDL 240, 12) deve quindi prendere il proprio canone da quella futura; deve per
questo essere educata (ἐπαιδεύθην: IDL 240, 12) a disprezzare le cose della terra, mirando
solo al guadagno celeste, come Paolo ha testimoniato (µαρτύρεται: IDL 240, 15). È questa la
dignità della creatura nuova, che professa la propria fede in ottemperanza alla tradizione (ἐν
τῇ παραδόσει: IDL 240, 18).
Non è possibile infatti, scrive Gregorio nel De oratione dominica 25, che Dio sia glorificato
nell’uomo se non attraverso la virtù che è in lui, che testimonia nella forza divina la causa
ultima delle sue buone azioni. Una nuova condotta di vita rende infatti evidente (διδάξει: IDL
238, 8) come sia stata accolta la grazia del battesimo 26.
19
Cf. VM II 200.
Cf. IC 109, 4-5: αὐτὸς ἐν ἡµῖν καὶ τεχνιτεύων τὸν οἶκον καὶ ὕλη τῆς τέχνης γινόµενος κτλ.
21 Cf. IC 112, 8-12: ἡµᾶς παιδεύεσθαι µὴ µόνον ἐν τῇ ψυχῇ τὰς ἀρετὰς ἐν ἕξει κατορθοῦσθαι κατὰ τὸ ἄδηλον,
ἀλλὰ µηδὲ τῆς κατὰ τὸ φαινόµενον εὐσχηµοσύνης ἀµελῶς ἔχειν.
22 Questi i riferimenti paolini: 2Cor 5, 11; 1Tim 3, 7; 1Thess 4, 12, seguiti a poca distanza da 1Cor 14, 40, che
chiosa tutto il discorso.
23 Cf. IF 487, 25: ἐν ὀφθαλµοῖς τῶν εἰρηµένων ἡ µαρτυρία.
24 Cf. IDL 240, 12-20.
25 Cf. OD 37, 4-7: οὐ γὰρ ἔστιν ἄλλως δυνατὸν ἐν ἀνθρώπῳ δοξασθῆναι θεὸν, µὴ τῆς κατ' αὐ τὸν ἀρετῆς τῇ θείᾳ
δυνάµει τὴν αἰτίαν τῶν ἀγαθῶν µαρτυρούσης.
26 Cf. IDL 237, 23-239, 19.
242
20
Nel De instituto 27 l’esegeta precisa ulteriormente la propria posizione, sostenendo che
l’anima che desidera conformarsi a Cristo debba mostrare le proprie virtù e allontanare da sé
nello stesso tempo ogni peccato, facendo particolare l’attenzione all’ipocrisia e alla superbia,
a quella vanagloria che viene dall’ostentazione delle proprie presunte virtù. Gregorio a tal
proposito fa infatti precedere il passo matteano che invita gli uomini a far risplendere le
proprie opere buone a gloria di Dio Padre (Matth 5, 16) a quello successivo nel quale Cristo
ammonisce a lodare il Padre celeste con le proprie virtù nel segreto (Matth 6, 2). L’apparente
contraddizione è sanata da una puntuale osservazione del Nisseno: occorre sì evitare la gloria
degli uomini (παρὰ τῶν ἀνθρώπων δόξαν: DI 52, 4), flatus vocis, ma insieme è compito del
cristiano vivere in un modo tale che la sua vita renda testimonianza a Dio che si rende visibile
attraverso le opere che in quella vita si mostrano: come spettatori (θεαταί: DI 52, 6), gli
uomini non si devono tanto meravigliare di ciò che vedono, ma devono essere aiutati a dar
gloria a Dio. Solo un uomo simile può essere chiamato πιστὸς … παρὰ τοῦ κυρίου (DI 52,
25-26).
La testimonianza dunque, intesa come condotta di vita conforme agli insegnamenti del
Vangelo di fronte a Dio e al mondo, compie e mostra ciò che è ἐν ἕξει, un habitus dell’anima.
A corroborare l’intrinseca unione tra la vita teoretica e quella pratica, ancora nel De
instituto28 l’esegeta scrive che la natura corporea è chiamata ad avvicinarsi a Dio così come
quella spirituale (ψυχὴν καὶ σῶµα κατὰ τὸν τῆς εὐσεβείας νόµον προσάγειν θεῶ: DI 43, 8-9)
attraverso la strada tracciata della retta fede per mezzo delle voci dei santi (αἱ τῶν ἁγίων
φωναὶ: DI 43, 11) in tutta la Scrittura, prendendo la fede stessa come guida (ἡγεµόνα ... τοῦ
βίου τὴν εὐσεβῆ πίστιν ποιούµενον: DI 43, 10-11). Il cammino proposto è dunque quello delle
virtù e porta ad appartenere totalmente a Dio (ὅλον δὲ τῇ πίστει καὶ τῷ βίῳ τοῦ θεοῦ µόνου
γινόµενον: DI 43, 16-17): una vita irreprensibile e pura è infatti segno e dà testimonianza al
mondo della forza di Cristo (ἐν ᾧ πίστις εὐσεβείας καὶ βίος ἄµεµπτος, ἐκεῖ καὶ Χριστοῦ
πάρεστι δύναµις: DI 43, 17-18), l’unica arma che può allontanare ogni malvagità.
Icasticamente, Gregorio scrive che la salvezza non consiste in un discorso, ma nel compiere le
opere che portano ad essa29.
27
Cf. DI 50, 1-53, 3.
Cf. DI 43, 8-44, 1.
29 Cf. QuEH 119, 22-24: οὐ γὰρ ἐν τῷ λέγειν φησὶν ὁ κύριος εἶναι τὴν σωτηρίαν, ἀλλ' ἐν τῷ ποιεῖν τὰ ἔργα τῆς
σωτηρίας.
243
28
V.1.2
Corpo e anima
La materialità, che nell’uomo si esprime come corpo, è un’elemento imprescindibile per la
salvezza dell’uomo, legata indissolubilmente al suo aspetto spirituale: benché il Nisseno nel
complesso presenti una concezione della materia «tendenzialmente negativa» 30, quest’ultimo
non è mai considerato un male31 , ed è anzi essenziale perché nell’uomo si dia la libertà di
scegliere anche ciò che non lo compie, attraverso la conoscenza imperfetta e il giudizio in
potenza anche erroneo che la dimensione della materia rende possibile32 ; esso, d’altra parte,
non è un impedimento, come testimoniano (µαρτυροῦνται: DM 56, 21) tutti coloro che già
nella vita fisica ottennero l’esistenza spirituale, progredendo nella perfezione attraverso la
virtù33. Esempio principe di uomini che hanno mostrato tale progresso è quello dei martiri; i
tormenti cui essi furono sottoposti, strettamente relati alla dimensione fisica, spingono il
Nisseno a rendere centrale nei propri martirologi l’immagine del corpo, che introduce quasi
consequenzialmente l’immagine del corpo trasfigurato. Nella seconda parte del primo
encomio In XL Martyres 34, ad esempio, Gregorio racconta di come i soldati che avevano
appena mostrato la loro fede in Cristo fossero separati dagli altri e formassero un gruppo di
giovani bellissimi, come gli astri che radunati rendono splendente la volta del cielo. Soldati di
Cristo e dello Spirito, essi resero i loro σώµατα dei trofei, consegnando alle torture solo quelle
che si sarebbero rivelate le ombre dei loro corpi, superando la carne e mostrando così di
essere più che uomini. Tale sottolineatura diventa ancora più importante nel seguito del
discorso, dove si raccontano le pene sofferte dai soldati a causa del freddo, che lacerava le
loro figure mortali, e la cremazione dei cadaveri, azioni che nell’ottica degli avversari dei
martiri avrebbero dovuto dissacrare le loro spoglie. Nel De sancto Theodoro35, a tal proposito,
si legge che il giusto, specialmente colui che ha conseguito la vittoria del martirio, è degno di
ricevere anche in questo mondo il premio che Cristo consegna ai suoi atleti (ἀθληταῖς: ST 62,
9), vale a dire la vita eterna; essa è infatti destinata a quell’anima che è accompagnata da un
corpo che si è reso del tutto purificato dalle passioni e che nell’ultimo giorno si leverà
incorrotto dalla tomba, a differenza delle spoglie mortali degli altri uomini. Tale prospettiva,
30
TARANTO 2009, p. 335; cf. anche TARANTO 2009, pp. 335-341.
Cf. CACACE 2006, pp. 159: «al pari di Origene, infatti, il Nisseno non concepisce il corpo come realtà
fondamentalmente negativa, ma vede in esso un semplice strumento, di per sé neutro, che il libero arbitrio di
ogni singolo individuo provvede ad orientare in una certa direzione, ponendolo al servizio della corporeità e
dell’errore o dello spirito e della virtù».
32 L’importanza del corpo, abbrivio per la conoscenza e, una volta vinte le passioni, elemento essenziale nella
vita beata è un concetto che si esplicita soprattutto in un pensiero più maturo del Nisseno (cf. ZORZI 2007, p.
452), si pensa per una sempre più profonda coscienza del valore salvifico dell’incarnazione.
33 Cf. DM 56, 8-57, 2.
34 Cf. XLM Ib 148, 6-149, 21.
35 Cf. ST 62, 3-24.
244
31
conclude Gregorio, non può che riempire coloro che seguono tali figure (φιλοµάρτυρες: ST
62, 4) di santo zelo (ζηλώσατε: ST 62, 7) e di desiderio (έπιθυµήσατε: ST 62, 8).
Nella teologia del Nisseno corpo e anima36
si presentano sempre profondamente
interdipendenti, due lati di uno stesso angolo il cui vertice (κεφαλἠ: DPe 193, 9) è Cristo. Nel
De perfectione37 infatti, laddove si tratta dell’appellativo cristologico ‘pietra angolare’, si
sprona a rendere il salvatore, vertice di tutte le cose38 , punto di unità per la vita attraverso la
compostezza esteriore e la purezza dell’anima. Se si trascura questa profonda connessione,
evitando di edificare il comportamento insieme alla purezza dell’anima o non fondando nella
virtù vera una compostezza esteriore, Cristo non può diventare vertice di una simile vita
dimezzata. L’essere dell’uomo raggiungerà la perfezione dell’angolo, a detta del Nisseno, solo
se la sua doppia natura fisica e spirituale costituiscano entrambe una retta orientata a Cristo,
senza storture o deviazioni. Come si legge nel De vita Moysis39 , per il Nisseno la
purificazione (ἡ καθαρότης: VM II 154, 2) infatti consiste nelle abluzioni lustrali che rendono
mondo il corpo e l’anima; le vesti, il simbolo da cui parte l’interpretazione, rappresentano
invece gli atteggiamenti dell’uomo, che devono essere resi altrettanto puri: attraverso le opere
infatti si esterna l’anima dell’uomo.
Questo legame è talmente profondo40 da permettere a Gregorio di ricavare, da immagini
legate all’aspetto corporale dell’uomo, insegnamenti che vanno a toccare le corde profonde
della sua natura spirituale, secondo la via analogiae. Il sonno e il risveglio che colgono
l’uomo ogni giorno, in quest’ottica, offrono secondo il Nisseno un insegnamento
(διδασκάλιον: SP 262, 25) rispetto al problema della resurrezione41 : il primo infatti è icona
(εἰκών: SP 262, 25) della morte, il secondo rimanda attraverso la dinamica dell’imitazione
(µίµηµα: SP 262, 25) all’ultimo rinnovamento cui l’essere umano è chiamato.
L’accostamento maggiore tra i due poli si rileva comunque nell’immagine del nutrimento,
del corpo e dell’anima, offerto da Dio all’uomo, come si legge ad esempio nel De
36
DAL BOSCO 2005, p. 775 scrive che «[Gregorio] recupera innanzi tutto l’idea generale per cui le sostanze
formano un sinolo, cioè un unione indissolubile di materia e forma e inoltre recupera l’idea aristotelica secondo
cui la materia è potenza, cioè capacità di assumere o di ricevere la forma. La forma si configura invece come atto
o attuazione di quella capacità. È quel principio vitale, il quale rende in atto la potenzialità della materia
portandola al compimento della forma, dunque, che secondo Gregorio sta alla base di ogni essere vivente, anche
del composto umano». Sulla profonda unità che intercorre tra anima e corpo, tema su cui il Nisseno si sofferma
soprattutto nel De hominis opificio, cf. anche DESALVO 1996, pp. 73-102. Per approfondire, cf. anche TARANTO
2009, pp. 439-463.
37 Cf. DPe 192, 15-194, 3.
38 I riferimenti scritturistici sono Eph. 2, 20, dove si ricorda il fondamento degli apostoli e dei profeti che
consentono di avere come pietra angolare Cristo, e Eph. 4, 28, in cui Cristo è detto capo, κεφαλἠ, del corpo della
Chiesa.
39 Cf. VM II 154-155.
40 Icasticamente TARANTO 2009, p. 448 riassume: «l’unità dell’uomo [...] è, quindi, l’aspetto primario della
dottrina antropologica gregoriana, che bandisce come inconciliabile con i suoi più intimi presupposti qualunque
forma di dualismo».
41 Cf. SP 262, 24-263, 20. Sulla similitudine che vede il sonno equiparato alla morte nei classici e la sua ripresa
negli autori cristiani, cf. LOZZA 1991, p. 140.
245
perfectione42. In 1Cor 10, 3-4 Paolo aveva infatti chiamato Cristo cibo e bevanda dell’anima;
per spiegare questa duplice caratterizzazione il Nisseno opera una analogia con il nutrimento
materiale, anch’esso duplice, che si combina mediante la digestione nel nostro corpo per
sostenerlo. In un modo similare, secondo l’interpretazione del vescovo, Cristo fortifica il
cuore di chi è più debole come pane e come bevanda rallegra coloro che si sentono affannati
dalle fatiche di questa vita. Un simile ristoro, che si adatterebbe alle necessità di ciascuno,
sarebbe concesso a chiunque; secondo un’altra possibile lettura proposta appena di seguito,
l’apostolo si sarebbe riferito all’eucarestia nelle sue due possibili forme, decretando così un
più netto discrimine su chi possa ricevere un tal cibo. Trattando poi della figura del pane
disceso dal cielo di cui si racconta nell’Esodo e che viene ripresa nel De vita Moysis43,
Gregorio tiene a sottolineare come esso non possa avere solo natura incorporea, in quanto
altrimenti non potrebbe nutrire il corpo. Esso è descritto come un nutrimento non generato da
nessuna realtà terrena, di cui la terra si trova ricolma, uno per quanto riguarda l’apparire, ma
la cui qualità è tuttavia molteplice. Solo questo pane divino ha la possibilità poi di essere
proporzionato alla natura del desiderio di ciascuno44 , insieme corporale e spirituale: il
riferimento a Cristo, pane disceso dal cielo senza semente o coltivazione, è palmare e a questa
interpretazione, commenta il Nisseno, si è educati attraverso la miracolosa concezione da
parte della Vergine45.
In altri passi il nutrimento celeste è inteso solo nel suo senso spirituale; l’analogia con il
sostentamento del corpo tuttavia non viene meno. È possibile infatti trovare l’immagine degli
insegnamenti come frutti di cui cibarsi anche nell’omelia De tridui spatio46 , nella quale il
Nisseno espone la nuova creazione in Cristo ripercorrendo i passaggi della Genesi e
rileggendoli secondo l’interpretazione spirituale; in quest’ottica l’erba e i frutti prodotti dalla
terra diventano il buon insegnamento e le dottrine divine (ἡ ἀγαθὴ διδασκαλία καὶ τὰ θεῖα
διδάγµατα: TS 279, 16-17) di cui gli uomini, gregge di Dio, si cibano. Nel De infantibus
praemature abreptis 47, infine, si legge di come l’uomo, così come necessita per la sua carne di
un nutrimento che lo conservi, è custodito nella vera vita dalla partecipazione all’Essere48.
42
Cf. DPe 190, 16-192, .
Cf. VM II 137-140.
44 Cf. VM II 137, 9-11: τὸ µὲν γὰρ φαινόµενον µονοειδὲς ἦν, ἡ δὲ ποιότης τὸ ποικίλον εἶχεν, ἑκάστῳ προσφόρως
κατὰ τὸ εἶδος τῆς ἐπιθυµίας ἐγγινοµένη..
45 Cf. VM II 139, 8-9: τὸ κατὰ τὴν Παρθένον µυστήριον διὰ τῆς θαυµατοποιΐας ταύτης προπαιδευόµενοι.
46 Cf. TS 279, 13-280, 2.
47 Cf. DIP 79, 4-13.
48 «Sul motivo della τροφή come analogia del processo conoscitivo, nonostante l’assenza della progressio ad
infinitum, motivo tipico del Nisseno, cfr. Orig. De Princ., II, 2, 7» (MATURI 2004, p. 117 n. 38)
246
43
V.1.3
Le età spirituali dell’uomo
Il Nisseno esprime i diversi traguardi cui può giungere la creatura umana nel suo
riavvicinarsi verso Dio attraverso l’immagine paolina delle età spirituali (cf. Eph 4, 13-15),
cui si è avuta già l’occasione di accennare49. Esse sono una trasposizione, nella vita
dell’anima, della naturale crescita del corpo, che nell’omelia In Sanctum Pascha50, diventa
l’icona più evidente del mutamento cui la creatura è soggetta; anche solo questa osservazione,
sottolinea il Nisseno, può consentire di trarre da esse una educazione (ἡµᾶς ἐκπαιδεύει: SP
262, 1).
Il concetto di età spirituale si sviluppa anche dalla constatazione che nell’uomo l’intelletto,
la parte più nobile, si sviluppi e si rafforzi a poco a poco con l’età; i sensi al contrario gli sono
compagni sin dall’inizio, ed esercitano il loro predominio51. L’analogia con il naturale
incremento fisico tuttavia non presenta molte occorrenze nell’opera di Gregorio; l’esegeta
preferisce infatti tratteggiare le caratteristiche dell’anima nelle varie età, prediligendo
normalmente lo stato infantile, sottolineando anche attraverso l’uso lessicale il collegamento
del concetto con la sfera dell’educazione.
Nella prima omelia del De oratione dominica52 il vescovo riprende l’idea del progresso
dell’anima legato alle età spirituali quando si rivolge a coloro a cui è concesso da Dio di
ottenere, per mezzo della preghiera, beni materiali o cariche politiche: per essi infatti è questa
la strada che, se seguita nella sua verità, avvicina a Dio. Una riflessione sulle cause di tali
buoni esiti, come il Nisseno afferma di aver imparato (ἐµάθοµεν: OD 17, 26), dovrebbe
portare a rafforzare nelle creature più semplici (τοῖς ἐπιπολαιοτέροις: OD 18, 1) la fiducia
nella bontà divina, affinché attraverso l’insegnamento della propria esperienza (τῇ πείρᾳ
µανθάνοντες: OD 18, 3-4) le loro richieste si innalzino verso il desiderio di beni più alti e più
degni della divinità53. Il vescovo prende come esempio la normale evoluzione della vita
umana: i bambini infatti all’inizio chiedono del seno materno, poi, con il procedere dell’età, si
rivolge ad altri oggetti di cui si diletta in quel momento, fino a ciò che sarà adatto alla vita
49
L’espressione πνευµατικῆς ἡλικία si ritrova ad esempio in IC 38, 18. Cf. Cap. II.2.2.
Cf. SP 261, 25-262, 23.
51 Cf. IE 419, 16-420, 3. Diverso è il discorso per gli infanti che muoiono prematuramente: come si legge in DIP
81, 23-85, 6, siccome la disposizione naturale per l’uomo è l’estraneità dal vizio, l’infante non è ostacolato nella
sua partecipazione alla luce da nulla, essendo stato nutrito, nell’anima, solo da ciò che era a lui conveniente e
adeguato; per questo avrà la possibilità di meritare il Paradiso. Una volta però che abbia avuto commercio con la
materia e sia diventato adulto, essendo per lui possibili più adescamenti della passione, deve esercitare le proprie
facoltà e nutrire l’anima mediante la virtù, sviluppando la propria capacità di partecipazione alla divinità.
52 Cf. OD 17, 19-18, 26.
53 Cf. OD 17, 25-18, 5: τῶν δὲ τοιούτων τῆς εὐχῆς κατορθωµάτων ἄλλας αἰτίας ἐµάθοµεν, οὐχ ὡς ἀγα θὰ
πάντως τοῦ θεοῦ ταῦτα τοῖς αἰτοῦσι νέµοντος, ἀλλ' ὡς ἂν διὰ τούτων βεβαιωθῇ τοῖς ἐπιπολαιοτέροις ἡ πρὸς τὸν
θεὸν πίστις, καὶ κατ' ὀλίγον ἐν ταῖς µικροτέραις τῶν αἰτήσεων τὸ ἐπακούειν τὸν θεὸν τῶν ἱκεσιῶν τῇ πείρᾳ
µανθάνοντες ἀνέλθοιµέν ποτε πρὸς τὴν τῶν ὑψηλῶν τε καὶ θεοπρεπῶν δωρηµάτων ἐπιθυµίαν.
247
50
dell’adulto. Allo stesso modo Dio, abituando l’uomo a guardare a Lui attraverso tutti i
desideri che gli sorgono, mostra di ascoltare anche le richieste più modeste, di modo tale che
il beneficato sia richiamato, attraverso doni minori54 , al desiderio delle grazie più grandi.
Compito dell’uomo sarà dunque quello di rivolgere la propria attenzione e di comprendere il
vero scopo della generosità divina, che vuole sollevare dalle cure materiali per elevare l’uomo
alla ricerca dei beni eterni, vero argomento del suo desiderio.
Anche nel De Instituto il Nisseno sostiene che fino al raggiungimento dell’età
dell’intelletto, che rappresenta la perfezione della vita cristiana, è necessario che l’anima sia
nutrita della potenza di Dio, irrigata dal sudore delle virtù e dall’abbondanza della grazia. Vi è
un certo parallelismo tra la condizione del corpo e quella dello spirito: la natura del corpo del
bambino appena nato infatti esce man mano dalla fragilità connaturata alla sua età attraverso
il cibo; così anche l’anima deve nutrirsi delle parole dello Spirito e con i cibi che nascono
dalla propria virtù, evitando di rimanere inoperosa e immobile. Se la crescita è comune a
entrambe le sostanze, il corpo tuttavia segue una tensione e una necessità estrinseca a sé,
determinata cioè dalla natura; l’anima al contrario mostra una più perfetta libertà e si sviluppa
attraverso le prove che sostiene basandosi sulla grazia dello Spirito e sulla forza del suo
volere55.
Il riferimento più chiaro al tema sembra un passo del trattato In Illud: Tunc et Ipse Filius56,
laddove si riconoscono le varie età del progresso spirituale nella persona di Cristo. Nell’opera
il Nisseno si trova a commentare il passo di Luc 2, 51 per dimostrare che la sottomissione che
il Cristo bambino dimostrava a Maria e Giuseppe è qualitativamente diversa rispetto a quella
descritta in 1Cor 15, 28, dove il Figlio sarà sottomesso al Padre; in tale contesto Gregorio con
poche pennellate tratteggia le età della vita di ciascun uomo, in quanto il salvatore accettò,
con il rivestirsi della natura umana, uno sviluppo consimile a quello di ciascuno. L’età
infantile anche per lui fu dunque caratterizzata dal latte e miele, mentre già come µειράκιον
(TeI 8, 3) divenne τύπος εὐταξίας (TeI 8, 4), esempio di buona conduzione di sé. Nei giovani
infatti il pensiero non è ancora del tutto stabilito e vi è la necessità di una educazione, che
consiste nell’azione di uomini più perfettamente formati che conducano come per mano verso
ciò che è migliore: per questo motivo a dodici anni Cristo stesso decise di essere sottomesso
alla madre, volendo così mostrare che chi è in cammino verso la perfezione prima del
compimento deve accettare di buon grado di essere sottomesso, riconoscendo in questo una
54
Le stesse cariche politiche sono dette τῶν παιδικῶν ἀθυρµάτων (OD 18, 24), giocattoli da bambini, per
richiamare l’esempio appena discusso.
55 Cf. DI 46, 8-26.
56 Cf. TeI 7, 15-8, 26.
248
guida, quasi mano nella mano (τὴν ὑποταγὴν ὡς χειραγωγόν: TeI 8, 10), per il bene57. Per la
divinità tuttavia non si può predicare un incremento nel bene, in quanto essa ne accoglie in sé
la pienezza; l’azione di Cristo non fu dunque dettata dalla necessità, ma orientata ad un puro
mostrare. Una volta rivelatosi come Dio e giunto alla pienezza dell’età il salvatore non fece
più riferimento all’autorità di sua madre, come ricorda il Nisseno citando l’episodio delle
nozze di Cana; egli infatti, Logos eterno di Dio, ha in sé la totale sovranità e
autodeterminazione adombrata nel conseguimento dell’età adulta58. Per l’uomo tuttavia non
esiste termine nella progressione verso il meglio; la sua conduzione da parte di chi è più
instradato nel cammino della salvezza, ed in ultima analisi di Dio, non avrà dunque mai fine.
Caratteristica della giovinezza dell’età spirituale, come si arguisce da un accenno nel De
vita Moysis59, è essere ancora puerili ed inesperti, pieni di paura di fronte alle tentazioni,
nonché ostili a coloro che esortano a cambiare vita: tali furono ad esempio gli Israeliti che alla
prima chiamata di Mosè ed Aronne posero sotto accusa chi li spronava alla libertà. Nel suo
commento Gregorio paragona simili uomini, ancora non temprati dalle prove, a coloro ai
quali il demonio non lascia sollevare il capo dal fango delle passioni; i loro maestri tuttavia
non devono smettere, continua il vescovo, di trarli con i loro discorsi al bene.
Il tema si proponeva già con una sfumatura ulteriore nell’incipit del trattato dogmatico Ad
Ablabium60: in esso il vescovo cui Gregorio scrive (non meglio identificato 61) è detto essere
nel pieno delle forze, quanto all’uomo interiore, per la giovinezza appena trascorsa e la
maturità incipiente; al contrario, il suo padre spirituale si avvia verso la canizie (la
contemplazione?), e per questo il discepolo dovrebbe ora combattere con forza gli strali
dell’eresia. Il più giovane ecclesiastico tuttavia, sovvertendo l’ordine determinato dalla
natura, ha chiesto al maestro più anziano di estinguere i dardi lanciati verso di lui riguardo a
come occorra considerare l’οὐσία e le ὑποστάσεις della Trinità, e Gregorio si dice pronto ad
accettare. Si è propensi a considerare un simile incipit più che (solo) una indicazione
cronologica piuttosto come un monito a fondare la propria interpretazione, in argomenti tanto
decisivi, su una più consapevole comprensione delle realtà ultraterrene, che il Nisseno
riconosce ad un più alto grado di perfezione spirituale.
57
Cf. TeI 8, 5-10: ἐπειδὴ γὰρ ἐπὶ τῶν ἄλλων ἀνθρώπων ἀτελὴς ἐν τοῖς τοιούτοις ἐστὶν ἡ διάνοια καὶ χρεία τῇ
νεότητι τῆς διὰ τῶν τελειοτέρων πρὸς τὸ κρεῖττον γινοµένης χειραγωγίας, τούτου χάριν ὁ δωδεκαέτης τῇ µητρὶ
ὑποτάσσεται, ἵνα δείξῃ ὅτι τὸ διὰ προ κοπῆς τελειούµενον πρὶν εἰς τὸ τέλειον φθάσαι καλῶς τὴν ὑποταγὴν ὡς
χειραγωγὸν πρὸς τὸ ἀγαθὸν καταδέχεται.
58 Cf. TeI 8, 26-26, dove Gregorio amplia la domanda di Gv 2, 4: Τί ἐµοὶ καὶ σοί, γύναι; µὴ καὶ ταύτης µου τῆς
ἡλικίας ἐπιστατεῖν ἐθέλεις; Οὔπω ἥκει µου ἡ ὥρα ἡ τὸ αὐτοκρατὲς παρεχοµένη τῇ ἡλικίᾳ καὶ αὐτεξούσιον;
59 Cf. VM II 57-58.
60 Cf. AdA 37, 1-14.
61 Cf. MASPERO 2004, p. 23.
249
L’episodio che narra la vittoria che gli Israeliti riportarono sugli Amaleciti una volta usciti
dal paese d’Egitto, riportato ancora nel De vita Moysis62, permette al Nisseno una riflessione
ulteriore. Gregorio infatti nota come essi figura dell’uomo in generale, quando erano ancora
schiavi non avevano la forza per ribellarsi e per respingere il nemico avevano avuto bisogno
di un aiuto esterno. Una volta però che l’uomo si è liberato dalla servitù che lo opprime e ha
cominciato la sua ascesa, ormai non più bambino (ἐκβὰς ἤδη τὴν τοῦ παιδὸς ἡλικίαν: VM II
148, 10-11) ed anzi giunto al culmine della giovinezza (καταλαβὼν τὴν ἀκµὴν τῆς νεότητος:
VM II 148, 11) può dar battaglia non più servendosi dell’aiuto di Mosè, servo di Dio, ma
militando sotto quello stesso Dio, annunciato attraverso il personaggio di Giosuè, in ebraico e
greco omonimo di Cristo63 . Uscire dall’infanzia spirituale significa dunque poter essere
considerati compagni di ricerca, tesi verso l’unico Dio, degli stessi maestri.
La giovinezza dell’età spirituale infine è anche il momento opportuno per apprendere ciò
che di buono è insito nella cultura e nell’educazione pagana64, prima di penetrare
ulteriormente nei misteri divini e giudicare così quella conoscenza troppo insufficiente.
Alla fine dell’omelia I dell’In canticum 65 il Nisseno tratta delle diverse età spirituali in
rapporto all’amore verso Dio: come nell’uomo carnale l’amore non tocca l’infante (νήπιος66:
IC 38, 12) né il vecchio (παλαιὸς καὶ γηράσας: IC 38, 14), così colui che, infante nei suoi
propositi, è agitato dalle passioni e dalle eresie o colui che dissecca il proprio desiderio non
può essere attratto dalla bellezza di Dio.
Anche nella prima omelia In Ecclesiasten67 Gregorio richiama l’idea delle anime infanti
(αἱ νηπιώδεις ψυχαί: IE 290, 10), caratterizzandole come coloro che non hanno ancora
sollevato la loro anima dalle preoccupazioni carnali che, se viste nella loro verità, non sono
altro che sabbia con la quale l’uomo infante cerca di costruire, vanamente. Solo spogliandosi
dalle spinte della vita materiale, avendo imparato per esperienza (τῇ πείρᾳ µάθοι: IE 291, 9)
che nulla di materiale colma il suo desiderio, l’uomo potrà rivolgersi alla vera vita: egli infatti
è chiamato ad adoperare tutte le sue forze per imparare ad amare ciò che veramente deve
essere soggetto del suo amore.
62
Cf. Exod 17. 8-16, raccontato in VM I 39-40 e commentato in VM II 147-151.
Entrambi portano come nome Ἰησύς.
64 Cf. VM II 10-13.
65 Cf. IC 38, 8-39, 1.
66 Scrive SIMONETTI 1984, p. 288 che il termine νήπιος «inteso in senso peggiorativo, ad indicare chi è ancora
infante, perciò imperfetto (ἀτελής) nell’approfondimento dei misteri della fede, è di uso corrente in ambiente
alessandrino (cfr., p. es., Clemente, Paedagogus I 35, 1; Origene, contra Celsum V 16; Commentarium in
Ioannem I 7; de principiis III 1, 12)». Per Gregorio cfr. anche Cant. 38. Va comunque rilevato che di norma
Gregorio insiste molto meno degli Alessandrini sul divario fra cristiani semplici e perfetti».
67 Cf. IE 290, 1-291, 14.
250
63
Esistono tipologie diverse di amore, che devono essere modulate a seconda del destinatario
(l’uomo o Dio)68; di conseguenza esiste anche un ordine dell’amore, una sua giusta
disposizione che occorre conoscere, al quale si è condotti ed educati grazie alla Legge
divina69. In rapporto quindi a quale amore riempie l’anima è possibile anche, secondo
Gregorio, attribuirle una immagine, mutuata da Cant 6, 8-9, che rappresenta il suo grado di
perfezione: il testo ispirato parla infatti di tre diverse tipologie di donne (le giovani, le
concubine e le regine) e di una colomba. Delle giovani (νεάνιδες) non si conosce il numero,
mentre le concubine (παλλακαί) sono ottanta e sessanta le regine (βασίλισσαι). La prima
categoria si applica a coloro che, nati da poco alla fede, hanno dato ad essa il loro assenso, ma
non posseggono la pienezza della parola e una scienza della verità70 : infanti nell’età spirituale,
vivono insieme allo Spirito della salvezza una disposizione ancora irrazionale. Ad essi
Gregorio associa il nutrimento del latte e sottolinea la necessità della guida della Chiesa. Chi
invece è uscito dall’infanzia spirituale ed è approdato all’età dell’intelletto (τῆς νοητῆς
ἡλικίας: IC 467, 19) può appartenere ad una tra due diverse classi, che il Cantico chiama, in
figura, concubine e regine. Le prime sfuggono alle tentazioni solo per evitare il castigo che
toccherebbe loro altrimenti, rimanendo così nella legge di Dio grazie alla paura attraverso cui
sono state educate71 (τῷ φόβῳ παιδαγωγούµενοι: IC 461, 18-19; 464, 4). Esse dunque sono
spinte da timore servile, piuttosto che dal pensiero che nasce nel commercio delle virtù, che è
senza padrone e possiede forza de se stesso72: esse non possono ancora seguir il proprio
desiderio come guida. Un grado maggiore di perfezione pertiene invece alle regine, in quanto
esse perseguono invece i comandamenti per una disposizione amorosa dell’animo (ἐρωτικῇ
τινι διαθέσει: IC 461, 11) rivolta all’incorruttibilità (διὰ τῆς τελειοτέρας διαθέσεως πόθῳ τῆς
ἀφθαρσίας: IC 462, 1): esse dunque sono perfette perché guidate dal solo desiderio (τῷ πόθῳ
µόνῳ: IC 461, 18) di Dio. Questa tensione amorosa riceve nel De instituto73
la
caratterizzazione più precisa, sulla scorta di Paolo (cf. 1Cor 13, 1-8), di ἀγάπη. Questa carità è
il vero tesoro che dona lo Spirito (τὸν τοῦ πνεύµατος θησαυρόν: DI 59, 19) e la ricompensa
che offre (τὸ κέρδος τῆς ἀγάπης: DI 60, 1) è la pienezza dello stato di virtù, una perfetta
medicina della salvezza dell’anima: è infatti la carità, l’amore gratuito dell’uomo che risponde
68
È questa una tra le verità rivelate più importanti, che l’uomo è chiamato ad apprendere: τι καὶ δόγµα τῶν
ἀστειοτέρων διὰ ταύτης τῆς φωνῆς διδασκόµεθα (IC 121, 6-7).
69 Cf. IC 122, 1: χρὴ τοίνυν εἰδέναι τῆς ἀγάπης τὴν τάξιν, ἣν ὑφηγεῖται διὰ τοῦ νόµου.
70 Cf. IC 460, 14-20: ἀρτιγενεῖς τινες ὄντες καὶ οὔπω διηρθρωµένον ἐν ἑαυτοῖς τὸν λόγον χωρήσαντες τῇ
ἀλογωτέρᾳ συγκαταθέσει τῆς πίστεως ἐν ἀπείρῳ θεωροῦν πλήθει, σωτήριον µὲν εἶναι πεπιστευκότες τοῦ
µυστηρίου τὸν λόγον, οὐ µὴν ἐν ἐπιστήµῃ τινὶ καὶ τῇ διὰ τοῦ λόγου πληροφορίᾳ καθιδρυµένην ἔχοντες ἐν
ἑαυτοῖς τὴν ἀλήθειαν. αὗταί εἰσιν αἱ ὀνοµασθεῖσαι νεάνιδες διὰ τὸ ἔτι νέαν ἄγειν τὴν πνευµατικὴν ἡλικίαν.
71 Cf. IC 461, 16-19: αἱ δὲ φόβῳ κολάσεως τὰς µοιχικὰς ἀποφεύγουσι πείρας· µένουσι γὰρ ἐν ἀφθαρσίᾳ καὶ
ἁγιασµῷ καὶ αὗται, ἀλλὰ τῷ φόβῳ µᾶλλον ἢ τῷ πόθῳ µόνῳ παιδαγωγούµεναι τὸ κακὸν οὐ προσδέχονται.
72 Cf. IC 462, 6-9: πῶς γὰρ ἂν δυνηθείη ἡ µηδέπω ἀναλαβοῦσα ἐν ἑαυτῇ τὸ ἀδέσποτον καὶ αὐτοκρατὲς τοῦ
ἐναρέτου φρονήµατος, ἀλλὰ δουλικῷ φόβῳ τῆς τῶν κακῶν κοινωνίας ἀφισταµένη.
73 Cf. DI 59, 4-61, 19.
251
all’amore gratuito di Dio, che infatti colloca e rafforza nella perfezione, in quanto fa
desiderare all’uomo di imitare nella maniera più perfetta possibile l’oggetto del suo amore e
di assumerne la forma74.
Esiste tuttavia un’ulteriore stato possibile per la creatura umana. Commentando infatti
Cant 6, 9 (µία ἐστὶν περιστερά µου, τελεία µου) l’esegeta sottolinea come superiore a
qualsiasi altra immagine è quella dell’unica e perfetta colomba. Essa rappresenta la
compiutezza dell’uomo nell’unità, caratteristica che il Nisseno considera il più alto dei doni di
grazie (τῶν ἀγαθῶν τὸ κεφάλαιον: IC 466, 16). Questa unità è il dono che Cristo stesso
commise durante la sua ultima cena ai suoi discepoli e, attraverso loro, a tutti gli appartenenti
alla Chiesa, i santi: esso consiste nell’essere una cosa sola al di là della diversità delle scelte
nella tensione verso il bene (ἐν τῇ περὶ τοῦ καλοῦ κρίσει: IC 466, 17-18). Vincolo di questa
unità è la δόξα divina: sempre citando lo stesso passo evangelico, l’esegeta rivela che questa
gloria di cui ora l’anima si riveste e prende la forma è la presenza nella vita dell’uomo dello
Spirito e il suo comunicarsi (ἡ τῆς δόξης τοῦ πνεύµατος διάδοσις: IC 467, 13-14)75. Questa
immagine rappresenta l’anima finalmente compiuta, unita indissolubilmente alla Chiesa e allo
Spirito, testimonianza viva della manifestazione divina.
Questo amore senza misura verso Dio, di cui si fregiano le regine, insieme ad una profonda
povertà di spirito è fondamento della perfetta fede, appannaggio della colomba, che
rappresenta dunque la compiutezza dell’essere umano 76: a questo si proponeva di condurre i
propri interlocutori Gregorio nella stesura del De instituto, e tale può essere considerato anzi
lo scopo ultimo di ogni sua opera. Il trattato tuttavia non si limita ad indicare ed argomentare
questa conclusione, ma vuole proporsi di appuntare alcune norme che traccino una strada per
vivere con pienezza ciò che si è compreso: la fede senza le opere, come già argomentato, nella
teologia del Nisseno non giova a nulla. Questo amore tuttavia non sarebbe possibile senza
l’economia dell’incarnazione.
V.2
Passato e presente
La storia della salvezza è per Gregorio una realtà che permane: nell’oggi infatti accade
nuovamente, pur nelle mutate circostanze, ciò che si era manifestato nel passato. Nel De vita
Moysis77 si instaura, ad esempio, un paragone tra la storia di Israele e la contemporaneità del
74
Cf. Cap. IV.1.
Cf. Ioh 17. Gregorio commenta il passo in IC 466, 12-467, 17 di cui si riporta IC 466, 16-19, in quanto
particolarmente significativo: τὸ µηκέτι αὐτοὺς ἐν διαφορᾷ τινι προαιρέσεων ἐν τῇ περὶ τοῦ καλοῦ κρίσει
πολλαχῇ διασχίζεσθαι, ἀλλ' ἓν γενέσθαι τοὺς πάντας τῷ ἑνὶ καὶ µόνῳ ἀγαθῷ συµφυέντας.
76 Cf. DI 66, 12-13: πίστεως δὲ ὑπόστασις πνεύµατος πτωχεία καὶ ἡ πρὸς θεὸν ἀµέτρητος ἀγάπη.
77 Cf. VM II 66-67.
252
75
Nisseno. Lì infatti si legge che l’Ebreo, pur in terra straniera, rimaneva indenne dai mali che
colpivano gli Egiziani, ed in particolare poteva abbeverarsi a fonti pure quando il suo
oppressore non aveva di che placare la sua sete, in quanto per lui l’acqua si tramutava in
sangue; allo stesso modo avveniva ai tempi di Gregorio, secondo la lettura della storia fatta
dall’esegeta: questi infatti notava come le città fossero solcate da varie e numerose correnti di
pensiero, che dividevano non solo cristiani e pagani, ma anche la Chiesa al suo interno;
l’acqua che scaturiva dalla fede dunque era limpida solo per una parte di essi, che seguono
nella sua pienezza l’insegnamento divino (διὰ τῆς θείας διδασκαλίας: VM II 66, 6), mentre
l’altra doveva abbeverarsi di sangue corrotto. Come poi i maghi egiziani trovarono il modo di
far diventar sangue anche l’acqua ancora pura78 , anche seguaci delle eresie, cui è rivolto lo
spunto polemico, cercano di contaminare la dottrina della fede con l’errore, per rendere
anch’essa diversa dalla sua origine: le loro calunnie, annota Gregorio con amarezza, possono
infatti anche risultare persuasive (πιθανῶς: VM II 67, 7); esse tuttavia non hanno la possibilità
di rendere rossa e inutilizzabile tutta l’acqua. Compito del cristiano sarà dunque abbeverarsi
della verità non prestando credito all’apparenza ingannatrice che gli è posta da altri dinnanzi
agli occhi dagli eretici.
Anche nell’In Canticum79 Gregorio accosta la vicenda storica del popolo d’Israele a ciò
che stava accadendo ai suoi tempi: come infatti gli Israeliti per prescrizione divina dovettero
purificarsi due giorni prima di salire sul monte Sinai e venire in presenza del Signore (Exod
19, 10-15), così sono stati necessari a Gregorio e ai suoi prima due giorni di purificazioni
attraverso di ascoltare le parole dello Sposo.
Allo stesso modo, in un nuovo passo del De vita Moysis80, il legislatore (e così anche chi
su suo modello ha compiuto un cammino di ascese) è rappresentato mentre porta in mano le
tavole fatte da Dio e si scontra con la dura ostilità di coloro che sono ancora peccatori. Allora
come ai tempi di Gregorio, il primo peccato da combattere era infatti l’idolatria, vale a dire
l’onore reso a chi non è in realtà la divinità. Secondo il Nisseno la religione ha un compito
innanzitutto ontologico e gnoseologico, vale a dire il rinnovamento nell’essere di colui che vi
si accosta attraverso la conoscenza del vero Dio, prima che etico, anche se quest’ultimo
aspetto è naturale conseguenza del primo81. Mosè, nello scontro con i suoi connazionali,
distrugge l’idolo d’oro a forma di vitello che gli Israeliti si erano costruiti, lo rende povere che
scioglie nell’acqua e la fa bere ai peccatori, per distruggere completamente la materia di cui si
erano serviti. Trasponendo questo nel tempo a lui presente, il Cappadoce nota quindi in poche
78
Cf. Exod 7, 22.
Cf. IC 71, 3-73, 1.
80 Cf. VM II 202-203.
81 Cf. VM II 165-166. Cf. anche Cap. I.4.1.
79
253
battute come l’idolatria sia lentamente soppiantata dalla retta fede ad opera delle persone pie,
che con la loro professione di fede e le loro opere hanno distrutto l’empietà. I misteri
(µυστήρια: VM II 203, 8) ben radicati nella cultura precedente sono infatti diventati acqua,
cioè qualcosa di effimero e inconsistente, e inghiottiti dalle stese bocche che prima li
professavano: il Nisseno quindi annuncia con orgoglio la distruzione di quegli idoli antiche da
parte di coloro che prima riponevano in essi la loro fiducia, una volta che si siano rivolti alla
vera religione.
Anche il concetto di popolo, che per Israele aveva una connotazione essenzialmente etnica,
viene attualizzato nel nuovo sistema cristiano. La conoscenza della verità, farmaco che Dio ha
concesso all’uomo per condurlo alla salvezza e liberarlo dagli errori dai quali la sua anima
può essere fermata82, deve essere raggiunta attraverso l’ausilio di una guida e in un cammino
comunionale, come quello di un popolo. All’inizio del De instituto christiano Gregorio guarda
con approvazione infatti a ciò che hanno creato coloro ai quali indirizzava il suo scritto, una
comunità cioè che realizzava nel suo operare il carattere apostolico e che desiderava un λόγος
che fosse guida del cammino della vita83: per raggiungere la volontà di Dio conviene che chi
la persegue viva insieme (συνεῖναι: DI 41, 19) e segua come un coro di sapienza (τὸν τῆς
φιλοσοφίας χορόν: DI 41, 20-21) chi vi è messo a capo (τοὺς προεστῶτας: DI 41, 20).
Una pura condotta di vita non può infatti prescindere dal circondarsi anche di un ambiente
consono ad essa. Trattando infatti nel De vita Moysis 84 della piaga delle rane che sconvolse
l’Egitto, in quanto queste si insinuarono nelle case, nei magazzini e sulle tavole degli egiziani
condizionandone la vita, Gregorio paragona a questo animale coloro che vivono immersi nel
fango dei piaceri85 : simili uomini si conformano dunque al modo di vivere irrazionale (τῇ
πρὸς τὸ ἄλογον µιµήσει: VM II 70, 3) perfino nell’arredamento della casa o nei pasti. Il
dissoluto infatti, come scrive il Nisseno, adorna la sua casa di scene che eccitano il piacere
passionale, da cui il puro di cuore tenta di allontanarsi; allo stesso modo, la mensa del
secondo è pura, sobria, mentre quella del primo trabocca di cibi; i magazzini invece
rappresentano per l’esegeta l’intimità e i segreti della vita, il cui interno non differisce dalle
due tavole.
Per porre in parallelo la vicenda del popolo d’Israele e ciò che sta compiendo l’esegeta
insieme ai suoi interlocutori Gregorio utilizza anche l’immagine del cammino: anche questi
ultimi sono infatti in marcia (ὁδοιπορίαν: VM II 135, 1) attraverso il racconto e l’esegeta
82
Cf. DI 40, 1-41, 9.
Per tutto il passo, cf. DI 41, 10-42, 12. Si riporta, perché particolarmente significativo, 41, 12-15: κοινῇ
πληροῦντες τὸν ἀποστολικὸν ἐν ταῖς πράξεσι χαρακτῆρα καὶ ποθοῦντες ὁδηγόν τινα παρ' ἡµῶν καὶ ἡγεµόνα τῆς
τοῦ βίου πορείας λόγον λαβεῖν.
84 Cf. VM II 68-72.
85 Cf. VM II 66-67.
254
83
propone di affrettarsi, volendo commentare solo alcuni episodi particolarmente significativi
che possano essere pietra di paragone per chi voglia approfondire lo studio delle altre parti86 .
V.3
Il διδάσκαλος
La tematica della testimonianza nell’opera di Gregorio si mostra molto legata alla figura
del διδάσκαλος.
Seguire un maestro è la modalità precipua indicata nel De virginitate per coloro che
intendono vivere con pienezza la perfezione87. Come infatti chi desidera imparare la lingua di
un popolo non può rendere maestro se stesso, ma deve farsi educare da coloro che possiedono
tale conoscenza, così chi vuole abbracciare la vera vita deve lasciarsi condurre per mano da
chi è più avanti nel cammino. Essere guidati da un maestro consente di imparare fino in fondo
ciò che desidera, cosa che non si riuscirebbe a realizzare da soli, in forza anche della
tradizione maturata negli anni e nell’esperienza88 . Lo scorrere del tempo è dato infatti per
maturare in consapevolezza: la giovinezza infatti difficilmente raggiunge le stesse conquiste
di una età più avanzata, ma da essa può proficuamente imparare. La figura di un maestro che
sia una valida guida (ἀγαθὸν καθηγεµόνα τε καὶ διδάσκαλον: DV 336, 21) offre la possibilità
ad un giovane di evitare di percorrere sentieri impraticabili che, in ultima analisi, allontanino
dal retto cammino: i giovani, avverte il Nisseno, non dovrebbero tracciarsi da sé la strada,
soprattutto perché non mancano loro esempi (ὑποδείγµατα: DV 338, 13), che ricavano tanto
più vigore quanto più si conformano alla tradizione, al lascito apostolico: come una fiamma si
propaga, si comunica (διάδοσις: DV 338, 20; διαδίδοται: DV 338, 24) alle fiammelle vicine,
così la nobiltà di vita di un uomo che la abbia saputa realizzare si comunica a chi gli sta
accanto.
86
Cf. VM II 135.
Naturalmente il trattato identifica il compimento dell’uomo con la verginità; il discorso che tratta di temi
educativi pare comunque estendibile: cf. DV 334, 14-335, 1: οὐκοῦν τούτῳ προσφοιτητέον ἐστὶ τῷ µέλλοντι
κατὰ τὸν αἱροῦντα λόγον τῆς παρθενίας ἀνθέξεσθαι. Καθάπερ γὰρ ὁ φωνὴν ἔθνους τινὸς ἐκµαθεῖν
προθυµούµενος οὐκ ἔστιν αὐτάρκης ἑαυτῷ διδάσκαλος, ἀλλὰ παρὰ τῶν ἐπισταµένων παιδεύεται καὶ οὕτω
γίνεται τοῖς ἀλλογλώσσοις ὁµόφωνος, οὕτως οἶµαι καὶ τοῦ βίου τούτου µὴ κατὰ τὴν ἀκολουθίαν προϊόντος τῆς
φύσεως, ἀλλὰ ἀπεξενωµένου τῇ καινότητι τῆς διαγωγῆς, µὴ ἄλλως τινὰ µαθεῖν τὴν ἀκρίβειαν ἢ παρὰ τοῦ
κατωρθωκότος χειραγωγούµενον. Καὶ τὰ ἄλλα δὲ πάντα, ὅσα κατὰ τὸν βίον ἐπιτηδεύοµεν, µᾶλλον ἂν κατ
ορθωθείη τῷ µετιόντι, εἰ παρὰ διδασκάλοις τις ἑκάστου τῶν σπουδαζοµένων ἐκµάθοι τὴν ἐπιστήµην ἢ εἰ ἀφ'
ἑαυτοῦ κατεπιχειροίη τοῦ πράγµατος.
88 per spiegare questo passaggio Il Nisseno instaura un paragone con la scienza medica (cf. DV 335, 1-338, 26),
che gli uomini perfezionarono attraverso la testimonianza (µαρτυρίας: DV 335, 8) fornita dalle prove; chi si
imbatté nel nuovo rese le sue osservazioni messaggio per il futuro, creando in questo modo una tradizione di
conoscenza, che si basa non su congetture o supposizione, ma su una strada già tracciata codificata in un
insegnamento (µαθών: DV 335, 15; µανθάνοµεν: DV 335, 18; µαθήσεως: DV 335, 20) da parte di chi possiede
una lunga e ricca esperienza.
255
87
Come si legge nell’In iscriptiones Psalmorum89, vero maestro è lo Spirito, secondo anche
la sentenza evangelica di Ioh 14, 26. Scopo di tale guida è la salvezza di tutti coloro che
vanno errando in una vita vana per trarli alla vera vita. Allo stesso modo in explicit del primo
encomio In sanctum Stephanum 90 Gregorio polemizza con pneumatomachi e cristomachi,
sostenendo come unico maestro è lo Spirito di verità, che non accoglie in sé contraddizioni e
che risiede in coloro cui è stato concessa tale grazia da Dio; solo attraverso di esso, come si
legge in 1Cor 14, 2, si può parlare dei misteri celesti91.
Data la comunanza di οὐσία delle ὑποστάσεις della Trinità, non stupisce leggere
nell’Adversus Arium et Sabellium come vero maestro sia solo Cristo92, e che la vera
discepolanza possa attuarsi solo nei suoi confronti. Come nei giorni descritti dal Vangelo
seguaci del Logos erano coloro che si erano radunati presso di lui e ne ascoltavano
l’insegnamento mostrando i frutti di esso, così verrà chiamato discepolo (µαθητής: DB 77, 4)
del Signore colui che ascende al monte della sublime contemplazione, laddove Cristo mostra
le ricchezze della vita spirituale, grazie al riproporsi e alla spiegazione delle parole ispirate93.
L’immagine della montagna, ricorda ancora il vescovo, è presente sin dalle profezie di Isaia
(cf. Is 35, 3), che guidano (ὑφηγεῖται: DB 78, 14) ed esortano all’ascesa verso il monte del
Signore. Come il profeta, anche Gregorio invita ad intraprendere l’ascesa della purificazione,
sulla cui sommità l’uomo sarà mondato e medicato e dove educherà (διδαξάτω: DB 78, 22) il
Logos stesso: principio dell’insegnamento (τῆς διδασκαλίας ἀρχή: DB 78, 24) sono dunque le
parole che Cristo pronunciò sulla montagna, che per prima cosa chiamano beati i poveri di
spirito.
La dinamica dell’incarnazione e la continuità di Cristo nella Chiesa permettono tuttavia a
Gregorio di fondare la possibilità anche per altri uomini di attualizzare lo stesso ufficio del
Logos, al fine di instradare a lui. Nell’omelia XV, a conclusione dell’In Canticum, il Nisseno
annota infatti che l’anima, che si è resa simile nella volontà allo Sposo imita Cristo con le sue
buone azioni, e così diventa per gli altri quello che Cristo fu per la natura umana94 ; l’anima,
89
Cf. IPS 115, 15-22: φαµὲν τοίνυν ἐπὶ τὸν πρῶτον ἡµῶν τοῦ λόγου σκοπὸν ἀνατρέχοντες, ὅτι οὐδενὸς τούτων
µέλει τῷ διδασκάλῳ ἡµῶν. διδάσκαλον γάρ, οἶµαι, ὀνοµάζειν δεῖ τὸ πνεῦµα τὸ ἅγιον, καθώς φησιν ὁ κύριος· ὅτι
Ἐκεῖνος διδάξει ὑµᾶς πάντα. τούτῳ τοίνυν τῷ καθηγητῇ τῶν ψυχῶν ἡµῶν καὶ διδασκάλῳ πάρεργα τὰ ἄλλα
πάντα δοκεῖ, σπουδὴ δὲ τὸ περισώσασθαι τοὺς ἐν τῇ µαταιότητι τῆς ζωῆς πλανω µένους καὶ πρὸς τὴν ἀληθῆ
ζωὴν ἐφελκύσασθαι.
90 Cf. SST I 92, 3: διδάσκαλος ἡ τοῦ πνεύµατος χάρις.
91 Cf. SST I 92, 7-9: εἰ οὖν εἷς ὁ διδάσκαλος, οὐδεµίαν πρὸς ἑαυτὸν διαφωνίαν ἔχων, ὁ δὲ διδάσκαλος τὸ πνεῦµα
τῆς ἀληθείας ἐστί, τὸ ἐν τοῖς θεοφορουµένοις γενόµενον, πῶς ἄν τις διαφωνίαν τινὰ τῶν δογµάτων
καθυποπτεύσειεν;
92 Cristo è chiamato il maestro buono (διδάσκαλον ἀγαθόν), secondo un riecheggiamento di Marc 10, 17, in
AdvAS 76, 21-22. Il tema è ripreso anche successivamente in AdvAS 82, 7-25.
93 Cf. DB 77, 4-78, 24.
94 Cf. IC 443, 12-15: ἡ πρὸς ταύτην τὴν εὐδοκίαν τὸ ἑαυτῆς ὁµοιώσασα κάλλος τὸν Χριστὸν µιµεῖται τοῖς κατορ
θώµασιν, ἐκεῖνο γινοµένη τοῖς ἄλλοις ὅπερ ὁ Χριστὸς τῇ φύσει τῶν ἀνθρώπων ἐγένετο.
256
come si è visto, indica una possibilità offerta a ciascun uomo che si instradi lungo il cammino
della perfezione95.
La tensione che il cristiano deve vivere acciocché la sua opera sia testimonianza per il
mondo96 è ben espressa dal Nisseno in un passo del De vita Moysis97, nel quale si legge che il
legislatore (come poi chi seguendo il suo esempio si innalza nella via delle virtù attraverso il
proprio impegno e l’aiuto divino), considera un proprio danno il non condurre coloro che gli
sono affini come stirpe alla vita libera98 ; questo può avvenire in quanto il testimone, anche di
fronte anche a interlocutori che presentano mali a prima vista incurabili, esalta con la sua
presenza il loro desiderio di libertà. Un maestro che funga da esempio (ὑποδείγµατος: DV
339, 1) e testimonianza può infatti essere riconosciuto, scrive Gregorio nel De virginitate99,
dalla sua condotta di vita: essa genera nell’uomo un profondo desiderio di emulazione perché
Dio stesso lo ha posto sul suo cammino come modello; egli dunque, scrive il Nisseno, deve
rappresentare il punto di riferimento (σκοπός: DV 339, 12) verso la vita divina, come per i
timonieri gli astri del cielo: compito dell’uomo sarà dunque l’imitazione (µίµησαι: DV 339,
13.14.23; πρὸς µίµησιν: DV 340, 5), in quanto loro per primi hanno raggiunto un porto sereno
tenendosi stretti all’ancora sicura della buona speranza. Chi in verità conduce è infatti Cristo
attraverso il suo Spirito100.
Dal punto di vista del maestro, la tensione alla testimonianza è accompagnata da uno
struggente desiderio di bene per chi gli è stato affidato. È questa tensione che informa ad
esempio il prologo del De professione christiana 101 o quello del De perfectione102 . Allo stesso
modo, nell’omelia Contra Fornicarios103 il Nisseno afferma che non si sarebbe voluto
separare neppure un momento da coloro che come vescovo gli erano stati affidati; il Logos
tuttavia, continua, chiama alle gare della pietà nelle arene della Chiesa e il suo ministro deve
rispondere, sostenuto dalla preghiera e dalle orazioni dei suoi figli spirituali. Per questo il
95
Cf. IC 443, 15-17.
Il richiamo al mondo dell’educazione è altresì evidente dal participio παιδευθέντες (VM II 89, 1) che apre il
passo.
97 Cf. VM II 89, 1-90, 3: ἀλλὰ πρὸς τὰ ἑξῆς τοῦ λόγου προΐωµεν τοσοῦτον παιδευθέντες διὰ τῶν ἐξητασµένων
ὅτι Μωϋσῆς τε ἐκεῖνος καὶ ὁ κατ' ἐκεῖνον διὰ τῆς ἀρετῆς ἑαυτὸν ἐπαίρων, ἐπὰν διά τε τῆς χρονίας προσοχῆς τοῦ
ὀρείου τε καὶ ὑψηλοῦ βίου καὶ διὰ τῆς ἄνωθεν γινοµένης φωταγωγίας δυναµωθῇ τὴν ψυχήν, ζηµίαν ἡγεῖται τὸ
µὴ καὶ τοῖς ὁµογενέσι πρὸς τὸν ἐλεύθερον καθηγήσασθαι βίον. [90] Καὶ πρὸς αὐτοὺς γενόµενος τῇ παραθέσει
τῶν χειρόνων παθῶν σφοδροτέραν αὐτοῖς τῆς ἐλευθερίας τὴν ἐπιθυµίαν ἐπιτίθησι.
98 «L'idea che il cristiano perfetto debba aiutare gli altri a progredire nel bene è tradizionale negli Alessandrini:
cfr., p. es., Origene, Commentarium in Ioannem I 25; Homiliae in Leviticum 13,1» (SIMONETTI 1984, p. 281).
99 Cf. DV 338, 27-340, 24. In part., cf. DV 339, 9-13: … ἀληθῶς ἔµψυχον καὶ ἐνεργὸν καὶ ἰσχύοντα, πρὸς τοῦτον
βλέπε τὸν κανόνα τοῦ βίου· τοῦτον τέθεικε σκοπὸν ὁ θεὸς τῇ ἡµετέρᾳ ζωῇ. οὗτος ἔστω σοι σκοπὸς τῆς θείας
ζωῆς, καθάπερ τοῖς κυβερνήταις οἱ ἀειφανεῖς τῶν ἀστέρων.
100 Cf. DV 340, 25-341, 10.
101 Cf. DPr 129, 1-130, 20.
102 Cf. DPe 173, 1-8; cf. anche Cap. IV.1.3.
103 Cf. CFor 217, 14-26.
257
96
pastore richiama coloro cui indirizza le sue parole a chiedere per lui e loro stessi l’aiuto di
Dio, perché Egli li sostenga nel non cedere ai disordini che, nelle sue intenzioni, avrebbe
aiutato a sedare.
Comprendere e seguire il volere divino, che si rende visibile in molti modi, non può
avvenire in maniera automatica, pur di fronte ad un θαῦµα manifesto: l’uomo ha infatti
sempre bisogno di qualcuno che introduca e sostenga la propria προαίρεσις. Gregorio ha ben
chiara questa dinamica, ad esempio, nel momento in cui racconta di quando il popolo di
Israele, appena uscito dall’Egitto, si trova di fronte la nube della potenza divina, che rendeva
sopportabile loro l’arsura del giorno e rischiarava la notte. Anche durante il semplice racconto
della fuga degli Israeliti il vescovo non manca di sottolineare questo aspetto: non appena sorse
la nube per miracolo divino, in quanto diversa da qualsiasi altra condensazione di vapori
puramente fisica, il legislatore non smise mai di guardarla e insegnava ai suoi compatrioti a
fare lo stesso104. Solo in questo modo il popolo poteva procedere, fermandosi nella marcia
laddove la nube si fermava e proseguendo quando questa nuovamente ne guidava la marcia105.
Simili precisazioni, come già notato, esulano dal mero racconto del testo sacro (Exod 13,
21-22)106; attraverso queste il vescovo sottolinea come Mosè istruisse il popolo nella sequela
di quella manifestazione divina che pur era evidente e mostra come nella sua concezione sin
dall’inizio del cammino occorra una figura - un maestro - che introduca ad essa e persuada a
dar credito alla strada che essa propone.
Scopo dell’educatore, come si legge ad esempio nell’In iscriptiones Psalmorum 107, diventa
allora anche mostrare con chiarezza lo scopo cui mira la fatica, per esortare e sostenere chi vi
si appresta. L’opera citata sviluppa il concetto attraverso l’immagine della gara e della
vittoria: in essa il buon educatore di anime (παιδοτρίβης: IPS 73, 10; παιδοτρίβου: IPS 74,
21), nell’indicare il fine delle fatiche, deve mostrare anche la corona e la proclamazione della
vittoria; guardando a questi, l’anima può appoggiarsi all’artefice della vittoria; in questa
immagine gli insegnamenti (διδασκαλίας: IPS 73, 15) della virtù permettono di raggiungere
quello scopo cui ci si è preparati con l’esercizio, procurandosi una via sicura e incrollabile.
È interessante l’annotazione compiuta dal Nisseno nel De instituto, laddove parla dei
superiori (τοὺς προεστῶτας: DI 41, 20): compito del maestro è infatti condurre al
compimento, ma ciò deve essere fatto innanzitutto con e attraverso ciò che genera diletto108:
104
Cf. VM I 31, 1-4: πρὸς ταύτην αὐτός τε βλέπων ὁ Μωϋσῆς καὶ τὸν λαὸν ἀκολουθεῖν τῷ φαινοµένῳ διδάξας,
ἐπειδὴ κατὰ τὸ Ἐρυθραῖον ἐγένοντο πέλαγος, ἐκεῖ τῆς νεφέλης πρὸς τὴν πορείαν καθοδηγουµένης κτλ.
105 Cf. VM I 34; 35, 1-2; 41, 1-4.
106 Sulle aggiunte di Gregorio al testo dell’Esodo in rapporto a questo argomento, cf. Cap. II.4.1.
107 Cf. IPS 72, 17-74, 21.
108 Cf. DI 70, 17-18: οἱ δὲ µεθ' ἡδονῆς τοὺς ἀδελφοὺς ἐπὶ τὸ τέλειον προσαγόµενοι.
258
l’educazione infatti per il Nisseno non si configura come una limitazione dell’umano, ma
come il suo compimento, che porta alla felicità e alla vita degli angeli.
Nel De vita Moysis 109 si legge un nuovo riferimento all’ufficio del διδάσκαλος. Il passo del
Nisseno che affronta il tema commenta Num 13, in cui si racconta di come il legislatore, su
invito del Signore, inviò degli esploratori nelle varie direzioni che si potevano percorrere, alla
ricerca della terra promessa da Dio; molti di questi tornarono scoraggiati e, come i
ragionamenti umani che fanno diminuire la fiducia nelle promesse eterne, alimentarono nel
popolo lo sconforto; Giosuè invece, che aveva guidato (καθηγούµενος: VM II 267, 2)
l’esplorazione più fortunata e aveva dato notizie dei beni di quella terra, è il solo che merita il
termine διδάσκαλος (VM II 265, 6) ed è avvicinato tipologicamente alle considerazioni che
nascono dalla fede che rinsaldano le speranze dei beni futuri. Il tralcio d’uva che Giosuè porta
voleva essere, per gli Israeliti, una prova concreta della promessa, e per Gregorio diventa il
sangue di Cristo appeso al legno della croce. L’accostamento dei termini rivela in filigrana
quello che, secondo Gregorio, deve essere il compito precipuo dei veri διδάσκαλοι: maestri
votati a mostrare ai propri discepoli una strada percorribile verso il compimento della vita.
Compito specifico del maestro è adattare il proprio discorso a chiunque si trovi davanti, per
poter raggiungere il maggior numero di uomini (secondo una modalità propria anche al
medico110 ) e fare in modo che così la Chiesa si rinsaldi e si ampli111 . Esempio di questo è un
passo del De instituto112 laddove, parallelamente a una previa esortazione alla sequela dei
propri superiori113 , Gregorio invita coloro che sono posti come guida delle comunità (τοὺς
προεστῶτας) a usare degnamente l’arte del comando evitando in ogni modo le insidie della
superbia e del potere. Conformemente al dettato evangelico secondo cui chi vuole essere il
più grande deve farsi il più piccolo, ricordato già dal Nisseno riferendosi ai monaci114 , chi è
guida dei suoi confratelli deve essere primo nel servizio, offrendo la propria vita come
esempio (τύπον δουλείας τὸν ἑαυτῶν βίον παρέχειν τοῖς ἀδελφοῖς: DI 69, 8-9). Essi devono
rendere chiaro il loro insegnamento secondo la necessità di ciascuno (τὴν µὲν διδαχὴν κατὰ
τὴν ἑκάστου χρείαν: DI 69, 12), seguendo da presso ciò che impone loro la realtà (σύ τε
ἀκολούθει τῇ χρείᾳ τοῦ πράγµατος: DI 70, 11), affinché il discepolo educato (ἐκπαιδεύσας:
DI 70, 12) dal guardare la loro condotta di vita sia condotto al Padre115. Gli esempi cui il
109
Cf. VM II 265-268.
Cf. ad es. EpC 1, 20-2, 3, dove si legge che, siccome sono molte le malattie, il medico dovrà adattare ad ogni
paziente una cura specifica; il tema sarà comunque ripreso.
111 Cf. ad es. OC 5, 1-10, che si commenterà anche più oltre.
112 Cf. per tutto il passo DI 68, 15-70, 14.
113 Cf. DI 67, 2-68, 11.
114 Questo insegnamento è più volte presente nel Vangelo: cf. Marc 9, 34; Marc 10, 43-44; Matth 20, 26-27;
Matth 23, 11. Gregorio si richiama ad esso in DI 68, 2-3.
115 Cf. DI 70, 11-14: σύ τε ἀκολούθει τῇ χρείᾳ τοῦ πράγµατος, ὅπως τὴν ψυχὴν τοῦ πρὸς σὲ βλέποντος µαθητοῦ
καλῶς ἐκπαιδεύσας λαµπρὰν τὴν ἐκείνης ἀρετὴν προσαγάγῃς τῷ πατρί, κληρονόµον ἄξιον τῆς ἐκείνου δωρεᾶς.
259
110
Nisseno rimanda sono i buoni maestri e i bravi medici, che modellano l’educazione o la cura
secondo le necessità che vedono. Ricordando i costumi del tempo, Gregorio fa presente infatti
come i genitori affidassero i loro figli ai pedagoghi. Questi hanno il compito, osservando il
temperamento dei fanciulli, di adattare il proprio insegnamento alla realtà e al carattere dei
ragazzi (ὡς ἀνῆκε τῷ πράγµατι καὶ ὁ τοῦ παιδὸς ἀπαιτεῖ τρόπος: DI 69, 22-70, 1), affinché
questi diventino santi, compiuti, già in questa vita. Allo stesso modo i medici esaminano le
malattie e applicano a ciascuno il farmaco adeguato, armonizzando (ἁρµόζειν: DI 70, 4.10) la
cura all’anima e al corpo. Il vescovo tiene a sottolineare come tutto, anche il diletto o il
sacrificio, concorra a questo questo scopo, in quanto permette una sempre maggiore
imitazione della persona di Cristo: alla fine del De instituto 116 Gregorio sottolinea infatti come
per il cristiano arrivato all’età della ragione (εἰς τὸ τῆς νοητῆς ἡλικίας µέτρον: DI 86, 5), vale
a dire certo dei misteri rivelati, è oggetto di gioia ricevere dolori a motivo del Signore,
realizzando in questo l’ultima delle beatitudini e altri luoghi paolini nei quali l’apostolo si
vanta di debolezze e tribolazioni nella certezza della resurrezione di Cristo117.
L’attenzione alla condizione del singolo peraltro è l’atteggiamento di Dio stesso che,
attraverso i diversi modi in cui si attua la sua potenza salvifica (τὰς ἀγαθὰς τῆς θείας
δυνάµεως ὑπὲρ ἡµῶν ἐνεργείας: IC 33, 18-19), dona a ciascuno ciò che gli è più adatto
(κατάλληλον ἑκάστῳ: IC 33, 20)118. Nel descrivere la lettiga di Salomone119 Gregorio ricorda
infatti l’insegnamento paolino (Rom 12, 3) secondo cui Dio divise i doni dello Spirito
convenientemente a come ognuno è fatto per natura e può accogliere la grazia (πρὸς ὃ πέφυκέ
τε καὶ δύναται ἕκαστος τὴν χάριν δέξασθαι: IC 210, 3-4). Dio, sommo artefice (ὁ τεχνίτης: IC
210, 9), non si propone di rendere tutti materia uniforme o indistinta (µονοειδῆ … τὴν ὕλην:
IC 210, 10), ma orna ogni parte conformemente alla sua natura. L’oro, la materia più nobile, è
riservato per la parte dominante delle colonne, sulla quale chi è portato posa il capo, ed è
figura dei puri insegnamenti (τὸ τῶν καθαρῶν δογµάτων χρυσίον: IC 211, 2-3). Attività
precipua della divinità nelle sue tre ipostasi, come si legge nel trattato Ad Ablabium120, è la
provvidenza e la sollecitudine verso l’universo, che conferma nell’essere le creature, le
corregge quando compiono ciò che è errato e insegna loro ciò che è giusto, secondo le
possibilità di comprensione de ciascuno.
116
Cf. DI 86, 3-87, 2.
Gregorio in DI 86, 3-87, 2, a supporto della sua tesi, cita molti passi neotestamentari: Matth 5, 11-12,
parallelo a Luc 6, 22-23; Rom 5, 3; 2Cor 12, 9-10; 2Cor 6, 4.
118 Come ricorda SIMONETTI 1984, p. 298, «il concetto che Dio si presenta all'uomo adattandosi alle sue capacità
di comprenderlo [...] è origeniano: de principiis I 3,8; Commentarium in Matthaeum XII 36 sgg.».
119 Cf. IC 206, 1-211, 18.
120 Cf. AdA 50, 20-51, 4: ἀλλὰ πᾶσα πρόνοια καὶ κηδεµονία καὶ τοῦ 3,1.51 παντὸς ἐπιστασία, τῶν τε κατὰ τὴν
αἰσθητὴν κτίσιν καὶ τῶν κατὰ τὴν ὑπερκόσµιον φύσιν ἥτε συντηρητικὴ τῶν ὄντων καὶ διορθωτικὴ τῶν
πληµµελουµένων καὶ διδακτικὴ τῶν κατορθουµένων, µία ἐστὶ καὶ οὐχὶ τρεῖς, κτλ.
260
117
V.3.1
L’Oratio catechetica magna
L’Oratio catechetica magna vuole essere un trattato che sia utile a coloro che intendono
contribuire alla catechesi delle genti; per conseguire tale scopo essa tenta di rispondere alle
questioni più spinose cui spesso gli educatori si confrontavano nel rapporto in particolare con
il mondo ebraico e la cultura greca. Un’analisi più puntuale della linea argomentativa del
Nisseno sarà dunque feconda in vista del tema qui in discussione.
Come si legge in incipit 121, non vi è una sola tipologia di insegnamento (διδασκαλίας: OC
5, 5) che possa adattarsi a tutti coloro che si accostano alla parola; chi è preposto (τοῖς
προεστηκόσι: OC 5, 2) a tale ufficio dovrà dunque adattare la catechesi al proprio
interlocutore, guardando sempre allo stesso scopo, ma servendosi di argomenti differenti. Allo
stesso modo, una volta elencate le varie eresie di cui aveva sofferto la Chiesa dei primi secoli,
si afferma, secondo la facile analogia del linguaggio medico, che bisogna adattare la cura al
tipo di malattia122 : occorre guardare con attenzione alle varie opinioni degli uomini per
rendere il proprio discorso tale quale richiede l’errore insito in ciascuno di essi, così da
giungere a scoprire attraverso l’esercizio della somma facoltà umana, il λόγος, e una logica
necessità (κατὰ τὸ ἀκόλουθον: OC 6, 12) il vero123. Tale convinzione permea tutto lo scritto,
che può essere letto anche come una serie di esemplificazioni di comportamenti che chi
rivolge il discorso catechetico potrebbe attuare nei confronti di un interlocutore o di un altro.
Il ragionamento è prettamente filosofico e, come accade anche nel Contra fatum 124, non
indulge ad un citazionismo scritturistico eccessivo; evidentemente l’opera mirava a offrire
delle possibili direttive per coloro che si trovavano a rendere ragione della fede verso tutte le
possibili classi sociali dell’impero e necessitavano di una educazione del pensiero 125.
Quando, all’inizio della sua disamina delle possibili posizioni di chi si trova lontano dalla
verità, l’autore immagina di rivolgersi ad un seguace della filosofia greca126, esorta colui che
si trova a testimoniargli la fede a chiedergli per prima cosa se questi creda in un essere
superiore o segua l’insegnamento (δόγµατι: OC 6, 17) di coloro che lo negano. Si è già
notato127 come il cristianesimo si proponga un compito, prima che etico, ontologico e
gnoseologico, vale a dire educhi ad una comprensione di Dio secondo verità, di sé e del
121
Cf. OC 5, 1-10; si riporta in partic. OC 5-10: οὐ µὴν ὁ αὐτὸς τῆς διδασκαλίας τρόπος ἐπὶ πάντων ἁρµόσει τῶν
προσιόντων τῷ λόγῳ, ἀλλὰ κατὰ τὰς τῶν θρησκειῶν διαφορὰς µεθαρµόζειν προσήκει καὶ τὴν κατήχησιν, πρὸς
τὸν αὐτὸν µὲν ὁρῶντας τοῦ λόγου σκοπόν, οὐχ ὁµοιοτρόπως δὲ ταῖς κατασκευαῖς ἐφ' ἑκάστου κεχρηµένους.
122 Cf. OC 5, 16-17: κατὰ γὰρ τὸ εἶδος τῆς νόσου καὶ τὸν τρόπον τῆς θεραπείας προσαρµοστέον.
123 Cf. OC 5, 17-6, 13.
124 Cf. BANDINI 2003, p. 26-28.
125 L’Oratio Catechetica ha, come scrive MORESCHINI 1997, «carattere manualistico» (p. 82), compendioso, in
quanto «dedicata ai maestri che hanno bisogno di un sistema per le loro istruzioni» (p. 80).
126 Cf. per tutto il passo OC 6, 14-8, 9.
127 Cf. Cap. I.4.1.
261
creato: per un corretto discorso catechetico, tale doveva allora essere il punto di partenza. Se
la presenza della divinità non fosse riconosciuta, il Nisseno, riferendosi implicitamente
all’apologetica del II e III secolo128, consiglia a chi è preposto all’educazione di un uomo
siffatto di mostrargli l’ordine e della bellezza che regna nel mondo, per leggere in esso una
sapienza creatrice. Tale discorso era già presente nella filosofia stoica e comunemente
accettato dalla compagine culturale del tempo129; è questa inoltre una delle prove più amate da
Gregorio per mostrare la presenza divina a fondamento della realtà130. Se l’errore invece fosse
il politeismo, il Nisseno propone di invitare questo sedicente filosofo a ragionamenti
consequenziali (τῇ ἀκολουθίᾳ: OC 7, 1; τῆς ἀκολουθίας: OC 7, 10) che, facendogli attestare
(προσµαρτυροῦντος: OC 7, 2) il vero sul concetto di divinità, lo condurranno a rinnegare
l’insegnamento (δόγµατος: OC 8, 8) sul politeismo, per abbracciare la vera fede.
Il discorso porta quindi ad un approfondimento sulla differenza tra φύσις, in questo caso
usato con il valore di οὐσία, e ὑπόστασις131, anche per evitare che lo stesso catecheta cada in
derive eretiche; il Nisseno si sofferma quindi a contemplare e tentare di esprimere la natura di
Dio, e lo riconosce come sommo Logos, ciò di cui sussiste nel profondo la realtà132 . La via
analogiae è quindi proposta da Gregorio anche per cercare di comprendere qualcosa di più
sull’essenza dello Spirito 133: anche nella nostra natura è infatti possibile trovare ombre e
similitudini (σκιάς τινας καὶ µιµήµατα: OC 12, 7) della natura inesprimibile.
L’eventuale catechizzando appartenente al popolo d’Israele, sottolinea quindi il Nisseno,
potrebbe anche contraddire questi ragionamenti, ma sarebbe facilmente confutato: essi infatti
traggono la loro verità proprio a partire dagli insegnamenti in cui egli è stato educato134: a
fronte infatti dell’incredulità che potrebbe cogliere un giudeo rispetto al mistero trinitario,
Gregorio cita la testimonianza (µαρτυρίας: OC 14, 20) di Ps 32, 6, nella quale il Nisseno
riconosce un riferimento alle tre ipostasi. Se anche Davide, ispirato, ha riconosciuto come
fondamento dei cieli il Logos divino e della loro potenza lo Spirito uscito dalla sua bocca,
allora è certa, dice Gregorio, il mistero della verità insegnata (ὑφηγούµενον: OC 15, 15) dal
cristianesimo.
Se il dialogo con i Giudei può fondarsi anche su una storia condivisa, lo scambio con il
mondo ellenico135 deve innanzitutto guardare a quelle nozioni comuni attraverso le quali il
128
Cf. MORESCHINI 1992, p. 121 n. 11.
Cf. MORESCHINI 1992, p. 121 n. 11.
130 Cf. Cap. I.4.
131 Cf. OC 8, 10-12, 3.
132 MORESCHINI 1992, da p. 123 n. 14 a p. 128 n. 23 rende evidenti le ascendenze degli apologeti, in particolare
Atanasio, e delle dottrine platoniche che influenzano il passo.
133 Cf. OC 12, 4-14, 13.
134 Cf. OC 14, 14-15, 15. Cf. in part. OC 14, 14-17: εἰ δὲ ἀντιλέγοι τούτοις ὁ Ἰουδαῖος, οὐκέτ' ἂν ἡµῖν ἐκ τοῦ
ἴσου δύσκολος ὁ πρὸς ἐκεῖνον γενήσεται λόγος. ἐκ γὰρ τῶν συντρόφων αὐτῷ διδαγµάτων ἡ τῆς ἀληθείας ἔσται
φανέρωσις.
135 Cf. OC 15, 16-18, 16.
262
129
Nisseno, nell’opera Ad Graecos, tenterà di dimostrare il dogma trinitario. Il concetto di κοινὴ
ἔννοια, avverte Moreschini136, «era divenuto di uso assai esteso nella cultura dell’età
imperiale, soprattutto per effetto dell’insegnamento degli Stoici, i quali volevano indicare con
esso una conoscenza innata nell’animo umano, presso qualunque popolo, senza distinzione di
razza e di civiltà, in quanto manifestazione del logos primigenio». In base a queste, scrive il
Nisseno, qualsiasi Greco non rifiuterà l’esistenza del Logos e dello Spirito; farebbe invece più
fatica ad accettare l’economia della salvezza, soprattutto per quanto riguarda l’incarnazione. Il
Nisseno riprende il tema della perfezione del creato, nel quale si mostra un ordine, un κόσµος
cui dovette sovrintendere una sapienza superiore, che mostra le caratteristiche della
perfezione divina e si identifica per questo con il Logos; il motivo di una ragione fattiva che
presiede alla bella costituzione della realtà è già stoico137. Tale perfezione non può essere
disgiunta dalla bontà, qualità che la divinità possiede al massimo grado; il sommo bene, come
già sostenevano i neoplatonici, è infine diffusivum sui138. Il gesto creativo di questa potenza
divina139, liberato subito da una qualsivoglia necessità, è dunque identificato con un impeto di
amore, che spinge la divinità anche a formare una creatura che fosse capace di godere dei
doni che aveva approntato, vale a dire l’uomo. Questi fu plasmato in modo da essere atto per
natura alla partecipazione dei beni che comporta la conoscenza di Dio, in modo tale che
avesse qualcosa di connaturale all’Essere di cui partecipava140, tra cui la vita, il logos, la
sapienza e, somma tra tutte, l’immortalità. Tutto questo, chiosa il Nisseno, è ben esposto
nell’insegnamento (δόγµατα: OC 18, 10; διδασκαλίας: OC 18, 11) della narrazione storica
(ἱστορικώτερον: OC 18, 9) scritta da Mosè141 secondo cui l’uomo fu creato ad immagine di
Dio.
La spiegazione successiva riguarda la caduta da tale stato di grazia e prende a pretesto la
comprensibile obiezione del possibile interlocutore, che non riscontra nella natura umana
simili caratteri divini142 . La nascita del male è interrogata nuovamente a partire da un
necessario consenso del ragionamento umano con la parola rivelata: come infatti il racconto
genesiaco vede nella creazione una cosa buona, così la ragione non può negare che l’uomo,
appena creato, non potesse mancare della totale libertà e possibilità di determinazione senza
alcuna necessità a lui esterna; è questo il bene più prezioso per la creatura, senza il quale
136
Cf. MORESCHINI 1992, p. 132 n. 34.
Cf., ad es., MORESCHINI 1992, p. 121 n. 11 e p. 133 n. 37.
138 Cf. MORESCHINI 1992, p. 134, n. 41.
139 In questa sede Gregorio non cita il dogma della creazione ex nihilo, tipicamente cristiano, mirando
probabilmente a esprimere tutti quei concetti riguardo i quali un esponente della cultura ellenica poteva più
identificarsi.
140 Cf. OC 17, 7-11: εἰ τοίνυν ἐπὶ τούτοις ὁ ἄνθρωπος εἰς γένεσιν ἔρχεται, ἐφ' ᾧ τε µέτοχος τῶν θείων ἀγαθῶν
γενέσθαι, ἀναγκαίως τοιοῦτος κατασκευάζεται, ὡς ἐπιτηδείως πρὸς τὴν τῶν ἀγαθῶν µετουσίαν ἔχειν.
141 I Padri attribuiscono al legislatore tutto il pentateuco: cf. MORESCHINI 1992, p. 136, n. 44.
142 Cf. OC 18, 17-20, 25.
263
137
l’immagine del creatore non risulterebbe più tale. Il male ebbe origine quindi non dalla
divinità (altrimenti non sarebbe biasimevole), ma dal libero arbitrio dell’uomo, che si stacca
da ciò che è bene.
Il motivo di questo allontanamento dal proprio compimento è argomento di un passaggio
successivo del ragionamento143, che ha ancora come presupposto il racconto genesiaco della
creazione: esso, accolto dall’insegnamento dei padri, non deve essere considerato una
narrazione mitica, ma acquista persuasività in quanto si fonda sulla natura profonda
dell’uomo144 . In esso si legge la duplicità delle sostanze (intellegibile e sensibile) che si
riscontrano nella creazione, di come l’uomo sia una mescolanza (συνανάκρασις: OC 22, 8,
significativamente lo stesso termine che caratterizza l’incarnazione) di entrambe, nobilitata
dalla potenza divina a partecipare di sé, e come l’intelligenza angelica che poi sarebbe
diventata il tentatore sia caduta nel baratro dell’invidia e abbia pervertito il libero arbitrio
della creatura umana. Non fu dunque Dio a cambiare la libertà della sua creatura, ma l’uomo
stesso, a seguito di un inganno, cadde nella stoltezza che gli fece perdere la sua condizione
originaria di παρρησία, stoltezza da cui tuttora è segnato.
Il Nisseno si propone quindi di rispondere ad una obiezione fondata sulle dottrine
(δόγµασι: OC 26, 17) dei Manichei145: essi riconducono l’origine del mondo a due potenze, la
prima del bene, l’altra del male. Se Dio è somma bontà, come avrebbe però potuto permettere
lo sviarsi della sua creatura da lui? La materia e l’uomo, perché immersi nel male, sarebbero
dunque da ricondurre ad una creazione da parte del principio malvagio. Per rispondere a
simili frodi eretiche il Nisseno richiama alla necessità di un corretto giudizio, azione precipua
del λογισµός dell’uomo, fondandosi innanzitutto sull’autorità paolina di 1Cor 2, 15, dove
l’apostolo delle genti ricorda che l’uomo spirituale giudica146 ogni cosa. Tale operazione deve
essere dunque attuata anche nei confronti delle fantasie mitiche sorte dagli insegnamenti degli
eretici (τῆς τῶν δογµάτων τούτων µυθοποιίας: OD 27, 17): questi infatti riducono il male alla
presenza di una sensazione spiacevole, cosa naturale per il corpo, a cui viene dunque associata
la creazione negativa. Chi invece usi la sua ragione pienamente non potrà negare, secondo una
argomentazione usuale per il Nisseno, che esso non ha sostanza, ma è privazione del bene;
allo stesso modo, l’esegeta fa notare come non esista altro male al di fuori di quello del vizio,
liberamente scelto a fronte della sequela della virtù proposta dalla divinità: così, chiosa
143
Cf. OC 21, 1-26, 12.
Cf. OC 21, 4-7: τοιοῦτόν τινα λόγον παρὰ τῶν πατέρων διεδεξάµεθα· ἔστι δὲ ὁ λόγος οὐ µυθώδης διήγησις,
ἀλλ' ἐξ αὐτῆς τῆς φύσεως ἡµῶν τὸ πιστὸν ἐπαγόµενος.
145 Cf. OC 26, 13-28, 20. Per informazioni sulle dottrine manichee, cf. Dictionairre de Théologie Catholique s.v.
Manichéisme, di G. Bardy. Sul superamento da parte di Gregorio della posizione manicheista, cf. MATEO-SECO
pp. 199-200.
146 Cf. l’insistenza dell’autore nel passo sul verbo κρίνειν e i suoi composti: κρίνειν (OC 27, 13), διακρίνειν (OC
27, 15) e ἀνακρίνει (OC 27, 16).
264
144
Gregorio con un esempio, se quando la luce risplende nel cielo sereno uno chiude
volontariamente gli occhi per non vedere, non è colpa del sole se questi non vede.
Poiché dunque alla creatura umana, come insegna la Scrittura, fu mescolato il veleno del
piacere, questa perse la beatitudine celeste e fu rivestita di tuniche di pelle, vale a dire della
vita animale o, come ben commenta Moreschini147 , della «materialità come impulso al
pathos»; solo quando l’uomo se ne sarà svestito attraverso la virtù potrà essere
completamente separato dal male e partecipare della resurrezione148 . Gregorio sottolinea con
insistenza come pur dagli enigmi della narrazione sia evidente l’insegnamento proposto: nel
passo l’autore propone infatti di cominciare la propria argomentazione non da basi
filosofiche, da chiunque condivisibili, ma dall’autorità mosaica, non necessariamente
riconosciuta dall’eventuale interlocutore non cristiano149. Questa sezione affronta quindi
tematiche, come la resurrezione dei morti ed il giudizio oltremondano, specifiche del
cristianesimo; a fronte di questo, il Nisseno sceglie la via dell’esemplificazione (il vasaio che
ricostruisce un vaso riempito di piombo e quindi inservibile; l’arte della medicina che si
adatta al male del paziente), riprendendo infine la polemica nei confronti dei manichei e
affermando che la bontà di Dio, del quale non si mette in discussione la preveggenza anche
del peccato dell’uomo, si attua nella salvezza.
Vera medicina dell’anima, continua il Nisseno, è la virtù. Come tuttavia l’uomo avrebbe
potuto attuarla nella sua vita o anche solo desiderarla, una volta sviato dal sommo bene?
Il Nisseno parte da una simile domanda per introdurre il mistero dell’incarnazione, che
insegna (µανθάνοντες: OD 36, 16) la modalità entro cui la divinità rimise in piedi l’uomo
caduto, lo richiamò e condusse per mano (χειραγωγία: OD 36, 11) la sua creatura smarrita. Se
un eventuale avversario, riprende l’autore, avrebbe potuto concordare senza eccessiva
difficoltà al ragionamento finora esposto, perché rispettava la nozione di Dio condivisa anche
dalla filosofia antica, il nuovo argomento richiederà al vescovo un maggiore impegno nella
dimostrazione, perché va a toccare il cuore della predicazione cristiana, la nascita e la
resurrezione di Cristo. Gregorio esorta innanzitutto150 nuovamente ad un corretto esercizio del
λογισµός, per comprendere quali segni distintivi permettano di riconoscere il bene e il suo
contrario151. Se si concorda sul fatto che la sola cosa turpe sia il vizio, questa sarà l’unica cosa
che la natura divina non potrà accogliere, differentemente dagli stadi della vita (compresa
147
Cf. MORESCHINI 1992, p. 148 n. 68.
Cf. OC 26, 13-36, 17
149 Cf. OC 29, 22-30, 3: τὸ δὲ τοιοῦτον δόγµα ἱστορικώτερον µὲν καὶ δι' αἰνιγµάτων ὁ Μωσῆς ἡµῖν ἐκτίθεται,
πλὴν ἔκδηλον καὶ τὰ αἰνίγµατα τὴν διδασκαλίαν ἔχει.
150 Cf. OC 36, 18-38, 4.
151 Cf. OC 37, 7-11: ἐγὼ δὲ πρότερον οἶµαι δεῖν µικρὸν τῆς σαρκικῆς παχύτητος τὸν λογισµὸν ἀποστήσαντας,
αὐτὸ τὸ καλὸν ἐφ' ἑαυτοῦ καὶ τὸ µὴ τοιοῦτον κατανοῆσαι, ποίοις γνωρίσµασιν ἑκάτερον τούτων
καταλαµβάνεται.
265
148
l’infanzia), che di per sé non sono un male. Nuova obiezione152, dal vescovo facilmente
scalzata, è la limitatezza della natura umana, che non potrebbe contenere la divinità. Neppure
la vita di un uomo, commenta infatti Gregorio, è limitata dai confini del corpo, in quanto la
mente spazia libera al di là di esso; allo stesso modo il Nisseno si affida all’esempio del fuoco
per mostrare come la fiamma di necessità si appicca alla materia che la alimenta, ma non è da
essa conchiusa. Seguendo una simile linea argomentativa153, a coloro che non capiscono come
Dio possa unirsi all’elemento umano bisognerà far notare come anche l’unione tra l’anima e il
corpo dell’uomo non sia in sé comprensibile. Come quest’ultima è visibile solo negli atti che
compie il corpo, così anche la natura divina riceve la sua testimonianza (µαρτυρίας: OC 40,
10) dai miracoli che di essa sono stati raccontati (διὰ τῶν ἱστορουµένων θαυµάτων: OC 39,
23-24): come la bellezza del mondo spinge a riconoscere una forza che crea e conserva tutto
ciò che esiste, così i fatti che narrano i Vangeli mostrano in Cristo le caratteristiche della
natura divina, tanto da persuadere alla fede in lui. Allo stesso modo, la nascita di Cristo dalla
Vergine e la resurrezione sono due segni (θαύµατι: OC 41, 18) contrari alle peculiarità della
natura umana, testimonianze (προσεµαρτύρησεν: OC 42, 19) che mostrano come l’annuncio
(κήρυγµα: OC 41, 22) riguardi qualcuno al di là della semplice creatura.
Il Nisseno immagina dunque che il suo interlocutore gli chieda per quale motivo Dio volle
avere commercio con gli uomini154 . La risposta parte da un nuovo appunto di metodo, il fatto
cioè che l’uomo, osservando ciò che viene fatto, può conoscere per via di analogia la natura di
colui che opera. I racconti su Cristo mostrano l’amore di Dio per gli uomini; essendo dunque
questa la natura della divinità, Dio si mostrò all’uomo per risanarlo. Il confronto, sempre più
serrato, immagina quindi una nuova obiezione: Dio avrebbe potuto infatti riscattare l’uomo
senza prendere parte alla sua natura. Il vescovo puntualizza quindi nuovamente che ciò che si
oppone all’essenza della divinità è solo il vizio, le passioni, non di per sé le caratteristiche
della sostanza umana: le πάθη che la caratterizzano, se non sono infatti di ordine morale, non
pertengono alla categoria dei mali. La crescita e il mutamento, ad esempio, possono essere
considerate passioni che non vanno ad intaccare l’integrità dell’animo; allo stesso modo la
nascita (e non la generazione, che è preceduta dalla passione del piacere) e la morte non
devono essere considerate passioni moralmente incidenti. Quest’ultima porta il Nisseno ad
una digressione sulla resurrezione, che si configura come la nuova ed eterna unità dell’anima
e del corpo.
Dio, potendo quindi partecipare della natura umana, scelse questa salvezza per la sua
creatura; rispetto all’obiezione precedente, Gregorio nota come non pertenga ai malati
152
Cf. OC 38, 5-39, 11.
Cf. OC 39, 11-43, 2.
154 Cf. OC 43, 3-49, 16.
266
153
scegliere la cura, ma al medico. Benché ogni incredulità sarà eliminata solo all’ultimo giorno,
continua il Nisseno, bisognerà trovare dei ragionamenti (λογισµοῖς: OC 50, 15) adeguati alle
richieste155 . Alle opere dei Vangeli, nuovamente richiamate, si aggiunge la testimonianza della
storia, nella quale si era resa evidente la vittoria del cristianesimo sulle altre religioni, già alla
fine del IV sec156 , prova che doveva essere evidente, a detta del Cappadoce, soprattutto per gli
Ebrei, che videro la distruzione del proprio tempio dopo che, benché istruiti in anticipo
(προεδιδάχθησαν: OC 52, 10) dai profeti e dalla Legge, non accolsero il Messia; allo stesso
modo il vescovo cita la testimonianza dei martiri, che non avrebbero affrontato le sofferenze
cui erano stati condannati senza una chiara certezza della presenza di Dio.
Tali ragionamenti, tuttavia, non sembrano ancora sufficienti al Nisseno per dimostrare la
venuta di Dio nella carne e il motivo di questa discesa. Per condurre per mano
(χειραγωγοῦσα: OC 53, 6) i suoi lettori a tale scopo, il vescovo sceglie di ricapitolare quali
qualità chiunque debba riconoscere nella divinità, per poi notare come nell’economia della
salvezza queste concorrano a mostrarsi, provando quindi come la salvezza sia del tutto
appropriata alla divinità157. Tali caratteristiche sono riconosciute nella virtù della bontà, della
giustizia, della sapienza e della potenza. Prova (µαρτυρία: OC 55, 4; 60, 20; 65, 7) della bontà
di Dio è la disposizione per la quale la divinità prese nuovamente con sé un essere che lo
aveva tradito; la sapienza rese quindi efficace il suo amore per gli uomini. La
caratterizzazione della giustizia parte dal riconoscimento che la natura dell’uomo, che si
configura come imitazione, è in sé mutevole, in movimento verso il bene cui la indirizza il
desiderio. In questa dinamica tuttavia si inserì il tentatore, che ingannò la creatura, facendole
preferire l’apparenza al vero bene; come esemplificazione, il Nisseno inserisce a questo punto
il ricordo di una favola esopica158 . Gregorio lega dunque la giustizia divina, nell’economia
della salvezza, al riscatto dell’uomo da parte della divinità senza che questa adoperasse la
propria potenza superiore, agendo sempre in modo giusto: egli infatti, nascosto nella carne
che il nemico aveva parzialmente assoggettato a sé, offrì al tentatore una preda più grande in
cambio dell’uomo, Cristo. La potenza di Dio nell’economia della salvezza è riscontrata dal
Nisseno, infine, nella sua discesa verso ciò che gli era inferiore, forzando in qualche modo la
propria natura: il cristianesimo dunque insegna attraverso il proprio mistero (παρὰ τοῦ
µυστηρίου µανθάνοµεν: OC 63, 12; τοῦ µυστηρίου … διδάσκοντος: OC 64, 1-2) una verità,
155
Cf. OC 49, 17-52, 22.
Scrive MORESCHINI 1992, p. 168 n. 96 che a quell’epoca «il paganesimo, anche se non estinto del tutto, era
però confinato in ambienti assai ristretti di intellettuali, o a zone isolate nelle quali la nuova religione non era
potuta penetrare, e che erano ancora oggetto di predicazione missionaria. Tutto l’oriente cristiano, insomma, era
oramai profondamente cristianizzato».
157 Cf. OC 52, 23-67, 21.
158 Cf. Cf. A. Hausrath, H. Hunger, Corpus fabularum Aesopicarum, vol. 1.1, Leipzig 1970, Fab. 136.
267
156
in ultima analisi, paradossale, ma che proprio da questa contraddizione, secondo Gregorio,
viene confermata.
I misteri che vengono discussi dal Nisseno159 sono quindi quello dell’incarnazione e della
croce, poiché, come ben si capirebbe se si fosse educati a fondo (καταµαθών: OC 77, 22)
nella religione cristiana, Cristo volle prendere su di sé i due termini entro cui è racchiusa la
vita dell’uomo perché su tutte le parti si estendesse la sua potenza salvifica, secondo il
principio, caro ad Origene e ai Cappadoci, del quod non assumptum non sanatum 160. In
particolare, bisogna notare che nel passo che riguarda la croce161 , dato lo scandalo che tale
morte suscitava, i riferimenti alla tematica educativa si moltiplicano: occorre infatti
comprendere con esattezza tale mistero (δι' ἀκριβείας καταµαθὼν τὸ µυστήριον: OC 77, 22),
per apprendere ciò che in esso si insegna (ἐν τῷ µυστηρίῳ µανθάνοµεν: OC 78, 17-18), vale a
dire che Dio accettò la nascita a causa della morte, per richiamare l’uomo da questa
condizione alla vita. Fondamento di tali ragionamenti non può che essere la tradizione
apostolica (ἐκ παραδόσεως: OC 79, 2), dalla quale si imparano (διδασκόµεθα: OC 79, 17) gli
elementi che poi l’esegeta leggerà attraverso una più profonda interpretazione. Il simbolo
della croce, che nei suoi quattro bracci riunisce in Cristo tutte le cose, consente che l’uomo
non sia condotto per mano (χειραγωγεῖσθαι: OC 80, 17) alla verità solo attraverso l’udito,
l’ascolto dell’annuncio, ma che anche la vista riceva il ruolo di maestra (διδάσκαλον: OC 80,
18); si cita quindi l’insegnamento (διδασκαλίας: OC 80, 20) di Paolo, che introdusse ai
misteri (µυσταγωγεῖ: OC 80, 19) il popolo di Efeso mostrando la profondità e l’altezza,
l’ampiezza e la lunghezza dell’amore di Cristo (cf. Eph 3, 18), adombrando con le sue parole i
quattro bracci della croce, come ribadisce ancora in seguito il Nisseno, usando di nuovo il
verbo µεµαθήκαµεν (OC 81, 7).
Tra la discussione che riguarda i due estremi della nascita e della morte Gregorio introduce
una nuova obiezione: l’economia salvifica si è infatti realizzata in un determinato momento
della storia, e non al principio dei tempi, non appena l’uomo era caduto; allo stesso modo, la
predicazione che offre la salvezza non fu accolta da tutto il mondo né ai tempi di Cristo né a
quelli in cui scrive Gregorio. Il differimento della salvezza, a detta di Gregorio, fu dovuta alla
scelta di Dio di applicare all’uomo la sua cura solo una volta che la sua malattia si fosse
completamente manifestata e che i germogli della radice del male fossero del tutto apparsi.
Quest’ultima, benché strappata, non è ancora del tutto morta. Per spiegare infatti la ragione
della permanenza del peccato anche dopo la resurrezione, il Nisseno porta degli esempi che a
159
Cf. per tutto il passo OC 68, 1-77, 6.
Cf. PIETRELLA 2009, p. 137, n. 181; cf. anche, a titolo di esempio, Greg. Naz. Ep. 101, 14-15.
161 Cf. OC 77, 7-81, 24.
268
160
suo parere possono condurre verso la verità162. Uno di questi è racchiuso nell’immagine del
serpente, il cui corpo mantiene per un certo tempo il movimento, anche se la testa viene
staccata da esso. La chiamata di Dio, come quindi appunta il vescovo, è rivolta a tutti; la
risposta invece è determinata dalla προαίρεσις del singolo, che la divinità rispetta nell’uomo
sopra ogni altra cosa. La fede dunque nasce in rapporto alla disposizione d’animo di coloro
che accolgono l’annuncio (τῆς διαθέσεως τῶν δεχοµένων τὸ κήρυγµα: OC 77, 6), che dunque
occorrerà educare.
Parte importante degli insegnamenti (διδαγµάτων: OC 82, 1) del mistero cristiano riguarda
il battesimo 163; il Nisseno si propone quindi di esaminare questa generazione al cielo, che può
sollevare in chi non è introdotto alla realtà della sua religione un forte sbigottimento: dopo
aver ascoltato i misteri e aver imparato (προδιδαχθῶσι: OC 82, 15) le modalità in cui si
impartisce il battesimo, essi possono rimanere ancora scettici. Il ragionamento che segue il
vescovo pone in stretta analogia la generazione carnale con la nascita al cielo: entrambi gli
atti portano ad una nuova creatura, che supera qualitativamente ciò che sembra nell’apparenza
averla generata. Dal seme dell’uomo viene infatti al mondo un essere che condivide la natura
di Dio; allo stesso modo, se si attribuisce (προσµαρτυροῦντας: OC 83, 19) alla divinità la
potenza che le pertiene, non sarà difficile reputare possibile tutto ciò che la sua volontà
desidera. La presenza effettiva di Dio nei riti, afferma quindi il vescovo, si basa sulle
promesse presenti nel Vangelo (cf. Matth 18, 20): se infatti attraverso i segni (διὰ τῶν
θαυµάτων: OC 84, 20) di cui si era già trattato si mostra la divinità di Cristo, è testimoniata
(µαρτυρία: OC 86, 3) allo stesso modo, in base alle sue promesse, la presenza di Dio in ogni
luogo, specialmente dove venga invocato.
Il Nisseno analizza quindi il rito del battesimo164 , affermando come l’uomo non si salvi per
la conoscenza di una certa dottrina (ἐκ τῆς κατὰ τὴν διδαχὴν ὑφηγήσεως: OC 86, 9), ma per la
partecipazione alla vita di colui che si sottomise alla comunione con l’uomo, di modo che,
assumendo la carne dell’uomo nella sua divinità, salvasse tutto ciò che era diventato a lui
connaturato, secondo il già visto principio del quod non assumptum, non sanatum. Compito
dell’uomo sarà dunque l’imitazione (µίµησις: OC 86, 19) della guida da parte di chi segue
(παρὰ τοῦ ἑποµένου πρὸς τὸν ἡγούµενον: OC 15-16), imperativo ben sintetizzato dal Nisseno
nell’espressione διὰ µιµήσεως ἕπεσθαι (OC 87, 2). Tale processo si attua nella triplice
immersione nell’acqua, che ricorda i tre giorni del sepolcro; tuttavia, precisa il vescovo,
l’assimilazione a Cristo non si manifesta nell’uomo subito completamente, a causa della
povertà della sua natura rispetto al dono, ma ha bisogno di maturare nel tempo. Il battesimo
162
Cf. OC 74, 7-8: ὑποδείγµατί τινι τῶν γνωρίµων ὁδηγηθήτω πρὸς τὴν ἀλήθειαν.
Cf. OC 82, 1-86, 5.
164 Cf. OC 86, 6-92, 25.
163
269
consente di imitare la propria guida nel distruggere il vizio attraverso la morte di esso che
avviene attraverso l’acqua e la vita successiva nelle virtù. È questo l’unico modo di purificarsi
da tutte le macchie della malvagità, condizione che la saggezza comune (ὅ τε κοινὸς …
λόγος: OC 92, 8) e l’insegnamento delle Scritture (ἡ τῶν γραφῶν διδασκαλία: OC 92, 9)
presuppongono per la partecipazione al coro di Dio.
Una simile unione, in quanto l’uomo è composto di spirito ma anche di carne, deve andare
a toccare anche il corpo; ecco perché l’ultimo mistero di cui il Nisseno tratta la razionalità è
quello dell’eucarestia. Di essa si tratta di come l’unico corpo divino sia assunto da molti fedeli
pur rimanendo in sé e per sé; il vescovo dunque tratta della transustanziazione come di un
reale mutamento, secondo la promessa del Logos, che avviene per mezzo della potenza della
preghiera165.
L’ultima parte dello scritto166 analizza infine ciò cui occorra credere per ricevere il
battesimo ed entrare nella piena educazione del Logos. Dogma fondamentale è quello
trinitario, cui occorre rivolgersi con piena libertà: solo questa infatti, nella grazia, consente
una rinascita che scelga come genitori ciò che è immateriale. Questa rigenerazione dall’alto
tuttavia non è un insegnamento bastevole167, in quanto di per sé non muta la natura dell’uomo:
la grazia del battesimo deve dunque riverberarsi nella vita, nella quale dovranno essere
evidenti le qualità divine che si apprendono (διδασκόµεθα: OC 105, 4) dalle Scritture. Solo in
questo modo l’uomo potrà guadagnare i beni eterni o meritarsi il fuoco che lo purificherà
dopo la morte, alle cui caratteristiche si è stati educati (ἐδιδάχθης: OC 106, 2) dalle parole
ispirate.
V.3.2
Il pedagogo e le punizioni
È significativo che nella Vita Sanctae Macrinae168 , parlando dell’educazione del fratello
Pietro ad opera della sorella più grande, Gregorio distingua tra διδάσκαλος e παιδαγωγός:
nella sua concezione dunque le due figure devono essere distinte, forse in quanto da riferirsi
ad ambiti specifici (benché nulla neghi che possano ritrovarsi riunite in una sola persona). Del
primo si è già trattato ampiamente; si vuole qui solo ricordare come secondo Gregorio la
storia di Mosè169 insegni (παιδεύει ἡ ἱστορία: VM II 55, 2) che occorre una adeguata
educazione (ἀγωγῆς: VM II 55, 3) delle proprie doti prima di tentare di trasmetterle ad altri. Il
legislatore degli Ebrei infatti non aveva particolare predisposizione per parlare in pubblico;
165
Cf. OC 93, 1-98, 7.
Cf. OC 98, 8-106, 18.
167 Cf. OC 102, 4-5: ἀλλ' οὔ µοι δοκεῖ µέχρι τῶν εἰρηµένων αὐτάρκη τὴν διδασκαλίαν ἡ κατήχησις ἔχειν.
168 Cf. VSM 383, 14-384, 1.
169 Cf. VM II 54-55.
270
166
Gregorio ad esempio ricorda come non riuscì ad essere riconosciuto come paciere di fronte ai
due suoi connazionali, mentre il testo sacro fa addurre allo stesso Mosè questa difficoltà quasi
come scusa di fronte alla chiamata di Dio170; dopo l’illuminazione del roveto tuttavia questi
parlò a migliaia di persone. Allo stesso modo l’uomo deve acquistare attraverso una intensa
applicazione la capacità di insegnare ed offrire consigli, e solo in un secondo momento si può
arrischiare all’atto effettivo.
La grazia dell’insegnamento e dell’interpretazione delle Scritture non è concessa a tutti in
eguale misura. Vi sono infatti alcuni che, come gli Israeliti di fronte alle trombe della
rivelazione di Dio sul Sinai, non comprendono le sue parole e da esse si ritraggono spaventati;
altri invece sono in grado di accogliere questa voce che viene dall’alto e hanno il compito di
insegnare al popolo ciò che l’insegnamento celeste ha loro concesso, così come avvenne a
Mosè171 . Questa pratica è, a detta di Gregorio, usuale per la Chiesa; tuttavia il vescovo
lamenta come ai suoi tempi ci fossero delle comunità nelle quali uomini indegni, perché non
ancora purificatisi attraverso le proprie azioni, che osano affrontare l’ascesa verso Dio. Non
avendo preliminarmente compiuto quel distacco dalle sensazioni e dalle opinioni corporee che
il Nisseno aveva predicato in precedenza costoro le mischiano alla voce divina; i loro pensieri
dunque sono come pietre che li lapidano, li opprimono e impediscono loro una vera gnosi.
Compito della Chiesa è dunque non solo educare, ma anche correggere: in quest’ottica
occorre leggere i canoni di comportamento istituiti dal Nisseno nell’Epistula canonica ad
Letoium per i suoi collaboratori nei confronti di chi si è macchiato di gravi peccati. In tale
scritto Gregorio analizza in dettaglio i vizi verso cui ogni partizione dell’anima (logica,
concupiscibile e irascibile172 ) può scivolare. Quelli entro cui può cadere la ragione173 sono
giudicati più gravi dall’autorità dei Padri (χαλεπώτερα παρὰ τῶν πατέρων ἐκρίθη: EpC 4,
5-6), in quanto essi pervertono la caratteristica più nobile dell’uomo; in particolare essi si
configurano come la sequela di dottrine eretiche o idolatriche, che muovono cioè contro il
Λόγος, Cristo. Si citano quindi gli errori della parte concupiscibile dell’anima174 ,
essenzialmente l’adulterio e la fornicazione, per i quali il Nisseno offre ai vescovi un canone
di comportamento, e le mancanze della parte soggetta agli istinti175 , la perversione della quale
porta alle varie gradazioni dell’ira, che può sfociare anche nell’assassinio. È interessante
notare come nel testo 176 i διδάσκαλοι siano le sole figure indicate dal Nisseno che nel secondo
170
Cf. Exod. 4, 10-13.
Cf. VM II 160-161; si riportano 160, 1-5: εἰ δὲ οὐ χωρεῖ τὸ πλῆθος τὴν ἄνωθεν γινοµένην φωνήν, ἀλλ'
ἐπιτρέπει τῷ Μωϋσεῖ γνῶναι µὲν δι' ἑαυτοῦ τὰ ἀπόρρητα, διδάξαι δὲ τὸν λαὸν ὅπερ ἂν διὰ τῆς ἄνωθεν
διδασκαλίας τύχῃ µαθὼν δόγµα, καὶ τοῦτο τῶν κατὰ τὴν Ἐκκλησίαν διοικουµένων ἐστί, κτλ.
172 Cf. anche Cap. I.1.
173 Cf. EpC 4, 4-5, 9.
174 Cf. EpC 5, 10-7, 15.
175 Cf. EpC 7, 16-9, 17.
176 Cf. EpC 8, 9-19.
271
171
periodo di nove anni di punizione possano accostare gli assassini volontari, per permettere
loro di essere nuovamente educati alla preghiera comune e al commercio con il resto del
popolo. Il loro ruolo non è dunque quello di punire, bensì di ricondurre entro l’alveo della
comunità attraverso l’educazione.
La funzione del παιδαγωγός sembra invece caratterizzata innanzitutto come baluardo,
come limite o argine. IC 252, 15 accosta infatti tale figura al ruolo della sentinella: pedagogo
e sentinella diventano quindi espressione della memoria del male passato, il cui ricordo
impedisce di mutare la propria vita seguendo una strada diversa dal bene177.
Sulla stessa linea si colloca l’incipit della terza omelia In Ecclesiasten178, laddove il
Nisseno richiama un insegnamento (µάθηµα: IE 315, 10) del testo a suo parere
particolarmente importante: chi, come Salomone, ha rilevato l’inconsistenza e la vanità dei
piaceri, che conducono al peccato, sviluppa in sé ciò che Dio ha già posto dentro di lui come
armatura contro il peccato, vale a dire il pudore e la vergogna, di modo tale che non ricada più
in una condizione disonesta. Entrambi questi πάθη sono infatti turbamenti conseguenti alla
presa di coscienza di essere incorsi in qualcosa di sconveniente e spingono l’uomo, attraverso
i limiti che pongono (ἐπαιδαγώγησεν: IE 315 22), a non ricadervi. Tale turbamento, che
riveste quasi la funzione di un pedagogo (καθάπερ τινὰ παιδαγωγόν: IE 317, 8), è un
insegnamento (µάθηµα: IE 317, 2 179) che conduce alla rettitudine, attraverso la confessione: il
sentimento di vergogna che ne deriva e il suo ricordo saranno infatti sentinelle e direttive che
orienteranno la vita futura (πρὸς τὸν ἐφεξῆς παιδαγωγηθήσεται βίον: IE 317, 11-12). Di tale
sentimento, baluardo della correzione, si parla anche in un passo dell’In sextum Psalmum 180.
Lì Gregorio, dopo aver ricordato il giudizio cui sarà sottoposto ogni uomo, i mali dell’inferno
e il timore che prende il peccatore, seguendo le parole di Ps 6 solleva una preghiera, certo
della benevolenza divina; con essa chiede che la vergogna dei propri peccati diventi maestro
di correzione (παιδαγωγῷ: ISS 192, 23) per sé e tutto il genere umano, che permetterà di non
ricadere in errori analoghi.
La concezione del pedagogo come baluardo si riscontra anche nel primo libro del De vita
Moysis181. In esso il popolo d’Israele, quando si allontana dai precetti divini e forgia il vitello
177
Il passo fa parte di un discorso più ampio dell’omelia VIII: l’anima, ormai instradata verso i beni eterni, viene
sempre più incoraggiata nella sua ascesa; la si esorta anche a non inorgoglirsi di ciò che ha trovato e a
perseverare nella ricerca. Principio di questa nuova vita è stata la fede ricevuta nel battesimo, che ha cacciato le
abitudini precedenti, interpretazione delle figure del leone e del leopardo presenti nel Cantico. La gioia del
ritorno alla purezza antica è naturalmente accresciuta dalla consapevolezza del male subito, ma esso ha anche
una funzione di controllo rispetto al cammino dell’uomo, che ha sempre la possibilità di tornare indietro. Cf. IC
247, 19-253, 7.
178 Cf. IE 315, 9-317, 12.
179 Poco oltre (IE 331, 6-7) si parlerà di insegnamenti (µαθήµασι) che irrigano l’anima.
180 Cf. ISS 192, 18-193, 8.
181 Cf. VM I 58. Cf. in partic. VM I 58, 7-8: τότε οἷόν τι µειράκιον ὁ λαός, τῶν τοῦ παιδαγωγοῦντος ὄψεων ἔξω
γενόµενος.
272
d’oro per la prolungata lontananza del suo legislatore, ed è paragonato ad un bambino lontano
dallo sguardo del suo precettore.
La Sapienza divina, nei Proverbi, educa l’anima del giovane e lo salva dalla morte
approvando punizioni anche corporali, pur di liberarlo da un male peggiore182 . Questo
insegnamento (διδασκαλία: IC 362, 15) è utile a Gregorio per commentare un passo difficile
del Cantico nel quale l’anima esce in cerca del suo diletto ed è privata del velo con percosse
dai guardiani della città183 . Questi ultimi rappresentano gli spiriti ministri che recano
all’anima correzioni, anche faticose, da parte di Dio. Sulla scorta quindi di Ps 23, 4 il Nisseno
esplicita che la percossa di Dio dà la vita184 ; essa è preferibile ai baci dell’inimicizia, come
l’esegeta ricorda all’inizio dell’omelia XIII In Canticum185 utilizzando ancora la saggezza dei
Proverbi (questa volta più fortemente adattata); essa infine consola, perché le guardie offrono
all’anima la consapevolezza ([scil. ἡ ψυχή] διδάσκεται παρὰ τῶν φυλάκων: IC 369, 18) che il
continuo progredire della ricerca e questa ascesa infinita costituiscono il vero godimento
dell’oggetto del desiderio e tolgono così attraverso questo insegnamento (διὰ τοῦ µαθεῖν: IC
369, 22) il velo della disperazione cui essa potrebbe essere portata di fronte ad un desiderio
che sa essere infinito186.
Anche l’opera dei malvagi può poi rappresentare uno strumento di correzione, così come il
popolo d’Israele fu educato (παιδευθείη: DIP 94, 15) dalla schiavitù egiziana187, di modo tale
che il popolo apprendesse (διδασκόµενος: DIP 95, 4) la bontà di Dio e la sua collera contro il
male.
Strumento per la conversione, secondo il Nisseno, è nel De instituto188 l’obbedienza ai
comandi dei propri superiori (τὸ παρὰ τῶν προεστώτων ἐπιτασσόµενον: DI 67, 11-12), che si
fonda su un sentimento di profonda umiltà189: conformemente al precetto evangelico del
rinnegamento di sé, Gregorio invita i suoi interlocutori a convertirsi alla volontà divina; per
182
Cf. Prov 23, 13-14.
Cf. Cant 5, 6b-7, che Gregorio commenta in IC 359, 5-370, 13.
184 Cf. IC 362, 3-17.
185 Cf. Prov 27, 6; cf. Langerbeck p. 377 ad 21-22.
186 Cf. IC 369, 14-370, 3.
187 Cf. DIP 94, 13-16.
188 Come già si è avuto modo di accennare, l’incipit del De instituto (cf. DI 40, 1-43, 7) è particolarmente
importante per un discorso sull’educazione: Gregorio è chiamato a prendere la parola da una comunità che ha
deciso di accogliere degnamente la conoscenza offerta da Cristo, esplicitata di lì a poco come la fede trinitaria, e
conduce la propria anima attraverso i dettami dell’amore divino, traducendo nella comunità in opere gli
insegnamenti degli Apostoli, quindi della tradizione della Chiesa (κοινῇ πληροῦν τες τὸν ἀποστολικὸν ἐν ταῖς
πράξεσι χαρακτῆρα: DI 41, 12-13). Scopo del trattato è dunque venire incontro a dei fedeli che desiderano
approfondire attraverso un suo λόγος che sia guida e una regola la comprensione di quale sia il compimento della
vita (ὁδηγόν τινα παρ' ἡµῶν καὶ ἡγεµόνα τῆς τοῦ βίου πορείας λόγον: DI 41, 14-15), la volontà di Dio, e di quale
sia la strada per raggiungere questo scopo (ποία τις πρὸς τὸν σκοπὸν τοῦτον ὁδός: DI 41, 18); allo stesso modo
Gregorio tratterà anche di come convenga che vivano insieme gli appartenenti alla comunità (ὅπως τε συνεῖναι
προσήκει τοὺς ταύτην πορευοµένους ἀλλήλοις: DI 41, 18-19) e come si debba comportare chi la guida (τοὺς
προεστῶτας: DI 41, 20), quasi fosse il maestro di questo coro di sapienza (τὸν τῆς φιλοσοφίας χορόν: DI 41,
20-21). Infine si chiede una rassicurazione rispetto alle fatiche cui questo cammino farà andare incontro.
189 Cf. DI 67, 2-68, 11.
273
183
essere servitore della comune utilità, ciascun monaco non deve preoccuparsi della propria vita
ma affidarsi con gioia e speranza ai propri superiori. È questa sequela l’umiltà e il giogo di cui
parla il Vangelo che conduce l’uomo al suo τέλος.
Pedagogo della condotta di vita secondi virtù nell’In Canticum è infine la continenza (ἡ
παιδαγωγὸς τῆς ἐναρέτου πολιτείας ἐγκράτεια: IC 366, 1-2): si comprende bene come anche
in questo caso il pedagogo sia una figura preposta al controllo e, per così dire, al
contenimento di chi gli è stato affidato. Questa figura dunque, si può concludere, ha per
Gregorio il compito del limite.
V.3.3
L’Adversus eos qui castigationes aegre ferunt
Utile a questo proposito pare l’esame puntuale del trattatello in forma omelitica Adversus
eos qui catigationes aegre ferunt. L’opera in incipit esalta l’essere umano attraverso ciò che
ne definisce la statura precipua, vale a dire il λόγος: nulla è ad esso paragonabile, tesoro
divino e sacro (θεῖον ... καὶ ἱερὸν χρῆµα ὁ λόγος: AdvC 323, 3), connaturato alla natura umana
e dono diretto di Dio (οὐκ ἄλλοθεν προσγενόµενον ἀλλὰ συγκεκραµένον τῇ φύσει: AdvC 323,
4-5) perché la creatura possa raggiungerlo (εἰς αὐτὸν ἐλθόν: AdvC 323, 6), diventando così
nuovamente a sua immagine (καθ' ὁµοίωσιν θεοῦ: AdvC 323, 6). L’uomo non si distingue
dagli altri animali per caratteristiche fisiche, ma solo per questo dono, che lo rende signore di
tutto il creato (ἡγεµόνα τῶν παντῶν: AdvC 323, 15): non solo gli consente di addomesticare e
utilizzare secondo il proprio giudizio (πρὸς τὸ δοκοῦν: AdvC 324, 5) gli animali (tra cui sono
significativamente ricordati il toro, il cavallo, l’asino e il mulo, tutti sottoposti in modo
diverso ad un giogo), ma gli rende possibile un possesso e un controllo della stessa natura che
contrasta nettamente con la sua debolezza fisica (ἀσθενείς ὄντες τὸ σῶµα: AdvC 323, 20). Il
sole, la lune e le stelle vengono descritti nei loro moti e utilizzati per identificare le rotte delle
navi verso terre sconosciute laddove la costa è ormai scomparsa dall’orizzonte, i rivolgimenti
del cielo portano a previsioni sul clima, le erbe della terra sono poste al servizio della
medicina. L’elenco, chiosa l’autore, potrebbe continuare a lungo pur tralasciando il vasto
campo delle scienze, le arti pratiche necessarie alla vita e quelle predisposte per il lusso.
Simili potenzialità tuttavia non sono sufficienti all’uomo perché raggiunga la sola cosa che
Gregorio indica come essenziale, vale a dire il compimento della vita; al contrario, per la
maggior parte egli sembra non curarsene affatto (ἑνὸς ὀλιγώρως ἔχει τῆς ἀληθοῦς ζωῆς καὶ
τῆς οἰκείας σωτηρίας: AdvC 325, 4-5). Così facendo naturalmente l’essere umano non segue i
dettami della propria ragione, ma abbandona questa divina facoltà per la stoltezza (ταῦτα οὐκ
ἔστι τοῦ λογικοῦ, ἀλλ᾽ εἰς µωρίαν τὸ λογικὸν παρατρέποντος: AdvC 325, 9-10), rifiutandosi
274
di esercitare la giustizia, di imparare la via delle virtù (τὴν ἀρετὴν οὐ µανθάνεις: AdvC 325,
11); un simile comportamento inoltre snatura e impoverisce il dono stesso, che non può così
essere usato e recare vantaggio, diventando perciò inutile (ἀχρεῖον καὶ ἀνωφελὲς καὶ µάταιον:
AdvC 325, 21). L’uomo così defraudato perde la sua stessa natura e si mescola nuovamente
alle bestie.
Il Nisseno sottolinea quindi come la colpa dell’uomo che non segue la retta via sarebbe
minore se, ormai non riconoscendo da sé ciò che è bene, vi fosse introdotto da un altro: ruolo
dell’educatore è dunque fungere da mediatore tra ciò che corrisponde alla natura profonda
dell’essere umano (τὸ συµφέρον: AdvC 325, 25) e chi non è più in grado di usare gli strumenti
razionali già posti per natura nelle sue mani, ormai offuscati (µὴ νοοῦντες οἴκοθεν καὶ παρ᾽
ἑαυτῶν τὸ συµφέρον: AdvC 325, 24-25). Le parole οἴκοθεν καὶ παρ᾽ ἑαυτῶν richiamano il
dono del λόγος connaturato all’uomo con cui l’autore aveva aperto il trattato (οὐκ ἄλλοθεν
προσγενόµενον ἀλλὰ συγκεκραµένον τῇ φύσει: AdvC 323, 4-5), dono di Dio.
Con un primo affondo psicologico, Gregorio sottolinea però come l’uomo rimanga
infastidito, quasi come affetto dal mal di mare, a fronte del rimprovero di coloro che sono
buoni (πρὸς τὴν παιδείαν τῶν καλῶν: AdvC 326, 1) e alle osservazioni rivoltegli da chi, più
avanti di lui, può considerare come maestro (τοῖς διδασκάλοις: AdvC 325, 27). Il sentimento
che lo governa diventa quindi una brama di contesa e rivalsa (στασιαστῶν καὶ µαχοµένων
φιλονεικία: AdvC 326, 8), che viene stigmatizzata in quanto non rispetta la natura del rapporto
educativo; questo è invece esemplificato dalla figura evangelica del bambino (di cui l’autore
tratterà più oltre) e da quella del discepolo nella scuola. Nel διδασκαλεῖον il fanciullo teso a
imparare segue un metodo ben preciso, la cui importanza nel testo greco è sottolineata
dall’espressione παντὶ … τρόπῳ καὶ λόγῳ καὶ ἔργῳ (AdvC 326, 19-20): esso consiste nella
ferma imitazione (µίµησις) del bagaglio di conoscenze e competenze (παράδοσις o, per dirla
con il calco latino, traditio) che gli viene consegnata da chi lo sta guidando (καθηγητής) 190. Il
passo è volutamente polemico nei confronti di chi non ha la stessa disposizione d’animo del
buon discepolo: questi sono come i fanciulli dimentichi dei loro doveri, che vengono castigati
dai loro maestri. Il castigo dovrebbe avere valore correttivo ed esemplare per chi lo riceve; se
però i puniti non avessero compiuto nuovamente ciò che era loro chiesto, il maestro li avrebbe
dovuti tenere sì in ozio, ma digiuni, per poi costringerli a montare da soli la guardia alla
scuola, perché questo fosse di monito agli altri ragazzi che sarebbero così tornati ad un
comportamento conforme a ciò che era loro chiesto191 . È interessante infine l’appunto
secondo cui questi discepoli avrebbero accettato, pur piangendo, simili correzioni da parte del
190
Cf. AdvC 326, 19-20: παντὶ δὲ τρόπῳ καὶ λόγῳ καὶ ἔργῳ µιµεῖται τοῦ καθηγητοῦ τὴν παράδοσιν.
Cf. AdvC 327, 3-5: παραµένει δὲ τῷ διδασκαλείῳ καὶ µόνος τῶν ἄλλων παίδων ἀναχωρησάντων ἐπ᾽ ἄριστον
τηρῶν τὸ πρόσταγµα σὺν εὐλαβείᾳ πολλῇ.
275
191
maestro senza per questo diventare malevoli nei suoi confronti (ού θρασὐνεται τῇ πληγῇ:
AdvC 326, 21-22) o allontanarsi da lui dopo avergli recato danno rompendone le tavolette (τὰς
δέλτους τῷ διδασκάλῳ περιρρῆξαν ἀποφοιτᾷ: AdvC 326, 22-23). La precisazione, legata
dall’autore al dettato evangelico secondo cui occorre tornare come bambini (Matth 18, 3) da
riferimenti che precedono e seguono questo esempio scolastico, si riferisce di stretta misura
all’occasione che ha portato alla stesura di questo trattato: uomini ribellatisi all’autorità del
vescovo Gregorio a causa del biasimo di quest’ultimo per alcuni loro comportamenti, che
hanno tentato di ripagare la loro guida tentando di impedirne o quanto meno di ostacolarne
l’attività pastorale.
Il Nisseno lamenta infatti nelle parole appena successive che i cristiani non si comportano
come i παιδία del Vangelo, ma che, se vengono ripresi, parlano contro il sacerdote
apertamente e borbottando tra sé, infangandone la reputazione nelle piazze e nei quartieri
abitati. Il riferimento immediato alla scomunica (ἀποκλεισθῶσιν ἡµῖν ἀφορισµῷ αἱ θύραι τῆς
ἐκκλησίας: AdvC 326, 5-6) fa capire come la situazione fosse tesa; tuttavia, al contrario dei
fanciulli meno disposti a seguire i loro doveri, per la maggior parte di costoro una condanna
più aspra dell’autorità ecclesiastica sarebbe servita solo ad allontanarli ulteriormente dalle
pratiche della pietà e quindi dalla comunità stessa dei credenti192 ; Gregorio sottolinea
comunque come non fosse utile nemmeno evitare una simile durezza, perché ormai l’ira verso
il vescovo, accostato in maniera significativa a Dio e a Cristo, non avrebbe permesso loro di
seguire una strada diversa193 . Vengono quindi ricordate le parole che determinarono la
conversione di Saulo sulla via di Damasco, subito commentate: andare contro Dio costringe a
vivere nelle tenebre e a subire un giogo non sopportabile (Act 26, 14: Σκληρόν σοι ... πρὸς
κέντρα λακτίζειν). In filigrana, si può leggere l’immagine evangelica del giogo dolce e del
carico leggero (Matth 11, 30). In una simile dinamica infine, anche se non viene qui
esplicitamente nominata, è evidentemente chiamata in causa la προαίρεσις, intesa come scelta
del singolo (εἴτε ἀπὸ σαυτοῦ τὸν θεὸν ἀφῆκας: AdvC 327, 19).
Il ragionamento prosegue motivando l’accenno precedente secondo cui ribellarsi al
vescovo è ribellarsi a Dio stesso e a Cristo: attraverso Pietro sono state consegnate ai vescovi
le chiavi del regno e la facoltà di sciogliere e legare sulla terra come nel cielo. Una simile
mediazione non può essere elusa; che questo però non fosse pacificamente accettato nella
comunità dei credenti, lo dimostra la breve premessa fatta dal Nisseno al passo, dove il
192
Cf. AdvC 327, 11-13: κἂν τῆς ἐκκλησίας ἀπο κλεισθῇ, καταφρονεῖ τῆς εὐχῆς, ἀπροσποιήτως τοῦ λαοῦ καὶ
τῶν µυστηρίων ἀποτεµνόµενος.
193 Cf. AdvC 327, 14-16: τυχὸν οὐδὲ ὑποβληθεὶς ταύτῃ τῇ τιµωρίᾳ, ἑαυτὸν τῆς ἐκκλησίας ἀπάγει, διὰ τὴν ὀργὴν
τὴν πρὸς τὸν ἐπίσκοπον, καὶ τὸν θεὸν καὶ δεσπότην ἀποστρεφόµενος.
276
teologo richiama la veridicità delle affermazioni del Vangelo e la previdente disposizione di
Cristo, che non può avere esiti negativi 194.
Segue quindi il ricordo del castigo cui saranno destinati coloro che non si comporteranno
conformemente a quanto è stato loro indicato. Una simile anima è avvicinata all’immagine di
un carcerato appena uscito dalla prigione, sudicio e dalla barba irsuta. L’idea della prigionia
richiama indirettamente quella delle catene, dei vincoli di cui si era fatta menzione appena
sopra nel ricordare la prerogativa dei vescovi di sciogliere e legare; i particolari della figura
invece la avvicinano piuttosto a quella di una fiera, quasi Gregorio volesse far inferire al
lettore che allontanarsi dalla luce di Dio, che si riverbera nella Chiesa e nella parola dei
vescovi, porterebbe l’anima a perdere la sua specificità di λόγος, diventando in tutto simile a
quella di un animale.
Il brano successivo esorta quindi con la citazione di Ps 31, 19 a non essere recalcitanti
come il cavallo e il mulo, che si piegano solo con la briglia e il morso. Sembra esplicito il
richiamo all’inizio del trattato, dove si sottolinea come una prerogativa del λόγος è l’aver
asservito ai propri bisogni questi animali. Attraverso questo rimando si recupera anche
l’immagine del giogo, identificata con gli insegnamenti, cui bisogna cedere (εἶξον ὡς ζυγῷ
τοῖς προστάγµασι: AdvC 328, 22): proprio questo cedere e piegarsi infatti rende diritti, come
insegna (διδάσκει: AdvC 328, 23) la prova che ciascuno può condurre rispetto alle spighe di
grano. Dal punto di vista sintattico una simile disposizione d’animo è espressa dalla forma
passiva del participio περιαχθείς; la stessa idea si ritrova sorprendentemente anche nella
caratterizzazione della mano del cavaliere, quasi a sottolineare che la mano che guida è
guidata essa stessa195.
Di fronte a un rimprovero una disposizione d’animo corretta è descritta da Gregorio
attraverso le parole di Ps 118, 71196 e di Prov 3, 12, attraverso anche la mediazione di Paolo in
Hebr 12, 6197 . Il verbo della seconda citazione biblica è significativamente παιδεύειν: secondo
il testo biblico e Paolo (e di conseguenza anche secondo il Nisseno) un aspetto centrale
dell’educazione è la correzione di uno sbaglio, cui però deve accompagnarsi una cosciente
accettazione da parte di chi viene educato della correzione stessa (ἀγαθόν µοι). Questa
correzione tuttavia non implica necessariamente la condanna ad un dolore198 : se questo era ed
194
Cf. AdvC 327, 23-24.
Cf. AdvC 328, 19-329, 2: τὸν σκληρὸν ὁ ψαλµὸς ἁπαλύνων ταῦτά φησι, καὶ οἷον ἐλαίῳ ἐκµαλάσσων ταῖς
παραινέσεσι. Κάµψον οὖν τὸν αὐχένα, εἶξον ὡς ζυγῷ τοῖς προστάγµασι· τὸ σκληρὸν ἀποῤῥήγνυται, τὸ εἶκον καὶ
καµπτόµενον ὀρθοῦται· καὶ διδάσκει σε τοῦτο ἡ ἐπὶ τοῖς φυτοῖς πεῖρα. Μὴ τὸν χαλινὸν ἐνδακὼν ὁρµήσῃς ἐπὶ
τὸν κρηµνὸν, ἢ τὸ βάραθρον, ἀλλὰ περιαχθεὶς τὸν αὐχένα τῇ χειρὶ τοῦ ἀναβάτου, ἐπὶ τὴν σώζουσαν ὁδὸν
κατευθύνθητι.
196 Il testo suona: ἀγαθόν µοι ὅτι ἐταπείνωσάς µε, ὅπως ἂν µάθω τὰ δικαιώµατά σου.
197 Hebr 12, 6: ὃν γὰρ ἀγαπᾷ κύριος παιδεύει, µαστιγοῖ δὲ πάντα υἱὸν ὃν παραδέχεται.
198 Il più delle volte la correzione implica solo una contrizione, piuttosto che un dolore fisico: cf. infatti AdvC
329, 24-330, 1: διὰ τοῦτο ταῖς ἐλευθερίοις ἐπιτιµήσεσι λυποῦµέν σε πληµµελοῦντα, οὐ σῶµα ξαίνοντες, ἀλλὰ
ψυχὴν ἀνιῶντες.
277
195
è ancora vero nella legge mosaica, la vita secondo il Vangelo conosce non solo la verga, ma
anche la misericordia199. La differenza è dettata da un fattore ontologico proprio dell’essere
cristiano: chi ha sbagliato non è più infatti servo, come nella legge antica, ma libero, figlio, e
come tale non può essere battuto, ma corretto200 ; la differenza, sottolineata già da Paolo (Gal
4, 7), è cara a Gregorio e sottolineata ancora in seguito dalla contrapposizione tra le mogli di
Abramo, Sara e Agar (il riferimento è ancora Paolo, Gal 4, 22-31).
Il discorso educativo, che è subito accostato alla proposta di un cammino verso la virtù, è
detto essere tra i più difficili, poiché richiede un variegato e accorto utilizzo del proprio
sapere: esso deve adattarsi, chiosa il Nisseno con sottile attenzione psicologica, a quei
comportamenti che, diversi in ciascuno, ne costituiscono il fondamento dell’agire201. Proprio a
questo atteggiamento “originale” sembrano riferirsi gli aggettivi successivi: l’educando può
infatti presentarsi εὐπειθὴς καὶ τὴν γνώµην εὐάγωγος (AdvC 330, 5-6) o σκληρὸς καὶ
ἀνάγωγος (AdvC 330, 7). Un buono o un cattivo porsi di fronte al διδασκαλικὸς λόγος è
dunque misurato dalla disponibilità ad essere guidati (εὐἀγωγος, άνἀγωγος); proprio in questa
ἀγωγή, che ricorda anche il movimento della sequela, si risolve dunque nei fatti per il Nisseno
la dinamica educativa.
Nella parte finale del trattato Gregorio riprende l’invettiva verso chi ha deciso di non
accettare su di sé i rimproveri del suo vescovo e tenta di andargli contro biasimandolo
ingiustamente. Il Nisseno riprende qui in maniera esplicita il parallelismo tra il vescovo e
Cristo stesso: come Gesù fu portato a giudizio per una colpa che non aveva commesso, così
Gregorio202 è condotto davanti a chi, seduto in un sinedrio (καθέζῃ ... µετὰ τοῦ συνεδρίου:
AdvC 330, 20-21), giudica il suo vescovo (κρίνων ἐπίσκοπον: AdvC 330, 20). Il Nisseno non è
parco di esempi della storia della salvezza in cui si è mostrata questa stessa dinamica203 :
Mosè, Isaia, Geremia, Zaccaria. Tutti questi richiami sono retoricamente evidenziati dalla
ripetizione anaforica di οὐ, che qui introduce una domanda retorica emotivamente partecipata.
In particolare, l’esempio veterotestamentario di Mosè (il più esteso) aiuta il Nisseno a
sottolineare come la resistenza all’educazione non sia propria solo del popolo, ma anche di
coloro che dovrebbero aiutare il vescovo in questo compito: una responsabilità particolare su
una comunità (προστασία λαοῦ: AdvC 331, 18) e un’attenzione particolare all’ambito
dell’insegnamento (τὸ διδασκαλικὸν ἐπιτήδευµα: AdvC 331, 19) possono infatti facilmente far
199
Cf. AdvC 329, 16-20: τῷ µὲν Μωσαϊκῷ νόµῳ αἱ τέσσαρες δεκάδες µέχρι νῦν αἱ νοµικαὶ τῶν πληγῶν
παραµένουσιν, οὐ τῷ εὐαγγελικῷ δὲ βίῳ· ἐπειδὴ πάντων ὁ λόγος ἐστὶ, καὶ ἔλεος, καὶ ῥάβδος, καὶ παράκλησις,
καὶ πληγή.
200 Cf. AdvC 329, 20-21: οὐ γὰρ τύπτοµέν σε ὡς οἰκέτην, ἀλλὰ παιδεύοµέν σε ὡς ἐλεύθερον.
201 Cf. AdvC 330, 1-5: πῶς σε παιδεύσοµεν; δυσµεταχείριστός ἐστιν ὁ διδασκαλικὸς λόγος, καὶ ἡ ἀγωγὴ τῆς
ἀρετῆς, καὶ ποικίλην ἐπιζητεῖ τὴν τῆς ἐπιστασίας οἰκονοµίαν, τοῖς ὑποκειµένοις ἤθεσιν ἑαυτὴν προσαρµόζουσα.
202 In AdvC 330, 16-332, 17 le occorrenze del pronome personale di prima persona singolare (µου, ἐµοῦ, ἐγώ)
sono molte in queste righe, a sottolineare il forte coinvolgimento dell’autore.
203 Cf. AdvC 331, 2-3: µε τοῦτο µετὰ τῶν ἔξωθεν πραγµάτων ἱκανῶς καὶ ἡ ἐκκλησιαστικὴ ἱστορία διδάσκει.
278
cadere nella tentazione del disaccordo (εὐπρόσκρουστον: AdvC 331, 18) con la propria
autorità, così come gli stessi Aronne e Maria nei confronti di Mosè: in questo caso neppure i
legami naturali più stringenti riuscirono a preservare le due guide del popolo dall’errore. A
fronte della comunque rigida condanna di un simile atteggiamento, Gregorio mostra di
comprendere una simile dinamica umana riconoscendo più volte nel testo la difficoltà e la
gravezza che un’autorità impone a chi le è sottoposto (in questo caso espressa con le parole τὸ
φορτικὸν τῆς ἀρχῆς: AdvC 331, 21). Dall’altra parte, il vescovo biasimato evidenzia il carico
di sofferenze (Mosè è descritto come πολυµόχθῳ ἀνδρὶ: AdvC 331, 23) che deve sopportare
un uomo investito di una tale autorità. La profonda e sentita partecipazione dell’autore alle
vicende è evidente; la vicenda umana del pastore è subito inserita e riletta in un orizzonte più
ampio, quello della storia della Chiesa, che inserisce il vescovo in una più che autorevole
compagnia: Cristo stesso fu posto in croce per l’odio di coloro che avevano ricevuto il suo
insegnamento (περὶ τῶν παιδευοµένων µισηθεὶς: AdvC 332, 7-8); attraverso una domanda,
che vuole suscitare un forte coinvolgimento emotivo nel destinatario, è quindi ricordato il
martirio di Paolo e quello di Pietro in ottemperanza al loro ministero di educazione. Gregorio,
neanche in modo troppo velato, si pone sulla stessa linea di di queste grandi figure legittimato
sia dal risentimento che alcuni provano contro di lui, sia nel desiderio di distogliere
dall’errore e di educare alla giustizia: si ritrova qui ancora il verbo παιδεύειν (AdvC 332, 11),
in questo caso usato non nella sua accezione coercitiva, bensì in quella propositiva: non si
parla qui di correzione (appena ricordata nel verbo precedente), ma di far vedere una modalità
di vita più conforme all’uomo.
Il testo si conclude quindi quasi in sordina: Gregorio riconosce infatti che, pur avendo
sofferto nello spirito, nulla gli è toccato nella carne; perché dunque lui, che è vicario di Cristo,
posto sulla croce, dovrebbe brontolare? Sempre infatti, avverte, gli amici della verità e i
maestri sono stati nemici di coloro che non hanno adempiuto al loro ruolo di discepoli204.
Ricordando quindi gli affetti più cari di una persona tesa alla sua crescita, il padre e la madre,
il vescovo accoglie (δέχοµαι: AdvC 332, 16) anche coloro che gli sono avversi.
V.4
Il rapporto con la παίδευσις antica
La concezione di παίδευσις del Nisseno per come fin qui si è presentata si mostra dunque
profondamente diversa da quella classica. Prima di concludere tale disamina entrando nello
specifico dei testimoni che Gregorio indica o cui si riferisce, si vuole puntualizzare il pensiero
del vescovo di Nissa rispetto all’educazione antica.
204
Cf. AdvC 332, 12-13: ἀεὶ γὰρ ἐχθροὶ τῶν ἐλεγχοµένων µαθητῶν οἱ τῆς ἀληθείας φίλοι τε καὶ διδάσκαλοι.
279
Nelle opere che precedono l’ultima produzione del Nisseno i riferimenti all’educazione
non cristiana sono abbastanza sporadici; in essi tuttavia pare riconoscere essenzialmente una
posizione mediamente disponibile ad accogliere la cultura profana come un bene di cui
avvalersi per una educazione che fosse completa: vi sono passi tuttavia in cui si legge come
essa debba essere rigettata o, nel migliore dei casi, superata e non utilizzata. Tale posizione è
probabilmente da accostare alle reticenze che si nutrivano ancora nei confronti di tale
παίδευσις soprattutto in ambito monastico, laddove si credeva che a cultura classica portasse
all’eresia205.
Nella Vita Sanctae Macrinae206, ad esempio, il tema appare attraverso la pointe polemica,
consueta per molti Padri, nei confronti delle opere dei poeti, fondamento della παίδευσις
antica, giudicando che la rappresentazione vergognosa e sconveniente delle tragiche passioni
femminili (evidente richiamo al teatro e alla tragedia), le sconcezze della commedia e le
sventure di Ilio (richiamo ai poemi omerici) non fossero insegnamenti adatti alla fanciulla (τῇ
παιδὶ τὰ µαθήµατα: VSM 373, 20): essa poteva infatti crescere nella conoscenza di sé e della
realtà, umana e divina, solo attraverso la Sapienza di Salomone, che ella assiduamente
ricercava. L’educazione profana, sembra di poter ricavare, è foriera più che altro di
vaneggiamenti e distrazioni, quindi da evitare; solo la sequela delle parole ispirate consente di
raggiungere la vita degli angeli. Un nuovo esempio di questa nuova παίδευσις, espresso nella
stessa opera207 , è l’educazione di suo fratello Pietro da parte della sorella maggiore: attraverso
essa l’educando, non ancora uscito dalla fanciullezza, poté aspirare alla vita filosofica.
L’allontanamento (più o meno connotato emotivamente) dalle scienze profane diventa quindi
un presupposto: solo in questo modo per Pietro, confortato dal continuo sguardo alla sorella
più avanti di lui nel cammino, maestra di ogni buon apprendimento poteva diventare la natura
stessa208.
Nel De vita Gregorii Thaumaturgi209 si legge di come la filosofia greca fu per il giovane
Taumaturgo via e mezzo per la conoscenza della religione cristiana: se pure egli fu istruito
205
Scrive SIMONETTI 1984, p. 277, che «soprattutto in ambienti monastici si nutrivano ancora, al tempo di
Gregorio, molti dubbi circa la conciliabilità della pratica della religione cristiana con lo studio della filosofia
greca, e Gregorio, mentre difende la posizione conciliativa riferendosi anche all’esempio del fratello [Basilio],
non ne nasconde i rischi». Lo stesso autore ricorda, a p. 278, che «il convincimento che le eresie fossero state
provocate dall'influsso pernicioso della filosofia greca era tradizionale in ambito cristiano: basti ricordare i
Philosophoumena d’Ippolito, che sistematicamente fanno derivare le singole eresie cristiane da una specifica
filosofia greca. Origene stesso, che tanto concesse al platonismo, era convinto che un uso non avveduto della
filosofia greca avrebbe condotto all'eresia: ad Gregorium 3, SCh 148, p. 190.»
206 Cf. VSM 373, 9-22.
207 Cf. VSM 383, 14-384, 1.
208 Cf. VSM 384, 6-8: οὗτος τοίνυν τῆς περὶ τοὺς ἔξωθεν τῶν λόγων ἀσχολίας ὑπεριδών, ἱκανὴν δὲ διδάσκαλον
παντὸς ἀγαθοῦ µαθήµατος τὴν φύσιν ἔχων ἀεί τε πρὸς τὴν ἀδελφὴν βλέπων κτλ.
209 Cf. VG 9, 8-10, 13.
280
(διδαχθείς: VG 9, 20) dagli stessi principi (δογµάτων: VG 9, 20) elaborati dai filosofi greci, la
tensione alla verità (τὴν τῶν ὄντων ἀλήθειαν: VG 9, 19) che essi suscitano gli mostrano
l’ultima inconsistenza di quella dottrina. La verità ultima infatti non può che risiedere in Dio;
a questo livello tuttavia la filosofia antica non si accordava, ma divergeva in modo
significativo. L’annuncio evangelico, annunciato a tutti nel modo più semplice, intellegibile
da tutti, ha motivi di credibilità proprio perché istruisce su qualcosa che va al di là dell’umana
comprensione. La filosofia antica, afferma il Nisseno ammette la realtà di ciò che riesce a
comprendere; poiché tuttavia la natura divina non può essere afferrata dall’intelletto umano,
alla ragione deve subentrare la πίστις, che travalica ciò che il λόγος può raggiungere e la sua
possibilità di afferrare la realtà210.
Gregorio infine non disdegna di riferirsi a elementi dell’educazione profana, se questi
possono costituire valide esemplificazioni di ciò che sta trattando. È questo il motivo per cui
cita, ad esempio, alcune favole di Esopo. Nell’Ad Eustatium, ad esempio, Gregorio cita il
µῦθος211 nel quale si racconta di come un lupo giunto ad un fiume cercò in tutti i modi di
accusare un agnello per poi divorarlo; il Nisseno attraverso questo racconto rilegge la
condizione che viveva in quel periodo, nel quale molti cercavano qualsiasi pretesto per
accusarlo ingiustamente. Nell’Oratio catechetica magna212 invece il vescovo ricorda l’ἔξωθεν
µῦθος (OC 56, 16) che racconta di come una cagna che trasportava della carne in bocca,
giungendo ad un fiume fu ingannata dal proprio riflesso e credette di vedere un altro animale
che trasportava un pezzo di carne più grosso, di modo tale che aprì le fauci e perse il suo
pasto213: tale favola è utilizzata dal vescovo per esemplificare come il tentatore riuscì a irretire
l’uomo, che per natura muove la sua libera scelta verso un bene, mostrandogli immagini
ingannevoli di ciò che lo avrebbe soddisfatto e che invece gli fece perdere ciò che aveva di
più prezioso, vale a dire il rapporto con Dio.
Una simile concezione è tuttavia mitigata dalla grande attrazione che la cultura antica
esercitava sul Nisseno. In un contesto forse più libero che non un trattato ascetico o l’encomio
di un santo, vale a dire nell’omelia In diem luminum214 , Gregorio si riferisce ad un
insegnamento che non richiami luoghi della Sacra Scrittura, ma conquiste della filosofia e ciò
che l’intelletto umano può apprendere con le sue forze, cioè la composizione del cosmo a
210
Cf. VG 10, 5-7: εἰ γὰρ τοιοῦτον ἦν τὸ λεγόµενον, ὡς τῇ τῶν ἀνθρωπίνων λογισµῶν δυνάµει
καταλαµβάνεσθαι, οὐδὲν ἂν τῆς Ἑλληνικῆς σοφίας διήνεγκε (κἀκεῖνοι γὰρ, ὅπερ ἂν καταλαβεῖν ἐξισχύ σωσιν,
ἐκεῖνο καὶ εἶναι δοξάζουσιν), ἐπεὶ δὲ ἀνεπίβατός ἐστι λογισµοῖς ἀνθρωπίνοις τῆς ὑπερκειµένης φύσεως ἡ
κατάληψις, τούτου χάριν ἡ πίστις ἀντὶ τῶν λογισµῶν γίνεται, τοῖς ὑπὲρ λόγον τε καὶ κατάληψιν ἑαυτὴν
ἐπεκτείνουσα.
211 Cf. A. Hausrath, H. Hunger, Corpus fabularum Aesopicarum, vol. 1.1 , Leipzig 1970, Fab. 160.
212 Cf. OC 56, 6-24.
213 Cf. A. Hausrath, H. Hunger, Corpus fabularum Aesopicarum, vol. 1.1 , Leipzig 1970, Fab. 136.
214 Cf. IDL 228, 4-12.
281
partire da quattro στοιχεῖα, come un ammaestramento dei padri (οἱ πατέρες ἐδίδαξαν: IDL
228, 8).
Nell’Adversus Arium et Sabellium 215 inoltre coloro che non sono educati alla religione
cristiana ma, in quanto seguaci delle dottrine filosofiche, comprendono parti della verità su
Dio sono chiamati φιλοσόφων παῖδες (AdvAS 81, 24), a rimarcare la profonda concezione
educativa della filosofia antica che Gregorio non nega, essendo essa una possibilità di
avvicinamento alla verità completa che si mostra nel cristianesimo.
La posizione di Gregorio si precisa nell’ottica di un sempre più spiccato riferirsi alla bontà
della παίδευσις antica nelle opere che seguono la polemica apollinarista. In incipit del trattato
Ad Theophilum 216, ad esempio, Gregorio ricorda come la città di Alessandria, cui presiede il
patriarca Teofilo, destinatario dello scritto, sia stata ricca della sapienza del mondo; sin dai
tempi antichi ad essa si aggiunse tuttavia anche la vera sapienza, che zampillò nella verità. In
questo passo le due visioni del mondo non sembrano più in contrasto, bensì la seconda nasce
come grazia nell’alveo della prima. Questa posizione sembra suffragata nel De infantibus
praemature abreptis 217:, laddove il Nisseno riconosce come ogni educazione, senza
distinguere se classica e cristiana, sia una strada privilegiata per scoprire la bellezza della vita
terrena. Il Nisseno infatti, dopo aver affermato come la vita pur brevissima degli infanti morti
prematuramente può essere accolta in Paradiso, in quanto essi non hanno avuto la possibilità
di essere corrotti dal vizio e si sono presentati alla divinità esenti da ogni esperienza di male,
non pone sullo stesso grado la loro vita e quella di chi ha combattuto e vinto sulla strada delle
virtù. Quest’ultimo infatti ha goduto delle bellezze del creato ed è stato da esse introdotto
(ὡδηγήθη: DIP 85, 13) alla conoscenza del loro Signore, secondo Ps 18, 2; la sapienza
(σοφίᾳ: DIP 85, 15) riposta negli esseri, di cui partecipò anche la cultura profana, è per lui
valsa come maestra della sapienza dell’essere (διδασκάλῳ τῆς ὄντως σοφίας: DIP 85, 14); la
luce terrena lo ha condotto per via di analogia (ἀναλογικῶς: DIP 85, 16) alla conoscenza della
luce eterna; la saldezza della terra lo ha educato (ἐπαιδεύθη: DIP 85, 18) a considerare
l’immutabilità del suo artefice; infine l’immensa grandezza del cielo lo ha condotto
(ὡδηγήθη: DIP 85, 20) all’infinita potenza. Tale insistito richiamo al lessico dell’educazione
continua quindi, dopo una digressione sul simbolo del sole e sulle bellezze della terra,
affermando che di fronte a tali meraviglie la ragione (λόγῳ: DIP 86, 12) di coloro che si
occupano delle cose divine (θεολογοῦσιν: DIP 86, 12) è messa di fronte all’insegnamento
215
Cf. AdvAS 81, 21-25.
Cf. AdT 119, 1-3: οὐ µόνης ἐστὶ τῆς κοσµικῆς σοφίας εὔπορος ἡ µεγάλη τῶν Ἀλεξανδρέων πόλις, ἀλλὰ καὶ
τῆς ἀληθινῆς [τῆς ὄντως] σοφίας παρ' ὑµῖν ἐξ ἀρχαίου βρύουσιν αἱ πηγαί.
217 Cf. DIP 85, 7-87, 15.
282
216
dell’essere (ἡ διδασκαλία τοῦ ὄντος: DIP 86, 13). Il discorso verte quindi sulle discipline
attraverso cui il pensiero dell’uomo viene condotto (ὁδηγεῖται: DIP 86, 15) verso la virtù;
sono citate significativamente la geometria, l’astronomia, la matematica, che consente di
giungere ad una conoscenza della verità attraverso i numeri, ogni ricerca, insomma, anche
profana, che manifesti un progresso nella conoscenza o miri a confermare ciò che si era già
trovato. Vera educatrice ai misteri (τὰ θεῖα πεπαιδευµένοις µυστήρια: DIP 86, 20-21) rimane
comunque la filosofia della Sacra Scrittura, che porta alla purificazione. Sono queste le guide
che conducono quasi per mano (χειραγωγηθείς: DIP 86, 22) gli uomini alla scoperta della
divinità; solo coloro che vivono senza esercitare pienamente la loro διάνοια non hanno colto
l’occasione di rendere la propria vita più beata, manifestando la verità dell’insegnamento
(ἐδιδάχθηµεν: DIP 87, 8) nascosto nelle parole di Cristo a Giuda (cf. Marc 14, 21).
Il confronto più esteso che Gregorio opera nei confronti della cultura e dell’educazione
profana è riscontrabile nel De vita Moysis. Tale opera permette al Nisseno di confrontarsi
nuovamente con la παιδεία antica e di esplicitare come essa possa essere profondamente utile
alla formazione del credente, pur nella consolidata certezza di una superiorità da parte
dell’educazione cristiana.
La nuova importanza che Gregorio attribuisce alla παίδευσις risalta evidente sin dall’inizio
della sezione dell’opera dedicata all’interpretazione spirituale218 , laddove il Nisseno
commenta il passo dell’Esodo che racconta della nascita di Mosè e il suo salvataggio dalle
acque del fiume in una cesta di vimini: tale misura era necessaria al salvataggio dell’infante,
perché il Faraone aveva ordinato che tutti i bambini maschi del popolo di Israele fossero
uccisi. L’esegeta identifica nel sovrano egiziano l’avversario dell’uomo, il demonio, e vede
nella contrapposizione maschio/femmina i due poli che nella vita dello spirito sono
rappresentati dalla virtù e dal vizio219; l’anima, che per sua scelta può nascere ogni momento
alla virtù, deve essere tuttavia allevata, nutrita e salvata dalle acque correnti, immagine per il
Nisseno dei flutti contrastanti delle passioni. I genitori del nuovo nato alla virtù si identificano
con i saggi e retti pensieri (οἱ δὲ σώφρωνές τε καὶ προνοητικοὶ λογισµοί: VM II 7, 1), indice
dell’importanza che Gregorio attribuisce alla facoltà che distingue l’essere umano, il
218
219
Cf. VM II 6-9.
Cf. VM II 1-5.
283
λογισµός, in rapporto al compimento cui è chiamato220. Questi ragionamenti dunque devono
munire l’anima di qualcosa che lo conduca al sicuro: la cassetta, intrecciata da molti vimini,
diventa quindi figura dell’educazione che si fonda negli insegnamenti variegati (ἡ ἐκ
ποικίλων µαθηµάτων πηγνυµένη παίδευσις: VM II 7, 6) affidati all’uomo durante la sua vita;
essi, come si capirà in seguito, sono certamente gli insegnamenti della Scrittura ma si
riferiscono anche alle conquiste della παίδευσις antica221. Compito principale dell’educazione
dunque è sostenere nei marosi della vita fino al punto in cui, ormai giunta alla terraferma, vale
a dire alla pienezza delle sue speranze, l’anima non sarà sospinta spontaneamente dal
movimento stesso delle acque ad un porto sicuro. Un simile discorso tuttavia non deve essere
travisato: l’educazione richiede la partecipazione attiva della προαίρεσις dell’educando, in
qualsiasi momento della sua vita. Nella figura del racconto biblico, complice anche l’età del
protagonista, questa iniziativa personale è riassunta, quasi in sordina, attraverso l’immagine
del pianto: imitando (µιµείσθω: VM II, 9, 6) Mosè, ciascun uomo, infante nell’età spirituale, è
invitato a versare lacrime, cioè ad affidarsi alla preghiera. Le lacrime e il pianto sono
richiamati non a caso dopo la descrizione delle tribolazioni dell’uomo, pure non ingannato dal
nemico, ma affannato nel commercio con la realtà: il movimento continuo del mondo infatti
tende ad allontanare l’uomo da se stesso, portandolo quasi a ritenere molesti coloro che si
affidano alle virtù222. Anche se l’educazione ricevuta continua ad essere sicura protezione
dagli inganni dei flutti occorre dunque impetrare la grazia, che sola può condurre in salvo da
tutte le forze che altrimenti impedirebbero all’uomo di arrivare alla propria meta: le lacrime
diventano così una efficace sentinella per coloro che desiderano essere salvati.
Il Nisseno interpreta la figura di Mosè come typos del cristiano che matura nell’età
spirituale; nei primi capitoli223, ad esempio, si legge come il fanciullo, salvato dalle acque,
fosse allevato presso il re e educato nelle scienze profane. Tale rilievo non è presente nel testo
220
La παίδευσις è affiancata agli altri strumenti che indirizzano l’uomo al compimento in CF 39, 14-40, 2; cf. in
part. CF 39, 21-40, 2: … ἀλλὰ πάσης βουλῆς καὶ τῆς ἐκ τῶν λογισµῶν προµηθείας παιδεύσεώς τε καὶ ἐπιµελείας
καὶ τῶν κατ' ἀρετὴν ἐπι τηδευµάτων καθάπερ τινὰ τύραννον ἢ δεσπότην τὸ ἄψυχόν τε καὶ ἀπροαίρετον, ἄστατόν
τε καὶ παροδικὸν καὶ ἀµερὲς καὶ ἀνυπόστατον ἐπιστήσας τῷ λόγῳ; In questo testo il Nisseno obietta alla
concezione del suo interlocutore, che vede nel movimento degli astri l’unica forza che determina la vita
dell’uomo, notando come sia difficile che qualcosa di inanimato e privo di volontà domini sull’uomo, che ha
dalla sua la propria volontà, la capacità raziocinante e progettuale, una educazione che lo ha formato e i propri
interessi e virtù, che nell’esperienza guidano la sua condotta.
221 Cf. anche Berta 1993, p. 65, dove si legge che la lettura di Gregorio è peculiare, in quanto si discosta
nettamente sia da Origene (Orig. Hom. In Exod. 2,4), che aveva interpretato Mosè come simbolo della legge
giudaica e l’arca come l’esegesi materiale e letterale che ne avevano dato i giudei, sia da Filone, che si era
richiamato all’arca di Noè, leggendola come simbolo del corpo in cui albergano le passioni.
222 Cf. VM II 9, 1-5: ὃ δὴ καὶ τῇ πείρᾳ µανθάνοµεν, ὅτι τοὺς µὴ βαπτιζοµένους ταῖς ἀνθρωπίναις ἀπάταις αὐτῶν
τῶν πραγµάτων ἡ ἄστατός τε καὶ πεφορηµένη κίνησις ἀφ' ἑαυτῆς ἀπωθεῖται, ὥσπερ τι βάρος µάταιον τοὺς διὰ
τῆς ἀρετῆς ἐνοχλοῦντας λογιζοµένη.
223 Cf. VM I 18, 1-7: ἐκβὰς δὲ ἤδη τὴν ἡλικίαν τῶν παίδων, ἐν βασιλικῇ τῇ τροφῇ καὶ παιδευθεὶς τὴν ἔξωθεν
παίδευσιν, ἃ δόξης ἐνοµίζετο παρὰ τοῖς ἔξωθεν οὐχ ἑλέσθαι οὐδ' ἔτι καταδέξασθαι τὴν σεσοφισµένην ἐκείνην
ὁµολογεῖν µητέρα ᾗπερ εἰς υἱοῦ τάξιν εἰσεποιήθη, ἀλλ' ἐπὶ τὴν κατὰ φύσιν ἐπανελθεῖν πάλιν καὶ τοῖς ὁµοφύλοις
ἐγκαταµιχθῆναι.
284
sacro, che anzi fin da subito ricorda come il bambino, riconosciuto come ebreo, fu affidato a
sua madre per essere allattato: con ogni probabilità l’Esodo voleva evitare di sottolineare
troppo l’elemento egiziano presente nell’educazione del suo legislatore, preferendo suggerire
invece come il rapporto del bambino con il suo popolo originario non fosse del tutto assente,
per evitare forse una possibile ombra sull’infanzia di Mosè che sarebbe potuta nascere da tale
mancanza. Tale rilievo è invece riscontrabile nel discorso di Stefano di Act 7, 22 ed è materia
di discussione in Filone224 e Origene225; Gregorio, sempre attento nelle sue opere alla tematica
della προαίρεσις, decide di presentare il futuro maestro d’Israele attraverso la sua scelta
consapevole di ripudiare la precedente educazione per tornare alla vera madre.
Nella sezione dedicata al commento di questo passo226 il Nisseno interpreta quindi la figura
della figlia del Faraone come immagine della cultura e dell’educazione antica. Aggiungendo
un particolare non menzionato dal testo sacro227 , Gregorio qualifica questa donna come
ἄγονός e στεῖρα (VM II 10, 1), sterile. Tale è anche, per il Cappadoce, la ἔξωθεν παίδευσις
(VM II 11, 1-2), sempre pregna, ma mai generatrice di vita per colui che porta nel seno (ἀεὶ
ὠδίνουσα καὶ µηδέποτε ζωογονοῦσα τῷ τοκετῷ: VM II 11, 2): la vera generazione è infatti la
nascita alla fede e alla conoscenza di Dio, cui la conoscenza profana, pur dopo le lunghe
doglie che accompagnano il suo progredire, non può raggiungere con i suoi soli mezzi228 . Chi
rimane abbarbicato in essa, conclude l’esegeta, non può dunque compiere il suo τέλος di
uomo. È possibile per questo vivere con la regina degli egiziani, nei recessi quindi della sola
educazione profana, fintanto che non ci si accorga dell’imperfezione della propria età (τὸ
ἀτελὲς τῆς ἡλικίας: VM II 10, 5), vale a dire solo fino al raggiungimento di quella condizione
che consenta alla creatura di cominciare un progresso nella virtù; in seguito si riterrà motivo
di vergogna essere considerati figli di una donna sterile. L’uomo dovrà dunque cogliere tutti i
beni che l’educazione pagana può offrire, per non sembrare di esserne privo, ma poi dovrà
tornare alla madre naturale, la Chiesa. L’esegeta, leggendo l’immagine della vera madre di
Mosè che allatta il bambino anche quando questi si trova adottato dalla figlia del Faraone,
giunge quindi a sottolineare come nemmeno durante gli studi condotti sotto l’egida
dell’educazione antica un cristiano sia abbandonato a se stesso, non nutrito dalla Chiesa,
sempre che la sua libertà lo porti a questo: in ogni momento della vita infatti la comunità dei
credenti offre a chi cresce nella fede il suo latte, vale a dire i precetti e le pratiche che offrono
224
Cf. Philo De vita Mosis I 21-4, dove l’autore riprende e sviluppa la tradizione giudaica «nel senso che Mosè
sarebbe stato istruito da maestri sia egiziani sia greci, con minuziosa descrizione della disciplina della enkýklios
paideia, espressamente ricordata a I 23» (SIMONETTI 1984, p. 268).
225 Cf. Orig Cels III 46.
226 Cf. VM II 10-13.
227 Cf. Cap. II.4.1.
228 «L’immagine della donna, ch’è incinta ma non partorisce mai, è di Filone, che l’adopera però in altro contesto
e la riferisce alla stoltezza: Legum allegoriae I 75-6» (SIMONETTI 1984, p. 276).
285
un impulso per l’ascesa, facendo così maturare l’anima del credente229. Solo l’attaccamento
alla vera madre può permettere un fecondo approccio e un’intima familiarità con la scienza
profana nel tempo prezioso dell’educazione230.
Gregorio dunque non nega che entrambe le visioni del mondo possano essere preziose per
la crescita dell’uomo, ma non cessa neppure di sottolineare la profonda differenza che
intercorre tra esse e l’irriducibilità dell’una all’altra: non appena concluso l’accenno ad un
possibile commercio tra il futuro cristiano e l’educazione antica, il Cappadoce non manca
infatti di ricordare231 che chi guardi al contempo le dottrine straniere e quelle patrie (ὁ πρὸς τὰ
ἔξωθεν δόγµατα καὶ τὰ πάτρια βλέπων: VM II 13, 2-3), vale a dire quelle della vera dimora
del cristiano, cioè il cielo, si troverà però chiuso tra due nemici. Per quanto riguarda
innanzitutto il culto, l’educazione profana si oppone dunque fortemente a quella ebraica; essa,
nota il Nisseno, risulta tanto più pericolosa quanto più appare forte agli occhi dei più deboli,
foriera di un valore maggiore che appare mostrare quella cristiana. Questo, continua il
Cappadoce, avrebbe già portato molti tra i più superficiali ad abbandonare la propria religione
per passare alla filosofia pagana, tradendo così l’insegnamento dei padri. A detta di Gregorio
occorre quindi seguire l’esempio di Mosè, cioè seguire l’ascesa per le virtù, e mostrare così
l’anima morta della dottrina che va contro la retta fede, abbandonando, una volta resi più
perfetti dalla condotta di vita, i criteri che essa aveva trasmesso.
Se però la necessità costringesse a frequentare nuovamente la saggezza profana dopo
l’abbandono dovuto all’età ormai matura dello spirito, Gregorio invita i suoi interlocutori a
prendere nuovamente esempio da Mosè, proponendo una interpretazione spirituale di Exod 2,
15-22232: in questo passo il futuro legislatore, fuggito dall’Egitto per un assassinio, si rifugiò
nel paese di Madian e vi si stabilì dopo aver cacciato dei pastori che andavano molestando le
figlie del sacerdote lì presente e insediavano i pozzi del luogo. Questi pastori, spiega
Gregorio, rappresenterebbero i maestri di malvagità che fanno cattivo uso della cultura loro
affidata; prima di abbeverarsi ai pozzi cui sono vicini (gli insegnamenti profani) occorre
229
L'atteggiamento presentato da Gregorio nei confronti della filosofia greca in VM II 37-41, scrive SIMONETTI
1984, p. 283, «riprende la concezione di Origene (ad Gregorium l sgg., SCh 148, p. 186 sgg.), che era stata
anche di Basilio (ad iuvenes 2-3; PG XXXI 565 sgg.), secondo cui la cultura greca in generale e la filosofia in
particolare, se rettamente utilizzate, potevano costituire un'utile preparazione allo studio della sacra Scrittura».
230 Cf. VM II 12, 5-10: ὅπερ µοι δοκεῖ διδάσκειν ἵνα, εἰ τοῖς ἔξωθεν λόγοις καθοµιλοίηµεν ἐν τῷ καιρῷ τῆς
παιδεύσεως, µὴ χωρίζεσθαι τοῦ ὑποτρέφοντος ἡµᾶς τῆς Ἐκκλησίας γάλακτος. Τοῦτο δ' ἂν εἴη τὰ νόµιµά τε καὶ
τὰ ἔθη τῆς Ἐκκλησίας οἷς τρέφεται ἡ ψυχὴ καὶ ἀδρύνεται ἐντεῦθεν τῆς εἰς ὕψος ἀναδροµῆς τὰς ἀφορµὰς
ποιουµένη.
231 Cf. VM II 13: Ἀληθὴς δὲ ὁ λόγος ὅτι δύο πολεµίων µέσος γενήσεται ὁ πρὸς τὰ ἔξωθεν δόγµατα καὶ τὰ πάτρια
βλέπων. Ἀνθίσταται γὰρ ὁ κατὰ τὴν θρησκείαν ἀλλόφυλος τῷ Ἑβραίῳ λόγῳ, ἰσχυρότερος ὀφθῆναι τοῦ
Ἰσραηλιτικοῦ φιλοσοφῶν. Καὶ πολλοῖς γε τῶν ἐπιπολαιοτέρων τοιοῦτος ἔδοξεν, οἳ καταλιπόντες τὴν πατρῴαν
πίστιν τῷ ἐχθρῷ συνεµάχησαν, παραβάται τῆς πατρῴας διδασκαλίας γενόµενοι. Ὁ µέντοι κατὰ τὸν Μωϋσέα
µέγας τε καὶ γενναῖος τὴν ψυχὴν νεκρὸν ἀποδείκνυσι τῇ παρ' ἑαυτοῦ πληγῇ τὸν τῷ λόγῳ τῆς εὐσεβείας
ἀντεγειρόµενον.
232 Cf. VM II 17-18.
286
dunque cacciarli, cioè confutarli233 nella loro dottrina velenosa. In questo modo sarà possibile
vivere solitari, cioè in compagnia di quegli autori che sono simili nei sentimenti e nei pensieri
al proprio intimo. Condizione di una feconda convivenza con la cultura profana non è dunque
una coatta assimilazione di questa (che anzi ne costituirebbe un irreparabile livellamento),
bensì la consapevole (o meno) sottomissione degli impulsi dell’anima alla superiore volontà
del λόγος, la facoltà umana donata da Dio e che, se usata correttamente nelle sue potenzialità,
non può che condurre a lui234.
Il confronto con l’educazione straniera continua nell’esegesi di un racconto di poco
successivo235, che consente al Nisseno di modificare la posizione che aveva prima esposto: in
esso Mosè, dopo aver ricevuto l’illuminazione e il compito da parte di Dio, si muove per
tornare in Egitto con la moglie e i figli avuti da lei; durante la notte un angelo precipitò
addosso al legislatore un timore mortale, che fu però scacciato dal gesto della moglie, la quale
circoncise il figlio primogenito offrendolo in questo modo al Signore. Commentando il testo,
l’esegeta non esita a dichiarare che la cultura classica presenta innegabilmente degli aspetti
positivi ai fini di generare la virtù, tanto che non bisogna rifiutare di unirsi ad essi; non a caso
la figura scelta ora come immagine dell’educazione profana (τῆς ἔξω παιδεύσεως: VM II 37,
2) è quella della moglie del legislatore236. A detta del Nisseno si presentano utili al cammino
della virtù la filosofia morale e quella della natura (ἡ ἠθική τε καὶ φυσικὴ φιλοσοφία: VM II
37, 3-4), sempre che i loro parti non presentino contaminazioni straniere: Gregorio a tal
proposito spiega la circoncisione del primogenito di Mosè come la necessità a fronte alla
presenza di Dio di eliminare ciò che sarebbe dannoso perché segno da cui si riconoscerebbe la
non appartenenza al popolo eletto. Secondo Gregorio infatti c’è qualcosa di carnale e di non
circonciso (σαρκῶδές τε καὶ ἀκρόβυστον: VM II 39, 5) nelle dottrine elaborate dalla filosofia,
che deve essere tolto perché il pensiero diventi di pura razza israelitica, cioè rispecchi la verità
rivelata. Sinteticamente, si potrebbe dire che Gregorio accetta e approva, delle dottrine
filosofiche antiche (e soprattutto platoniche), solo quanto è confermato dall’insegnamento
ispirato237 . Una esemplificazione portata dallo stesso esegeta riguarda l’immortalità
233
Cf. VM II 17, 3-6: τοῦτο ἑλώµεθα τοὺς πονηροὺς ποιµένας τῆς ἀδίκου τῶν φρεάτων χρήσεως
ἀποσκεδάσαντες, ὅπερ ἐστὶ τοὺς τῶν κακῶν διδασκάλους ἐπὶ τῇ πονηρᾷ χρήσει τῆς παιδεύσεως διελέγξαντες.
234 Cf. VM II 18, 3-6: ἐν ὁµοφρονοῦσί τε καὶ ὁµογνωµοῦσι τοῖς παρ' ἡµῶν βουκολουµένοις συζή σοµεν, πάντων
τῶν ἐν ἡµῖν τῆς ψυχῆς κινηµάτων, προβάτων δίκην, τῷ βουλήµατι τοῦ ἐπιστατοῦντος λόγου ποιµαινοµένων.
235 Cf. VM II 37-41, che commenta Exod 4, 24-26.
236 Scrive SIMONETTI 1984, p. 283 che «Sefora, la moglie di Mosè, in quanto etiope (cioè, di pelle scura) fu
usualmente interpretata come simbolo della Chiesa dei gentili, cioè dei pagani che dal peccato (simboleggiato
dalla pelle scura) vengono a Cristo: Ireneo, contra haereses IV 20, I 2; Origene, Commentarium in Canticum II
114 Baehrens. Invece qui Gregorio preferisce un'altra linea interpretativa, d'ascendenza filoniana, secondo cui le
mogli straniere e le concubine dei patriarchi potevano essere viste come týpoi della cultura pagana che il
cristiano fa propria (Origene, Homiliae in Genesim l 1, 2)».
237 Cf. SIMONETTI 1984, p. 276 e p. 283-4.
287
dell’anima, dottrina già platonica238 , identificata come una acquisizione buona; il passo
successivo operato dai Greci tuttavia, vale a dire la metempsicosi, non porta frutti virtuosi per
l’uomo, inducendolo a cadere nell’errore. Altro argomento controverso nel confronto con la
filosofia precedente è per il Nisseno la concezione di Dio. In questo caso gli interlocutori
sembrano piuttosto gli Stoici: essi infatti ammettono la presenza un principio divino che
caratterizzano anche come creatore, ma lo considerano immanente al mondo e non
trascendente; il concetto poi di creazione ex nihilo è del tutto estraneo alla cultura greca.
Infine, il vescovo nota come la filosofia antica consideri buona la divinità, ma non abbia
risolto in modo soddisfacente il suo rapporto con il fato, che sin dal testo di Omero si
mostrava un punto problematico239. Rimane invece solo accennato il motivo per il quale sane
dottrine siano contaminate da errori aggiunti; a Gregorio interessa invece, con l’immagine
plastica dell’angelo che si placa ed esulta del figlio purificato240, offrire l’idea di una profonda
apertura verso il bene insito nella cultura pagana di cui si compiace Dio stesso.
In un passo successivo, il Nisseno approfondisce le differenze degli approcci alla verità in
cui si muovono la sapienza cristiana e la cultura classica. Lo spunto è offerto dall’immagine
pasquale dell’architrave bagnato dal sangue dell’agnello sacrificale241. L’architrave che rende
sicuri gli Israeliti è infatti l’anima bagnata dal sangue del vero agnello; per allontanare
l’angelo della morte, essa deve tuttavia stare di guardia grazie agli insegnamenti della Legge
mediante il λόγος. Tutto questo, nota l’esegeta, è espresso dalla parola divina attraverso
simboli, immagini; alla stessa conclusione tuttavia giunse, a detta dell’esegeta, anche la
filosofia profana, qui esemplificata dalla riflessione platonica242 : anch’essa riconosceva
nell’anima, oltre ad un principio concupiscibile ed irascibile, la facoltà razionale243 , cui
riconosce che si debba affidare il predominio. Seguendo una nuova reminiscenza platonica244,
il Nisseno ricorda come la filosofia antica abbia usato a buon diritto l’immagine della ragione
come auriga: questa infatti deve tenere le altre due parti dell’anima con delle redini, ricevendo
in cambio da entrambe una qualità (il coraggio e il desiderio della partecipazione al bene) che
rendono salda la persona; in altri casi il cocchio della vita andrebbe in rovina. Vi sono dunque
alcuni frutti dell’educazione antica di cui l’uomo può fregiarsi, in quanto utili anche
all’insegnamento divino: proseguendo infatti con il suo ragionamento, con una
238
Cf. ad es. Plato Tim. VIII, 34-37.
Cf. VON BALTHASAR 1977, pp. 63-69.
240 Cf. VM II 41, 1-5: καὶ τί ἄν τις τὰ καθ' ἕκαστον διηγοῖτο, ὅπως τὰ καλὰ τῶν δογµάτων παρὰ τῇ ἔξω
φιλοσοφίᾳ ταῖς ἀτόποις προσθήκαις καταµολύνεται· ὧν περιαιρεθέντων ἵλεως ἡµῖν ὁ τοῦ θεοῦ ἄγγελος γίνεται,
ὡς τῷ γνησίῳ τόκῳ τῶν τοιούτων δογµάτων ἐπαγαλλόµενος..
241 Cf. Exod 12, 22-23 commentato in VM II 95-99.
242 Cf. ad es. Plato Resp. 439 a-441 c
243 Cf. VM II 96, 1-3: ταῦτα περὶ ψυχῆς ἡµῖν φυσιολογοῦντος δι' αἰνιγµάτων τοῦ λόγου, καὶ ἡ ἔξωθεν παίδευσις
ἐφαντάσθη, διαιροῦσα τὴν ψυχὴν εἴς τε τὸ λογιστικὸν καὶ ἐπιθυµητικὸν καὶ θυµοειδές.
244 Cf. ad es. Plato Phaedr 246 a-249d.
288
239
sovrapposizione di immagini che indica una perfetta assunzione da parte di Gregorio di questa
conquista della filosofia antica, l’esegeta afferma che l’anima deve mantenere saldo proprio
questo ordinamento, che la conduce sulla strada delle virtù; da esso nascono pensieri che
fungono quasi da chiodi dell’architrave da bagnare con il sangue dell’agnello. Se quest’ordine
riconosciuto dagli antichi fosse sovvertito, lo sterminatore avrebbe la possibilità di penetrare
all’interno, perché verrebbe meno meno la forza repulsiva del sangue, vale a dire la stessa
fede in Cristo.
Un ulteriore riferimento al rapporto dei cristiani nei confronti della cultura profana è
istituito da Gregorio nel commentare il passo dell’Esodo che vede gli Israeliti appropriarsi
della ricchezza degli egiziani una volta ottenuto il consenso di partire da parte del Faraone245;
queste ricchezze saranno poi usate per ornare l’arca dell’Alleanza. L’esegeta legge dunque
questo episodio come l’invito da parte del legislatore a procacciarsi le ricchezze della cultura
profana, utili anch’esse alla vita libera secondo virtù. Sebbene infatti spesso gli esponenti
dell’educazione antica ostentino disprezzo verso la realtà cristiana (e qui forse non è
peregrino il ricordo della campagna culturale sfavorevole alla Chiesa promossa da Giuliano
solo pochi anni prima), questi ultimi non devono premurarsi di attingere a piene mani dalle
buone acquisizioni antiche (che il Nisseno identifica in discipline come l’etica, la fisica, la
geometria, l’astronomia, la logica246), ma anzi dopo averle fatte proprie devono renderle a
loro tempo utili per adornare con le ricchezze dell’intelletto il tempio divino del mistero247;
così fecero, come si legge nella figura della storia248 , gli Israeliti, i quali utilizzarono queste
ricchezze per adornare la tenda della testimonianza; così, ai tempi del Cappadoce, aveva fatto
Basilio, lodato per aver dedicato a Dio la cultura con la quale aveva trafficato in gioventù e
aver adornato così il tempio della Chiesa.
Nelle omelie In Canticum infine è il tema della conoscenza ad offrire al Nisseno lo spunto
per accostare la saggezza antica e la parola rivelata. Commentando Cant 1, 3, Gregorio
paragona il latte delle mammelle dello Sposo, cioè di Dio, e il vino degli uomini249 ; fuor di
metafora, si opera un confronto tra il nutrimento degli insegnamenti divini (τῶν θείων
µαθηµάτων τροφή: IC 35, 8-9) e la filosofia (quindi l’educazione) del suo tempo, ricordata
attraverso la menzione di ogni sapienza umana, la conoscenza degli enti, ogni potenza
245
Cf. Exod 12, 35-36, commentato in VM II 112-116.
Cf. VM II 115, 5-6.
247 Cf. VM II 115, 10-11: τὸν θεῖον τοῦ µυστηρίου ναὸν διὰ τοῦ λογικοῦ πλούτου καλλωπισθῆναι.
248 Cf. Exod 35, 21-29.
249 Cf. IC 35, 1-36, 11.
246
289
teoretica e ogni immaginazione comprensiva250 . Ogni sforzo conoscitivo umano, anche il più
sublime, che pur tuttavia è riconosciuto nel suo valore, secondo il vescovo non può
qualitativamente competere con la verità rivelata: anche se il vino è bevanda di adulti e il latte
degli infanti, la perfezione contenuta nella saggezza profana è inferiore all’insegnamento,
adatto ai bambini, della parola ispirata251 : la potenza di Dio infatti non è accessibile né
comprensibile per i ragionamenti umani e l’uomo non possiede nomi adeguati per descriverla,
ma può esprimersi solamente per via analogica.
Le immagini del Cantico mostrano tuttavia un continuo approfondirsi: benché ineffabile, la
conoscenza delle realtà divine si concede sempre più alla presa dell’uomo, pur rimanendo
ugualmente lontana. Le mammelle della Sposa, che ormai è progredita nel suo cammino di
perfezione, sopravanzano anch’esse in Cant 4, 10 la dolcezza del vino; l’esegeta non manca di
notare come esse ormai non stillino più latte, il nutrimento degli infanti, ma il puro frutto della
vite, fonte della letizia per cuori non più gravati da una età che non comprende (τῶν µηκέτι
ὑπὸ νηπιότητος κλυδωνιζοµένων: IC 266, 1-2), ma in grado di riempirsi al cratere della
sapienza (ἐκ τοῦ κρατῆρος τῆς σοφίας: IC 266, 2)252. Lo Sposo attribuisce quindi all’amata
qualità che prima erano state riferite a lui, e quindi a Dio stesso, segno evidente della
perfezione verso cui l’anima si dirige. Il richiamo all’inizio dell’opera, che Gregorio premura
di sottolineare253 , potrebbe però anche rendere avvertiti di altro: nel cammino cristiano la
saggezza umana, il vino, non è abbandonata per sempre a fronte del latte divino, ma viene
riguadagnata nell’approfondirsi del progresso verso Dio. Attraverso la Scrittura infatti una
ormai θεία φιλοσοφία insegna (τὸ δόγµα µανθάνειν: IC 264, 17) le scoperte cui era pervenuta
la filosofia antica. Nelle righe successive254 , ad esempio, l’esegeta nota come l’uomo avverta
il principio divino presente in lui in rapporto alla disposizione della propria προαίρεσις: una
libertà ribelle ai comandi di Dio lo avverte spaventoso e amaro, una disposizione che si
consegna ai suoi insegnamenti ne percepisce la dolcezza. Langerbeck avvicina questa
concezione, exempli gratia, a brani della filosofia platonica e scettica antica255 , che facilmente
il Nisseno poteva aver frequentato, per poi rileggerli in una concezione cristiana.
250
Cf. IC 35, 5-9: µανθάνοµεν διὰ τῶν εἰρηµένων, ὅτι πᾶσα ἀνθρωπίνη σοφία καὶ ἐπιστήµη τῶν ὄντων καὶ πᾶσα
δύναµις θεωρητικὴ καὶ καταληπτικὴ φαντασία ἀδυνάτως ἔχει παρισωθῆναι διὰ συγκρίσεως τῇ ἁπλουστέρᾳ τῶν
θείων µαθηµάτων τροφῆ. MORESCHINI p. 55 avverte che il termine καταληπτικὴ φαντασία «è di uso comune
nella filosofia stoica, ove indica l’atto del comprendere».
251 Cf. IC 35, 11-13: ἀλλ' ὅµως τὸ ἐν τῇ ἔξω σοφίᾳ τέλειον τῆς νηπιώδους τοῦ θείου λόγου διδασκαλίας ἐστὶ
µικρότερον.
252 Cf. per tutto il passo IC 263, 17-266, 3.
253 Cf. IC 264, 6-8.
254 Cf. IC 264, 18-266, 3.
255 Cf. IC p. 264 ad 18, dove il critico si richiama, oltre che al detto protagoreo πάντων χρηµάτων µέτρον
ἄνθρωπος εἴναι, a Sext Emp Pyrr. hyp. 218/9 e Sallust De deis et mundo XIV.
290
Cap. VI
VI.1 Figure esemplari
L’esortazione da sola, come si legge in incipit del De virginitate1, non riesce a muovere
realmente l’uomo, a persuaderlo e a spronarlo: occorre che questi veda prima la convenienza
del cammino che si prefigge, la nobiltà dello scopo che è invitato a perseguire. Come si legge
anzi poco oltre2 neppure gli esempi riportati dalle narrazioni (il riferimento è forse agli
episodi che il Nisseno poteva reperire nel testo sacro o nella martirologia a lui precedente)
non hanno lo stesso vigore nell’instradare alla virtù della viva voce degli uomini e di
ὑποδείγµατα viventi o conosciuti di persona: è questo il motivo per il quale, alla fine del
trattato, il Nisseno si riferirà in modo specifico a Basilio, suo vescovo e padre, il cui esempio
ha la forza di educare (παιδεύειν: DV 249, 6) alla virtù. Una simile testimonianza potrà anche
essere utile in ogni tempo e costituire un canone attraverso cui i giovani potranno cercare loro
stessi una guida tra coloro che la grazia divina avrà posto loro innanzi. In tale senso Gregorio
si pone in continuità con le biografie classiche: anch’esse, più che mirare alla presentazione
del mero fatto storico, volevano presentare modelli che per la loro grandezza esortassero a
pensieri più elevati3.
Nella concezione del Nisseno dunque l’uomo è educato, più che dalla comprensione
puramente intellettuale, dall’esempio. Sin dalla sua prima opera4 Gregorio ha invitato infatti a
guardare a ciò che insegna, attraverso gli enigmi, la storia dei grandi santi; in esse si mostra
infatti innanzitutto foriera di compimento la tensione al bene proposta nei suoi scritti. A tal
1
Cf. DV 247, 10-14: καὶ ἐπειδὴ καθ' ἑαυτήν πως ἀργοτέρα πρὸς τὸ πείθειν ἐστὶν ἡ συµβουλὴ καὶ οὐκ ἄν τις
ῥᾳδίως ὑπαγάγοιτό τινα ψιλῷ τῷ λόγῳ πρός τι τῶν ὠφελούντων ἐγκελευόµενος, εἰ µὴ πρότερον ἀπο σεµνύνειεν
ἐκεῖνο πρὸς ὃ τὸν ἀκροατὴν παρορµᾷ, κτλ.
2 Cf. DV 248, 27-249, 15.
3 Come ricorda MORESCHINI 1992, pp. 86-87, le prime biografie cristiane non possono essere considerate un
genere inventato ex novo, ma si inseriscono nel corrispondente filone pagano che narra di vite ‘filosofiche’; il
genere, come tuttavia è usuale per i cristiani, sarà risignificato dall’interno e adattato alle nuove esigenze
espressive e (soprattutto) paideutiche che viene a rivestire. La mentalità moderna deve compiere uno sforzo
particolare di fronte a tale genere: come ben riconosce SPIRA 1984, pp. 2-10, essa è abituata a rapportarsi al suo
oggetto di conoscenza in modo positivistico, ricercando nelle narrazioni antiche il mero fatto storico. Per gli
autori classici e cristiani invece «the factual truth is of no interest, unless it may serve him as an example to
illustrate a moral truth» (p. 3): tutta la storiografia antica mostra una profonda attenzione verso gli insegnamenti
che possono essere ricavati dalle gesta narrate; allo stesso modo la biografia antica, nella sua oggettiva tendenza
all’esaltazione dell’encomio, intende mostrare esempi di virtù. Rispetto alle opere biografiche dei Cappadoci,
SPIRA 1984, p. 10 rileva che «there is, first of all, the inseparable classical nexus of biography and ethics: the
historical example seen as an incentive to virtue».
4 Cf. DV 278, 15-280, 8.
291
proposito nel De virginitate il Nisseno indica come esempio la figura di Elia, di cui ricorda i
θαύµατα, e di Giovanni Battista, di cui Cristo stesso testimoniò (µεµαρτύρηται: DV 279, 16)
la grandezza; entrambi, commenta l’autore, furono accomunati dalla consacrazione al Signore
di tutti i loro desideri (ἐπιθυµίαν: DV 279, 18) che mantennero puri e scevri da ogni affezione
materiale. È questo, commenta in chiosa, l’insegnamento che è possibile ricavare
(µανθάνοµεν: DV 280, 3) dal confronto con simili figure. Compito di un vero maestro è
dunque mostrare come esempio la propria vita al posto delle parole (ἀντὶ τοῦ λόγου
προδεικνύειν τὸν βίον: DPe 173, 10-11); esse infatti sono rinsaldate nella loro verità solo da
una condotta conforme.
Tale è l’idea che anima le prime righe del De perfectione, il piccolo trattato che il Nisseno
inviò al monaco Olimpio. In esso Gregorio si rammarica di non avere ancora raggiunto con la
propria vita la perfezione cui agognerebbe: le sue esortazioni sarebbero infatti ancora più
credibili se il suo esempio potesse offrire attraverso le opere e non solo grazie alle parole la
guida che conduca a quell’insegnamento bramato dai suoi interlocutori5 .
Allo stesso modo, nel prologo del De vita Moysis6 il vescovo dichiara di aver scritto il
trattato in risposta alla lettera di un suo amatissimo figlio - non meglio precisabile - che
desidera conseguire la vita perfetta, e ne chiede al suo superiore una descrizione
(ὑπογραφῆναί σοι παρ' ἡµῶν τίς ὁ τέλειός ἐστι βίος: VM I 3, 37) per poi dirigere la vita in base
alle regole da essa ricavate. L’esegeta tuttavia precisa subito come sia superiore alle sue forze
- se non impossibile - definire con parole la τελειότης e applicare questa comprensione
astratta alla vita: la perfezione dell’uomo infatti, consiste nel conseguimento della virtù
completa, vale a dire nella partecipazione alla natura stessa di Dio. Il Nisseno non può dunque
mostrare in pienezza con la propria vita ciò a cui dichiara che l’uomo deve tendere; al
desiderio del giovane che gli aveva chiesto consiglio, Gregorio decide pertanto di rispondere
secondo ciò che consiglia la stessa Scrittura. Il vescovo cita a tal proposito Is 51, 2, passo che
invita a guardare all’esempio di Abramo e Sara (τῷ κατὰ τὴν Σάρραν καὶ Ἀβραὰµ
ὑποδείγµατι: VM I 11, 11): esso infatti può diventare timone del volere divino nei marosi della
vita, così come un segnale di fuoco posto sulla cima della montagna per che si sono
allontanati dalla rotta che li avrebbe condotti al porto8. Guardando infatti gli uomini ad
Abramo e le donne a Sara, secondo la propensione naturale della creatura ad imparare
5
Cf. DPe 173, 4-8: ἐγὼ δὲ περὶ παντὸς µὲν ἄν ἐποιησάµην ἐν τῷ ἐµῷ βίῳ τῶν σοὶ σπουδαζοµένων εὑρεθῆναι τὰ
ὑποδείγµατα, ὤστε τοῖς ἔργοις πρὸ τῶν λόγων τὴν ἐπιζητουµένην ὑπὸ σοῦ παρασχεῖν διδασκαλίαν. οὔτω γὰρ ἄν
ἀξιόπιστος ἦν τῶν ἀγαθῶν ἡ ὑφήγησις, τοῦ βίου τοῖς λόγοις συµφθεγγοµένου.
6 Cf. VM I 3-15.
7 Le edd. di Daniélou e Musurillo riportano anche, prima dell’infinito, τύπῳ. Si accetta invece la proposta di
Simonetti, che lo espunge: come si evince dalle frasi successive, chi aveva richiesto a Gregorio questa trattazione
doveva aver pensato ad un’esposizione filosofica dell’argomento; sarà stato il Nisseno a scegliere piuttosto
l’esemplificazione di una vita perfetta da imitare come guida per una comprensione anche teoretica.
8 Cf. VM I 11.
292
(ἐδιδάχθη: VM I 12, 5) da ciò che le è affine (πρὸς τὸ συγγενές: VM I 12, 6), tutti ricevono dal
testo sacro come proposta una via di cambiamento: allo stesso modo Gregorio mostrerà
l’esempio di un solo uomo, Mosè, che ha vissuto con pienezza questa strada delle virtù e
grazie a questo può fungere da segnale chiaro e luminoso che indichi la rotta per chi rischi di
naufragare nell’abisso del vizio a causa delle continue ondate delle passioni. Proprio per tale
ragione, conclude l’esegeta, la Scrittura descriverebbe con accuratezza la vita di coloro che
possono fungere da esempio piuttosto che proporre trattati teorici.
Il valore di persone autorevoli ed esemplari è riconosciuto anche in un ulteriore passo del
De vita Moysis9 che commenta le fibbie che sostengono il mantello del sacerdote che presta
servizio nell’arca della testimonianza: esse infatti sono pietre preziose ornate dai nomi dei
patriarchi. La vita dell’uomo infatti, a detta del Nisseno, si orna degli esempi di bene che la
hanno preceduta, letti, se necessario, attraverso la chiave dell’interpretazione spirituale.
Le vite degli uomini illustri sono dunque state poste in rilievo dalla Scrittura come esempi
di virtù per i posteri; non è possibile però che l’emulazione passi anche da una coincidenza di
condizioni storiche. Secondo il Nisseno non si deve dunque tentare di imitare le imprese
straordinarie di quegli uomini beati, avvenute in risposta a circostanze particolari, bensì
trasporre dalla consequenzialità materiale all’insegnamento morale gli episodi che lo
consentano, da cui ricavare aiuti per una vita giusta10 . Ciò che invece non rispetti questo
scopo sarà omesso come inutile e irrilevante per una strada che guida verso la virtù (τῆς
ἀρετῆς τὴν ὑφήγησιν: VM II 50, 5)11.
È questa l’interpretazione attraverso cui il Nisseno si propone di leggere i prodigi
raccontati nelle vite dei santi, in particolare in quella di Mosè: questa θαυµατοποιΐα (VM II
64, 4), avverte infatti il Nisseno, non mira allo sbalordimento di chi vi assiste, bensì all’utilità
9
Cf. VM II 196.
Cf. VM II 49, 7-11: ἐπεὶ οὖν ἀδύνατον ἀπεδείχθη δι' αὐτῶν τῶν πραγµάτων τὰ τῶν µακαρίων µιµήσασθαι
θαύµατα, µεταληπτέον ἂν εἴη πρός τινα ἠθικὴν διδασκαλίαν ἐκ τῆς ὑλικῆς ἀκολουθίας τὰ ἐνδεχόµενα, δι' ὧν ἄν
τις γένοιτο τοῖς πρὸς ἀρετὴν ἐσπουδακόσι πρὸς τὸν τοιοῦτον βίον συνεργία.
11 Cf. VM II 48-50. Gregorio espone questi principi all’inizio dell’interpretazione spirituale del De vita Moysis
per prevenire un’obiezione collegata alla lettura di Aronne come angelo. Il fratello del legislatore infatti dopo
l’ascesa di questi al Sinai guidò gli Israeliti all’idolatria, fatto incompatibile con l’interpretazione precedente.
Gregorio sostiene tuttavia la sua lettura notando come le parole siano foriere anche di possibili ambiguità: come
la parole “fratello” può indicare chi uccide il tiranno degli egiziani e chi forgia il vitello d’oro, così anche
ἄγγελος è infatti parola biblica che indica sia gli esseri incorporei al cospetto di Dio, ma anche le creature irretite
all’inizio dei tempi dall’avversario (cf. VM II 51-53 e 209-213). Allo stesso modo viene interpretato il passo che
vede i Leviti armati contro i propri connazionali da Mosè stesso mentre portano strage in tutto l’accampamento
(cf. VM II 204-208). Dopo una lettura molto vicina alla lettera, secondo cui l’ira divina colpisce alcuni e non tutti
perché, essendo tutti parte di uno stesso corpo unito a compiere il male, sferzare una parte ha ripercussioni su
ciascuno, il Nisseno ribadisce la sua convinzione che esistano pensieri del tutto intimi, rappresentati nel racconto
dai familiari stretti, la cui morte è però per noi vita, in quanto non conducono alla perfezione ma al male. La
distruzione di simili fratelli, in questa visione, coincide dunque con l’uccisione da parte dell’uomo del peccato
(cf. VM II 211).
293
10
di coloro che attraverso questi prodigi vengono salvati12. Il θαῦµα, come si legge nella prima
omelia In sanctum Stephanum13, ha infatti il compito di condurre per mano (ἐχειραγώγησε:
SST I 78, 15) le anime alla fede; così fece, come racconta il Nisseno sulla base di Act 3, 1-26,
l’uomo zoppo fin dalla nascita che fu guarito da Pietro e, lodando Dio nel tempio, suscitò lo
stupore di molti che ricevettero poi l’annuncio della fede.
Il miracolo, avverte l’Oratio catechetica magna14, è ciò che offre testimonianza della
presenza di Dio. L’unico modo di essere persuasi alla fede è infatti vedere come
effettivamente la natura divina si sia rivelata in Cristo, e ciò si esprime nei fatti che
travalicano il puro essere dell’uomo. Non è infatti possibile capire il modo in cui una simile
potenza si sia legata alla creatura, così come poi non si può comprendere come l’anima
dell’uomo sia legata al suo corpo. L’uomo infatti conosce solo ciò di cui può avere esperienza
attraverso i sensi, e l’anima è qualcosa di incorporeo; per questo, deve basarsi sui segni e sulle
opere che essa compie. Allo stesso modo, non si può addurre altra dimostrazione al fatto che
Dio si sia mostrato nella carne, se non la testimonianza delle opere che Cristo ha compiuto15.
Come dalla bellezza e dalla saggezza che si irradia dal creato si può giungere alla percezione
della divinità, così i racconti storici su Cristo mostrano i segni della sua reale potenza16 : le
opere di carità, il potere sulla natura, la possibilità di donare salute all’uomo e il possedere
una potenza superiore perfino a quella della morte, rendono infatti evidenti in quell’uomo
tutte le prerogative divine, in forza delle quali è possibile la fede17 . Osservando le opere, si
ribadisce poco oltre18 , l’uomo può conoscere per via di analogia la natura di colui che opera.
Una simile dimostrazione, sottolinea ancora il Nisseno, è testimonianza sufficiente per
coloro che non intendono opporsi ostilmente alla verità19; essi sono anche confortati, oltre che
dalle promesse future, dalla stessa storia ecclesiastica: rispetto alle superstizioni pagane
Gregorio infatti nota come esse ai suoi tempi fossero per lo più scomparse, sostituite dal
sacerdozio incruento, dalla nobile dottrina e condotta di vita cristiana, insieme ad un non
12
Cf. VM II 64, 4-8: ἡ δὲ θαυµατοποιΐα οὐ τῷ σκοπῷ τῆς ἐκπλήξεως τῶν ἐντυγχανόντων γίνεται, ἀλλὰ πρὸς τὸ
χρήσιµον τῶν σωζοµένων βλέπει. Τοῖς γὰρ αὐτοῖς τῆς ἀρετῆς θαύµασι καθαιρεῖται µὲν τὸ πολέµιον, αὔξεται δὲ
τὸ ὁµόφυλον.
13 Cf. SST I 78, 7-18.
14 Cf. OC 86, 3-4: ἡ δὲ τῆς θεότητος µαρτυρία διὰ τῶν θαυµάτων ἐστίν.
15 Cf. OC 40, 6-10: τοῦ δὲ θεὸν ἐν σαρκὶ πεφανερῶσθαι ἡµῖν ὁ τὰς ἀποδείξεις ἐπιζητῶν πρὸς τὰς ἐνεργείας
βλεπέτω. καὶ γὰρ τοῦ ὅλως εἶναι θεὸν οὐκ ἄν τις ἑτέραν ἀπόδειξιν ἔχοι, πλὴν τῆς δι' αὐτῶν τῶν ἐνεργειῶν
µαρτυρίας.
16 Cf. OC 40, 15-19: … οὕτως καὶ ἐπὶ τοῦ διὰ σαρκὸς ἡµῖν φανερωθέντος θεοῦ ἱκανὴν ἀπόδειξιν τῆς ἐπιφανείας
τῆς θεότητος τὰ κατὰ τὰς ἐνεργείας θαύµατα πεποιήµεθα, πάντα τοῖς ἱστορηθεῖσιν ἔργοις, δι' ὧν ἡ θεία
χαρακτηρίζεται φύσις, κατανοήσαντες.
17 Cf. OC 41, 4-8: εἰ µὲν οὖν τινὸς τούτων καὶ τῶν τοιούτων ἐλλιπὴς ἦν ἡ περὶ αὐτὸν ἱστορία, εἰκότως τὸ
µυστήριον ἡµῶν οἱ ἔξω τῆς πίστεως παρεγράφοντο· εἰ δὲ δι' ὧν νοεῖται θεός, πάντα ἐν τοῖς περὶ αὐτοῦ
διηγήµασι καθορᾶται, τί τὸ ἐµποδίζον τῇ πίστει;
18 Cf. OC 43, 14-15: πρὸς γὰρ τὰ γινόµενα βλέποντες, διὰ τούτων τὴν τοῦ ἐνεργοῦντος ἀναλογιζόµεθα φύσιν.
19 Cf. OC 50, 20-23: τοῖς γὰρ µὴ λίαν ἀντιµαχοµένοις πρὸς τὴν ἀλήθειαν οὐ µικρὰ τῆς θείας ἐπιδηµίας ἀπόδειξις
ἡ καὶ πρὸ τῆς µελλούσης ζωῆς ἐν τῷ παρόντι βίῳ φανερωθεῖσα, ἡ διὰ τῶν πραγµάτων αὐτῶν φηµὶ µαρτυρία.
294
curarsi della vita del secolo e della morte; non è peregrino ritenere che Gregorio si riferisca in
questo caso alla scelta di vita monastica. Ebbero un uguale atteggiamento, ricorda il vescovo
con venerazione, anche i martiri della fede, che versarono il proprio sangue nelle prove cui
erano stati costretti dai tiranni. Essi, annota Gregorio, non avrebbero affrontato simili
avversità se non fossero stati certi della presenza di Dio20.
VI.2 L’Antico Testamento
Un primo modello per la creatura è additato da Gregorio nei patriarchi e nelle figure
dell’Antica Alleanza: benché infatti essi siano vissuti prima della rivelazione, essi hanno
compiuto pienamente il loro cammino di uomini, rispecchiando anche, per una particolare
grazia dello Spirito, un rapporto con la divinità pieno e compiuto, e quindi esemplare. La
dinamica educativa attraverso cui essi formarono la loro comprensione di Dio fu la stessa
offerta a ciascun cristiano, vale a dire quella del simbolo: Gregorio afferma questo, ad
esempio, quando si trova a commentare la tenda che Mosè vide sul Sinai. La σκηνή che
abbraccia l’universo, afferma il Cappadoce, è Cristo; Mosè fu educato in anticipo a questo
mistero, rispetto all’economia della salvezza che si è poi disvelata, grazie a tale τύπος 21 e
all’insegnamento che veniva dal cielo (θεόθεν διδασκαλίαν: VM I 61, 3) offrendo così
all’uomo una strada di educazione percorribile perché comprensibile dai sensi dell’uomo (τὴν
θείαν ὑφήγησιν διὰ τῆς ὑλικῆς δηµιουργίας: VM I 61, 4).
Le figure dell’Antico Testamento che negli scritti di Gregorio rispondono più da vicino ad
una dinamica di imitazione sono soprattutto Mosè e Davide, ma non mancano passi in cui il
Cappadoce si riferisce anche ad altri patriarchi.
Si è già accennato al riferimento di Gregorio ad Abramo e Sara nel De vita Moysis,
mutuato da un passo paolino; Abramo è generalmente presentato da Gregorio come il
precursore di Mosè, colui che ebbe pieno possesso della filosofia a lui precedente e fu
condotto dal vaglio critico di questa alla conoscenza e alla fede del vero Dio22.
20
Cf. OC 51, 20-52, 1: … οἱ µεταστῆναι τῆς πίστεως παρὰ τῶν τυράννων ἀναγκαζόµενοι φανερῶς ἐπεδείξαντο,
ἀντ' οὐδενὸς δεξάµενοι τὰς τοῦ σώµατος αἰκίας, καὶ τὴν ἐπὶ θανάτῳ ψῆφον, οὐκ ἂν ὑποστάντες δηλαδὴ ταῦτα,
µὴ σαφῆ τε καὶ ἀναµφίβολον τῆς θείας ἐπιδηµίας ἔχοντες τὴν ἀπόδειξιν.
21 Cf. VM II 174, 3-5: ἐν τύπῳ προεπαι δεύθη Μωϋσῆς τὸ περὶ τῆς σκηνῆς τῆς τὸ πᾶν περιεχούσης µυστήριον.
αὕτη δ' ἂν εἴη Χριστός κτλ.
22 Cf. ad es. VG 9, 8-10, 13. Sull’interpretazione allegorica da parte di Gregorio di Abramo si veda la sintesi di
LAIRD 2000, pp. 66-69. L’autore sottolinea a tal proposito come il Nisseno, che abitualmente si basa sulla esegesi
alessandrina delle figure dei patriarchi, preferisca in questo caso discostarsene, mostrando come quella del padre
della fede fosse una «epistemological ascent» (p. 66): attraverso il progresso spirituale che la sua storia descrive,
γνῶσις e πίστις per il patriarca arrivano a coincidere. Tale ascesa consente ad Abramo di abbandonare la filosofia
caldaica e le sue pratiche, giungendo a riconoscere la natura divina, ultimamente incomprensibile.
295
Nella Vita Sanctae Macrinae23 il Nisseno cita Giobbe, che diventa exemplum per la lode
della sorella del Nisseno: come questi fu prostrato dalle sue disgrazie nel corpo ma grazie alla
fede seppe non desistere, allo stesso modo Macrina, piagata nel corpo, sino al suo ultimo
respiro fu intenta a ragionamenti filosofici e ascetici. Questo portò il fratello Gregorio a
compiacerla in ciò che chiedeva, considerandola ormai ancor di più la maestra (τῇ
διδασκάλῳ: VSM 391, 10).
Nell’omelia Contra fornicarios24 il Nisseno narra del tentativo di seduzione che operò la
moglie di Putifarre nei confronti di Giuseppe figlio di Giacobbe; il racconto si conclude con
una lode del giovane, che non si lasciò irretire dalle difficoltà che gli furono poste di fronte.
Dio, come continua il vescovo, non rese onore al suo atleta prima che superasse le prove cui
era chiamato, ma le permise mostrandogli attraverso i sogni il futuro: secondo il Nisseno
questo fatto insegna (διδάσκων: CFor 216, 15) come la divinità prepari da lontano la gloria
per i giusti, lasciando che essi siano messi in difficoltà, perché il loro comportamento e la loro
vittoria sia testimonianza (µαρτυρίαν: CFor 217, 2) della loro virtù a fronte delle maldicenze
degli altri (nel caso di Giuseppe degli Egiziani che videro assurgere un servo alla dignità di
consigliere del Faraone).
In incipit della terza omelia In Ecclesiasten25 Gregorio sottolinea come attraverso la
vicenda umana di Salomone, di cui il libro è testimonianza, la Chiesa offra a ciascuno
un’educazione (ἡ ἐκκλησία παιδεύεται: IE 317, 14). Nella seconda omelia era stato descritto
come il re avesse seguito le proprie brame, ricavando che da esse il suo cuore non era stato
saziato26 ; che tale descrizione sia reale o una finzione rivolta all’utile (διὰ τὴν ἡµετέραν
ὠφέλειαν: IE 317, 19-20) dei suoi ascoltatori, per condurre il proprio discorso allo scopo
prefisso con adeguata consequenzialità logica (δι' ἀκολούθου: IE 317, 20), al Nisseno poco
interessa: in ogni caso il re è infatti paragonato ad un nuotatore che si immerge nelle
profondità del mare, sopportando l’improba fatica ed il pericolo, per guadagnare una perla o
ciò che di prezioso si trova sul suo fondo. Questi può dunque parlare forte dell’insegnamento
della propria esperienza (διὰ τῆς πείρας διδαχθέντος: IE 319, 5); poiché comunque alcune
tentazioni che l’Ecclesiaste afferma di aver sperimentato sono del tutto riprovevoli, il vescovo
esorta a ricavare dalle parole di biasimo, sintesi della sua esperienza, un monito a evitare
anche il solo desiderio di simili azioni. Oltre che grazie alla sua sapienza, dalla quale fu
educato (προπαιδευθεὶς πάσῃ σοφίᾳ: IE 350, 20) prima di assaporare il vizio e la sua inanità,
è proprio in forza di ciò che ha provato e giudicato che Salomone può essere ritenuto un
23
Cf. VSM 390, 10-391, 13.
Cf. CFor 214, 19-217, 3.
25 Cf. IE 317, 12-319, 10.
26 Cf. IE 305, 19-314, 10.
296
24
maestro (διδάσκαλος: IE 319, 3; 370, 13; 371, 1) capace di educare preventivamente i suoi
discepoli (προεδιδάχθησαν: IE 319, 10)27 ; più avanti il re sarà chiamato ὁ τῆς ἀρετῆς
ὑφηγητής (IE 350, 5), colui che conduce, educa alla virtù, nonché il comandante della milizia
ecclesiastica, che accresce la forza di chi lo ascolta attraverso i suoi insegnamenti28 ; di lui si
dice in IE 352, 12 e IE 409, 4 che questi παιδεύει, in IE 361, 10 che διδάσκει; in IE 363 21 i
suoi detti sono una ὑψηλῆς διδασκαλίας; dalle sue parole si apprendono verità (δόγµα
ἐµάθοµεν: IE 427, 15); attraverso i suoi sublimi insegnamenti si viene educati e introdotti a
continuare una simile strada29. Ancora, a coronamento della quarta omelia, incentrata sulla
cupidigia, il Nisseno annota30 che l’Ecclesiaste, che saggiamente ammaestra, annoverò anche
questa colpa tra le mancanze che egli ascrive a se stesso, che si scoprirà poi essere, secondo il
dettato paolino di 1Tim 6, 10, germe di tutti i mali: gli altri uomini, educati da chi per primo
ha appreso dalla propria esperienza possano guardarsi dall’assalto del male prima di farne
esperienza, essendo educati con anticipo da chi ha corso gli stessi pericoli.
In incipit della quinta omelia31 il Nisseno scrive che una simile grande guida della Chiesa
(παρὰ τοῦ µεγάλου τῆς ἐκκλησίας καθηγεµόνος: IE 353, 11) debba condurre ad una più alta
mistagogia attraverso i suoi insegnamenti (µαθηµάτων: IE 353, 12): la Chiesa deve infatti
essere educata nella verità (ἐν δόγµατι παιδευέσθω: IE 353, 16) apprendendo
dall’insegnamento (µαθοῦσα διὰ τῆς παρούσης διδασκαλίας: IE 353, 16) che Salomone offre
nell’Ecclesiaste.
VI.2.1
Davide
Un maggior numero di passi significativi è riferito invece a Davide.
Come si legge nell’In iscriptiones Psalmorum 32, merito sommo del futuro re di Israele fu
introdurre ai misteri inaccessibili della teologia e allo stile duro e severo della vita virtuosa
attraverso un insegnamento (διδασκαλίαν: IPS 29, 21.25; 30, 9; διδασκαλίας: IPS 30, 2;
διδαγµάτων: IPS 30, 16; µάθηµα: IPS 30, 17) percorribile da chiunque, da chi è già instradato
27
Il rilievo educativo e paradigmatico della storia è ripreso anche in IE 327, 16, dove occorre il verbo µανθάνειν,
che ad esso unisce l’aspetto conoscitivo della narrazione.
28 Cf. IE 390, 2-3: ηὔξησεν ἤδη, δι' ὧν ἐδίδαξε, τὴν τῶν ἀκουόντων ἰσχὺν ὁ τῆς ἐκκλησιαστικῆς δυνάµεως
ταξιάρχης, ὥστε κτλ.
29 Cf. IE 436, 20-23: ἀλλ' ἐπειδὴ διὰ τούτων ἐπῆρέ πως τὴν ψυχὴν τοῦ προπαιδευθέντος ἐν τοῖς ὑψηλοῖς τούτοις
µαθήµασι, πάλιν ἀνάγει πρὸς ὑψηλήν τινα κατάστασιν τὴν ψυχὴν τοῦ ἑποµένου τῷ λόγῳ κτλ.
30 L’argomento è presente nella IV omelia passim; cf. comunque nello specifico IE 346, 6-14: ἀλλὰ τούτου χάριν
ὁ σοφῶς παιδεύων τὸν βίον ἐν τῷ καταλόγῳ τῶν ἐξαγορευοµένων καὶ ταῦτα κατηριθµήσατο, ἵνα µαθόντες οἱ
ἄνθρωποι παρὰ τοῦ τῇ πείρᾳ κατεγνωκότος, ὅτι ἓν τῶν ἐπ' ἀτοπίᾳ κατεγνωσµένων τοῦτό ἐστι, φυλάξωνται πρὸ
τῆς πείρας τὴν τοῦ κακοῦ προσβολήν, καθάπερ ἔστι καὶ τοὺς λῃστρικούς τε καὶ θηριώ δεις τόπους ἀπαθῶς
παρελθεῖν διὰ τοῦ προµαθεῖν τοὺς ἐν τούτοις προκινδυνεύσαντας.
31 Cf. IE 353, 11-354, 1.
32 Cf. IPS 29, 17-34, 15.
297
lungo la via al bene come dalle donne e dai bambini: egli infatti mescolò canto e filosofia
delle virtù, raddolcendo con il miele della musica gli insegnamenti divini. Il Nisseno cita
quindi un episodio raccontato dalle Scritture (cf. 1Sam 16,23), nel quale Davide, ormai unto
da Samuele, si presenta alla corte di Saul e ne viene accettato, perché ogni volta che un
cattivo spirito mandato dal Signore tormentava il re, il giovane cantore con la sua arpa lo
stornava. Tale racconto secondo Gregorio attesta (προσµαρτυρεῖ: IPS 33, 26) dunque che la
melodia davidica può contribuire a reprimere le passioni. Ulteriore merito di Davide è infine
aver composto dei canti che non si curano della metrica o della retorica, svelando per quanto
possibile il mistero inerente alle parole, lasciando solo che il nutrimento degli insegnamenti (ἡ
τῶν διδαγµάτων τροφή: IPS 34, 14-15) sia addolcito dai condimenti. Non bisogna infine
dimenticare che, come si legge più oltre nel testo, Davide esponeva con il canto ciò che egli
stesso aveva imparato (µεµαθήκει: IPS 108, 23) e, se qualcosa gli veniva insegnato
(ἐπεδιδάσκετο: IPS 109, 1) mentre parlava, sottomettendosi allo Spirito, faceva risuonare un
nuovo canto con ciò che gli era stato donato33.
Anche nel prologo dell’omelia In Ascensionem Christi34 Gregorio afferma che Davide,
attraverso i salmi, è dolce compagno (γλυκὺς συνέµπορος: IAC 323, 6) della vita umana, in
quanto con le sue parole può accompagnare qualsiasi cammino e può partecipare
convenientemente a tutte le età spirituali: gioca con coloro che sono ancora infanti agli occhi
di Dio, lotta con gli uomini adulti, educa (παιδαγωγεῖ: IAC 323, 11) la giovinezza, sostiene i
vecchi. Ha la facoltà di adeguarsi alle esigenze di ciascuno, facendosi tutto in tutti (cf. 1Cor 9,
22). Nessuna situazione della vita, continua il Nisseno, neppure il mestiere del soldato o le
gare degli atleti, cui il cantore prepara (ἀθλητῶν παιδοτρίβης: IAC 323, 12), è estranea alla
grazia che si irraggia dalle sue parole. Il vescovo arriva addirittura a chiedersi che forza
avrebbe la preghiera degli uomini se non fosse guidata dalle sue parole. Attraverso esse e le
immagini che portano ad esempio Davide educa la Chiesa (παιδεύει τὴν ἐκκλησίαν: IAC 324,
3) ad essere pecora del buon pastore, condotta (ὁδηγία: IAC 324, 1; ὁδηγούµενον: IAC 324, 6)
ai pascoli dei divini insegnamenti (πρὸς τὰς θείας τῶν διδαγµάτων νοµάς: IAC 324, 5). Dopo
aver accennato al Ps 22 e aver ampiamente commentato il Ps 23 35, il Nisseno conclude
33
Cf. IPS 108, 3-109, 23.
Cf. per tutto il passo IAC 323, 6-324, 22. Si riporta perché particolarmente significativo IAC 323, 6-16: Ὡς
γλυκὺς συνέµπορος τοῦ ἀνθρωπίνου βίου ὁ προφήτης ∆αβὶδ ἐν πάσαις ταῖς ὁδοῖς τῆς ζωῆς εὑρισκόµενος καὶ
πάσαις ταῖς πνευµατικαῖς ἡλικίαις προσφόρως καταµιγνύµε νος καὶ παντὸς τάγµατος τῶν προκοπτόντων
συνεφαπτόµενος· τοῖς κατὰ θεὸν νηπίοις συµπαίζει, τοῖς ἀνδράσι συναγωνίζεται, παιδαγωγεῖ τὴν νεότητα,
ὑποστηρίζει τὸ γῆρας, τοῖς πᾶσι πάντα γίνεται· στρατιωτῶν ὅπλον, ἀθλητῶν παιδοτρίβης, γυµναζοµένων
παλαίστρα, νικώντων στέφανος, ἐπιτραπέζιος εὐφροσύνη, ἐπικήδειος παραµυθία. οὐκ ἔστι τι τῶν κατὰ τὸν βίον
ἡµῶν τῆς χάριτος ταύτης ἀµέτοχον· τίς προσευχῆς δύναµις, ἧς µὴ ∆αβὶδ συνεφάπτεται;
35 Per l’utilizzo del Ps 22 nella Chiesa antica, cf. PIETRELLA 2009, p. 164, n. 14; per quanto riguarda invece il Ps
23, cf. Ivi p. 165, n. 19.
298
34
l’omelia36 riprendendo il motivo della dolcezza che offrono le parole di Davide ed esorta i
suoi ascoltatori ad imitarlo, per quanto possibile: il suo insegnamento può infatti essere per
l’uomo una guida che prende per mano e conduce alla vita secondo Dio in Cristo.
La parola dei salmi instrada l’uomo ai misteri anche nell’omelia In Sanctam
Pentecostem 37, dove si legge che Davide condurrà (ὁδηγησάτω: SPen 289, 28) alla verità
prendendo come suo compagno Paolo. Lo scritto propone38 una sintetica rilettura del progetto
salvifico divino: errando nella conoscenza di Dio gli uomini si erano dati all’adorazione degli
elementi del cosmo, di demoni e idoli; guardando con benevolenza questa umanità corrotta,
Dio decise i risollevarla alla conoscenza della verità. L’immagine che il vescovo offre è quella
della scienza medica; attraverso essa il Nisseno espone la gradualità secondo cui si attua nel
singolo la partecipazione ai misteri divini, avanzando nel cammino verso la perfezione.
Innanzitutto essi furono educati a conoscere l’unica divinità, quindi fu rivelato il Figlio. Il
cibo perfetto della natura umana si manifestò però solo nello Spirito Santo. Benché non sia
nato sotto la nuova Legge, Davide diventa il cantore di questa verità: non solo la sua parola
guida (ὁδηγούµεθα: SPen 290, 3) alla lode dello Spirito, ma educa (διδασκόµεθα: SPen 290,
5) riguardo la sua divinità, insegnando (µάθε: SPen 290, 15) attraverso le sue parole. Con lo
stesso mezzo infine il profeta attesta (διαµαρτύρεται: SPen 291, 3) la vera natura dello Spirito,
contro quello che gli eretici (in particolare i pneumatomachi) andavano predicando39.
Alla fine della quarta omelia del De beatitudinibus 40 Gregorio interpreta quindi il cibo che
desiderano coloro che hanno fame e sete esorta come Cristo stesso: a sostegno di questa
interpretazione Gregorio ricorda il salmista Davide che, educato dalla forza dello Spirito
prima della rivelazione (τῇ δυνάµει τοῦ πνεύµατος προπαιδευθεὶς: DB 122, 10) negli
insegnamenti del Signore (τοῦ κυρίου διδάγµατα: DB 122, 11), dice di essere assetato di Dio
stesso41.
Durante la trattazione della seconda beatitudine, che riguarda i miti di cuore, il Nisseno
propone la figura del Davide salmista42, che la Scrittura testimonierebbe (µαρτυρηθείς: DB
92, 6), secondo le sue stesse parole, come un uomo che avrebbe visto già su questa terra i beni
divini43. Avendo interpretato l’eredità dei mansueti, che il Vangelo chiama τὴν γῆν, come
36
Cf. IAC 327, 6-12: οὐκοῦν µιµησώµεθα καὶ ἡµεῖς τὸν προφήτην, ἐν οἷς δυνατόν ἐστι κατορθῶσαι τὴν µίµησιν,
ἐν τῇ πρὸς θεὸν ἀγάπῃ, ἐν τῇ τοῦ βίου πρᾳότητι, ἐν τῇ πρὸς τοὺς µισοῦντας µακροθυµίᾳ, ἵνα γένηται ἡ τοῦ
προφήτου διδασκαλία τῆς κατὰ θεὸν πολιτείας χειραγωγία ἐν Χριστῷ Ἰησοῦ τῷ κυρίῳ ἡµῶν, ᾧ ἡ δόξα εἰς τοὺς
αἰῶνας τῶν αἰώνων, ἀµήν.
37 Cf. SPen 289, 28-292, 4.
38 Cf. SPen 287, 15-288, 26.
39 Cf. SPen 289, 28-292, 4.
40 Cf. DB 12
41 Cf. Ps 41, 3.
42 Cf. DB 92, 4-19.
43 Cf. Ps 26, 13.
299
figurazione adeguata alla conoscenza umana, attraverso i sensi, dell’ineffabile regno celeste44,
Gregorio riconduce a questa interpretazione il versetto del salmo, giustificando la
preconoscenza dell’autore biblico attraverso la guida dello Spirito (τῇ ὑφηγήσει τοῦ
πνεύµατος: DB 92, 7), che lo avrebbe condotto a possedere attraverso la fede ciò che sperava,
in quel luogo che viene rivelato attraverso enigmi (δι' αἰνιγµάτων: DB 92, 18) attraverso
l’insegnamento divino (παρὰ τῆς θεοπνεύστου διδασκαλίας: DB 92, 19).
La figura di Davide assurge infine a esempio negli ultimi capita dell’In iscriptiones
Psalmorum 45: in essi Gregorio commenta ammirato la grandezza d’animo del futuro re
d’Israele, condotto dallo Spirito a tali ascese da non soggiacere nemmeno alla tentazione di
uccidere il suo nemico, Saul, dando come ragione il fatto che anch’egli era stato unto dal
Signore, e distogliendo da tale proposito gli uomini che erano con lui; tale scelta fu compiuta
per ben due volte (cf. 1Sam 19, 1-26, 25).
VI.2.2
Mosè
Exemplum per eccellenza del Vecchio Testamento rimane comunque Mosè. Sono già stati
analizzati più passi che richiamavano all’esemplarità del legislatore, ad esempio come
guida46 ; si riporteranno qui altri passi ritenuti altrettanto importanti, che mostrano una
profonda assonanza con il percorso educativo del Nisseno finora delineato.
Innanzitutto, le visioni concesse a Mosè lo educano (παιδευθείς: VM II 189, 1;
ἐκπαιδευόµενος: VM II 189, 5) e ne purificano le percezioni, tanto da introdurlo così alla
presenza di Dio.
Nell’omelia XI dell’In canticum 47 Gregorio ricorda quindi le varie visioni donate al
legislatore, partendo dalla luce con cui a Mosè fu rivelata la volontà di Dio, per poi passare
alla nube di caligine, simboli il primo del passaggio dalle tenebre del male alla luce della
conoscenza di Dio, il secondo di una più profonda comprensione delle realtà nascoste, che
conduce per mano (χειραγωγοῦσα τὴν ψυχὴν: IC 322, 16) l’anima.
Mosè attraverso le ascese ricordate anche nell’omelia XII dell’In canticum per esprimere
l’infinito progresso dell’anima, delle quali fu sempre spinto dal suo desiderio, divenne quindi
in grado di condurre il suo popolo (ὁδηγεῖται: IC 355, 7) διὰ νεφέλης; quest’ultima
precisazione non si deve intendere come un’indicazione di luogo, bensì di mezzo: la nube
infatti, la guida di Dio, fu il modo attraverso cui Mosè esercitò in modo efficace il suo ruolo
44
Cf. DB 89, 21-91, 23.
Cf. IPS 158, 22-175, 25.
46 Cf. Cap. II.1.
47 Cf. IC 322, 8-323, 9.
300
45
di guida del popolo che Dio desiderò salvare dall’Egitto. È infatti molto chiaro a Gregorio che
la stessa attività di legislatore del patriarca non sia che un mezzo attraverso cui l divinità
stabilì la sua volontà in mezzo a Israele, per poi completarla personalmente48.
Sorretto da una simile educazione, Mosè insegna attraverso l’esempio 49: quando infatti si
inserisce in un litigio tra un suo connazionale e un egiziano, uccidendo quest’ultimo,
fornirebbe un esempio di come si dovrebbe comportare l’uomo nei confronti del vizio,
prendendo parte alla contesa che si instaura nel suo cuore e appoggiando con la propria
προαίρεσις la causa della virtù. L’episodio appena successivo, che vede Mosè tentare di
appianare una contesa tra due suoi connazionali e scappare dall’Egitto ed è letto come figura
della necessità di fuggire dalle eresie, se non si è tanto forti da combatterle, porta anch’esso in
calce l’invito a imitare l’esempio che offre la narrazione storica (καθ' ὁµοιότητα τοῦ
ἱστορικοῦ ὑποδείγµατος: VM II 16, 8-9) e a ricavarne l’insegnamento dei misteri.
Mosè infine è τύπος di Cristo: questo viene ricordato, ad esempio, nel gesto che compie il
legislatore quando stende le mani sul paese d’Egitto per liberarlo dalle piaghe da cui era stato
colpito. Dopo aver descritto e interpretato infatti l’episodio delle rane che invadono quelle
terre, Gregorio accosta il movimento del legislatore alla croce di Cristo, il vero legislatore,
che con il suo distendere le mani permise a chi si volge a lui di purificarsi dai pensieri sordidi
e fangosi50 . Tale interpretazione è ricordata dall’esegeta anche in conclusione del commento
alla piaga delle tenebre e della cenere51.
Come si legge in conclusione del De vita Moysis52, colui che ha riplasmato se stesso ad
immagine di Dio, in nulla difforme da lui, porta in sé i segni di questa elezione e si accorda
completamente al modello, adornando la propria anima con l’incorruttibilità e la perfezione
della divinità, ed è chiamato da essa servo e amico. In Mosè dunque Gregorio vede compiuto
quell’ideale di imitazione di Dio che propone come τέλος per ciascun uomo., in particolare
del sacerdote e del vescovo53. L’occhio di Mosè non fu offuscato né il volto fu corrotto dalla
morte: assurgendo infatti alla propria natura primigenia, l’uomo non è più sottomesso ai limiti
sorti dalla caduta.
48
Cf. IC 371, 11-12: ὁ διὰ Μωϋσέως µὲν νοµοθετήσας τὰ τοῦ νόµου µυστήρια, πληρώσας δὲ δι' ἑαυτοῦ ὅλον
τὸν νόµον καὶ τοὺς προφήτας κτλ.
49 Cf. VM II 15, 1: παιδεύει τοίνυν ἡµᾶς ὁ Μωϋσῆς τῷ καθ' ἑαυτὸν ὑποδείγµατι.
50 Cf. VM II 78-79.
51 Cf. VM II 82, 8-10; 84, 5-7.
52 Cf. VM II 317-319.
53 «La vie de Moïses est le schéma idéal del la vie du moine-évêque cappadocien» (BOUCHET 1968, p. 613).
301
VI.3 Paolo
I momenti in cui Paolo è preso a modello sono i più vari54 . L’apostolo delle genti è visto
come figura esemplificativa somma cui il cristiano deve tendere in virtù del fatto che ad egli,
come il vescovo ricorda nell’Ad Theophilum 55, furono insegnate (διδαχθῆναι: AdT 124, 3) le
divine e indicibili verità. Come si legge nell’In iscriptiones Psalmorum 56, egli è pienamente
inserito nella stirpe degli apostoli da quando fu iniziato (παιδευθείς: IPS 148, 2) ai misteri
attraverso l’estasi di Damasco; la possibilità che egli ebbe di trasmetterli e di educare57 è
inoltre motivata dal fatto che egli ha conquistato per sé l’amicizia con Cristo, introducendo
anche altri ad essa58 .
Anche all’inizio del trattato In Illud: Tunc et Ipse Filius59 il Nisseno pone davanti agli
occhi dei suoi interlocutori la figura di Paolo e richiama la sua conoscenza dei misteri
ineffabili, che gli concesse un intelletto rischiarato e purificato. Avendo in se stesso Cristo,
che parlava attraverso il suo servo, l’apostolo delle genti proclamò parole convenienti a chi
era stato educato da un tale maestro, che per lui fungeva anche da guida. Tali osservazioni
sono utili a Gregorio per lamentare la condotta degli eretici: costoro, a causa di una cattiva
comprensione, trasformano simili parole, che possono giustamente essere paragonate
all’argento divino, in concetti contrari alla tradizione della Chiesa; il dettato paolino consente
invece di trarre gli elementi preziosi della dottrina lontano dalle contaminazioni. Tutti i Padri
infatti, ivi compreso naturalmente Gregorio, «look to Paul as the interpreter of the O.T. par
excellenxe»60.
Nella sua totale immedesimazione con Cristo, Paolo realizzò come mai nessun altro quello
che nello stesso trattato61 viene indicata come la salvezza della natura umana, vale a dire la
sottomissione a Dio. Commentando infatti i passi in cui l’apostolo delle genti afferma che
nella sua voce e nelle sue opere splende colui che inabita in lui, Gregorio sottolinea come
questo non sarebbe stato possibile senza che il blasfemo, il persecutore e il violento, come si
54
KEENAN 1950, p. 184 scrive: «Gregory's thought is impregnated with the spirit of Saint Paul».
Cf. AdT 124, 1-3, che si riferisce a 2Cor 12, 2.
56 Cf. IPS 147, 26-148, 4.
57 Paolo, come si legge nell’orazione funebre In Flaccilam (cf. IF 484, 3-5), può educare (παιδευσάτω: IF 484,
4) ai misteri del cielo perché vi partecipò, come afferma in 2Cor 12, 2-4.
58 Cf. IE 435, 18-19: τίς δὲ ὁ τρόπος τῆς πρὸς αὐτὸν οἰκειώσεως διδάσκει ὁ τῆς φιλίας ταύτης συναγωγεὺς, ὁ
µέγας ἀπόστολος.
59 Cf. TeI 3, 5-4, 14. Si riporta TeI 3, 9-15 perché particolarmente significativo: πρὸ πάντων δὲ οἶµαι δεῖν τοῖς
τοῦ ἁγίου Παύλου δόγµασι πᾶσαν προσµαρ τυρεῖν λαµπηδόνα καὶ καθαριότητα, διότι ἐν τῷ παραδείσῳ µυηθεὶς
τῶν ἀπορρήτων τὴν γνῶσιν καὶ λαλοῦντα ἔχων ἐν ἑαυτῷ τὸν Χριστὸν τοιαῦτα ἐφθέγγετο οἷα εἰκὸς τὸν ἐκ τοῦ
τοιούτου διδασκαλείου πεπαιδευµένον φθέγγεσθαι ὑπὸ καθηγεµόνι τε καὶ διδασκάλῳ τῷ Λόγῳ.
60 CAHILL 1981, p. 458.
61 Cf. TeI passim; in special modo TeI 16, 9-24, 18; su Paolo, cf. TeI 24, 22-25, 17.
302
55
definisce lo stesso Paolo in 1 Tim 1, 13, si fosse spogliato di tutto il suo male guardando verso
l’unico bene e sottomettendosi ad esso.
Infine, ancora nell’In Illud: Tunc et Ipse Filius 62 si ricorda un altro merito di Paolo, quello
cioè di aver inventato un nuovo linguaggio che permettesse di esprimere i contenuti della
fede, a volte risignificando termini che, se viste nella loro accezione consueta, non permettono
la comprensione. Questa polisemia diventa quindi, nel trattato, una prova ulteriore del fatto
che la ὑποταγή che il Figlio offrirà al Padre secondo 1Cor 15, 28 non implica una differenza
nella sostanza delle due ipostasi divine, come se il Figlio fosse inferiore: Paolo infatti fa uso
con libertà delle parole, secondo quello che gli sembra appropriato, e le sa adattare al suo
pensiero, anche se la consuetudine ne orienterebbe l’uso verso altre nozioni.
Nel De perfectione63 si dichiarano due motivi per i quali Paolo è assunto come colui che
può condurre nel cammino, come guida sicura per avere una certezza su ciò che si desidera
davvero: nessuno infatti più di lui conobbe che cosa è Cristo ed educò a come debba essere
colui che vuole conformarsi al suo nome attraverso quello che fece. Questa insistenza sulla
testimonianza nei fatti delle parole che sono dette è presente sin dall’inizio del trattato,
quando il Nisseno constata con rammarico di non poter fornire lui con la propria vita questo
esempio perfetto64. La possibilità della testimonianza è insita nella dinamica dell’imitazione65:
in ottemperanza a questo, la caratteristica che viene più sottolineata dell’apostolo delle genti è
appunto la µίµησις (µιµησάµενος,: DPe 175, 5; µιµήσεως: DPe 175, 7) di questi rispetto al
proprio maestro, tanto da modellare (µεµορφωµένον: DPe 175, 6; µεταβληθέντος: 175, 7) la
propria anima su Cristo66. Gli appellativi attraverso cui egli ha descritto il mistero del
salvatore diventano dunque per gli uomini la possibilità del µανθάνειν 67. Egli fu infatti
ispirato e istruito da Dio secondo verità68 , tanto da poter indagare nella profondità di quei
misteri. Adattandosi alla povertà della parola rispetto alle illuminazioni concesse alla mente e
alle possibilità dei suoi ascoltatori, egli raccontò quello che gli fu donato attraverso piccole
scintille (δι' ἐναυσµάτων: DPe 187, 22). Non è possibile infatti esprimere attraverso dei nomi
l’essenza di Dio; le parole avvicinano tuttavia ai grandi misteri della fede, permettendo ad
esempio di rispondere alle aporie che riscontra la ragione a fronte delle domande sull’origine
62
Cf. TeI 25, 10-26, 19. Cf. in particolare TeI 25, 11-15: οἶδε γὰρ ἡ σοφία τοῦ µεγάλου Παύλου πρὸς τὸ δοκοῦν
κεχρῆσθαι κατ' ἐξουσίαν τοῖς ῥήµασι, καὶ τῷ ἰδίῳ τῆς διανοίας εἱρµῷ προσαρµόζειν τὰς τῶν ῥηµάτων ἐµφάσεις,
κἂν πρὸς ἄλλας τινὰς ἐννοίας ἡ συνήθεια τὴν κατάχρησιν τῶν λέξεων φέρῃ.
63 Cf. DPe 174, 24-175, 4: οὐκοῦν τὸν ἄγιον Παῦλον πρὸς τὰ δύο ταῦτα καθηγεµόνα ποιούµενοι ἀσφαλεστάτην
ἕξοµεν ὁδηγίαν πρὸς τὴν τῶν ζητουµένων σαφήνειαν. οὔτος γὰρ µάλιστα πάντων ἀκριβῶς καὶ τί ἐστιν ὁ Χριστὸς
κατενόησε καὶ οἵον εἴναι χρὴ τὸν ἐπονοµαζόµενον αὐτῷ δι' ὦν ἐποίησεν ὑφηγήσατο κτλ.
64 Cf. DPe 173, 4-8.
65 Cf. Cap. V.1.
66 Cf. DPe 175, 5-13.
67 Cf. ad esempio DPe 182, 3-7, dove si dice che i primi due appellativi usati dall’apostolo, Cristo potenza e
sapienza di Dio, consentono la conoscenza dei concetti che permettono la venerazione di questi.
68 Cf. DPe 187, 15-16: ὁ γὰρ θεόπνευστος ὡς ἀληθῶς καὶ θεοδίδακτος Παῦλος.
303
del mondo69. Particolarmente importante è la chiosa del discorso, nella quale si evidenzia
come tutte le considerazioni paoline appena prese in esame ed i ragionamenti che hanno avuto
queste come fondamento siano per l’uomo materia di educazione (παιδευόµεθα: DPe 190, 8):
attraverso esse infatti l’uomo è chiamato a spingere lo sguardo verso colui che è l’origine
dell’essere70.
Le caratterizzazioni di Paolo come διδάσκαλος o µάρτυρ, nonché uomo soggetto alla
παίδευσις del Logos sono le più comuni e ricordate anche in altri punti di questo lavoro; in
questo luogo si vogliono ricordare solo tre luoghi di altrettante omelie pasquali che sembrano
più significativi.
Nell’omelia In Sanctum Pascha71 il Nisseno introduce la citazione libera72 di 1Cor 15,
36-38 con l’annotazione Παῦλος ὁ πάνσοφος παιδεύει τοὺς ἄφρονας (SP 259, 17-18),
rimarcando nuovamente il valore degli insegnamenti paolini da cui si è ammaestrati
(διδαχθησόµεθα: SP 259, 23) e la piena sapienza che ebbe l’apostolo delle genti, la cui parola
educa.
Nel De tridui spatio73 si riscontra un passo di dubbia autenticità: solo una parte dei codd.
riporta infatti in riferimento a Paolo il participio παιδευθέντος74; che esso sia da espungere o
meno, mostra comunque che per Gregorio era sentita naturale la caratterizzazione del teologo
come educato agli ineffabili misteri.
Nell’omelia In luciferam sanctam Domini resurrectionem 75 infine Gregorio ripercorre la
storia della salvezza, sottolineando come il male che prima sconvolgeva la terra sia stato
privato della sua vittima attraverso la resurrezione di Cristo tramite la croce. Di questo fu
testimone (µάρτυρα: LSR 319, 15) Paolo attraverso quello che disse.
Nel De beatitudinibus76 la lotta di Paolo contro l’avversario è avvicinata alla corsa e allo
sport del pugilato, che richiama alla memoria l’immagine dell’atleta di Cristo; il paragone è
utile al Nisseno anche per mostrare come la virtù della mitezza non esorti ad una calma
ignavia, bensì ad una tensione verso il meglio che smorzi le passioni troppo sfrenate.
La caratterizzazione di Paolo come il buon maestro che orienta il suo discorso in modo
adeguato rispetto ai suoi interlocutori è ripresa anche nel De vita Moysis77; vi si incontrano i
più perfetti (τοῖς τελειοτέροις: VM II 140, 8), che possono nutrirsi di cibi più difficili da
digerire, i più deboli (τοῖς ἀσθενεστέροις: VM II 140, 9), che devono essere nutriti da cibi
69
Cf. DPe 187, 16-190, 12.
Cf. DPe 190, 7-9: ἐκ δὲ τούτων παιδευόµεθα τὸ πρὸς αὐτὸν βλέπειν, ἀφ' οὗ τῶν οντων ἐστὶν ἡ γένεσις.
71 Cf. SP 259, 17-23.
72 Cf. PIETRELLA 2009, p. 93 n. 93.
73 Cf. TS 299, 12-13
74 Cf. l’apparatus fontium proposto da Gebhardt ad locum.
75 Cf. LSR 319, 11-18.
76 Cf. DB 93, 12-94, 3.
77 Cf. VM II 140.
304
70
leggeri, e coloro che sono ancora infanti nell’età spirituale (τοῖς νηπιάζουσι: VM II 140, 10) e
per questo possono ricevere solo latte.
L’opera nella quale è più evidente l’esemplarità di Paolo è sicuramente l’In canticum.
L’apostolo delle genti è nominato in molti passi, alcuni dei quali appare utile commentare.
Nel proporre ad esempio una lettura dell’immagine della lettiga (φορεῖον, Cant 3, 9),
commentata nell’omelia VII78, l’esegeta ad esempio nota come l’economia di Dio si attui in
molti modi (πολυτρόπως: IC 206, 12) e conceda a ciascuno secondo le capacità e i meriti
(δυνάµεώς τε καὶ ἀξίας: IC 206, 13) di diventare in diverso modo partecipi della stessa
divinità79 . Il termine φορεῖον è particolarmente significativo per la derivazione da φέρω: chi
diviene lettiga dunque porta sopra di sé e allo stesso tempo in sé Dio80 e da lui riceve ogni
dono di grazia, tra cui la piena forza dell’amore (τὴν τῆς ἀγάπης ἐνέργειαν: IC 207, 5).
Modello principe di questo è Paolo, che in Gal 2, 20 identifica la propria vita con quella di
Cristo81 . Gregorio mostra di aver particolarmente caro il versetto82, cui però aggiunge sempre
una precisazione: l’apostolo delle genti mostra (δεικνύειν 83) o offre una conferma (δοκιµὴν
διδόναι)84
di queste parole, quasi a sottolineare come la sua vita fosse in se stessa
testimonianza, indicasse cioè attraverso le sue opere chi viveva in lui.
In un passo di poco successivo85 l’esegeta affianca la Sposa e Paolo, come aveva già fatto
durante l’omelia II 86, attraverso il concetto dell’imitazione (i passi ricordati in entrambi i
luoghi87 da Gregorio sono Gal 4, 21 e 1Cor 11, 1): come per l’apostolo delle genti era un
danno il non condividere ciò che egli aveva ricevuto della fede e si proponeva come modello
78
Cf. IC 206, 1-207, 13.
C’è chi infatti è τόπος di Dio, chi ne è οἶκος, chi ne è θρόνος e chi ancora ne è ὑποπόδιον (cf. IC 206, 14-15);
allo stesso modo, riprendendo passi precedentemente analizzati (cf. IC 75, 7-76, 20), Gregorio sostiene che
l’anima possa essere anche carro o cavallo che obbedisce alle redini ed è guidato dal buon cavaliere (cf. IC 206,
16-18). Il passo nella sua globalità sembra riecheggiare Eph 4, 11-12 e 1Cor 12, 4-11, nei quali si ricorda la
diversità dei doni dello Spirito che tuttavia mirano tutti all’opera del ministero e all’edificazione del corpo di
Cristo (εἰς ἔργον διακονίας, εἰς οἰκοδοµὴν τοῦ σώµατος τοῦ Χριστοῦ: Eph 4, 12).
80 Cf. IC 207, 7-8: ὁ τὸν θεὸν ἐν ἑαυτῷ φέρων φορεῖόν ἐστι τοῦ ἐν αὐτῷ καθιδρυµένου.
81 Gal 2, 20: ζῶ δὲ οὐκέτι ἐγώ, ζῇ δὲ ἐν ἐµοὶ Χριστός: ὃ δὲ νῦν ζῶ ἐν σαρκί, ἐν πίστει ζῶ τῇ τοῦ υἱοῦ τοῦ θεοῦ
τοῦ ἀγαπήσαντός µε καὶ παραδόντος ἑαυτὸν ὑπὲρ ἐµοῦ.
82 Cf. IC 88, 4-5; 207, 9-13.
83 IC 88, 4-5: µηκέτι αὐτὸν ζῆν, ἀλλ' ἐν ἑαυτῷ δεικνύειν ζῶντα ἐκεῖνον.
84 Il termine δοκιµή è sconosciuto al greco classico; le attestazioni più antiche sono nell’epistolario paolino o ad
egli attribuito: Rom 5, 4; 2Cor 2, 9; 8, 2; 9, 13; 13, 3; Phil 2, 22. La sua interpretazione deve basarsi sul passo
dell’epistola ai Romani, nel quale δοκιµή è frutto della pazienza e fondamento della speranza, e le altre
testimonianze, che riferiscono strettamente il termine ad una probante condotta di vita.
85 Cf. IC 211, 21-212, 14.
86 Cf. IC 45, 16-47, 5. In questo passo l’anima, una volta nera per il peccato, è rifatta bella e loda colui che le ha
donato nuovamente la sua bellezza; per questo esorta le anime che imparano da lei a seguire il suo esempio. Il
testo Allo stesso modo Paolo aveva esortato i destinatari delle sue lettere a farsi suoi imitatori come lui lo era di
Cristo; anch’egli ringrazia per la sua conversione chi lo ha chiamato, da bestemmiatore e violento, al suo
servizio e propone della sua vicenda un esempio (ὑποτῦπωσις) per coloro che crederanno in lui (cf. 1 Tim 1,
12-17).
87 Cf. IC 46, 20-47, 1 e 212, 2-4.
305
79
da seguire se stesso che imitava Cristo88 , così la Sposa, piena di amore per l’umanità a
imitazione del suo diletto89, esorta le giovinette che la guardano, raffigurazione delle anime di
coloro che sono destinati a salvezza, a volgere lo sguardo verso il suo amato, diventando
figlie di Sion. Il parallelo tra le due figure, che nell’omelia II aveva portato al significativo
accostamento ἡ τοῦ Χριστοῦ νύµφη, ὁ Παῦλος (IC 48, 15), si regge quindi sulla
preoccupazione verso il resto dell’umanità e sull’esortazione di questa a imitazione di Cristo.
Si è già esaminato90 il passo dell’omelia VII in cui, discutendo dell’immagine del collo
della Chiesa, Gregorio proponga come pietra di paragone l’apostolo e chiunque altro, a sua
imitazione, rese retta la sua vita e divenne strumento del Signore, portando il suo nome91 ; uno
dei passi di maggior rilievo per far risaltare l’esemplarità paolina nell’In Canticum è ad esso
appena successivo, vale a dire l’incipit dell’omelia VIII92 . Secondo una costante degli ultimi
discorsi, Gregorio affronta il tema dell’infinito cammino per giungere a Dio, che passa di
gloria in gloria acuendo sempre più il desiderio di chi lo intraprende. Paolo da questo punto di
vista è esempio perfetto: nella seconda lettera ai Corinzi l’autore afferma di essere stato rapito
al terzo cielo 93 ed è in dubbio se questo fosse accaduto solo in spirito o anche nel corpo94.
Gregorio parla in questo caso di mistica iniziazione al Paradiso (τῆς ἐν τῷ παραδείσῳ
µυσταγωγίας: IC 245, 14) che consentì a Paolo di udire ciò che non può essere espresso a
parole, i misteri divini (τὴν ἄρρητον τῶν τοῦ παραδείσου µυστηρίων ἀκρόασιν: IC 245,
19-20); dopo questo tuttavia il desiderio di quest’ultimo, come non manca di sottolineare il
commentatore, lo spingeva ancora senza arrestarlo, insegnando (διδάσκων: IC 245, 22) così
che se l’uomo nel progresso della vita può fare esperienza della natura del bene cui anela,
esso è sempre infinitamente maggiore di quanto viene compreso, che si accresce in
proporzione alla capacità di comprendere95 . Questo discorso continua fino all’omelia XI, nella
quale si sottolinea come l’apostolo grazie ai flutti dei suoi pensieri giunse al terzo cielo,
godendo della visione delle realtà inesprimibili e decretò che le parole erano semplice ombra
88
I passi paolini ricordati da Gregorio sono, nell’ordine, 1Cor 10, 33 e il suo parallelo Fil 3, 7; Gal 4, 12; 1Cor
11, 1.
89 Cf. IC 214, 20.
90 Cap. III.4.1.
91 Cf. IC 235, 13-16: τοιοῦτος τράχηλος ὁ Παῦλος ἦν καὶ εἰ δή τις ἄλλος κατὰ µίµησιν ἐκείνου τὸν βίον
κατώρθωσεν, ὃς ἐβάστασε µὲν τὸ ὄνοµα τοῦ κυρίου σκεῦος ἐκλογῆς τῷ δεσπότῃ γενόµενος.
92 Ci si riferisce a IC 245, 11-247, 18.
93 Il Nisseno si premura di precisare (cf. IC 245, 18-19) che il libro della Genesi - attribuito a Mosè, come spiega
MORESCHINI p. 199 n. 4 -, quindi la rivelazione antica, non faceva menzione di questo cielo; non solo dunque
esso deve essere considerato «realtà ultraterrena», come sottolinea ancora il critico, ma diventa anche nuova
prova del superamento della legge antica. Nella Apologia in Hexaemeron (cf. ApH 82, 15-83, 9) Gregorio
ricorda infatti lo studio assiduo delle Scritture (ἔµαθε: ApH 83, 3) cui Paolo fu introdotto sin da bambino, che gli
permise di dare un nome a quel luogo, oltre che implicitamente di raggiungerlo.
94 Cf. 2Cor 12, 1-4.
95 Cf. IC 246, 7-8.
306
della vera realtà: egli infatti non credeva ancora di aver compreso e riteneva che chi riteneva
di aver compreso in realtà non possedesse pienamente ciò che diceva96.
Paolo è quindi emblema di un’anima che manda il buon profumo di Cristo grazie alla
mescolanza di molteplici virtù, ministra di santità e di pace, secondo un’immagine presente
nell’omelia III e nella IX97. Si discute in quei passi di come sia possibile ricavare per via di
analogia la bellezza archetipale partendo da una sua figura98: Paolo, identificato nuovamente
con la Sposa, attraverso le virtù imita lo Sposo (διὰ τῶν ἀρετῶν τὸν νυµφίον µιµούµενος: IC
91, 4-5), riguadagnando per sé la bellezza originaria dell’anima in cui splendeva Dio. Un
uomo siffatto, dicono ancora le omelie In Canticum, offrì se stesso agli altri come incenso
divenendo, a seconda della disposizione di ciascuno, soffio di vita per chi era già sulla via
della virtù, di morte per chi invece non lo era. L’accostamento prende le mosse dall’immagine
del profumo del nardo, che Gregorio aveva interpretato come il profumo delle virtù che
rendono possibile una conoscenza dello Sposo; Paolo stesso aveva parlato del profumo della
conoscenza di Cristo che Dio rende visibile in ogni luogo attraverso i cristiani99.
Quest’immagine è infine ripresa all’inizio dell’omelia XIV100 , nella quale il Nisseno,
continuando commentare le lodi che la Sposa intesse per descrivere lo Sposo, affronta
l’immagine delle mascelle di questi, paragonate a fiale di profumo. Il riferimento immediato è
all’immagine dei denti, con la quale si instaura uno stretto rapporto, in quanto entrambi
sminuzzano gli insegnamenti della Scrittura; exemplum di questa immagine rimane ancora
Paolo101 . Egli infatti, costituito di nuovo per mezzo del battesimo, ha reso se stesso saldo
grazie al suo impegno nel render manifesta la verità (τῇ φανερώσει τῆς ἀληθείας ἑαυτὸν
συνιστάνων: IC 403, 1). Fatto strumento della scelta di Dio, come si legge nel brano della
conversione di Saulo negli Atti per bocca di Dio stesso102, non gli servì qualcun altro che gli
versasse la conoscenza dei misteri, perché egli faceva zampillare la parola di Dio in sé.
Spandeva quindi, continua l’esegeta, il buon profumo di Cristo su chi lo ascoltava, modulando
adeguatamente quello che diceva al bisogno di tutti coloro che ne erano in cerca (πρὸς τὴν τοῦ
ζητοῦντος χρείαν: IC 403, 13): è questa la grazia dell’insegnamento (τῆς διδασκαλίας ἡ χάρις:
IC 403, 17) che egli possedeva in somma varietà, per rispondere al bisogno di ciascuno.
96
Cf. ad es. IC 326, 11-20, dove sono citati 2Cor 12, 2-4; 1Cor 13, 9; 1Cor 8, 2; Phil 3, 13.
Cf. IC 91, 4-93, 9; 268, 5-11. Il passo paolino cui Gregorio si riferisce è per entrambi 2 Cor. 2, 14-17.
98 In IC 91, 3-13 la sentenza e il suo esempio sono correlati dall’uso di ὥσπερ e οὕτω, che l’editore moderno
separa però con un punto. Nel testo greco tuttavia pare evidente il legame comparatico suggerito al lettore, che
identifica l’insegnamento e la testimonianza che lo compie.
99 Cf. 2Cor. 2, 14: τῷ δὲ θεῷ χάρις τῷ πάντοτε θριαµβεύοντι ἡµᾶς ἐν τῷ Χριστῷ καὶ τὴν ὀσµὴν τῆς γνώσεως
αὐτοῦ φανεροῦντι δι' ἡµῶν ἐν παντὶ τόπῳ:.
100 Cf. IC 399, 15-403, 21.
101 Cf. IC 402, 23-403, 22.
102 Cf. Act 9, 15.
307
97
Paolo è inoltre διατάκτης (IC 122, 9), ordinatore, della nuova conoscenza che, fondandosi
sulla Legge, fiorisce ed è compresa nella parola del Vangelo: attraverso il suo insegnamento
egli infatti faceva spuntare i giardini viventi e così rendeva possibile la crescita del bosco
della Chiesa103. È questo il motivo per cui durante la lode delle labbra dello Sposo presente
nell’omelia XIV104 si nomina ancora l’apostolo delle genti e la leggenda che lo vede
affiancato alla santa vergine Tecla105 : in quel passo si narra infatti del buon insegnamento
(µετὰ τὴν ἀγαθὴν διδασκαλίαν: IC 405, 7) dell’apostolo che ispirarono la giovane e la resero
protettrice della verginità106.
L’Apostolo diventa infine simbolo dell’anima che esulta per le percosse di Dio, perché sa
che da esse viene liberata dal male e accresciuta nella conoscenza di Lui. Nell’omelia XII
infatti Gregorio commenta un passo del Cantico107 in cui l’anima, uscita a cercare il suo
diletto, esce dalla città e viene trovata dai guardiani che la percuotono e le strappano il velo.
Interpretando i guardiani come gli angeli e la percossa di Dio come un modo ulteriore di
addentrarsi nelle realtà divine, strappando il velo che ricopre gli occhi, il Nisseno ricorda
come Paolo si vantasse delle sue ferita, perché portava nel cuore i segni di Cristo; sempre il
passo paolino indicherebbe anche, secondo l’esegeta, la debolezza che questi aveva nel
compiere il male, grazie alla potenza di Cristo, portata a compimento nella sua virtù108. Per
l’anima il progresso è infinito; anche Paolo, conclude l’esegeta, moriva di giorno in giorno,
passando così sempre ad una nuova vita più alta che obliava i traguardi prima raggiunti109 .
Paolo è infatti ὁ µιµητὴς τοῦ Χριστοῦ, secondo una definizione che si trova in IC 443, 15:
è proprio grazie a questa immedesimazione che Gregorio può renderlo exemplum realizzato,
nell’ultima omelia dell’In Canticum 110, dell’anima che è per gli altri ciò che l’uomo Gesù fu
per i suoi apostoli e quindi per l’umanità intera111 . Paolo infatti come Cristo morì per il
riscatto di tutti non esita a desiderare di farsi anatema, offrendo la propria vita a favore del
popolo eletto, che non prestava fede alla sua predicazione112.
103
Cf. IC 292, 4-7: οὕτως ἀνέβρυε τοὺς ἐµψύχους κήπους ὁ θεῖος ἀπόστολος, παρ' οἷς ἂν ἐγένετο τὸν τῆς
ἐκκλησίας παράδεισον διὰ τῆς διδασκαλίας ἐκφύων.
104 Cf. IC 403, 22-406, 6.
105 Cf. gli apocrifi Acta Pauli, 5-7.
106 Cf. MORESCHINI 1996, p. 312 n. 13.
107 Cf. Cant 5, 6b-7, che Gregorio commenta in IC 359, 5-370, 13.
108 Gregorio contamina qui Gal 6, 17 e 2Cor 4, 10. Il passo nisseniano cui ora ci si riferisce è IC 366, 2-6.
109 Cf. IC 366, 20-367, 1, che procede sulla scorta di 1Cor 15, 31.
110 Cf. IC 443, 15-17.
111 Cf. IC 443, 12-15.
112 Cf. Rom 9, 3 commentato in IC 443,15-444, 7.
308
VI.4 Gregorio il Taumaturgo
Gregorio di Nissa fu autore anche di biografie ed encomi, che rispondono appunto alla sua
concezione pedagogica basata sulla µίµησις 113; più il protagonista dell’opera è legato a
Gregorio dal punto di vista cronologico114 e affettivo, più sentiti sono i riferimenti alla
tematica paideutica.
Gregorio il Taumaturgo costituisce per il Nisseno una figura esemplare in quanto la sua
vita fu retta dalla potenza dello Spirito115; è questa stessa forza, afferma l’autore, che occorre
invocare all’inizio di uno scritto che voglia comporre l’elogio di un santo116 , affinché le
parole giungano ad esprimere davvero ciò che di illustre si ritrova nella sua vita. Un discorso
di celebrazione ha infatti valore nella misura in cui rinfocoli la memoria delle azioni eccellenti
nella virtù e inviti all’emulazione di esse, come un faro per coloro che navigano errando nel
mare aperto o una fiaccola che risplenda pur nel ricordo. È infatti proprio dell’uomo voler far
proprio e cercare di raggiungere tutto ciò che è degno di lode e a cui si riconosce un valore117.
Per un cristiano, educato (πεπαιδευµένων: VG 4, 24) ad un giudizio del bello (ἡ τοῦ καλοῦ
κρίσις: VG 4, 27) differente da quello degli altri uomini, ciò di cui si gloria il mondo, come la
patria o la stirpe, non riveste un valore così decisivo118 e non dovrebbe aver posto nell’elogio
di un santo; il Nisseno comunque accenna come anche dal punto di vista prettamente umano il
Taumaturgo vantasse una patria illustre, il Ponto Eusino, del quale si attesta (µαρτυρεῖται: VG
7, 4; µαρτυροῦντος: VG 7, 6) la virtù di chi abitava quel luogo, oltre ad abitare nella
rinomatissima città di Neocesarea119. L’autore non fa menzione neppure dei suoi genitori, non
potendo contribuire essi di più alla gloria di quell’uomo120; il discorso prende invece l’avvio
dalla giovinezza del Taumaturgo121, nella quale si mostrarono i segni della sua virtù. I genitori
di Gregorio morirono quando questi era ancora in tenera età; in tale periodo, nel quale gli
attacchi del male sono forse più virulenti, il Taumaturgo mostrò di possedere un retto pensiero
113
«La biografia e l’encomiastica cristiana trovano la loro prima giustificazione nella funzione pedagogica che il
personaggio modello viene ad assumere [...]. Consapevolmente ci si ricollega alla teoria dell’imitazione dei santi
i quali, a loro volta, hanno modellato la loro vita sull’imitazione di Cristo» (GIANNARELLI 1988, pp. 27-28).
114 Una delle peculiarità delle biografie cristiane è la vicinanza, anche cronologica, tra lo scrittore e i fatti che
narra: LUCK 1984, p. 21-22, scrive infatti che «generally speaking, the biographers have benn close to the men
and women whose memories they preserve. [...] This personal contact may be the reason why many of the lives
of saints have a quality of immediacy which one does not find in other acient biographies».
115 Cf. VG 3, 5-4, 15.
116 Sul valore agiografico piuttosto che storico del De vita Gregorii Thaumaturgi, cf. VAN DAM 1982, passim.
117 Cf. VG 4, 14-15: πεφύκαµεν γάρ πως οἱ ἄνθρωποι πρὸς ἅπαν τὸ ἐπαινετόν τε καὶ τίµιον οἰκείως ἐθέλειν ἔχειν,
καὶ ἐν ἐπιθυµίᾳ τῆς κτήσεως γίνεσθαι.
118 Cf. VG 4, 24-5, 2.
119 Cf. VG 7, 1-21.
120 Cf. VG 7, 22-8, 5.
121 Cf. VG 8, 6-9, 8.
309
orientato al bene (διάνοια τῆς τοῦ καλοῦ κρίσεως: VG 8, 11) assente nei più che gli fece
subito cercare la vera sapienza, cui seguirono tutte le altre virtù.
Il Taumaturgo viene quindi paragonato al patriarca Abramo122 e a Mosè; il primo, esperto
della dottrina e della filosofia caldaica, usò le proprie conoscenze per dirigere il suo sguardo
verso l’alto, verso il vero bene, come una scala che avesse come suo fine la contemplazione:
come questi, così il giovane studiò con diligenza la filosofia pagana, servendosi di essa come
via e mezzo per la religione cristiana. Dagli stessi principi elaborati dai sapienti greci il
Taumaturgo riconobbe l’inconsistenza della loro dottrina in materia teologica, e aderì
all’annuncio cristiano. Come poi Mosè fu istruito nella sapienza egiziana, secondo quanto il
Nisseno poteva leggere in Act 7, 22, così anche Gregorio passò per l’educazione classica e
provò per esperienza la sua inconsistenza, divenendo per questo discepolo del Vangelo e
abbracciando una pura condotta di vita anche prima di essere battezzato 123.
Il De vita Gregorii Thaumaturgi mostra un costante riferirsi agli exempla biblici: la figura
di Abramo, come appena visto, fornisce un esempio alla strada conoscitiva intrapresa dal
santo che lo condusse a contemplare l’inesprimibile; allo stesso modo la sequela delle
filosofie naturali ricordata per il periodo in cui il Taumaturgo rimase ad Alessandria d’Egitto
presenta all’encomiaste la possibilità di affiancarlo a Giuseppe124 . In quella città infatti il
giovane Gregorio si distinse per la purezza di vita, fornendo però senza saperlo motivo di
scandalo per gli altri giovani non altrettanto virtuosi. Costoro, disturbati da un simile esempio
di morigeratezza, incaricarono una donna tacciata da un’infamante reputazione di presentarsi
ad una riunione in cui era presente anche il giovane Gregorio; essa doveva far credere di
essere in familiarità con il santo e di essere stata da lui defraudata. Senza scomporsi, il
Taumaturgo pregò uno dei suoi familiari di darle il denaro che chiedeva, perché non
disturbasse ulteriormente le dotte discussioni filosofiche con le quali si stavano intrattenendo.
Egli non chiese nessun testimone (µάρτυρας: VG 11, 5) che perorasse la sua causa; Dio stesso
tuttavia se ne prese carico (µαρτυρία: VG 11, 14). La donna infatti, ricevendo dalle sue mani il
denaro, fu colta da un attacco nel quale i presenti - e il Nisseno si premura di precisarlo riconobbero l’opera del demonio; solo una supplica da parte del santo poté calmare le
convulsioni. Senza un padre o una madre che lo educassero (παιδαγωγοῦντος: VG 12, 2) a tale
vita, il giovane dunque si elevò tanto da rendere testimone (µάρτυρα: VG 12, 4) della propria
122
Cf. VG 9, 8-10, 13.
Cf. VG 10, 7-13: ∆ιὰ ταῦτα, καθὼς περὶ τοῦ Μωϋσέως φησὶν ἡ Γραφὴ, ὅτι ἐπαιδεύθη πάσῃ σοφίᾳ τῶν
Αἰγυπτίων· οὕτως καὶ ὁ Μέγας οὗτος, διὰ πάσης ἐλθὼν τῆς τῶν Ἑλλήνων παιδεύσεως, καὶ γνοὺς τῇ πείρᾳ τῶν
παρ' αὐτοῖς δογµάτων τὸ ἀσθενὲς καὶ ἀσύστατον, µαθητὴς τοῦ Εὐαγγελίου καθίσταται· καὶ πρὶν ἀχθῆναι διὰ τῆς
µυστικῆς τε καὶ ἀσωµάτου γεννήσεως, οὕτως κατώρθου τὸν βίον, ὡς µηδένα ῥύπον τῆς ἁµαρτίας ἐπὶ τὸ λουτρὸν
εἰσενέγκασθαι.
124 Cf. VG 10, 14-13, 3.
310
123
virtù Dio stesso 125. Come Giuseppe, che rifiutò le lusinghe della moglie di Putifarre e non
volle compiere neppure un peccato nascosto126, anche il Taumaturgo era dunque cosciente di
vivere al cospetto di Dio in ogni momento e preferì rifiutare l’apparenza di questo mondo
piuttosto che abbandonarsi al male.
Il giovane Gregorio trovò quindi in Firmiliano, un giovane patrizio della Cappadocia (dal
230 vescovo di Cesarea), un amico sincero: entrambi infatti erano accomunati dal desiderio di
rivolgersi con pienezza a Dio, e si adoperarono per rispondere a questa tensione127 . Una volta
completato il cursus dell’educazione antica (πᾶσαν παίδευσιν τῆς ἔξω σοφίας: VG 13, 4) i due
si recarono insieme da Origene, che in quel momento rappresentava il maestro più ricercato
per chi volesse attendere agli studi sacri. Nonostante il Taumaturgo, scrive il Nisseno, fosse
già pieno di sapienza, non disdegnò l’insegnamento di un maestro, concedendosi tutto il
tempo che riteneva necessario ad una salda formazione. Origene e i suoi collaboratori
tentarono di persuaderlo a rimanere presso di loro, riconoscendo in lui un modello di virtù che
potesse dettare a ciascuno le norme della vita (καθάπερ οἰκιστὴν ἀρετῆς καὶ βίου νοµοθέτην:
VG 13, 28-29), ma il santo decise di fuggire il rischio della superbia e di ritornare nella sua
patria, forte del suo progresso nella sapienza divina (σοφίας: VG 13, 20) e nella conoscenza
che gli derivava dagli studi profani (γνώσεως: VG 13, 20)128.
Il Taumaturgo diede quindi testimonianza della sua virtù anche tra i suoi concittadini129 :
essi infatti si aspettavano che, una volta tornato, il giovane facesse sfoggio della sua cultura
(παίδευσιν: VG 14, 3), cogliendo così il frutto dei suoi studi; egli invece, comprendendo il
rischio cui poteva esporsi nei fori, vale a dire quello della vanagloria, si serviva del silenzio,
mostrando con i fatti più che con le parole il suo tesoro nascosto (ἔργῳ δεικνὺς τὸν
ἐγκείµενον θησαυρὸν οὐχὶ ῥήµασι: VG 14, 9-10). Seguendo l’esempio di Mosè, si ritirò
dunque nel deserto, per vivere con Dio solo e rendere il proprio animo perfetto. Il Nisseno
sottolinea anzi come il Taumaturgo non abbia neppure indulto alla pur legittima passione del
matrimonio, ma si sia conservato puro avendo come sola compagna la virtù.
125
Una nuova µαρτυρία divina a favore della fede del santo è ricordata in VG 28, 2-13: tale passo racconta la
costruzione da parte di Gregorio di un tempio grazie alle offerte di tutta la collettività; la condiscendenza divina
per tale opera di fede, commenta il Nisseno, fu resa evidente (µαρτυρεῖται: VG 28, 6; εἰς µαρτυρίαν: VG 28, 12)
da un sisma avvenuto ai tempi dello scrittore che abbatté tutti gli edifici presenti nella città ad eccezione della
costruzione voluta dal Taumaturgo, che rimase intatta e stabile, segno evidente della predilezione divina.
126 Cf. Gen 39, 1-20.
127 Cf. VG 13, 2-14, 2.
128 Cf. VG 13, 14-22: τοσαύτης γὰρ σοφίας ἀνάπλεος ὢν ἑτέρῳ χρήσασθαι διδασκάλῳ πρὸς τὰ θεῖα τῶν
µαθηµάτων, οὐκ ἀπηξίωσεν, καὶ διαγαγὼν παρὰ τῷ διδασκάλῳ χρόνον τοῖς µαθήµασι σύµµετρον, πολλῶν
ὄντων τῶν παρακαλούντων καὶ κατεχόντων αὐτὸν ἐπὶ τῆς ἀλλοδαπῆς, καὶ παρ' αὐ τοῖς ἀξιούντων µένειν,
πάντων προτιµοτέραν τὴν ἐνεγκοῦσαν αὐτὸν ποιησάµενος, ἐπὶ τὴν πατρίδα πάλιν ἐπάνεισιν, τὸν παντοδαπὸν
πλοῦτον τῆς σοφίας τε καὶ τῆς γνώσεως ἐπαγόµενος, ὃν καθάπερ τις ἔµπορος ἐν ταῖς ἔξω σπουδαῖς πᾶσι
καθοµιλῶν τοῖς εὐ δοκίµοις ἐνεπορεύσατο.
129 Cf. VG 14, 2-15, 5.
311
Il Taumaturgo fu fatto quindi sacerdote e vescovo da Fedimo, che gli assegnò quella che
poi sarà la città dove avrebbe operato il suo apostolato130. Non volendo egli cominciare la
propria predicazione senza essere rassicurato nei dubbi che erano istillati nella santa dottrina
(εὐσεβῆ διδασκαλίαν: VG 16, 13) da chi la alterava e la confondeva, ricevette quindi la
conferma della retta fede in una visione notturna, nella quale gli apparve un vecchio
venerando, che poi si rivelò come l’evangelista Giovanni, e la Madre di Dio131 . Non
sopportando con gli occhi tale vista, fu educato (ἐπαιδεύθη: VG 17, 10) da costoro attraverso i
loro discorsi. Una volta cessata tale visione, il Taumaturgo mise per iscritto e diffuse
l’insegnamento (διδασκαλίαν: VG 17, 21) ricevuto. Tali scritti, conservate nella chiesa dove il
santo predicava, sono quindi paragonate alle tavole della legge del Sinai: anche in questo caso
il vescovo è accostato a Mosè e il Nisseno evidenzia come la materialità che ancora si
riscontra nel racconto biblico è superata nella rivelazione divina che segue l’annuncio
evangelico.
Il racconto prosegue quindi mostrando le prodezze compiute dal santo, ormai athleta
Christi132 : in un ampio paragone si legge di come ormai il Taumaturgo, grazie al proprio
παιδοτρίβου (VG 20, 1), avesse raggiunto l’esperienza e la forza necessarie per affrontare la
gara; senza esitazione dunque questi entrò nello stadio per la lotta, corroborando il proprio
spirito con gli insegnamenti divini così come l’olio aiuta i muscoli degli atleti. Il Taumaturgo
infatti, come valido generale, mise in fuga le schiere del nemico.
Preme sottolineare come, anche se il Nisseno non ne fa estesa menzione, il Taumaturgo si
muovesse sin dall’inizio della sua predicazione insieme a uomini che lo seguivano (µετὰ τῶν
ἑποµένων αὐτῷ: VG 20, 21), avendolo riconosciuto evidentemente come maestro. Viene
quindi descritta la prima vittoria contro il demonio 133 e la purificazione di un tempio pagano,
tanto più significativa in quanto, istigato dal sacerdote di quel tempio, il Taumaturgo gli
mostrò come egli avesse, per volere divino, anche il potere di far ritornare i demoni cacciati.
Il sacerdote, non educato alla retta conoscenza (ἀπαίδευτον: VG 21, 18), rimase stupefatto dal
potere del santo, desiderandolo per sé. Raggiunse quindi Gregorio e volle conoscere questa
divinità. Scandalizzato in un primo momento dall’annuncio, gli fu risposto che la fede
cristiana non era confermata dalle parole, ma dai fatti134 : su richiesta del sacerdote, il
Taumaturgo spostò grazie alla fede un macigno, che divenne così essa stessa araldo della fede
130
Cf. VG 15, 6-16, 3.
Cf. VG 16, 4-19, 19.
132 Cf. VG 19, 20-20, 18.
133 Cf. VG 20, 19-24, 12.
134 Cf. VG 22, 18-19: τοῦ δὲ µὴ λόγοις εἰπόντος τὴν περὶ τούτου πίστιν κρατύνεσθαι, τοῖς δὲ τῶν γινοµένων
θαύµασι τὸ πιστὸν ἔχειν.
312
131
e guida alla salvezza135. Il sacerdote, visti tali prodigi, lasciò tutto (πάντα καταλιπόντα: VG
23, 6) e abbracciò la vera filosofia, condividendo la vita del Taumaturgo ed essendo da lui
educato (τῆς θείας ἐκείνης φιλοσοφίας τε καὶ παιδεύσεως: VG 23, 9); sembra qui sia
riecheggiato il momento successivo alla pesca miracolosa raccontata da Luca (cf. Luc 5,
1-11), dove un prodigio convince i futuri apostoli a lasciare ogni cosa per il maestro;
l’espressione si ritrova, questa volta letterale, anche nella chiamata di Matteo, di poco
successiva (cf. Luc 5, 27-28).
Entrato quindi per la prima volta in una grande città, scortato da quel sacerdote e dalla
fama che lo precedeva, di fronte alla folla non fu turbato; né si preoccupò per la ricerca di un
alloggio, confidando nella volontà divina. Tali segni affascinarono la folla più che il miracolo
che il santo aveva appena compiuto136. A partire quindi dai discorsi riportati in questo passo il
Taumaturgo riceve l’appellativo di διδάσκαλος137 e riassume le caratteristiche della guida già
precedentemente emerse: egli possedeva la capacità di educare in quanto ciò che diceva
coincideva con quello che mostrava nella sua vita, stupendo le orecchie con le parole e gli
occhi con i miracoli; ciascuno riceveva ciò che più era conveniente alla propria età o
condizione, ed il discorso si modulava di conseguenza138. Il richiamo alla predicazione di
Cristo nel cortile della casa di Pietro (cf. ad es. Marc 2, 1-12) o al Paolo di 1Cor 9, 22, fatto
tutto a tutti, è palmare. Come a Salomone, anche al Taumaturgo fu data autorità sui giudizi, in
quanto attraverso lui si mostrava la grazia divina che divenne motivo di benessere pubblico e
privato139: si racconta infatti di come due giovani, che si contendevano il possesso di un lago,
furono riconciliati dal Taumaturgo che, con la preghiera, rese quel luogo asciutto. Viene
quindi ricordata la richiesta di una popolazione del luogo affinché il santo ponesse un argine
alle piene del fiume Lico, non essendo state possibili altre soluzioni; il Taumaturgo ribadì
come tale potere fosse riposto solo in Dio, quindi piantò il suo bastone che mise radici e
divenne un albero, alle cui radici il fiume sempre si fermò 140; il santo fu imitatore (µιµητῇ:
VG 35, 20) in questo modo di Elia ed Eliseo (cf. 2Reg 2, 6-14). Il Nisseno approfitta dei due
miracoli per ribadire come, nell’Antica Alleanza, sia possibile apprendere (µεµαθήκαµεν: VG
31, 23) θαύµατα simili, ma non duraturi; in questo caso invece la realtà dà perenne
testimonianza (µαρτυρούµενον: VG 32, 9) del miracolo.
135
Cf. VG 23, 16-19: λίθος κήρυξ τῆς θείας πίστεως, καὶ ὁδηγὸς τοῖς ἀπίστοις εἰς σωτηρίαν γίνεται, οὐ φωνῇ τινι
καὶ λόγῳ τὴν θείαν δύναµιν ἀνακηρύσσων, ἀλλ' οἷς ἐποίει δεικνὺς τὸν Θεὸν ὑπὸ τοῦ Γρηγορίου
καταγγελλόµενον.
136 Cf. VG 24, 13-26, 24.
137 Per il sostantivo cf. VG 26, 2; 29, 22; 39, 19; 43, 22; 50, 15; 52, 2.19; per il verbo διδάσκειν riferito al
Taumaturgo cf. VG 27, 14.21.23; in 43, 20 le parole di Gregorio sono dette διδάγµατα.
138 Cf. VG 26, 25-28, 2. Cf. in part. VG 27, 14-18: τούτῳ γὰρ δὴ µάλιστα προσήγετο τοὺς πολλοὺς τῷ
κηρύγµατι, ὅτι συνέβαινεν ἡ ὄψις τῇ ἀκοῇ, καὶ δι' ἀµφοτέρων τῆς θείας δυνάµεως ἐπέλαµπεν αὐτῷ τὰ
γνωρίσµατα. τὴν µὲν γὰρ ἀκοὴν ὁ λόγος, τὰς δὲ ὄψεις τὰ περὶ τοὺς ἀσθενοῦντας ἐξέπληττε θαύµατα.
139 Cf. VG 28, 13-32, 11.
140 Cf. VG 32, 12-36, 2.
313
Di fronte a simili prodigi, tutti desideravano (ἐπεθύµουν: VG 36, 5) partecipare della fede
che li rendeva possibili; l’annuncio del santo diventò sempre più fecondo, tanto che la chiesa
locale cominciò a strutturarsi con nuovi presbiteri e la necessità di un vescovo 141. Il
Taumaturgo giunse dunque a Comana, dove la comunità aveva richiesto tale nomina, e cercò
di comprendere la preferenza divina, indagando su chi avesse già vissuto in modo morigerato
e degno di un sacerdote. I criteri del santo, ispirati allo zelo e alla purezza, erano in
contraddizione con quelli dei magistrati, per i quali si parla di ἀπαιδεύτοις ὀφθαλµοῖς (VG 38,
9); furono per questo scartati tutti i candidati, fino a che l’intervento ironico di un magistrato
non fece rivolgere l’attenzione sul carbonaio Alessandro, un futuro santo. Il vescovo colse
subito la natura profonda dell’uomo, che disprezzava le apparenze per non essere lodato,
desiderando una vita più alta e vera; si mise dunque ad educare (ἐπαίδευε: VG 39, 11) il
popolo e diede ordine al suo seguito di rivestire il carbonaio con i propri abiti, per mostrare
come nel giudizio tutti si fossero fermati ai sensi, criterio ingannevole per conoscere la verità
dell’essere142 . Il giudizio di Gregorio fu subito confermato dal primo discorso del carbonaio
ormai vescovo; Dio stesso rese testimonianza (µαρτυρία: VG 40, 17) della bontà della scelta
mostrando una visione di colombe a un retore, che aveva lamentato la mancanza di ornamenti
nelle parole del neoeletto vescovo.
Gregorio racconta quindi l’insidia di due ebrei143 , che volevano ingannare il Taumaturgo e
trarne guadagno; uno dei due finse di essere morto, mentre l’altro chiese al vescovo il suo
mantello per seppellirlo; ottenuto ciò che volevano, l’ingannatore morì. Il Nisseno si sofferma
dunque a spiegare l’episodio, perché il santo non incorra in qualche biasimo: ricordando
infatti Act 5, 1-11 l’autore paragona ciò che avvenne al Taumaturgo alla morte di Anania e
Saffira di fronte a Pietro e legge entrambi i fatti come strumenti di correzione
(παιδαγωγούµενον: VG 43, 7) per il popolo.
Durante la persecuzione di Decio144 (250 d.C.) il vescovo, giudicando che molte anime si
sarebbero lasciate fuorviare dai tormenti, ritenne opportuno che i fedeli si allontanassero nel
deserto e decise di darne egli stesso l’esempio (τῷ καθ' ἑαυτὸν ὑποδείγµατι: VG 47, 9); il
Nisseno non manca di notare come i persecutori lo avrebbero volentieri tolto di mezzo,
riconoscendolo quasi come il generale (στρατηγοῦ: VG 47, 12) della schiera della fede.
Pagine molto sentite raccontano delle sofferenze di quegli uomini e del tessuto sociale
scompaginato ad opera dei delatori; uno di essi rivelò ai persecutori dove si trovava il
Taumaturgo, accompagnato solo da un diacono, il sacerdote del tempio che il santo aveva
141
Cf. VG 36, 3-41, 15.
Cf. VG 39, 21-22: σφαλερὸν γὰρ κριτήριον τῆς τῶν ὄντων ἀληθείας ἡ αἴσθησις, τὴν πρὸς τὸ βάθος τῆς
διανοίας εἴσοδον δι' ἑαυτῆς ἀποκλείουσα.
143 Cf. VG 41, 16-43, 17.
144 Cf. VG 44, 15-52, 23.
314
142
convertito al suo primo ingresso in città. Giunti sul luogo indicato, i due non vennero trovati,
salvati dalla divinità, che permise al solo delatore di vederli; questi, comprendendo che una
forza superiore li aveva preservati, si fece cristiano. Il vescovo rimase nascosto fino alla
conclusione della persecuzione, contribuendo con la preghiera per coloro che ancora
combattevano; l’exemplum biblico che viene ricordato è in questo caso la preghiera di Mosè
che sosteneva da lontano il suo popolo contro gli Amaleciti (cf. Exod 17, 8-13). La forza della
preghiera è ricordata anche in un episodio successivo, nel quale si racconta di come un
diacono chiese al santo di vedere con i propri occhi ciò che accadeva in città, confidando nelle
sue orazioni. Ottenuto a fatica il permesso, il giovane fu più volte messo alla prova dal
demonio; questi, ripetutamente sconfitto, attestò (προσεµαρτύρησε: VG 52, 18) i meriti di
Gregorio; il diacono, da parte sua, fu reso edotto (ἐδιδάχθη: VG 52, 17) per propria esperienza
(τῇ ἑαυτοῦ πείρᾳ: VG 52, 17) della forza della preghiera.
Alla fine delle persecuzioni il vescovo introdusse feste in onore dei martiri145, accordando
al popolo ancora ineducato (ἀπαίδευτον: VG 53, 11) la possibilità di svagarsi in tali
commemorazioni, fiducioso che ciò che mostrava la fede avrebbe lentamente cambiato la
mentalità comune.
La vita del vescovo si concluse146 , quindi, con la constatazione secondo cui egli lasciava
non convertiti un numero esiguo di uomini, quanti prima ne aveva trovati cristiani.
Rammaricandosi per quelle poche anime e ringraziando per i frutti del suo apostolato, il
Taumaturgo espresse il desiderio di non essere seppellito in una tomba privata, per fuggire
anche da morto il rischio che rappresentava l’avidità.
Il racconto si sofferma infine su un ulteriore miracolo avvenuto nella giovinezza del
Taumaturgo 147: sopraggiunta una pestilenza, il popolo riconobbe come l’unica speranza di
salvezza fosse la presenza e la preghiera del santo nella loro casa; coloro che erano guariti
erano così introdotti alla forza della fede che si mostrava attraverso le opere (τοῖς διὰ τῶν
ἔργων διδασκοµένοις: VG 56, 25), condotti per mano alla verità (χειραγωγηθέντες πρὸς τὴν
ἀλήθειαν: VG 57, 3) dalla malattia.
L’elogio del Taumaturgo, pur nelle limitazioni proprie del genere encomiastico, mostra
abbastanza riferimenti alla dinamica educativa, specialmente in rapporto all’insegnamento
ricevuto dagli uomini che, affascinati dal santo, ne condivisero la vita.
145
Cf. VG 52, 24-53, 18.
Cf. VG 53, 19-54, 20.
147 Cf. VG 54, 20-57, 8.
146
315
VI.5 Macrina
Nel De virginitate148 si legge come chi desideri ricevere un insegnamento efficace rispetto
alla conduzione di sé possieda le Scritture, che hanno la possibilità di istruirlo in proposito;
più efficace della διδαχῆς (DV 333, 21) rimane comunque la guida e l’esortazione proveniente
dalle opere. Per trovare colui che educa non occorre però cercare lontano dalla propria
esperienza: Paolo stesso anzi in Rom 10, 87, citando Deut 30, 14, afferma come la parola del
Signore sia vicina. La grazia, afferma quindi il Cappadoce, viene dal focolare, affermazione
che non può non essere riferita alla famiglia di questi tanto abbondante di uomini e donne che
si dedicarono interamente alla vita monastica. Testimoni principi per Gregorio furono infatti
la sorella Macrina e il fratello Basilio, ai quali il Nisseno dedica due encomi; di essi si
propone una lettura che si soffermi in particolar modo sui passi nei quali si riscontrano
maggiormente termini legati al lessico dell’educazione.
All’inizio della Vita Sanctae Macrinae149
Gregorio, come di consuetudine, espone
l’occasione che lo ha portato alla compilazione di essa. In questo caso il destinatario, ignoto
per i riferimenti dei codd. a molti nomi diversi, fu incontrato dal Nisseno ad Antiochia, tappa
per quest’ultimo di un viaggio verso Gerusalemme. I due si intrattennero in molteplici
argomenti, tra i quali l’esistenza famosa della sorella del vescovo, Macrina; rispetto a questo
argomento, Gregorio sottolinea con forza la sua possibilità di appellarsi alla propria
esperienza come maestra, senza dover accondiscendere alla testimonianza di altri150 .
Sviluppare questo tema sarà per lui proporre un fulgido esempio di virtù, utile a tutti: il più
importante θαῦµα che Gregorio rileva di fronte a sua sorella Macrina è infatti innanzitutto la
valenza paradigmatica della sua figura151, e ciò giustifica, almeno agli occhi dello scrittore,
una certa «stilizzazione» attraverso «motivi topici», che porta all’inserimento nella narrazione
di «certi tratti che non corrispondono alla precisa realtà dei fatti, ma hanno un significato
superiore alla ‘storia’» 152.
148
Cf. DV 333, 15-334, 5: Τὰ δὲ καθ' ἕκαστον, ὅπως τε χρὴ βιοτεύειν τὸν ἐν τῇ φιλοσοφίᾳ ταύτῃ ζῆν
προελόµενον καὶ τίνα φυλάττεσθαι καὶ τίσιν ἐπιτηδεύµασιν ἀσκεῖν ἑαυτόν, ἐγκρατείας µέτρα καὶ διαγωγῆς
τρόπον καὶ πάντα τὸν ἐπιβάλλοντα τῷ τοιούτῳ σκοπῷ βίον, ὅτῳ φίλον δι' ἀκριβείας µαθεῖν, εἰσὶ µὲν καὶ
ἔγγραφοι διδασκαλίαι ταῦτα διδάσκουσαι, ἐνεργεστέρα δὲ τῆς ἐκ τῶν λόγων διδαχῆς ἡ διὰ τῶν ἔργων ἐστὶν
ὑφήγησις, καὶ οὐδεµία πρόσεστι δυσκολία τῷ πράγµατι, ὡς δεῖν ἢ µακρὰν ὁδοιπορίαν ἢ ναυτιλίαν πολλὴν
ὑποστάντας ἐπιτυχεῖν τοῦ παιδεύοντος, ἀλλ' «Ἐγγύς σου τὸ ῥῆµα», φησὶν ὁ ἀπόστολος, ἀπὸ τῆς ἑστίας ἡ χάρις.
Ἐνταῦθα τὸ τῶν ἀρετῶν ἐργαστήριον, ἐν ᾧ πρὸς τὸ ἀκρότα τον τῆς ἀκριβείας ὁ τοιοῦτος βίος προϊὼν
ἐκκεκάθαρται.
149 Cf. VSM 370, 1-371, 23.
150 Cf. VSM 371, 9-12: τὸ δὲ διήγηµα ἡµῖν οὐκ ἐξ ἀκοῆς ἑτέρων διηγηµάτων τὸ πιστὸν εἶχεν, ἀλλ' ὧν ἡ πεῖρα
διδάσκαλος ἦν, ταῦτα δι' ἀκριβείας ἐπεξῄει ὁ λόγος, εἰς οὐδὲν ἀκοὴν ἀλλοτρίαν ἐπιµαρτυρόµενος
151 Cf. GIANNARELLI 2007, p. 232-237.
152 MORESCHINI 1992, p. 85.
316
Macrina nacque intorno al 327, non si sa se nel Ponto, dove risiedettero gli avi paterni, o
nella Cappadocia, patria della madre153 . Il racconto del Nisseno si sofferma innanzitutto sul
nome assegnato alla giovane, lo stesso della nonna paterna; in segreto tuttavia la vergine era
chiamata diversamente, a causa di una visione concessa prima che venisse al mondo. Parlando
della propria madre infatti Gregorio rivela che anch’essa fu donna di grande virtù, introdotta
quasi per mano nella vera volontà di Dio154; dopo aver scelto come marito un uomo che aveva
fama (µαρτυρούµενος: VSM 372, 15) di morigeratezza perché fosse custode della sua vita,
ebbe come prima figlia Macrina, della quale prima del parto un angelo testimoniò, rese
evidente (µαρτυράµενον: VSM 372, 23) il nome che ne descriveva l’essenza chiamandola per
tre volte Tecla. Secondo Gregorio, colui che apparve non volle condurre (ὁδηγῶν: VSM 373,
1) la madre ad imporre alla figlia quel nome, bensì voleva mostrare la comunanza di intenti
che avrebbe in un certo qual modo affiancato le due donne.
All’educazione di Macrina, «interamente domestica ed esclusivamente materna»155, fu
impressa, grazie alle cure amorevoli di Emmelia, l’impronta del cristianesimo. La bambina
infatti imparò con prontezza le nozioni dei vari saperi e la sua natura riluceva in qualunque
nozione verso cui la spingesse il giudizio dei genitori; in particolare la madre desiderava che
la ragazza fosse educata non dalla παίδευσις del tempo, di cui erano discepoli tutti gli
educandi, basata per lo più sui testi poetici (essenzialmente il Nisseno allude al teatro e alla
poesia omerica). A giudizio della donna infatti essi erano turpi, vergognosi e sconvenienti;
molto più adeguata all’indole della fanciulla si rivelarono la Sapienza di Salomone e i salmi,
che la accompagnarono durante le sue giornate. Ad un’educazione dello spirito furono
affiancate le mansioni affidate alle donne del tempo, come il lavoro della lana156. La fanciulla
giunse così, piena di grazia e bellezza, al dodicesimo anno di età; le si affiancarono dei
pretendenti tra i quali il padre, come da costume, scelse chi giudicava essere il migliore,
promettendogli che la figlia lo avrebbe sposato non appena fosse stata in età da marito. Il
153
Cf. MATTIOLI 1980, p. 169.
Cf. VSM 372, 4-6: ἦν γὰρ δὴ τοιαύτη κατ' ἀρετὴν καὶ ἡ µήτηρ ὡς πανταχοῦ τῷ θείῳ βουλήµατι
χειραγωγεῖσθαι.
155 MATTIOLI 1980, p. 170. Cf. VSM 373, 4-374, 6: Τρέφεται τοίνυν τὸ παιδίον, οὔσης µὲν αὐτῷ καὶ τιθηνοῦ
ἰδίας, τὰ δὲ πολλὰ τῆς µητρὸς ἐν ταῖς χερσὶ ταῖς ἰδίαις τιθηνουµένης. Ὑπερβᾶσα δὲ τὴν τῶν νηπίων ἡλικίαν
εὐµαθὴς ἦν τῶν παιδικῶν µαθηµάτων, καὶ πρὸς ὅπερ ἂν ἡ τῶν γονέων κρίσις ἦγε µάθηµα, κατ' ἐκεῖνο ἡ φύσις
τῆς νέας διέλαµπεν. Ἦν δὲ τῇ µητρὶ σπουδὴ παιδεῦσαι µὲν τὴν παῖδα, µὴ µέντοι τὴν ἔξωθεν ταύτην καὶ
ἐγκύκλιον παίδευσιν, ἣν ὡς τὰ πολλὰ διὰ τῶν ποιηµάτων αἱ πρῶται τῶν παιδευοµένων ἡλικίαι διδάσκονται.
Αἰσχρὸν γὰρ ᾤετο καὶ παντάπασιν ἀπρεπὲς ἢ τὰ τραγικὰ πάθη, ὅσα ἐκ γυναικῶν τὰς ἀρχὰς καὶ τὰς ὑποθέσεις
τοῖς ποιηταῖς ἔδωκεν, ἢ τὰς κωµικὰς ἀσχηµοσύνας ἢ τῶν κατὰ τὸ Ἴλιον κακῶν τὰς αἰτίας ἁπαλὴν καὶ εὔπλαστον
φύσιν διδάσκεσθαι, καταµολυνοµένην τρόπον τινὰ τοῖς ἀσεµνο τέροις περὶ τῶν γυναικῶν διηγήµασιν. Ἀλλ' ὅσα
τῆς θεοπνεύστου γραφῆς εὐληπτότερα ταῖς πρώταις ἡλικίαις δοκεῖ, ταῦτα ἦν τῇ παιδὶ τὰ µαθήµατα καὶ µάλιστα
ἡ τοῦ Σολοµῶντος Σοφία καὶ ταύτης πλέον ὅσα πρὸς τὸν ἠθικὸν ἔφερε βίον. Ἀλλὰ καὶ τῆς ψαλµῳδουµένης
γραφῆς οὐδ' ὁτιοῦν ἠγνόει καιροῖς ἰδίοις ἕκαστον µέρος τῆς ψαλ µῳδίας διεξιοῦσα τῆς τε κοίτης διανισταµένη
καὶ τῶν σπουδαίων ἁπτοµένη τε καὶ ἀναπαυοµένη καὶ προσιεµένη τροφὴν καὶ ἀναχωροῦσα τραπέζης καὶ ἐπὶ
κοίτην ἰοῦσα καὶ εἰς προσευχὰς διανισταµένη, πανταχοῦ τὴν ψαλµῳδίαν εἶχεν οἷόν τινα σύνοδον ἀγαθὴν
µηδενὸς ἀπολιµπανοµένην χρόνου.
156 Cf. VSM 374, 7-10.
317
154
pretendente tuttavia morì prima delle nozze157. La fanciulla, non mancando così all’ordine
paterno, decise di consacrare la propria vita; da allora rimase presso la madre158 . La cura che
la donna e la fanciulla si prestavano era vicendevole: la più anziana provvedeva all’anima
della giovane, mentre Macrina curava il corpo della madre. La famiglia di Gregorio era molto
numerosa, contando quattro figli e cinque figlie; alle normali preoccupazioni si aggiungevano
anche quelle economiche, perché le donne dovevano provvedere anche alla gestione dei
possedimenti della famiglia, essendo morto presto il padre. La descrizione che il Nisseno
restituisce di questo periodo è quella di una stretta vita comunitaria, nella quale la madre
vigilava sulla condotta, immacolata, della figlia, e questa con il suo esempio e testimonianza
(µαρτυρούµενον: VSM 377, 3) si proponeva come guida (τὴν ὑφήγησιν: VSM 377, 5) verso un
ideale di vita più alto, non estraneo agli stessi desideri materni159.
Macrina fu esempio anche per il grande Basilio, il primo fratello di Gregorio. Egli ritornò,
racconta il Nisseno, superbo e tronfio della propria educazione retorica, per la consapevolezza
delle proprie capacità. La sorella maggiore in poco tempo lo convertì alla vita filosofica. Allo
stesso modo convincerà la madre, persuadendola ad abbandonare gli agi cui era abituata e a
condurre una vita più semplice in compagnia di quelle che furono sue ancelle ed ora
sarebbero diventate sorelle160 . Macrina si trovò così ad essere madre spirituale di sua madre e
di Basilio attraverso l’insegnamento che riluceva nella sua vita. Come giustamente rileva
Mattioli161 , «magistero e maternità spirituale» sono termini profondamente intrecciati nella
Vita Sanctae Macrinae: tutta l’opera presenta la santa innanzitutto come educatrice, sia nelle
parole sia attraverso l’esempio. Macrina, in quanto maestra, divenne madre, per la sua stessa
genitrice, per le vergini a lei affidate, per i fratelli e lo stesso Nisseno, che sin da quando
aveva nove anni aveva visto nella sorella una madre e una maestra162, in piena παρρησία
verso Dio163.
157
Cf. VSM 374, 10-375, 5.
Cf. VSM 375, 6-377, 7. Molto interessante in questa parte del testo ‘uso insistito di termini che richiamano
all’azione del κρίνειν, a sottolineare il volere dei genitori e la scelta consapevole della giovane: τὸ κεκριµένον,
VSM 375, 7; τὴν τοῦ πατρὸς κρίσιν, 375, 8; τοῦ κεκριµένου, 375, 9; ἡ κρίσις τῆς ἡλικίας παγιωτέρα, 375, 10;
κατὰ τὴν τῶν γονέων κρίσιν, 375, 18; κρίνειν, 375, 20; τῆς ἀγαθῆς κρίσεως, 375, 23.
159 «La coincidenza di vocazione tra madre e figlia permette il superamento del rapporto di maternità fisica e la
sua risoluzione su altri piani» (GIANNARELLI 1987, p. 226): Macrina diventa infatti modello e consigliere per la
madre, espletando essa stessa il ruolo educativo che in precedenza era di Emmelia. Cf. VSM 377, 1-7: Καὶ ὁµοῦ
µὲν τῇ παιδαγωγίᾳ τῆς µητρὸς ἄµωµον διεφύλασσεν ἑαυτῇ τὸν βίον ἐν µητρῴοις ὀφθαλµοῖς διὰ παντὸς
εὐθυνόµενόν τε καὶ µαρτυρούµενον, ὁµοῦ τε παρέσχε πρὸς τὸν ἴσον σκοπόν, τὸν κατὰ φιλοσοφίαν λέγω,
µεγάλην τῇ µητρὶ διὰ τοῦ βίου ἑαυτῆς τὴν ὑφήγησιν, κατ' ὀλίγον αὐτὴν πρὸς τὴν ἄϋλόν τε καὶ λιτοτέραν ζωὴν
ἐφελκοµένη.
160 Cf. VSM 377, 7-378, 8.
161 MATTIOLI 1980, p. 182.
162 «Macrina è sempre chiamata da Gregorio ‘maestra’ e il dialogo su L’anima e la resurrezione si svolge il
giorno prima della morte di Macrina; si riproduce, quindi, la stessa situazione della morte di Socrate, il quale il
giorno stesso in cui bevve la cicuta discusse dell’immortalità dell’anima (anche l’affinità del contenuto, quindi,
collega l’opera del Nisseno a quella di Platone)» (MORESCHINI 1992, p. 89).
163 Cf. Ep. 19, p. 64, 14-19.
318
158
Gregorio racconta quindi cosa successe al fratello Naucrazio 164: questi eccelleva in ogni
abilità e impegno, dando prova di un agile ingegno. Dalla descrizione presente nella Vita,
capiamo che anch’egli fu avviato agli studi dell’oratoria e ne avrebbe tratto largo profitto, se
lo avesse voluto; per divina ispirazione invece decise di ritirarsi da una esistenza mondana,
vivendo in assoluta povertà con uno dei servitori, che aveva voluto seguirlo e abbracciare lo
stesso stile di vita. Visse presso il fiume Iris, in una cavità rocciosa immersa in una foresta che
gli consentiva anche di procurare il cibo a sé e ai suoi. Se la madre lo mandava a chiamare,
era sempre pronto all’obbedienza, ottemperando anche in questo ai divini precetti e
progredendo nel cammino che lo conduceva a Dio. Naucrazio condusse questa vita per cinque
anni, fintanto che morì improvvisamente, durante la caccia. La madre ne fu prostrata, ma non
così Macrina, che attraverso il suo esempio di fortezza e stabilità allenò l’anima della madre
al coraggio. Il verbo usato da Gregorio in questo passo, παιδοτριβεῖν, avvicina sia al lessico
dell’educazione che a quello agonistico. Anche l’animo della vergine, continua Gregorio,
reclamava il suo dolore; questa vicenda cominciò dunque a rendere manifesto come Macrina,
a detta del fratello, si levava al di sopra della natura medesima, cosa che il Nisseno dice ad
esempio di Mosè. Una simile forza le permise di essere di per se stessa esempio di coraggio,
spingendo e educando anche altri a questa virtù 165.
Quando la madre di Gregorio non ebbe più da attendere ai compiti educativi preposti al suo
ruolo di genitore166 , dopo aver diviso tra loro i beni, la figlia Macrina divenne per lei esempio
effettivo (σύµβουλος: VSM 381, 19) della vita filosofica, inducendola all’umiltà e alla
lontananza dalle vanità terrene, preparandola alla vita degli angeli e spingendola
all’imitazione (πρὸς µίµησιν: VSM 382, 6) di essa167 . Le espressioni φιλοσοφία e άγγελικὸς
βίος, nelle loro varie possibilità di espressione, accompagneranno d’ora in poi la descrizione
dell’esistenza delle due donne e, quando la vita terrena della madre sarà spenta, di Macrina e
di suo fratello Pietro: in esse è descritta l’ideale di vita contemplativa, superiore alla natura
terrestre benché legata ad essa, una via mediana tra l’esistenza comune e la vita immateriale,
forse non seconda nemmeno a quella degli angeli168.
Pietro fu l’ultimo dei fratelli di Gregorio e venne alla luce alla morte del padre169. La
sorella maggiore si prese a cuore la sua educazione, togliendolo ben presto alla nutrice e
164
Cf. VSM 378, 9-381, 14.
Cf. VSM 381, 10-11: τῷ καθ' ἑαυτὴν ὑποδείγµατι πρὸς ὑποµονήν τε καὶ ἀνδρείαν παιδαγωγήσασα. Tornano
facilmente alla memoria per contrasto i passi dell’orazione funebre In Pulcheriam (cf. IP 463, 2-464, 28) nella
quale il Nisseno descrive il dolore degli augusti genitori e della folla di fronte al feretro; il vescovo, pur
comprendendo il pianto, richiama però 1Thess 4, 13, laddove Paolo ammonisce di non piangere i defunti in forza
della speranza cristiana, e ritrova in queste disposizioni qualcosa che trascende la natura umana.
166 Cf. VSM 381, 15-16: έπεὶ οὖν ἐπαύσατο τῇ µητρὶ ἥ τε τῆς παιδοτροφίας φροντὶς καὶ ἡ τῆς παιδεύσεώς τε καὶ
καταστάσεως τῶν τέκνων µέριµνα κτλ.
167 Cf. VSM 381, 15-383, 8.
168 Cf. VSM 382, 19-383, 5.
169 Cf. VSM 383, 9-384, 18.
319
165
allevandolo nel vero sapere. Il Nisseno descrive in questo passo l’educazione impartita al
bambino: Macrina lo introduceva alla scienza divina, senza che indulgesse agli insegnamenti
riservati agli infanti, diventando per il piccolo tutto, vale a dire padre, maestro, pedagogo,
madre, buon esempio in ogni cosa. Mise, a parere di Gregorio, il fratello nella condizione di
aspirare alla vita filosofica ancora prima che uscisse dalla fanciullezza170. Nell’educazione di
Pietro Gregorio sottolinea quindi nuovamente il disprezzo per le scienze profane già visto in
Macrina fanciulla: in ciò che non riguardava i misteri divini era la natura stessa ad essergli
maestra in ogni buon apprendimento, avendo come modello la sorella che non smetteva di
guardare con attenzione171. Allo stesso modo il ragazzo fu introdotto al lavoro manuale,
conseguendo in breve e senza che lo si ammaestrasse destrezza e conoscenza (µάθησις: VSM
384, 5) di quelle arti che richiedono altrimenti tempo e fatica. Bisogna notare come anche per
Macrina le altezza spirituali non furono mai disgiunte dall’umile servizio del lavoro manuale,
fosse esso il filare la lana, tradizionalmente richiesto anche ad una donna libera, o preparare il
pane, occupazione piuttosto da schiavi: ogni occupazione era conveniente alla scelta di vita
che aveva fatto172, in quanto il cristiano in ogni occupazione deve rendere testimonianza della
sua fede nelle opere, come si è già avuto modo di rilevare nella concezione del Nisseno.
La madre di Gregorio visse dunque accompagnata da questi due fulgidi esempi di virtù e si
spense tra le loro braccia, benedicendoli come la sua primizia e la sua decima. Dopo aver
rispettato le volontà materne per quanto riguardava le esequie, i due ripresero a gareggiare
con loro stessi per offuscare con nuovi successi ciò che avevano già conseguito173 . Nel 370
Basilio fu eletto vescovo di Cesarea e consacrò di sua mano Pietro presbitero. Dopo otto anni
il fratello maggiore morì, e Gregorio ricorda la feroce sofferenza di Macrina, che tuttavia
resistette come invitto atleta anche a questa fatica174 .
Nove mesi dopo la morte di Basilio, Gregorio si mise in viaggio per andare a trovare la
sorella. Il vescovo fa coincidere questa decisione con la fine del concilio di Antiochia (379),
sottolineando il lungo tempo intercorso dalla sua ultima visita a causa dell’esilio a lui imposto
dall’imperatore Valente, strenuo difensore dell’arianesimo (374-378). Sulla strada del ritorno
un sogno presago del futuro lo mise in agitazione: a Gregorio sembrava di portare nelle sue
170
Cf. VSM 383, 14-384, 1: ἀλλ' ἡ πρεσβυτάτη τῶν ἀδελφῶν, περὶ ἧς ὁ λόγος, µικρὰ τῆς θηλῆς αὐτὸν παρὰ τὴν
πρώτην γένεσιν µετασχόντα εὐθὺς ἀπο σπάσασα τῆς τιθηνουµένης δι' ἑαυτῆς ἀνατρέφεται καὶ ἐπὶ πᾶσαν τὴν
ὑψηλοτέραν ἤγαγε παίδευσιν, τοῖς ἱεροῖς τῶν µαθηµάτων ἐκ νηπίων αὐτὸν ἐνασκήσασα, ὡς µὴ δοῦναι τῇ ψυχῇ
σχολὴν πρός τι τῶν µαταίων ἐπικλιθῆναι. Ἀλλὰ πάντα γενοµένη τῷ νέῳ, πατήρ, διδάσκαλος, παιδαγωγός,
µήτηρ, ἀγαθοῦ παντὸς σύµβουλος, τοιοῦτον αὐτὸν ἀπειρ γάσατο, ὡς πρὶν ἐξελθεῖν τὴν ἡλικίαν τῶν παίδων ἔτι
ἐν µειρακιώδει τῇ ἀπαλότητι τῆς ὥρας ἀνθοῦντα πρὸς τὸν ὑψηλὸν τῆς φιλοσοφίας σκοπὸν ἐπαρθῆναι κτλ.
171 Cf. VSM 384, 6-8: οὗτος τοίνυν τῆς περὶ τοὺς ἔξωθεν τῶν λόγων ἀσχολίας ὑπεριδών, ἱκανὴν δὲ διδάσκαλον
παντὸς ἀγαθοῦ µαθήµατος τὴν φύσιν ἔχων ἀεί τε πρὸς τὴν ἀδελφὴν βλέπων κτλ.
172 Cf. VSM 376, 10-20.
173 Scrive MATTIOLI 1980, p. 179, che «un tratto importante della “filosofia” di Macrina è [...] quello di essere
progressiva». Per l’argomento, cf. anche le pp. 179-180. Cf. anche VSM 384, 19-385, 15.
174 Cf. VSM 385, 16-386, 22.
320
mani reliquie di santi che emanavano tanto fulgore da essere da lui paragonate a uno specchio
che riflettesse i raggi del sole, secondo una analogia facilmente riscontrabile in altri passi175.
Giunto quindi all’eremo dove si trovavano due comunità monacali, una maschile guidata
evidentemente da Pietro, l’altra femminile, che seguiva Macrina, i monaci gli vennero
incontro dicendogli che suo fratello era partito per cercarlo; dopo la funzione religiosa,
Gregorio capì che Macrina non era convenuta: la vergine era infatti nella sua cella, malata e
distesa su semplici tavole di legno; discorse quindi amabilmente, per quanto le era possibile,
con il fratello, tenendo elevati discorsi sulla natura umana, sulla provvidenza e sulla vita
futura176 . Simili parole, continua il Nisseno, gli davano l’impressione che il suo animo fosse
come condotto per mano (τῇ χειραγωγίᾳ τοῦ λόγου: VSM 390, 9) verso le sedi celesti, libero
ormai dai vincoli della carne. In questo contesto, nella finzione scelta dall’autore, si colloca il
dialogo De anima et resurrectione.
Come Giobbe nelle Sacre Scritture, così Macrina vinceva il dolore del corpo con i
ragionamenti dello spirito; un simile esempio non poté che portare il Nisseno a compiacere in
ogni sua richiesta la sorella, apostrofata come maestra (τῇ διδασκάλῳ: VSM 391, 10).
Ritiratosi dalla sua vista, Gregorio era angosciato per la sventura che presentiva; la santa lo
mandò a chiamare accusando qualche miglioramento; solo in seguito il fratello capì che le era
ormai dato un saggio della consolazione celeste.
Il poco tempo che era ancora concesso a Macrina fu da lei passato nel ricordo delle grazie
che la loro famiglia aveva ricevuto da Cristo: partì dai nonni, paterni e materni, perseguitati
con l’esproprio dei beni o uccisi per aver professato il cristianesimo; la divina benedizione
che fece prosperare le sostanze divise tra i figli; la sua decisione di consegnare i propri beni
alla Chiesa; il suo desiderio di essere sempre operosa, in ottemperanza al volere divino, che
accrebbe gli scarsi frutti delle sue fatiche in una messe rigogliosa. Gregorio, da parte sua, si
lamentava invece delle prove che gli erano toccate. La sorella lo riscosse da simili pensieri
facendogli vedere le difficoltà incontrate da loro padre, che fu retore molto apprezzato per la
sua formazione (κατὰ τὴν παίδευσιν: VSM 394, 9), anche se la sua fama non superò i tribunali
delle regioni; quella del Nisseno, secondo Macrina, si estendeva invece presso città, popoli,
nazioni: era questo un segno evidente delle grazie che gli erano concesse, frutto delle
preghiere dei suoi genitori e non solo dei suoi talenti, spesso inadeguati177 . Tali discorsi
presero ai due gran parte della giornata178 e si interruppero al vespro: il canto dei salmodianti
175
La vicinanza di Macrina alla figura dei martiri è ben evidenziata anche in ALEXANDRE 1984 pp. 38-42. Sulla
simbologia della luce per i martiri, cf. Cap. VI.7.
176 Cf. VSM 386, 22-390, 9.
177 MAROTTA 1989, p. 74 n. 25 ricorda di che «anche Basilio nell’epistolario più volte accenna all’ingenuità,
semplicità del Nisseno e alla sua inesperienza nel disbrigo di affari amministrativi e di affari diplomatici».
178 Cf. VSM 392, 20-394, 20.
321
richiamò i due interlocutori all’ora del ringraziamento, e Macrina inviò il fratello in chiesa. Le
riflessioni che il Nisseno afferma averlo occupato in quei momenti riguardavano tutte il
doloroso ma imminente distacco e al contempo la meraviglia di fronte alla sorella, che si
mostrava imperturbabile di fronte alla morte, ormai tutta presa dalla vita immateriale e libera
dai vincoli corporei. Il suo, scrive ancora il Nisseno, era ormai un correre verso lo sposo che
non conosceva più attese o distrazioni da parte di realtà di questo mondo. Tornato dagli uffici
divini, Gregorio rimase al capezzale di Macrina, che ormai smise di conversare con i presenti
ma si rivolgeva in preghiera solo a Dio; il fratello quindi riporta le sue parole accorate, che si
protrassero finché la lingua non le si disseccò a causa della febbre e la voce non le venne
meno179. In questa orazione Macrina ricorda, come nelle preghiere classiche, i meriti e i titoli
della divinità, per poi passare a ricordare i propri meriti (in questo caso, l’amore della creatura
e la consacrazione della vita). La richiesta è semplice: la vergine chiede che un angelo le sia
posto accanto per guidarla per mano (τὸν χειραγωγοῦντά µε: VSM 397, 22) verso il luogo del
refrigerio; in una fitta rete di rimandi biblici ben ricordati dai commentatori180 si ricordano i
meriti e le vittorie del crocifisso, che si prega di accordare a colei che si è resa crocifissa con
lui, affinché sia accolta come fumo d’incenso al suo cospetto.
La santa continuò quindi una preghiera silenziosa, dovuta al fatto di non riuscire più ad
articolare parole a causa dell’arsura delle labbra; una volta conclusa l’orazione, cessò al
contempo la sua vita terrena; il corpo, come il Nisseno non manca di notare, era già
convenientemente composto e non necessitava di alcuno che lo accomodasse. Le religiose lì
presenti si lasciarono andare ai lamenti, prima trattenuti per timore che colei che era per loro
maestra (ἡ διδάσκαλος: VSM 400, 6) ne fosse scontenta. Tutti i presenti, sentendo un simile
gemito, furono sopraffatti dal dolore; Gregorio annota quindi le parole delle donne che furono
accompagnate nel loro cammino di fede da Macrina, che riconobbero la sua importanza
dicendo che la santa era per loro la luce della guida delle loro anime (τὸ φῶς τῆς τῶν ψυχῶν
ὁδηγίας: VSM 400, 21). La santa dunque non è identificata con la vera Luce, che rifulge solo
nella divinità, bensì con il chiarore della vera guida: Macrina, la maestra, permise, per quelle
donne, che lo splendore della vera Luce diventasse, nelle loro vite, immanente, avesse una
concreta attualizzazione fenomenica. Il Nisseno nota anche come altre donne la chiamassero
perfino madre e nutrice, in quanto erano state ospitate, fanciulle, da Macrina che le aveva
raccolte dalle strade in tempo di carestia, conducendole per mano (ἐχειραγώγησεν: VSM 401,
7) verso la vita pura e incorrotta. Sarà necessario un discorso di Gregorio stesso, ispirato dal
volto della sorella, per calmare il dolore, invitando a rivolgere gli occhi nuovamente alla
179
Cf. VSM 395, 1-398, 17.
Cf. a titolo di esempio MAROTTA 1989, pp. 76-79.
322
180
santa, rimanendo fedeli all’educazione da lei ricevuta (παρ' αὐτῆς ἐπαιδεύθητε: VSM 401,
14)181.
Tra queste donne si distinse Veziana, che si era unita a quella comunità una volta perso, in
giovane età, il marito e che da allora ebbe la santa come custode e educatrice (φύλακά τε καὶ
παιδαγωγόν: VSM 402, 1-2) della propria vita, apprendendo (ἐκδιδασκοµένη: VSM 402, 4) da
quel consesso come dirigere la propria condotta di vita. Gregorio le propose di ricoprire il
corpo della santa con un abito più fine, solo per questa circostanza; la donna rispose che
sarebbe stato opportuno conoscere182 la volontà della stessa Macrina in merito, ma comunque
riconobbe che la sua volontà non sarebbe mai stata lontana da ciò che sarebbe stato gradito a
Dio. La diaconessa Lampadio, interrogata perché diceva di conoscere i desideri della santa
rispetto questo aspetto, rivelò come Macrina volesse essere rivestita di purezza e non
conservasse altre vesti oltre quelle che già portava. Gregorio dunque chiese se sarebbe stato
gradito un regalo da parte sua, e la donna rispose che un suo dono non sarebbe mai stato
rifiutato: Macrina stessa aveva predisposto che il fratello adornasse la sua salma. Quando si
cominciò ad acconciare il corpo, Veziana trovò intorno al collo della santa una croce e un
anello di ferro, legati da una corda sottile. Gregorio concesse alla donna la croce, ma tenne
per sé l’anello, che si rivelò cavo all’interno e contenente un frammento della vera Croce183 .
Quando fu il momento di rivestire il corpo della donna, Veziana e Lampadio rivelarono a
Gregorio che Macrina, molti anni prima, era stata oggetto di un miracolo: sul seno infatti le si
era sviluppata una grave tumefazione; per pudicizia la giovane non voleva mostrare la sua
nudità e a nulla valsero le preghiere della madre in tal senso. La giovane si era recata nel
santuario in preghiera per una notte intera; la mattina dopo, chiese alla madre di farle il segno
della croce sulla parte del corpo colpita dal morbo, dal quale fu immediatamente liberata una
volta che fu compiuto ciò che chiedeva. Le rimase solo un piccolissimo segno del soccorso
divino, affinché fosse incentivo per un perpetuo ringraziamento. Macrina fu dunque abbigliata
con una veste bianca, da sposa, e ricoperta da un mantello nero appartenente alla madre184 .
La notte fu passata recitando salmi intorno alla defunta, come, appunta Gregorio, si usa
nelle festività dei martiri (καθάπερ ἐπὶ µαρτύρων πανηγύρεως τελεσθείσης: VSM 407, 1): la
vita della donna, a parere di Gregorio, rivestì dunque la dignità di un testimone di Cristo,
riconosciuto da tutti. Da ogni parte infatti accorrevano più che numerosi gli abitanti dei paesi
limitrofi. Secondo le disposizioni del Nisseno, affinché le esequie si svolgessero nella maniera
più dignitosa possibile, non turbate da lamenti incomposti, le donne si unirono alla schiera
181
Cf. VSM 398, 17-401, 22.
Il verbo µαθεῖν di VSM 402, 9 indica come anche le volontà della santa potessero essere considerate spunto
di insegnamento.
183 Cf. VSM 401, 23-404, 19.
184 Cf. VSM 404, 20-406, 21.
323
182
delle vergini, gli uomini a quella dei monaci. Il vescovo del luogo, che presiedeva alla
celebrazione, dispose che il corteo funebre si muovesse lentamente, seguendo il feretro
portato da Gregorio, dal vescovo stesso e da due eminenti presbiteri; il tutto accompagnato
dai salmi. Una volta giunti al tempio dei santi martiri, dove già riposavano i genitori di
Gregorio, la folla proruppe in pianti molto meno controllati; al momento della tumulazione
una delle vergini lamentò il fatto che non si sarebbe più contemplato quel volto che era
risultato essere icona di Dio (τὸ θεοειδὲς τοῦτο … πρόσωπον: VSM 409, 1-2). Macrina fu
dunque posta accanto alla madre, come fu in vita il volere di entrambe185 .
Dati gli ultimi onori alla sorella, Gregorio si apprestò a tornare nella sua diocesi. Lungo la
via un ufficiale stanziato a Sebastopoli, legato al vescovo da parentela e amicizia, lo accolse e
lo trattenne per qualche tempo presso di sé. Egli raccontò a Gregorio anche un miracolo
operato da Macrina ancora in vita. L’ufficiale e sua moglie decisero un giorno di andare a
trovare la santa e Pietro, portando con loro la propria figlia, sofferente di una malattia agli
occhi. Giunti all’eremo e dopo aver condiviso, per insistenza dei due fratelli, il pasto del
luogo, l’ufficiale e la sua famiglia si allontanarono. Macrina aveva promesso un farmaco per
l’occhio della loro figlia, se si fossero fermati; la madre al momento del congedo se ne era
dimenticata; angosciato, il padre stava già disponendo che uno dei suoi subalterni andasse a
recuperare il rimedio, quando la nutrice si accorse che l’occhio della bambina era guarito, in
forza del vero farmaco, che viene dalla preghiera. Il funzionario dell’esercito si commosse,
paragonando i miracoli del Vangelo (che fino a quel momento gli erano parsi poco attendibili)
con quello a cui aveva appena assistito: come infatti, diceva, non si sarebbe dovuto credere
che Dio restituì la vista ai ciechi, se una sua ancella, in virtù della sua fede, poté compiere un
prodigio non inferiore186?
Altri miracoli, come annota Gregorio a conclusione del suo scritto 187 , furono compiuti
dalla santa, ma non sono riportati nell’opera a causa di coloro che non presterebbero loro
fede, valutando i fatti secondo il metro delle umane capacità e ritenendo irreale ciò che loro
stessi non possono compiere188 : un raccolto incredibilmente fruttuoso, il grano che non
diminuiva pur distribuito ai poveri della regione, guarigioni di malattie, purificazione dagli
spiriti immondi, preveggenza. Una simile preterizione è comunque utile a Gregorio per
accostare definitivamente la sorella al vero modello, Cristo: quanto è stato raccontato appare
infatti già bastevole a delineare la storia (περιγράψαι τὴν περὶ αὐτῆς ἱστορίαν: VSM 414,
185
Cf. VSM 406, 22-410, 2.
Cf. VSM 410, 3-413, 16.
187 Cf. VSM 413, 17-414, 14.
188 Cf. VSM 413, 20-23: οἱ γὰρ πολλοὶ τῶν ἀνθρώπων πρὸς τὰ ἑαυτῶν µέτρα τὸ πιστὸν ἐν τοῖς λεγοµένοις
κρίνουσι, τὸ δὲ ὑπερβαῖνον τὴν τοῦ ἀκούοντος δύναµιν ὡς ἔξω τῆς ἀληθείας ταῖς τοῦ ψεύδους ὑπονοίαις
ὑβρίζουσι.
324
186
14)189 della santa, affinché fosse di utilità a chi volesse compiere un cammino di virtù avendo
lei come esempio, come il vescovo ricordava all’inizio dell’opera.
VI.6 Basilio
Come scrive Bouchet, «Grégoire de Nysse a eu trois grends modèles: Moïse, saint Paul et
son frère Basile»190 . Dei primi si è già trattato; si è inoltre ricordato come per Gregorio la fede
è passata «dal focolare» (ἀπὸ τῆς ἑστίας ἡ χάρις: DV 334, 3), vale a dire attraverso
l’insegnamento di sua madre, ma soprattutto guardando all’esempio della sorella Macrina e
del fratello.
Non si conosce con certezza il luogo di nascita di Basilio: esso potrebbe essere
Neocesarea, città del Ponto dove suo padre esercitava la professione di retore e dove
sicuramente i suoi figli passarono l’infanzia, come Cesarea191 , luogo di origine della madre;
quanto all’anno, esso è probabilmente il 329.
Basilio ricevette una introduzione alla fede per opera della nonna Macrina, che ricorda
sempre con venerazione192 ; l’educazione retorica gli fu invece impartita a Cesarea e ad Atene.
Qui il giovane instaurò un fervido legame di amicizia con Gregorio di Nazianzo, con il quale
aveva organizzato, richiamandosi forse all’ideale di φρατρία antico, un gruppo di amici legati
dallo studio e dalla preghiera. Il forte influsso della παιδεία antica aveva impresso un segno
molto forte nell’animo del giovane, che aveva deciso di dedicarsi alla sola oratoria; fu tuttavia
l’influenza della sorella Macrina che seppe ricondurre Basilio ai primi propositi di ascesi
morale; egli tuttavia «non ha mai rinnegato completamente l’utilità (ophéleia) che aveva tratto
dalla sua educazione ellenica»193; tale principio dell’utile, si è visto, è molto caro anche a
Gregorio.
Una volta battezzato, ormai ventisettenne194, Basilio decise di impegnarsi interamente nella
vita ascetica, stabilendosi nella valle dell’Iris, vicino alla sorella Macrina, ed invitando
l’amico Nazianzeno a raggiungerlo, per condurre una vita cenobitica «fedele al modello della
comunità gerosolimitana delle origini apostoliche»195; in questi anni scrisse le Regulae.
189
Il termine, come annota , vuole sottolineare un’ultima volta in explicit la veridicità dei fatti narrati.
BOUCHET 1968, p. 613.
191 Cf. POUCHET 2001, p. 34.
192 Cf. Bas. Ep. 223, 3.
193 POUCHET 2001, p. 37.
194 Cf. POUCHET 2001, pp. 38-39 Cf. anche p. 39: «per loro il battesimo ricevuto nel pieno della maturità, dopo
esser stato vivamente desiderato, fu il sigillo della conversione alla vita ascetica e resterà, per tutta la vita, la
fonte e il riferimento al quale incessantemente faranno ricorso».
195 POUCHET 2001, p. 41.
325
190
Nel 362 Basilio fu ordinato sacerdote, qualche mese dopo Gregorio di Nazianzo, per
coadiuvare Eusebio, nuovo vescovo della metropoli di Cesarea, che si sentiva minacciato
dalla rinascita pagana ispirata da Giuliano. Basilio fu inizialmente incaricato dal suo vescovo
di occuparsi dell’educazione dei giovani; di questa intensa opera si ha notizia nell’epistolario
basiliano, in particolare quelle indirizzate a Libanio, e grazie alla sua Oratio ad adulescentes.
A motivo dei suoi grandi successi pastorali, Basilio suscitò le invidie dei suoi superiori;
avendo a cuore tuttavia l’unità della comunità, lasciò il suo servizio per tornare alla sua vita
ascetica; redasse tra il 363 e il 365 il suo primo scritto di polemica antiariana, il Contra
Eunomium; grazie alla mediazione del Nazianzeno Basilio si riconcilierà con il suo vescovo e
tornerà a collaborare alla vita della chiesa di Cesarea. Nel 370, alla morte di Eusebio, Basilio
fu fatto vescovo su insistenza del padre di Gregorio di Nazianzo; sin dall’inizio l’imperatore
Valente, per tramite del prefetto del pretorio d’oriente Modesto e l’addetto alle stanze
imperiali, l’eunuco Demostene, cercò di intimidire e controllare il nuovo vescovo, per
sottometterlo alla politica imperiale, di stampo ariano, senza però risultato. Basilio divenne
per i contemporanei e i posteri, anche grazie alla penna del Nazianzeno e del Nisseno,
«modello e canone del presbitero e del vescovo»196, instancabile nella sollecitudine verso la
sua comunità e quelle suffraganee, campione di ortodossia (sua la formulazione µία οὐσία,
τρεῖς ὑποστάσεις), testimone di un martirio senza versamento di sangue, segnato dall’eroismo
dei gesti della sua fede197.
I termini pieni di affetto, rispetto e stima - verrebbe da dire di riverenza - attraverso cui
Gregorio nomina il fratello attraversano le sue opere: sin dall’incipit del De virginitate198 il
Nisseno si riferisce a Basilio con le parole τοῦ θεοσεβεστάτου ἐπισκόπου καὶ πατρὸς ἡµῶν
(DV 249, 4); nella Apologia in Hexaemeron199 questi è costantemente chiamato ὁ πατὴρ ἡµῶν
e ὁ διδάσκαλος ἡµῶν. In explicit dell’orazione Contra usuraios 200 Gregorio rimanda al lavoro
del fratello Basilio, suo santo padre (ὁ θεσπέσιος πατὴρ ἡµῶν Βασίλειος: CU 207, 4-5), che
aveva già trattato il tema con saggezza; ancora, in incipit del secondo encomio In XL
martyres 201 Gregorio ricorda la figura di Basilio, che primo tra i Cappadoci pronunciò una
laudatio per questi soldati; l’occasione permette al Nisseno di sottolineare come il fratello
maggiore sia conosciuto da tutto il mondo abitato, modello certo per l’educazione dei
196
POUCHET 2001, p. 47.
Per queste due ultime definizioni, cf. Greg. Naz. Or. 43, 50.57.
198 Cf. DV 248, 27.249, 6.
199 Basilio è chiamato διδάσκαλος in ApH 7, 3; 8, 8; 14, 4; 41, 15.19; 42, 6; 84, 2.7; πατήρ in ApH 6, 7; 9, 17; i
due termini sono avvicinati in ApH 7, 17. In riferimento all’opera di Basilio si riscontrano anche i termini
διδασκαλία (ApH 9, 17; 10, 12; 42, 2) e µάθηµα (ApH 42, 4).
200 Cf. CU 207, 1-7.
201 Cf. XLM II 160, 4-21; cf. in part. XLM II 160, 8-11: ἀνὴρ οὗ τὸ θαῦµα τῆς οἰκουµένης κοινόν· παιδείας τῆς τε
παρὰ Χριστιανοῖς, καὶ τῆς ἔξωθεν, κανὼν ἀκριβὴς, φιλοσοφίας ἄγαλµα, ἐπισκόπων τύπος καὶ κίνδυνος,
διδάσκαλος ἔργων καὶ λόγων σύµφωνος.
326
197
cristiani, immagine perfetta della vita filosofica, modello e pietra di paragone per i vescovi,
un maestro che mostrava la perfetta sintonia tra parole e opere, lodato da tutti, ad eccezione di
coloro che odiano lo stesso Cristo. Nel De vita Moysis 202 infine il vescovo è lodato per aver
adornato la Chiesa con la sapienza profana conosciuta in gioventù.
Basilio risponde a tutti i tratti che Gregorio identifica come pertinenti a un maestro. Come
si legge nella Apologia in Hexaemeron203, ad esempio, il vescovo di Cesarea era capace di
adattare il proprio insegnamento (διδασκαλίας: ApH 9, 17) ai suoi ascoltatori, che
consistevano in un popolo numeroso ed eterogeneo per età e condizione sociale; da buon
pastore, egli cercava di arrivare a ciascuno, anche a coloro che non erano in grado di seguire
un’indagine sottile, non essendo esercitati nelle dottrine sacre (µαθηµάτων: ApH 10, 7). Tutti
costoro necessitavano che le loro anime fossero condotte (ψυχαγωγίας: ApH 10, 10) quasi per
mano (χειραγωγούντων: ApH 10, 11) dalla creazione sensibile al creatore; se dunque si
considera questo come lo scopo del suo insegnamento (διδασκαλίας: ApH 10, 12), nessuno
potrà muovere critiche al maestro. D’altronde l’intenzione di Mosè, come si legge più avanti
nel testo, è similare204 : egli infatti vuole condurre per mano (χειραγωγῆσαι: ApH 17, 5) coloro
che sono schiavi della sensazione attraverso l’osservazione delle cose visibili alle realtà che
superano la conoscenza sensibile.
La figura del vescovo di Cesarea e la centralità che ebbe nella vita e nell’educazione del
Nisseno quale modello imprescindibile da additare alla cristianità tutta emerge con più
chiarezza nell’encomio che Gregorio pronunciò forse nel 381, in occasione della ricorrenza
della morte del fratello; sarà utile ripercorrerne i passaggi.
Secondo una divisione già paolina (cf. 1Cor 12, 28; Eph 4, 11) nella Chiesa possono
facilmente essere distinte le figure degli apostoli, dei profeti, dei pastori e dei maestri;
all’inizio dell’orazione In Basilium fratrem205 questa osservazione dunque viene utilizzata per
sottolineare come, dopo le festività di Stefano e dei discepoli Pietro, Giacomo, Giovanni (cui
si riferiscono i due encomi In sanctum Stephanum) e Paolo206, la Chiesa è chiamata a
202
Cf. VM II 116, 5-9. Come scrive a tal proposito SIMONETTI 1984, p. 276-7, Basilio «era riuscito a
contemperare religione cristiana e cultura greca in un’educazione che Gregorio presenta come esemplare».
203 Cf. ApH 9, 16-11, 2.
204 Cf. ApH 17, 4-6: σκοπός ἐστι τῷ Μωϋσῇ, τοὺς τῇ αἰσθήσει δεδουλωµένους χειραγωγῆσαι διὰ τῶν
φαινοµένων πρὸς τὰ ὑπερκείµενα τῆς αἰσθητικῆς καταλήψεως
205 Cf. IB 109, 4-110, 18.
206 La Chiesa celebra attualmente la memoria di santo Stefano il 26 dicembre, quella di Pietro, Giacomo e
Giovanni il 27; non si fa menzione di san Paolo. STEIN 1928, pp. 63-64, ritiene che la commemorazione comune
di Pietro e Paolo, risalente ai primi anni dell’era cristiana, abbia portato il Nisseno a citare anche l’apostolo delle
genti. Tale riferimento è comunque funzionale, sin dall’inizio dell’encomio, come un primo richiamo ad una
figura centrale per mostrare le virtù del vescovo di Cesarea: «nell’orazione per Basilio il metro di paragone su
cui giudicare l’eccelsa virtù del vescovo di Cesarea è rappresentato [...] da Paolo: solo in secondo piano Gregorio
paragona Basilio a Giovanni, Elia, Samuele e Mosè» (LOZZA 1991, p. 131).
327
ricordare il suo pastore e maestro (ὁ ποιµὴν καὶ διδάσκαλος: IB 110, 1), colui che ha seguito
da presso gli insegnamenti ispirati, lo strumento scelto da Dio allo stesso modo di Paolo (cf.
Act 9, 15): Basilio. Questi, come Mosè, fu educato (παιδευθέντα: IB 110, 7) nella conoscenza
profana, ma fin da bambino fu introdotto allo studio delle Scritture; per questo ebbe la
possibilità di essere maestro (διδάσκων: IB 110, 9) di ogni uomo in entrambi i saperi,
conquistando i propri nemici con le armi tratte dalle due conoscenze (παιδεύσεως: IB 110,
11), gli eretici con le Scritture, i greci attraverso la propria cultura (παιδεύσεως: IB 110, 15).
Basilio diviene quindi, assommando in sé le qualità di dottore e martire, interprete secondo
verità della voce dello Spirito e valido soldato di Cristo207 , sul modello paolino, che
impronterà tutto l’encomio: egli fu l’uomo, a detta di Gregorio, che Dio scelse per rispondere
alle sfide dei suoi tempi. Gregorio ripercorre quindi la storia della salvezza mostrando come,
in ogni momento particolarmente difficile, l’economia divina fu profondamente legata ad una
figura autorevole208 : quando il determinismo della filosofia caldaica riconduceva la causa di
ogni cosa al movimento degli astri, Dio chiamò Abramo, che attraverso tale cultura
(παιδεύσει: IB 112, 1) si accorse che non tutto poteva essere ricondotto al visibile; a fronte del
popolo egiziano, che utilizzava una filosofia che poteva operare portenti, fu messo Mosè, che
con la trascendenza della propria sapienza riuscì a distruggere i loro inganni; quando gli
israeliti erano confusi e non sapevano a chi dovesse essere commesso il potere apparve
Samuele, che trasformò quello stato di anarchia in una monarchia; quando i re, a partire da
Acab, tradirono l’alleanza, uomini come Elia mostrarono la potenza divina; così Giovanni
Battista fu testimone di virtù nel deserto; quindi Dio scelse per sé Paolo, lavandolo con
l’acqua sacramentale e facendolo divenire padre del mondo intero, conducendo coloro che
erano da lui formati alla luce, verso la vera pietà. Il Nisseno rivolge quindi lo sguardo ai suoi
tempi209 , cercando di capire in quest’ottica l’apparizione del nuovo maestro (διδασκάλου: IB
114, 18), Basilio. Le sfide in cui egli fu versato non riguardarono più l’idolatria, ma l’eresia:
in special modo vengono citati Ario, Aezio, Eunomio ed Eudossio, accomunati dalla
convinzione che il Figlio fosse subordinato al Padre210 ; allo stesso modo, Basilio si trovò
ostacolato dalle decisioni dell’autorità imperiale sotto Valente. Il vescovo di Cesarea rifulse
come una lampada per la Chiesa, tanto che la sua frenetica attività pastorale è avvicinata a
quella di Paolo; l’esilio cui fu costretto non piegò in alcun modo il vescovo, che riteneva che
l’unico vero esilio fosse quello dal paradiso; nella vita si trovò dunque a imitare le prove di
207
Cf. IB 110, 19-111, 17.
Cf. IB 111, 17-114, 7.
209 Cf. IB 114, 8-116, 17.
210 Cf. STEIN 1928, p. 97.
328
208
martiri per la verità (τοὺς τῶν µαρτύρων ἀγῶνας ὑπὲρ τῆς ἀληθείας µιµήσασθαι: IB 116,
11-12).
L’orazione continua proponendo con più enfasi il confronto tra Paolo e Basilio211: se infatti
l’apostolo delle genti mostrò di amare Dio in pienezza di cuore, anima e pensiero, lo stesso
fece Basilio, il maestro (διδασκάλου: IB 117, 6), nel suo ritiro dal mondo e nel suo impegno
paideutico, con la parola e l’esempio personale (τῷ τε διδακτικῷ λόγῳ καὶ τῷ καθ' ἑαυτὸν
ὑποδείγµατι: IB 117, 15-16): egli infatti possedette, come Paolo, tutte le virtù; come questi
percorse tutto il mondo annunciando il vangelo, così la parola di Basilio arrivò ad
abbracciarlo, anche attraverso le sue lettere. Insomma, per entrambi Cristo coincideva con il
vivere e morire era un guadagno (cf. Phil 1, 21).
Il Nisseno propone quindi di paragonare il fratello, chiamato sempre διδασκάλῳ (IB 119,
16; 120, 6; 121, 14), a Giovanni Battista212 , iniziando così a ripercorrere a ritroso i personaggi
biblici che aveva nominato all’inizio del suo discorso. Di costoro viene riferita la
testimonianza offerta dalla voce di Dio (µαρτυρούσης: IB 119, 18) o dalla verità
(προσµαρτυρήσειε: IB 120, 5): entrambi rinunciarono al lusso e ai piaceri del mondo,
entrambi passarono la loro vita nel deserto e nella perfetta padronanza del proprio corpo, per
raggiungere Dio attraverso la purezza. Entrambi, infine, ebbero a che fare con il potere
politico: Giovanni con Erode, governatore della Palestina, Basilio con Valente, imperatore
dell’impero romano; il primo fu tratto e accusato per una donna, l’altro per la vera fede; così
Giovanni fu ucciso e Basilio tratto in esilio.
Gregorio passa quindi a vedere come paragonare la vita di Elia e quella del suo διδάσκαλος
(IB 122, 4.24; 123, 8.9.21; 124, 3.10.14; 125, 6). Basilio imitò (µιµεῖται: IB 123, 7.21) il
profeta nello zelo della fede, nella inimicizia nei confronti di coloro che rompevano i loro
giuramenti, nell’amore verso Dio, nel desiderio rivolto a ciò che è vero e lontano dalla
materialità, nella vita austera e in molte altre qualità e virtù, prima tra tutte il sacerdozio e la
difesa della fede.
Basilio è quindi velocemente paragonato a Samuele213: come per Elia, il profeta viene
imitato (µιµησάµενος: IB 125, 16) dal maestro (διδάσκαλον: IB 125, 9) perfino nella nascita,
in quanto, se la nascita di Samuele fu preceduta da una preghiera della madre, così quella di
Basilio lo fu da quella del padre. Entrambi furono accomunati dalla morte, sacrificandosi per
la distruzione dei loro nemici, per Samuele i Filistei, per Basilio le eresie.
211
Cf. IB 116, 18-119, 14.
Cf. IB 119, 15- 122, 2.
213 Cf. IB 125, 7-22.
212
329
Altro grande personaggio che viene avvicinato al vescovo di Cesarea è Mosè214; questi
infatti è un esempio (ὑπόδειγµα: IB 126, 1) comune per coloro che guardano alla virtù. Harl
sostiene che quest’ultima synkrisis risponderebbe ad un progetto pedagogico e protrettico in
vista di mostrare la centralità, per la comunità cristiana, della figura del vescovo215. Un primo
termine di paragone è offerto dal rapporto con la cultura sacra e profana, rispetto alla quale
Basilio, il maestro (διδάσκαλον: IB 126, 3.7; 127, 2; 129, 4.14.19), imitò (µιµούµενον: IB
126, 4; µίµησις: IB 126, 4; µιµεῖται: IB 126, 21) il legislatore. Di questi infatti si ricorda come
la figlia del Faraone, dopo averlo trovato sulle rive del Nilo, lo educò secondo la cultura della
regione (παιδεύει τὴν ἐγχώριον παίδευσιν: IB 126, 5); non appena tuttavia egli fu in grado di
sostenere un nuovo nutrimento abbandonò il seno materno. Lo stesso testimonia (µαρτυρεῖ:
IB 126, 7) la vita di Basilio: allevato secondo la cultura profana, una volta cresciuto ricevette
gli insegnamenti (διδάγµασι: IB 126, 9) della Chiesa e, come Mosè, scacciò la falsa madre,
anche il futuro vescovo di Cesarea scosse via da sé gli insegnamenti pagani; quindi Mosè
purificò il suo popolo, come fece Basilio. Il ritiro nel deserto è comune ad entrambi; la visione
del roveto è paragonata all’apparizione di una luce nella notte che rischiarò il vescovo mentre
pregava; si ricordano quindi gli altri miracoli accaduti al legislatore, che il popolo reso povero
nel cuore dal buon insegnamento (διδασκαλίας: IB 127, 21) testimonia (µαρτυρεῖ: IB 127, 11)
e che Basilio imitò sul piano spirituale e dell’annuncio.
Gregorio si appresta quindi a concludere l’encomio di Basilio esaltandone la vera patria e
la vera stirpe, vale a dire l’intimità con la divinità, dono che si riceve in una vita che coltiva le
virtù216. La vera lode che si può elevare ad un simile santo, afferma quindi il Nisseno, non è
un discorso, ma il cambiamento della propria condotta attraverso l’imitazione (διὰ τῆς πρὸς
ἐκεῖνον µιµήσεως: IB 133, 18; µιµησάµενοι: IB 133, 20) della virtù del maestro (διδασκάλου:
IB 133, 17), diventando ciascuno un testimone (µάρτυς: IB 134, 2) che disdegna ciò che non
lo fa progredire nel cammino della vita. Come Basilio, ciascuno deve fare in modo che le
parole del Vangelo diventino vita: l’orazione si conclude con un nuovo appassionato invito ad
imitare il maestro, rendendosi suoi discepoli, fino a diventare perfetti come colui che si
guarda. Nelle arti umane, prese ad esempio, non si può essere chiamati apprendisti se si
proclama il proprio apprezzamento a parole, ma non lo si rende ipotesi di vita o di
cambiamento; se invece si mostra di aver imparato, attraverso il sapere stesso si indica e si
214
Cf. IB 125, 23-130, 6.
Cf. HARL 1984, passim; in particolare cf. p. 71: « La comparaison entre ici dans un projet pédagogique,
protreptique, qui est celui de tout le discours: Grégoire veut dire comment la communauté chrétienne doit
percevoir les fonctions de l’évêque; il exprime une idéologie del l’épiscopat». Cf. anche STERK 1998, p.
229-230: «perhaps no one held Basil of Caesarea in higher esteem than his brother Gregory of Nyssa. [...] The
Nyssan's expression of episcopal ideals went beyond his portrayal of Basil»; più oltre, a p. 235, si legge: «to
portray him [scil. Basil] as a model of episcopal authority is fundamental to the entire encomium». Più in
generale sull’orazione In Basilium fratrem cf. Sterk 1998, pp. 229-239.
216 Cf. IB 130. 7-132, 19.
330
215
loda colui che ha guidato all’arte. Basilio deve dunque essere venerato come maestro verso il
quale non si può che vivere la dinamica dell’imitazione217.
VI.7 I martiri
Da ultimo, occorre citare le figure di coloro che nel nome stesso portano la categoria della
testimonianza, i martiri: essi disprezzando le sofferenze in quello che fecero, dimostrarono di
preferire Cristo sopra ogni altra cosa e, come mostrano gli accostamenti a varie figure
bibliche, sono esempio di una compiuta µίµησις218 rispetto alla perfezione di coloro che li
hanno preceduti, e richiamano a tale dinamica chi contempla le loro vite.
Come scrive Špidlík219 , secondo i Padri martire è insieme testimone della morte e della
resurrezione di Cristo, diventando suo vero discepolo. Clemente espone una duplice modalità,
cruenta o meno, di essere martire: ogni atto può essere infatti µαρτυρίον per Cristo; allo stesso
modo, certe particolari scelte di vita, come quella monastica, sono viste come analoghe al
martirio. Inoltre il martire diventa figura contemplativa per eccellenza: la sua conoscenza di
Dio, spesso espressa come visio nel sacrificio dei sensi, lo ha portato a dare testimonianza
valida della fede220.
Sin dai primi secoli la Chiesa ha rivolto particolare attenzione alla testimonianza fino alla
morte dei suoi fedeli, additandola come esempio di virtù. Il culto dei martiri in Cappadocia
era stato incoraggiato (secondo una modalità che mantenesse comunque lontano dalla non
moderazione) da Gregorio il Taumaturgo e promosso da Basilio e Gregorio padre del
Nazianzeno; il primo anzi descrive con compiacimento le manifestazioni popolari di
devozione221 , particolarmente utili secondo lui in chiave paideutica222 . Basilio esalta l’eroica
vittoria sui sensi del martire, che partecipa con Cristo alle sofferenze e merita per questo la
resurrezione, diventando così un esempio per tutti; tale testimonianza può essere offerta da
217
Cf. IB 132, 20-134, 21. Cf. in part. IB 134, 8-21: µίµησαι διὰ τούτων καὶ σὺ τὸν διδάσκαλον. κατηρτισηµένος
γὰρ ἔσται µαθητὴς ὡς ὁ διδάσκαλος αὐτοῦ. καὶ γὰρ ἐν τοῖς λοιποῖς ἐπιτηδεύµασιν, ὁ ἰατρῷ µαθητεύσας, ἢ
γεωµέτρῃ, ἢ ῥήτορι, ἀναξιόπιστος ἐπαινέτης τῆς τοῦ διδασκάλου τέχνης γενήσεται, εἰ τῷ µὲν λόγῳ θαυµάζοι τοῦ
καθηγητοῦ τὴν ἐπιστήµην, ἐφ' ἑαυτοῦ δὲ δεικνύοι µηδὲν τοῦ θαύµατος ἄξιον. ἐρεῖ γάρ τις πρὸς αὐτόν· πῶς
λέγεις ἰατρὸν τὸν