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Roberto Castellani Mi chiamo Castellani Roberto. Sono nato a Prato e tuttora vivo a Prato. Sono nato il 23 luglio del 1926 da una famiglia di operai. Qui a Prato sono stato arrestato dai fascisti per lo sciopero del 1944, che fu dichiarato in Toscana il 4 marzo del 1944. Invece nel resto dell’Italia era stato dichiarato sempre nel 1944 ma il primo marzo. In Toscana per ragioni organizzative fu fatto il 4 e riuscì in pieno. C’è una cosa da dire però, anche gli stessi industriali hanno collaborato allo sciopero perché era nei loro interessi. Lo sciopero, infatti, era per la fine della guerra, per avere più pane e perché i fascisti e i nazisti non portassero via i nostri macchinari all’estero. In tutte le industrie pratesi lo sciopero riuscì completamente. Finì il 6 marzo. Il 6 marzo finisce lo sciopero e si deve ritornare a lavorare. Però non si torna a lavorare. A Prato succede una cosa straordinaria: un grande bombardamento, la mattina del 7 marzo. Ci fu un grande bombardamento delle industrie pratesi. In via Bologna fu distrutto tutto, tutte le fabbriche e io, con altri ragazzi, finito il bombardamento, decidiamo di andare a vedere il lanificio dove lavoravo che si diceva fosse stato bombardato. Allora chiesi “Posso andare a vedere la fabbrica dove lavoro io? Mi hanno detto che è stata bombardata, è distrutta?” . Mi risposero di sì. E in quattro partiamo da Via del Purgatorio e andiamo al lanificio di San Martino. Il proprietario del lanificio di San Martino era un ebreo. Era una fabbrica in cui si stava molto bene rispetto alle altre, però il proprietario non c’era a causa delle leggi razziali. Non aveva più diritto a nulla. Il direttore faceva oltre che da direttore anche da proprietario. Arrivato in fabbrica, incontro il direttore, si chiamava Bruno, che mi fa “Roberto, l’hai vista la nostra fabbrica come è ridotta?”. “Davvero!” rispondo. “Quando si ritorna a lavorare?” continuo, mi risponde “Vai a casa ora perché tra un po’ c’è il coprifuoco, ti avvisiamo noi quando sarà il momento di ritornare a lavorare”. Vado via con gli altri quattro ragazzi e passiamo dal centro. Arrivo in centro ed erano le cinque, alle sei c’era il coprifuoco. Arrivo in piazza delle Carceri e ci sono dei repubblichini e dei carabinieri. Avevano un gruppetto di persone lì, e uno mi fa “Vieni qua!” e io di corsa corro da questa persona, di corsa perché lo conoscevo, sapevo chi era. Era colui che mi faceva gli esami, mi faceva marciare, insomma era il nostro capo manipolo, si diceva allora. Io mi metto sull’attenti, gli chiedo cosa vuo le, e mi fa “Dammi la carta d’identità!” e io subito prendo la carta d’identità e gliela do, non avevo nessuna paura, avevo diciassette anni… Prende la carta d’identità mia e di un altro, un certo Cherubini Bruno, che è stato arrestato anche lui, poi è morto. Gli altri due invece avevano dodici anni, gli fa “Voi andate a casa!” e difatti quei ragazzi andarono a casa e noi restammo lì. Le carte d’identità le diede al carabiniere, il carabiniere le guarda e fa “Guarda questi sono ragazzi, mandiamoli a casa, non hanno neanche 18 anni!” e lui gli disse “Zitto!”. Poi io sentii che diceva ai carabinieri “Zitto, se no ci vai a finire anche te dove vanno loro!”. Ma noi non capivamo che volevano dire quelle parole. E il carabiniere si strinse le spalle come per dire “Non posso far nulla”. Ci prese e ci mise in un bar che si chiamava il Bar La Rosa dove c’erano già una cinquantina di persone, tutti arrestati da queste persone. Eravamo lì e si discuteva del più e del meno, eravamo tutti ragazzi giovani, ci chiedevamo “Dove ci porteranno?”. Arrivarono due ragazzi, due repubblichini dalla fortezza, e ci misero in fila. Premetto che saremmo potuti scappare, però nessuno tentò di scappare perché non si sapeva che cosa ci avrebbero fatto. Ci portarono in fortezza, arrivammo in fortezza dove c’erano già tanti pratesi arrestati. Arrivarono i pullman da Firenze e ci misero in un pullman. Eravamo cinquanta o sessanta al massimo per ogni pullman, anche lì si poteva benissimo scappare. C’erano anche dei ragazzetti più giovani di me ma nessuno si azzardò a scappare. Si arrivò a Piazza Santa Maria Novella, alle Scuole Leopoldine. Ci scaricarono e ci mandarono su. Arrivati su nelle aule cominciammo a trovare altri pratesi. Conoscevo bene Pitigliani perché lavorava alla Gronda con il mio babbo. E gli dissi “Signor Alessandro, c’è anche lei?”, disse “Davvero!”. Tra l’altro è un ebreo lui. Mi disse “Davvero Roberto, ma stai tranquillo non ci fanno nulla, non c’è problema, ci porteranno a fare qualche lavoro e poi ci rimandano a casa”. E così io presi e andai a raccontarlo ad altri che erano lì tutti pensierosi, gli feci “Ragazzi stiamo tranquilli perché mi ha detto Pitigliani che non c’è nulla da temere. Sapete è un uomo intelligente, perché sa leggere e scrivere e in più sa scrivere a macchina, è impiegato alla Gronda, pensateci bene è veramente un uomo di cui fidarsi!”. E il morale si alzò. Poi ci fecero una specie di interrogatorio con un ufficiale delle SS, dei repubblichini e un interprete. Ci domandarono “Hai fatto sciopero?” e io francamente risposi “Sì, ho fatto sciopero”, “Che lavori fai?”, “Sono alle filande”, “Va bene!”. Segnarono e mi mandarono via. La mattina cominciarono ad arrivare tante altre persone, tante. Di pratesi si suppone che ne abbiano arrestati circa settecento o ottocento, però hanno fatto poi una selezione, una selezione fatta proprio alla nazista. Non era una selezione mirata, era una selezione fasulla, “Te qui, te là!”. Fecero due squadre, ma nessuno sapeva dove andassero. Fatto sta che tanti che erano dall’altra parte venivano dalla nostra e tanti dalla nostra andarono di là, senza sapere che poteva succedere. E lì poi presero una squadra e la portarono da un’altra parte, e l’altra squadra da un’altra. A noi ci presero, ci portarono subito alla stazione. Alla stazione di Santa Maria Novella c’era una tradotta lunghissima, dove sulle porte dei vagoni, c’era scritto con un gesso bianco: “Operai volontari per la Germania”. Noi guardavamo questa scritta ma non ci si rendeva conto. Finito di contare, le SS con gli interpreti chiesero “Chi è il più vecchio?”. Se ne presentarono tre, pensando “Ci rimandano a casa!”. E invece no. La carta d’identità non ce l’aveva più nessuno, bisognava tenere conto della fisionomia. Uno delle SS disse “Sì, va bene. Tu sei responsabile di questo vagone, se quando si arriva a destinazione ne manca uno tu sarai fucilato!”. Allora questo ha cominciato a dire “Ma io non sono il più vecchio!”. “No, sei te!” disse. Noi eravamo stati arrestati la sera del 7 marzo, era l’8 marzo. Eravamo nel vagone dalle cinque o le sei, e nel vagone c’era tanto pane e tanta pasta d’acciughe. La fame era tanta, si cominciò tutti a mangiare, c’era pane per tutti, anzi ce n’era anche troppo. Io presi un pane, l’aprii, misi tanta pasta d’acciughe, ero un po’ golosone di certe leccornie. La pasta d’acciughe non sapevamo neanche che volesse dire, ce ne misi più di quanta se ne dovesse mettere ma fu un danno perché mancava l’acqua. Quando ci si accorse che ci veniva sete, dicevamo “Ma l’acqua?”, “L’hanno messa?”, invece no n l’avevano messa. Da quel momento entrammo nel KZ, nei campi di concentramento di sterminio, senza saperlo, senza che le SS facessero nulla. Quattordici SS ci hanno scortato da Firenze a Mauthausen. Milleseicento persone lassù, senza avere una minima sorpresa, perché noi pensavamo solamente alla sete. Triangoli rossi, triangoli neri, triangoli gialli si è sofferta tanto la fame, io penso non ci sia persona nel mondo che abbia sofferto la fame quanto queste persone, quanto noi. Però la sete è più brutta. Noi abbiamo fatto tre giorni di viaggio e quattro notti e abbiamo patito la sete, che è una cosa da nemmeno paragonarla a nulla, né alla fame, né a nulla. Noi non pensavamo a scappare, si pensava solamente all’acqua. Quando passavamo sui binari, sui ponti e sotto si sentiva scorrere l’acqua, ne sentivamo il profumo anche se l’acqua non ha profumo, ma noi ne sentivamo addirittura il profumo e gridavamo “Mamma, mamma portami dell’acqua, dammi l’acqua mamma!”, tutti. Come si poteva fare a pensare a scappare - perché c’era la possibilità di scappare non si poteva scappare perché il nostro desiderio era solo uno: quello dell’acqua. Finito questo viaggio tremendo… Guardate, io non voglio stare a parlare del dormire, dei nostri bisogni di fronte a tutti, no… Arriviamo a Mauthausen la mattina. Si arriva la mattina, ci aprono i vagoni, ebbi una grossa sorpresa: sembrò la manna dal cielo. Aveva appena nevicato, c’era la neve fresca. Ci danno l’ordine di scendere per prendere la neve e calmarci la sete. Calmando la sete si comincia a discutere tra di noi. Cominciammo a chiederci: “Dove siamo?”, “Boh, Mauthausen e dov’è?”. Un signore di Prato, un certo Bertazzi Ruggero, prigioniero con noi, disse “Io lo so!” e gli altri fecero “Lui lo sa! Lui è un gigolò, gira il mondo lui!”. Rispose “Guardate io ho girato il mondo ma solo per cose brutte perché io sono stato prigioniero durante la guerra del 15/18 a Mauthausen. E guardate sono stato tanto male, e ho patito tanto la fame”. Allora gli feci “Si starà anche male, non ci sarà neanche da mangiare, però adesso è mattina presto e si sente che fanno la carne arrosto di pollo, di maiale o di vitello”. Invece erano i forni crematori. Ancora non si sapeva neanche che esistessero queste cose. E mi fece “Hai ragione tu Castellani, davvero, speriamo che sbagli io!”. Ci misero tutti in fila e partimmo. Dalla stazione per arrivare a Mauthausen ci sono otto chilometri. Camminammo e finalmente arrivammo. C’erano con noi anche quelli presi nelle fabbriche, c’erano due fabbri presi dai Campormi e dai Lucchesi a Prato. Erano vestiti come si stava al lavoro, scalzi, con le camicie tutte rotte, non è come ora. Mi ricordo, c’era babbo e figliolo che lavoravano dai Lucchesi, si chiamano Ciabatti, e Maggiorano il figliolo che aveva un anno meno di me, mi fa “Vedi Roberto tu sei vestito benino, tu hai le scarpe, tu hai pantaloni alla zuava, la tua camicina, il tuo blusettino, invece io guarda: la camicia di lavoro, i pantaloni che non si sa di che colore sono dalle toppe che ha, una rossa, una verde, una gialla, la camicia lo stesso, fa un freddo boia e io sono scalzo, ho gli zoccoli, qui sulla neve…”. Camminammo e vedemmo apparirci una grande fortezza. Era il campo di Mauthausen. Faceva paura, e fa paura ancora, uno deve pensare allora. Si arriva lì e vedo questa fortezza brutta. Si cammina ancora un altro po’, ci sono due case, delle case dinanzi al campo di Mauthausen, c’erano anche allora. E c’è il filo spinato percorso da corrente elettrica e c’è un grosso cancello, lo aprono e si entra all’interno. Si entra all’interno e si comincia a trovare gli abitanti del campo di concentramento vestiti a strisce celesti e bianche, col numero. Guardiamo e pensiamo “Guarda come sono brutti!”, si faceva “Guarda come sono secchi! Cosa hai fatto? Dove sei stato?”. E questi non ci rispondevano perché non capivano la nostra lingua. Si va un altro po’ avanti, si trova un altro gruppo. Gli facciamo le stesse domande ma questi ci rispondono. Uno mi fa “Te ne accorgerai tra tre giorni!” ma non in italiano, in spagnolo. “Cosa significano queste parole?”. Sotto incontro un altro che mi fa “Io posso ringraziare le italiane…”, “Ma questi che vogliono dire, che vogliono dire?”. L’ho capito dopo che voleva dire, erano spagnoli arrestati dalle nostre… Arriviamo a Mauthausen, si apre un portone, il portone nero che c’è lì. Entro dentro. Sono tra i primi io, sono lì davanti. Eravamo solo uomini, nessuna donna. Non c’erano nemmeno dei religiosi nel nostro trasporto. Arrivo di fronte al portone e lo aprono. Io sono proprio in prima fila e sulla destra. C’era appena stato l’appello. All’appello si dovevano portare i morti, io lo seppi dopo, prima non lo sapevo. Arrivo lì, una sfilata di morti. Mi venne una visione, quando diedero l’ordine di partire non mi mossi dalla paura, dissi “Ma qui dove siamo? Sono morto, dormo o sogno?”. Mi venne su una visione di un disegno che avevo visto sulla Divina Commedia di quando Dante è all’inferno. Dissi “No, sono morto perché una visione così…”. Era tutta una sfilata di morti, ma non morti normali, tutti morti con lo scheletro ricoperto di pelle. Questo era il discorso. Mi riebbi subito perché questo discorso che mi feci nel mio cervello sarà durato quattro o cinque secondi, macché secondi, una frazione di secondo! C’era una SS, mi diede una pedata e dissi “Ma allora sono vivo e sveglio anche!” e mi portarono di fronte al muro del pianto. Ci portarono tutti. Il comandante cominciò a parlare, la prima parola fu questa “Signori deportati qui siete in un campo di concentramento di rieducazione dei nemici del Terzo Reich. Se darete retta ci sarà anche la possibilità di tornare a casa. La fuga non è ammessa. Chi tenta di scappare se viene ripreso viene o fucilato o impiccato. Perciò pensateci bene. Questo è un muro di tre metri, c’è un metro e mezzo di filo spinato percorso da corrente elettrica che rientra all’interno. Ogni venti metri c’è una SS di guardia, perciò la fuga non è ammessa. Ma se uno tentasse di scappare, se viene preso ve l’ho detto prima – viene o impiccato o fucilato. Ora andate tutti a fa re il bagno!” Ci portarono giù nel sottosuolo, ci diedero un sacchetto di carta con un lapis e un foglietto e dissero “Mettete tutta la vostra biancheria dentro, ci scrivete il vostro nome e cognome poi ognuno riprenderà la sua biancheria”. Allora tutti contenti si fece “Guarda come sono organizzati questi tedeschi!” si diceva. “Ora finito il bagno ognuno riprende la sua roba”, pensavamo... Fatto questo ci sono dei parrucchieri che hanno i rasoi, ci tagliano il pelo - io non ne avevo per fortuna qui allo stomaco - ci levano tutto il pelo, ci fanno la rapa e più la strada del paradiso. Poi fatto tutto questo ci mandano in un’altra stanzina e ci sono due inservienti spagnoli che hanno dei pennelli da imbianchino, lo immergevano in un liquido e ce lo davano addosso. Bruciava talmente che gli dissi “Ehi, che ci fai?” e fece uno “Ora vi si disinfetta - così disse lui, mi ricordo come fosse ora - e poi vi si dà fuoco”. Allora l’altro spagnolo disse “No, no, lui è un burlone, questo è un disinfettante!”. E basta. Fatto questo ci mandarono a fare la doccia. Si va a fare la doccia ed eravamo tanti, non potevamo entrare tutti, eravamo pressati… Eravamo completamente pressati. C’erano i più forti e i più prepotente che erano proprio sotto dove casca l’acqua e noi che eravamo più deboli stavamo ai margini. Mandano l’acqua, regolare, ventisette, trenta gradi. Ci stavano tranquilli lì sotto e invece a noi arrivavano solo gli spruzzi. Tutto ad un tratto smette e viene sotto zero. Allora volevano scappare, ma non c’era più verso, a noi ci venivano degli spruzzi, ma erano marginali. Poi smette anche quella dopo due minuti e viene a ottanta gradi sopra zero, faceva delle bolle così, gli urli, tiravano i cazzotti, ma non c’era verso di scappare. Ecco questa era la presentazione dei KZ. Finita la doccia ci dicono di prendere degli zoccoli olandesi in un mucchio. Ognuno cercava di prendere il suo numero. Ma noi non sapevamo ancora cosa volesse dire kapò. I kapò non volevano, ti davano botte, legnate, dicevamo “O che abbiamo fatto, ora ci dite di prendere gli zoccoli e dopo ci tirate le legnate!”, e loro davano botte. Allora capimmo, si prese l’altro zoccolo, io ne presi due e me li misi sotto le braccia e tutti nudi andammo nel blocco della quarantena. Nel blocco della quarantena ci siamo stati quindici giorni. Il blocco della quarantena non me lo ricordo, ma erano i blocchi dove c’erano i kapò russi ma il numero non me lo ricordo. Nella baracca non c’era nessun mobilio. Ci misero ottocento per Stube. A dormire eravamo stretti, talmente stretti che quando uno si rizzava per andare al gabinetto non poteva più rientrare. Si andava a dormire la sera alle sette e sino alle sette della mattina, stare a dormire in quella maniera era solo un patire perché succedeva di colpire qualcuno “Sta attento, tu mi metti il piede in bocca!” o “Sta attento tu mi fa lì, con questo gomito tu mi dai noia!” e così via. Allora che succedeva? I kapò capivano questo e per divertirsi, invece di passare in mezzo dove c’era una sorta di viottolino, salivano sopra e dove mettevano i piedi spezzavano le ossa. Poi aprivano le finestre, faceva molto freddo, prendevano gli idranti e ci bagnavano. Ecco la nostra vita. Dopo ci diedero una camicia e un paio di mutande. Poi un altro colpo mortale fu quando mi diedero il numero. Ci chiamavano uno per uno, mi chiamano e fanno “Castellani Roberto?”, “Sì”, “Tu non sei più Castellani Roberto ma sei 57.027, è il tuo numero! Al momento dell’appello sarà chiamato solo in una lingua, se il kapò è russo lo chiama in russo, se è tedesco in tedesco, se è francese in francese, se è polacco in polacco. Per questo bisogna capirlo, se ti richiama la seconda volta sette legnate, la terza quattordici, se ti chiamano ancora ventuno e così via!”. Questo era il regolamento. Finiti i giorni ci danno il vestito a strisce, gli zoccoli, la camicia, le mutande e il cappello. Tutte le volte che transita davanti a noi una SS o un kapò bisogna levarsi il cappello e mettersi sull’attenti. Questo era il regolamento. Ci inquadrarono tutti in questo modo e ci portarono a Ebensee nelle fabbriche sotterranee a costruire i famosi missili. Abbiamo saputo successivamente che noi costruivamo i missili, appena arrivati non lo sapevamo. Erano i V2, i V4, i V9, il missile intercontinentale. Ebensee era un campo nuovo. Noi da Mauthausen a Ebensee siamo arrivati con dei treni civili con gli scompartimenti, ci misero una ventina per ogni scompartimento, eravamo stretti ma si vedeva però, c’erano i vetri. Tant’è vero che quando si passava dalle città, da quei piccoli paesi, quando si arrivò vicino a Ebensee vedemmo un bel lago, un bel paesino e tutti a dire “Ma se ci fermano qui…”. Si sentiva il treno rallentare, “Se ci fermiamo qui, guarda che bello, guarda che paradiso, la domenica quando si fa festa si va a pescare!”, facevamo tutti discorsi così. Arrivati a Ebensee ci portano non alla prima stazione di Ebensee, ma alla seconda. Ci fanno scendere, i civili li mandano tutti via, restano solo dei giovani, dei ragazzi. C’era la neve, questi ragazzi, avevano fatto tante palle di neve e ce le tiravano dietro, ma forte, ci facevano anche male. E tutti ce la prendevamo con questi ragazzi. Io avendo diciassette anni e, avendo fatto la scuola sotto il fascismo, capivo il motivo per cui quei ragazzi ci tiravano le palle. Infatti dissi ai miei compagni “Sapete io ho fatto la scuola sotto il fascismo, mi hanno arrestato, non ero mica antifascista, non ero mica contro nazisti né contro fascisti, perché io ero avanguardista, la dittatura mi aveva insegnato che non c’era altra libertà che quella fascista, perché noi eravamo superuomini, sapevamo che si doveva dominare il mondo, quindi questi ragazzi io li capisco”. Qualcuno dice “Ma tirano!”, “Tirano, tirano perché loro credono che noi siamo loro nemici!”. Ci inquadrarono e ci portarono a Ebensee. Lì ci diedero un letto ciascuno, in un primo tempo si dormiva uno per letto, dopo neanche quindici giorni, abbiamo cominciato a dormire in due, poi tre, quattro, cinque… Siamo arrivati fino a sei in un letto di ottanta centimetri per un metro e ottanta. Negli ultimi cinque mesi ci davano un chilo di pane ogni quindici giorni, un cucchiaio di marmellata al mese, un cucchiaio di formaggio al mese, quattro grammi di margarina al mese, un cucchiaio di carne in scatola al mese e mezzo di litro di zuppa tutti i giorni. Quando andava bene c’erano delle bucce di patate e qualche altra robuccia, altrimenti c’era tutta erbaccia, tutta robaccia. Rapportato in caloria giornalmente il nostro pasto era dalle settecento alle settecentocinquanta calorie al giorno. Lavoravamo dodici ore al giorno nelle fabbriche, sotto terra, come poteva fare uno a vivere? Avevamo un giorno di riposo al mese, l’ultima domenica del mese era di riposo. Io il vestito che mi diedero a Mauthausen me lo sono tolto il 6 maggio del 1945, il giorno della liberazione degli americani. Questo era Ebensee. Il campo di Ebensee non era tanto piccolo, era piccolo in partenza però è venuto grande con il passare del tempo. Alla liberazione siamo arrivati ad essere diciottomila mila prigionieri in un campo di concentramento che ne poteva contenere sette, ottomila, uno può immaginare già la tragedia che c’era all’interno di questi campi. Un’altra tragedia grossa per noi italiani era che non eravamo visti bene, perché avevamo fatto la guerra a tutti, c’erano degli jugoslavi che dicevano “A me mi hanno preso gli italiani, mi hanno preso le camicie nere, i carabinieri, quelli con tante penne!”. Poi c’erano i greci che dicevano “A me mi hanno preso gli italiani”, gli albanesi “A me mi ha arrestato la polizia italiana, tu sei italiano e qualche schiaffo bisogna che te lo lasci dare!”. Non era giusto però lo facevano. C’erano gli spagnoli e gli spagnoli ce l’avevano con noi, forse qualcheduno più degli altri, perché dicevano “Noi, se si può ringraziare l’avvento di Franco, possiamo ringraziare gli italiani, se non c’erano loro vincevamo!”. E allora ce l’avevano molto con noi. Non avevano ancora capito che noi eravamo vittime del regime. Io non glielo potevo spiegare, non ci capivamo. Ma c’erano alcuni russi che parlavano l’italiano, qualcheduno parlava il tedesco. C’erano francesi, c’erano jugoslavi, chi parlava un po’ la nostra lingua, glielo spiegavamo e lo capivano, ci dicevano “Ma come facciamo a spiegarlo a tutti. Lo sappiamo che ora voi siete nel mirino di tutti: delle SS, dei kapò, e anche nostro”. C’era Bartan, un cecoslovacco, era uno scrivano del blocco, era lì con me, me lo spiegò tante volte, diceva “Io ho pazienza, bisogna fargli capire che fate parte integrante del comitato di resistenza, bisogna trovare il sistema”. A me fu fatta la fotografia proprio lì a Ebensee, fui chiamato ad andare a fare la fotografia. Me lo ricordo bene, non mi ricordo il giorno ma me lo ricordo perché disgraziatamente feci tardi, tornai dal lavoro e mi disse lo scrivano “Vai a farti la fotografia!” e andai. C’era una fila enorme, mi fecero la fotografia, con il numero di profilo e di faccia. Poi al blocco tornai tardi, non lo so che ora fosse perché non avevo orologi ma io penso fosse vicino a mezzanotte. Lo scrivano mi fece “Dove sei stato?”, “Non m’avete mandato a fare la fotografia?” e mi diede un pezzetto di pane, mi ricordo c’era la margarina, e mi diede un pezzettino di margarina e la mangiai. Mi disse “Guarda ti chiamavo per andare a mondare patate, perché tu sei giovane, non ti ho trovato e ho mandato un altro” e io piangendo “Ma come, come?”, “No, non ti preoccupare, ti ho trovato un posto buono, ti mando a fare il giardino alle SS. Andare a mondare le patate bisogna andare la mattina alle quattro, bisogna partire presto, invece al giardino delle SS tu parti quando tutti gli altri sono già al lavoro. Mando te e un certo Nanni di Prato, Mario”. “Va bene, dorme insieme a me!” gli dissi. Al che Nanni mi disse “Roberto, domani mattina andiamo a fare il giardino alle SS”, “Sì” risposi. E difatti la mattina partiamo e andiamo a fare il giardino alle SS. Eravamo un comando di trenta, quasi tutti polacchi e qualche russo, perché il kapò era un polacco. Arrivati lì dissi “Lascia fare Mario, un po’ d’erba la mangiamo!”. Eravamo prigionieri da poco, saranno stati neanche dieci giorni, ma neanche. E lì lavoravamo. Alle undici spariscono tutti. “Dove sono andati Mario, non saranno mica andati via? Ci hanno lasciato? Che succede ora?”, guardavamo ma non vedevamo nessuno. Dopo un quarto d’ora, non lo so di preciso, arrivano tutti e ricominciano a lavorare. Dissi “A mezzogiorno andiamo a prendere la zuppa”. Quelli che erano spariti, erano andati a prendere da mangiare dai cani. Ci dicevano anche a noi di andare perché ce n’era tanto, e non capivo. Allora viene questa specie di kapò, parlava un po’ di spagnolo, e ci dice di andare con loro il giorno dopo. Lì c’erano i cani, avevano tanto da mangiare e non lo mangiavano. Avevano riso cotto nel latte, carne, pane, ogni ben di Dio, non lo mangiavano, allora lo mangiavamo noi. I cani erano lì a dormire tranquilli, quindi prendevano la loro ciotolona e se la mangiavano. Io feci lo stesso, anche Mario. Mangiammo tutta questa roba e poi dopo prendemmo la nostra gamella, la riempimmo di roba soda e ce la mettemmo sotto la giacchetta per portarla nel campo. A mezzogiorno, l’ora della zuppa, ci portano nel campo, e ai nostri amici gli si dà da mangiare, noi invece prendiamo la nostra zuppa e la diamo a un altro. Avevamo mangiato troppo noi. Una sera Mario mi fa “Roberto ho la febbre”, “Va’ a passar visita”, dissi “però sta attento Mario, perché devi avere la febbre superiore a trentanove altrimenti non sei riconosciuto”. Mi risponde “Ne ho tanta, devo andarci”. E va. Torna alla sera, gli feci “Allora Mario?”, “Sì, mi hanno dato un bigliettino e tre giorni di permesso”, “Fammi vedere!”, dice “C’è una sigla ma io non la conosco, c’è scritto TBC, ma io non so cosa vuol dire”, “Sarà una sigla che danno loro”, non lo sapevo nemmeno io. Poi ci mettemmo a dormire. La mattina fanno l’appello e poi ci distribuiscono per il lavoro e ognuno doveva raggiungere il proprio comando. Mario mi fa “Roberto non mi lasciar solo, se tu mi lasci solo oggi, quando torni non mi ritrovi, perché io solo non posso stare”, “Mario – ho detto – ma io non ho il permesso, tu lo sai se mi trovano non si sa come va a finire. Bisogna che vada al lavoro, poi dal lavoro ti porto da mangiare anche a te, perdere un comando in questo modo non è possibile”. Allora appena ci danno l’ordine di andare al comando mi prende per mano e mi tira, io non ebbi il coraggio di lasciarlo. E dissi sarà quel che Dio vorrà. E stetti con lui. Stetti con lui, giravamo nel campo, perché per il campo eravamo liberi, c’erano tante strade, però c’era la polizia nel campo. Lì c’era scritto “Polizei Lager”. Ci trovano e ci fermano. Stavamo a braccetto, e avevamo un bastone. Arriva Mario e gli dà il bigliettino, appena prendono questo bigliettino si allontanano da lui, lo buttano a terra e lo lasciano stare. Poi chiamano me. Io non avevo nulla, mi frugava, c’erano due tasche sole in quelle giacchette. Prendono il numero che avevo appiccicato sulla maglia e il numero del blocco, era il blocco diciotto. A mezzogiorno vado a prendere la zuppa, chiamano il mio numero, lo capii subito perché tanto lo sapevo, mi fa l’interprete “Perché tu non sei andato a lavorare”, “Mi sento male”, “Se ti senti male devi andare a passare la visita, ora tu lo sai cosa ti succede. Anche se hai risposto subito, sono sette bastonate”. Mi metto a giacere, senza buttarmi giù i pantaloni e cominciano a picchiare. “Giù i pantaloni!”, mi butto giù i pantaloni, invece di sette me ne dà quindici. Stetti una settimana senza mettermi a sedere e la sera stessa mi mandarono a lavorare in galleria. Sono entrato in galleria allora e sono uscito fuori nel ’45, il 5 di maggio, insomma ho sempre lavorato sotto terra. Mario ritornò a passare la visita, gli diedero altri giorni, poi ritornò a passare la visita e non tornò più. Io l’ho saputo quando sono tornato che è morto a Mauthausen, il 5 di maggio del 1945. Poi mi misero a dormire con un altro italiano, un ragazzo straordinario, un ragazzo che non c’è nel mondo: Danilo Veronesi. Ha una storia bellissima, perché lui non pensava solo a se stesso, pensava anche agli altri. Un giorno mi disse “Roberto bisogna fare qualche cosa”, “Ma che bisogna fare Danilo? Tu lo vedi, qui ci fanno ammazzare per nulla, la gente non capisce più nulla, per una cicchina di tabacco s’ammazzano”. Continuai: “Vedi Danilo per fare qualcosa ci vorrebbe tanto pane e tanta carne!”. Lui inventò questo: “Quando si torna dal lavoro - era un pezzo di giovane, aveva i miei stessi anni, ma era alto, forte, grosso, e aveva forza - quando si torna dal campo, lo sai gli ultimi che restano dietro sono i più malati, le SS e i kapò non aspettano altro che caschino in terra per finirli. “Allora, tu che faresti?, “Appena cascano me lo carico sulle spalle e lo porto nel campo, almeno uno si salva”. Dissi “Danilo non me lo chiedere, io non ce la faccio!”, “Ma io sì, tu mi dai solo una mano a caricarmelo!”, “Sì questo sì, ma io sai mettermi per ultimo mi garba poco, dato che abbiamola possibilità di stare avanti, ma per questo ci sto”. E difatti noi stavamo sempre per ultimi quando si tornava da lavorare, appena cascava uno Danilo non guardava se era un polacco, un russo, un ebreo, se lo caricava sulle spalle e lo portava nel campo. Io mi ricordo sempre di un polacco, un polacco ebreo, l’ho messo a terra, questo ragazzo non parlava la nostra lingua né noi parla vamo la sua, però io capii che gli volle dire con gli occhi “Non è vero che tutti gli uomini sono diventati delle bestie!”. Questo ragazzo ha dimostrato di essere un vero cristiano, avrà pensato “Quando sono cascato in terra, mi ha caricato sulle spalle a rischio della sua vita e mi ha portato qui. Fin quando ci sarà di questa gente c’è speranza che il mondo ritorni veramente in pace”. Queste sono le parole che avrebbe voluto dire questo ragazzo. E poi Danilo, è lunga parlare di Danilo, ci vorrebbe tanto tempo, però in poco tempo cerco di riassumere. Io mi ricordo che c’era la possibilità di scappare e volevano far scappare un russo e un polacco. Il cecoslovacco Vartan decise di far scappare due italiani, perché eravamo nel suo blocco. Disse “Io ho due italiani in gamba!” per dimostrare che gli italiani facevano parte integrante del comitato di resistenza di Ebensee e che non eravamo più discriminati dalle altre razze. Dice “Va bene, allora va bene”. Venne da noi e disse “Siete disposti a scappare?”, “Io, no - dissi - Danilo, sì”, “Però – dice – bisogna che siate in due”, “Via – mi disse – Roberto, tanto qui si muore, morire per morire si tenta e non se ne parla più. Io se sto qui prendo un SS per il collo e lo strozzo, sicché è meglio scappare”, “Va bene”, allora accettai. Ci diedero un foglio bianco, che dovevamo firmare. Poi ci diedero dei marchi civili e poi ci dovevano dare il vestito, dovevamo essere vestiti da civili. Nel campo c’era da costruire ancora, e dovevano costruire una baracca. Nel posto in cui volevano costruire questa baracca non c’era strada, quindi bisognava tagliare i fili spinati, togliere la corrente elettrica, prendere gli alberi e portarli fuori, prendere la baracca e montarla lì. Quindi c’era la possibilità di scappare e in un cespuglio hanno nascosto gli abiti. Io non so se sono stati dei civili di Ebensee o altre persone, so solamente che ci dovevano essere dei vestiti e c’erano. Ci dovevano essere per due. Noi dovevamo scappare il 9 maggio, invece il 9 maggio del ’44 invece che tutti e due ne scappò uno solo, perché c’erano vestiti per uno solo. Danilo mi aveva pregato di far scappare lui e io dissi “Va bene, scappa te!”. Quella notte Danilo mi disse “Io mi faccio assumere in questo comando, se a mezzogiorno non ci sono a prendere la zuppa, io sono scappato”. A mezzogiorno vado a prendere la zuppa, guardo e non c’è più Danilo, era scappato, “Stasera all’appello avrà minimo sette o otto ore di vantaggio, non lo ritrovano più, non lo beccano più”, dissi io. Si arrivò all’appello, venne la SS, portarono i morti come di regola, poi la conta. Ne manca uno. Il kapò non capiva più nulla, lo scrivano lo stesso. Se c’erano cento morti non c’era nulla di male, purché tornasse il numero, ma se ne mancava uno era un guaio, e non capivano più nulla. Dice “E’ scappato un italiano!”. Io avevo intorno a me russi, polacchi, jugoslavi e il polacco mi fa “Un italiasco”, il russo mi abbracciò, “Bravi!”, i francesi dicevano “Bien!”, gli spagnoli “Dobra, dobra!”, tutti dicevano “Bravi, bravi!”. Da quel momento la nostra situazione all’interno del campo cambiò. Tutti ci consideravano come loro perché uno di noi era scappato. Diedero l’allarme, portarono i cani, io avevo paura… I cani sentono l’odore e vengono subito da me. Lasciarono andare i cani, correvano e infatti, dopo due secondi, erano lì da me, avevano una bocca grande così. Mi si fermò a due metri e non mi fece nulla, nemmeno toccato, pareva ci fosse un vetro di fronte a me. Venne la SS perché sapevano che Danilo dormiva con me, venne lì e mi fa con l’interprete “Sai qualcosa tu?”, “Io no, non so nulla, nulla, nulla” e mi diede due schiaffi. Disse “Domani sarai interrogato!”. Arrivo la mattina all’appello, dico “Ora mi chiamano, che mi faranno?”. Per fortuna, nessuno mi ha trovato, nessuno mi ha chiamato e nessuno mi ha detto nulla. Passano tre giorni e non sapevo nulla, passano tre giorni e viene ripreso Danilo. Viene ripreso in una baracca, lo aveva trovato un guardiacaccia. Danilo era entrato in questa baracca perché c’erano delle mele, per mangiare. Il guardacaccia lo vede, non disse nulla, dietro c’era una pala, gli tira una palata nel capo e lo fece svenire. Chiamò le SS, vengono a prenderlo. Lo riportarono nel campo la sera, il comandante era al cinema con la ragazza, a Ebensee. Andarono a chiamarlo con la motocicletta, gli dissero “E’ stato ripreso l’uccello che ha tentato la fuga!”, dice “Davvero?”, “Sì”, “Allora vengo subito su!”. Arrivò lì e il comandante gli disse “Tu volevi correre? Ora ti faccio correre io. Io ero al cinema con la mia ragazza, stavo bene, per colpa tua mi toccò lasciarla e non vedere un bel film, e venir qui per interrogare te e te non vuoi dire nulla. Non importa. Ma tu volevi correre? Ti faccio correre io!”. Gli aizzò il cane e lo fece sbranare e lo fece morire. Danilo morì così. Quanto al lavoro a Ebensee, quando perforavamo la montagna usavamo degli strumenti modernissimi, non lavoravamo con le mani né con il picco, ma con mezzi moderni, ad aria compressa. Però bisognava sapere adoperarli, non le avevo mai viste queste macchine. Insomma imparai, si metteva lo scalpello e si facevano dei fori, fori di un metro e mezzo, poi mettevamo la dinamite e facevamo saltare in aria. Poi prendevamo una specie di gru piccolina e caricavamo i vagoncini. Noi eravamo dietro, spingevamo questi carrelli e si mandavano via e riportavamo fuori il materiale. Il lavoro si svolgeva così, dodici ore al giorno. Io in galleria ho fatto dai primi di maggio alla fine. Un anno. Io sono stato quindici mesi nel campo di concentramento di Ebensee e non ho mai avuto una linea di febbre. Non ho mai avuto un colpo di tosse, solo che quando mi hanno liberato pesavo ventotto chili. Però camminavo… La liberazione me la ricordo bene. Era una domenica, il 6 maggio. Ero fuori, non ero in infermeria come tanti. A mezzogiorno c’era una camionetta americana e sento dire “Ci sono gli americani, ci sono gli americani!”, poi sparirono. Invece più tardi arrivano tre autoblindo americani ed entrano nel campo. Noi siamo stati liberati alle 14,45. Entrano gli americani con queste autoblindo, ci saranno stati, penso, diecimila persone fuori ancora dai campi, mentre gli altri erano a giacere, a dormire, aspettavano la morte. Abbiamo applaudito tutti. Gli americani, quando aprirono il carro armato e uscirono fuori, restarono imbambolati, non impauriti, non si aspettavano di vederci in quello stato. A noi ormai non faceva nessuna impressione perché eravamo abituati a vederci tutti magri, ma loro restarono lì impietriti. Però capirono subito che bisognava che ci dessero da mangiare. Di cibo, però, ce n’era anche troppo e purtroppo fu quello il guaio, perché molti morirono per aver mangiato troppo. Loro avevano degli zainetti, avevano da mangiare per tre giorni a quanto sembra, cominciarono a distribuire a tutti, ma eravamo tanti... Allora io poi dopo andai, non avevano più nulla, da uno di questi americani, lo prendo dal carro e lo tiro, e quello mi fa “Eh?”, gli feci “Non hai nulla per me?”, mi dice “Italiano?”, “Sì!”, “Io paesano siciliano, io americano ma siciliano, mi dispiace…” e si mise a piangere “Io non ho nulla, non ho nulla. Aspetta però!”. Aveva un pacchettino - io non sapevo neanche cosa fossero - di gomme, ora lo so ma allora non lo sapevo. Sentivo il profumo buono, me lo aprì e me la mise in bocca, e io la mangiai, e lui mi faceva “No, no, no!”. Sono rientrato in Italia il 19 giugno del 1945, perché venni via a piedi. Scappammo, venimmo via dopo tre o quattro giorni. Cominciammo a chiederci “Che si fa?”, “Si va a casa, si va a casa…”. I tre pratesi, io Gino e Vincenzo, eravamo nei pressi delle Alpi e a rischio anche di morire, si tornò a casa a piedi. Noi abbiamo avuto molta fortuna perché un colonnello americano ci diede un permesso in tre lingue, russo, tedesco e inglese. Questo lasciapassare ci permetteva di fermarci in tutti gli accampamenti militari e ci dovevano dare l’assistenza e accompagnarci. Quando sono arrivato in Italia, io sono passato da Bolzano. Per dire la verità, ho attraversato le Alpi poi abbiamo trovato la divisione Folgore Italiana. E questa divisione ci prese, ci portarono sempre con le jeep a Cortina d’Ampezzo. Poi da Cortina d’Ampezzo siamo arrivati a Bolzano. Lì, ci misero in un ospedale e i dottori ci dicevano “Non andate via, non andate via, siete sani ma non andate via, ora vi si rimette un po’, tanto si dà alla radio il vostro nome, i vostri familiari lo sapranno!”, noi dicevamo “No, no noi vogliamo andare”, “Allora se volete andare a casa domattina c’è un trasporto che parte da Bolzano e va a Verona, poi da Verona a Modena”. A Modena siamo stati sete o otto giorni all’Accademia di Modena, poi da Modena ci portarono coi camion a Bologna. A Bologna con una tradotta arrivammo a Firenze. Delle settecento, ottocento persone arrestate a Prato e provincia, ne sono state deportate circa quattrocentootta nta perché i nazisti volevano cinquecento persone da portare via. Su quattrocentoottanta ne siamo tornati solamente in diciassette, perché poi fummo divisi. Più di trecento andammo a Ebensee, alcuni andarono a Melk, alcuni andarono a Gusen e altri andarono anche a Steyr. Così, ora siamo vivi solo in tre.