Nella mente dei carcerati fra angosce e patologie
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Nella mente dei carcerati fra angosce e patologie
mercoledì 13 maggio 2015 L’inchiesta - Nelle carceri ticinesi/2 2 mercoledì 13 maggio 2015 L’inchiesta - Nelle carceri ticinesi/2 3 La prima puntata è uscita lunedì 11 maggio ed è disponile online all’indirizzo www.laregione.ch/dossier/carceri. Da domani lo sarà anche questa seconda parte. Centotredici agenti vegliano sull’intera popolazione carceraria, composta da persone ‘normali’ che hanno sbagliato, ma anche da scafati professionisti del crimine. Le implicazioni di un mestiere molto complicato. Raccontato anche dagli psichiatri del Servizio medico ‘interno’. GLI PSICHIATRI I custodi della penitenza di Davide Martinoni «Cambio biancheria!». Il tono dell’agente di custodia è secco, misurato, una via di mezzo fra un ordine e un avviso. Vengono spalancate due celle “doppiate” con i letti a castello. All’interno si intravedono i detenuti, in piedi, che rassettano. La banalità di una chiamata di routine assume qui, nel carcere giudiziario della Farera, un valore diverso, dilatato. Per il prigioniero significa aria, contatto, scambio di sguardi. Significa un orizzonte diverso rispetto a quello di una stanza di 12 metri quadrati (inclusi gabinetto e doccia aperti) che con il suo spicchio di “panorama” su un parcheggio è l’unico orizzonte possibile per 23 ore su 24, ogni singolo giorno trascorso in un regime di carcerazione preventiva dove la permanenza media si assesta sui 40 giorni. In questa particolare situazione di servizio appare chiaro il distacco formale fra carcerati e carcerieri. Fra i limiti imposti dai primi e le presumibili aspirazioni dei secondi sembra esserci un cuscinetto. Segna il limite da non superare. L’azione di cambio biancheria, che si svolge rapida e metodica, pare indicare che si tratti di un confine talmente radicato da essere diventato “biologico”, parte stessa dell’ambiente. Valentino Luccini è uno dei tre capi sorveglianti della Farera. I suoi 24 anni di attività – prima nel carcere penale della Stampa, poi nel giudiziario – lo legittimano a comandare, unitamente a due colleghi parigrado, la trentina di guardie in servizio nel settore della carcerazione preventiva e a tracciare del lavoro quotidiano un quadro accurato che appare letteralmente passato al setaccio delle esperienze. ‘Mai parlare con i detenuti della propria vita o di quella dei colleghi. Si diventa corruttibili o ricattabili’. «In Farera dobbiamo gestire il singolo individuo, che ha vissuto, o sta vivendo, una situazione oggettivamente traumatica, con sfaccettature pubbliche e private, familiari, intime. È vero che fra i detenuti in regime duro ci sono i “professionisti” del crimine, più scafati, rodati, meno inclini ai momenti di vero scoramento. Ma ci sono anche le persone “normali”, come me e lei, la cui sofferenza colpisce, ma è anche il sintomo dell’inizio di un cambiamento che è necessario, anzi imprescindibile per il futuro di chi finisce qui dentro». Luccini si riferisce ad esempio agli autori di reati finanziari, a padri di famiglia che possono aver commesso il loro sbaglio d’impulso, per rabbia o rancore, o addirittura per inavvertenza, e che si ritrovano catapultati in un mon- do parallelo dove manca il bene più prezioso. «Lo sappiamo. Si tratta di persone che osservano la loro esistenza sfaldarsi e che reagiscono con un grande disagio cui può aggiungersi quello dei parenti, propri e della vittima – dice Luccini –. Sono dinamiche che gli agenti di custodia hanno imparato a conoscere e alle quali sono chiamati a rispondere in linea generale con rapporti cordiali, persino “amichevoli”, lo mettiamo fra virgolette, ma che non possono mai derogare dal regolamento interno». L’equilibrio costante fra vicinanza e presa di distanza, fra condivisione dei sentimenti e separazione dei ruoli, è fondamentale per far prevalere la figura dell’agente di custodia sulla persona che c’è dietro. «La regola d’oro è mai parlare con i detenuti della propria vita o di quella dei colleghi. Esporsi in qualsiasi modo, per quanto fatto in buona fede e con la massima fiducia, può rivelarsi una pratica pericolosa a causa del rischio di diventare corruttibili o ricattabili». ‘L’aspetto più delicato è gestire le diverse etnie’ E che possa succedere in carcere è ovviamente del tutto sconsigliato. Sia in Farera, sia alla Stampa, il carcere penale. Per il detenuto, che di regola vi giunge per l’espiazione della pena dopo il giro di boa processuale (salvo i casi di espiazione anticipata), la prospettiva è più chiara e decisamente più ampio è il margine di manovra. A partire dalle possibilità di socializzazione, che prima si limitavano alla famosa ora d’aria in uno dei tre angusti cortili di passeggio del carcere giudiziario, più l’incontro mensile consentito con esterni, i confronti con gli avvocati e gli interrogatori di polizia e del procuratore pubblico titolare dell’inchiesta. «Alla Stampa l’obiettivo è la riabilitazione del detenuto in vista del suo reinserimento nella società, quindi la situazione generale è un’altra», spiega Loris Rigolli, 51 anni, 30 di esperienza nel settore, uno dei tre capi sorveglianti del carcere penale. Base diversa per problemi differenti, ma non meno pressanti. «Qui l’aspetto più delicato è senza alcun dubbio la gestione delle diverse etnie presenti e delle dinamiche che si creano all’interno dei vari gruppi di provenienza». È “il” problema, se consideriamo che oltre l’80% della popolazione carceraria è costituito da stranieri provenienti da 35 Paesi diversi, e che ogni gruppo presenta caratteristiche dominanti che occorre conoscere e saper trattare in modo adeguato. Un’altra costante è la richiesta di appoggio, sostegno, conforto. «Fa parte del lavoro, ma molto spesso si cade nell’eccesso – evidenzia Rigolli –. Se penso agli attuali 127 detenuti penso a 127 problemi diversi e a una moltitudine di domande rivolte, e spesso continuamente ripetute, agli agenti di custodia. Penso ai contrasti, agli accordi e alla necessità di compromessi che permettano una convivenza il meno problematica possibile. Il tutto, in un regime che richiede comunque – ed è dettato da – una continua e scrupolosa osservanza delle regole. Ai detenuti, ma anche a chi li deve sorvegliare». ‘Qui se sbagli puoi farti veramente male. E puoi anche farne, ad esempio azzardando delle ipotesi sulla condanna’. Anche Rigolli sottolinea la necessità assoluta di separare i ruoli, di «lasciare idealmente in un sacchetto, all’uscita da casa, i problemi personali e di fare lo stesso in carcere, con quelli di lavoro, quando finisce il turno». Ma è difficile, ammette il capo sorvegliante, e non è un caso che la professione sia considerata fra quelle a più alto rischio di “burn out”. «È necessario essere sempre al 100% perché siamo nell’impossibilità di cedere a problematiche esterne che condizionino il nostro modo di essere e di operare – nota Luccini –. Il motivo è semplice: qui se sbagli puoi farti veramente male, ma puoi anche farne, ad esempio azzardando ipotesi sulla condanna che sarà emessa a carico di un detenuto. Bisogna “esserci” sempre e non è facile». Per questo non sono infrequenti i “congedi” temporanei interni con destinazione ad altri incarichi più sostenibili: è una valvola di sfogo fondamentale, la cui esigenza ha una frequenza giornaliera. ‘Professione affascinante ma estremamente difficile’ Attualmente, anche grazie ai 9 nuovi incaricati che frequenteranno la scuola per agenti di custodia, operano in totale 113 agenti, che devono garantire la sicurezza 24 ore al giorno, per 365 giorni all’anno, in Farera, Stampa, Stampino (carcere aperto) e Centrale operativa. Per il direttore Stefano Laffranchini «ne mancano alcuni, anche considerando che la professione è affascinante ma estremamente difficile: esce la componente umana, ma la priorità rimane il rispetto del regolamento carcerario». Centotredici agenti significa un agente ogni 2 detenuti e la struttura carceraria, costruita nel ’68, «solo in parte permette di sopperire con misure tecniche all’assenza di uomini. Il rapporto ottimale sarebbe un agente ogni 1,7 detenuti», dice il direttore, che auspica la crescita del contingente fino a 119 agenti. Guardia carceraria, una professione non per tutti I NUMERI L’INCHIESTA PENALE Fatti del 21 marzo: ‘Tolleranza zero e più formazione’ Dentro la cella TI-PRESS/P. GIANINAZZI Un agente sospeso e uno ancora ferito – ma ormai quasi pronto per il rientro in servizio –, un incarto penale aperto in Procura e un’inchiesta amministrativa condotta dalla Sezione delle risorse umane del Dfe per conto del Consiglio di Stato. Sono gli effetti attuali di quanto avvenuto in Farera il 21 marzo, giorno in cui un detenuto 49enne aveva rotto un polso a una guardia carceraria e innescato una sorta di reazione a catena in cui erano rimasti coinvolti altri 4 agenti di custodia. Il fattaccio è la traduzione pratica delle implicazioni di un mestiere a dir poco problematico. Ma questo, per il direttore Stefano Laffranchini, conta relativamente. Perché lo strumento da utilizzare per fare adeguatamente fron- Nella mente dei carcerati fra angosce e patologie te a situazioni del genere è quello della “tolleranza zero”. «L’inchiesta è ancora in corso e occorre partire dalla presunzione d’innocenza. Se qualcosa è successo, pur considerando il coinvolgimento emotivo particolare che umanamente va riconosciuto in casi simili, nel mio ruolo non posso tollerare che situazioni analoghe sfocino in azioni non unicamente volte al contenimento del detenuto. Ciò significa una sola cosa: la necessità di intensificare gli sforzi per mettere i miei uomini nelle condizioni di gestire anche le situazioni molto tese». Ovvero «lo stargli vicino, il responsabilizzare i quadri, l’essere chiari e conseguenti nella formazione». A prescindere dall’inchiesta i fatti di marzo hanno comun- que fatto scattare «una serie di misure preventive che partono dalla riconsiderazione delle procedure di intervento. Inoltre vi sono stati l’avvio (anticipato rispetto alle previsioni) di una formazione “di ripetizione” specifica sull’uso della forza e dei mezzi coercitivi, da ripetersi ogni anno per acquisire una sorta di automatismo che permetta di gestire nel modo dovuto le situazioni-limite; un’analisi accurata dell’accaduto, con relative proposte di misure correttive; l’applicazione di alcune misure logistiche nelle celle; oltre ovviamente a un messaggio forte e chiaro volto appunto alla “tolleranza zero”. La nostra posizione è delicata e ci mettiamo un secondo a ritrovarci dalla parte del torto». ∑ Gli agenti di custodia in servizio fra Farera, Stampa, Stampino e Centrale operativa 113 ∑ Contingente ideale 119 ∑ Numero attuale di detenuti per agente 2 ∑ L’obiettivo è abbassare il rapporto a 1,7 TI-PRESS/P. GIANINAZZI Disciplina, mediazione, colpa, giustizia, disagio, conflitti, speranza. Sono tutti concetti che riempiono il carcere e che si compenetrano in un labirinto con tanti percorsi possibili. Questo, come spiegano alla “Regione” i due specialisti Fmh in psichiatria e psicoterapia che fanno parte del Servizio medico-psichiatrico delle strutture carcerarie ticinesi, in considerazione della moltitudine di variabili in gioco. Incaricati dal governo, su mandato, di operare in un team di lavoro composto anche da internisti, psicologi e da un’infermiera psichiatrica, gli specialisti in psichiatria e psicoterapia chiedono l’anonimato in primo luogo per spersonalizzare la loro funzione. La scelta non è estranea alla posizione di neutralità che deve contraddistinguere il corpo medico rispetto al contesto in cui opera. Neutralità ma anche sovranità nelle decisioni, «perché è fondamentale che la medicina non diventi uno strumento per mantenere – o, preventivamente, per indurre – la disciplina all’interno del carcere». Con questo si intendano misure come il ricovero psichiatrico o la somministrazione di medicamenti. «Ogni singolo caso viene valutato con attenzione per escogitare una risposta adeguata al bisogno effettivo del detenuto – dicono –. Risposta che è sempre da cercare all’interno di un triangolo ai cui vertici ci sono la Legge sulla protezione dei dati, la Legge sanitaria e il Codice penale». La centralità di ruolo del corpo medico – e in particolare della sua componente legata alla cura dei detenuti con problemi psichici – è evidente se consideriamo che la carcerazione è ai vertici della classifica degli eventi psicosociali stressanti. Questo già a partire dal momento dell’entrata, quando la naturale situazione di shock può sviluppare forti disturbi dell’adattamento; una «condizione stressante intensa – per dirla con gli psichiatri – che può generare una sintomatologia anche clamorosa». Va messo in conto il fatto che molti detenuti entrano in carcere sotto l’effetto di alcool, oppiacei, cocaina, anfetamine e droghe stimolanti, il cui possibile e imprevedibile effetto delirante non favorisce un approccio controllato alla nuova condizione. Condizione che varia, ovviamente, fra chi finisce in cella per la prima volta e chi invece ha già vissuto un’esperienza simile e dispone quindi di una sua propria cultura carceraria. La condizione psicologica dei neofiti dipende molto dalla presenza di una patologia psichiatrica preesistente (della quale, fra l’altro, il reato contestato è spesso uno dei sintomi costitutivi). Ed è una casistica, quella degli psicotici, piuttosto presente in carcere. Lo è comunque in percentuale nettamente superiore rispetto ai casi diagnosticati nella pratica medica (fra l’1 e il 2%). Lo stesso discorso vale per il tema della suicidalità, vista la frequen- LE REGOLE I DISTURBI Gli ‘indegni’ e i segnali di disagio Più della metà in cura psicoattiva Un elemento destabilizzante all’interno del carcere, rilevano gli specialisti in psichiatria e psicoterapia del Servizio medico-psichiatrico, è quello legato alle “regole” comunitarie stabilite dalla popolazione carceraria. A partire da quelle applicate sulla base di una classificazione dei reati, che “marchia” come indegni del carcere gli autori di reati considerati infami come gli atti sessuali con fanciulli (detenuti comunque in una sezione separata della Stampa), o quelli di crimini particolarmente efferati. In questo contesto generale contraddistinto da un’alta variabilità la vita dei detenuti e dei loro sorveglianti è anche condizionata dai moti di protesta che Circa il 60% della popolazione carceraria totale è trattata con medicamenti psicoattivi. Si tratta però sempre di trattamenti che hanno l’obiettivo di curare il disturbo psichico di base. Il ricorso ai farmaci «è valutato attentamente e discusso», precisano gli psichiatri, ribadendo il concetto secondo cui, a dispetto dell’ampiezza della misura, non v’è mai in nessun caso una somministrazione disinvolta. «Lo psicofarmaco deve avere un’indicazione medica e non deve mai servire per realizzare la necessità di disciplinare il detenuto». Qui emerge la delicatezza del ruolo della guardia carceraria anche in relazione alle modalità di distribuzione e ai tempi di somministrazione dei medica- sono propri di diverse culture e le cui modalità variano dal Paese o dall’area di provenienza. «Andiamo dalle scritte sui muri all’imbrattamento con le feci – notano gli psichiatri –. Possono essere espressioni diverse ad esempio del disprezzo verso il mondo occidentale che il carcere rappresenta, così come sputare, orinare in giro, autoinfliggersi ferite da taglio che gli autori intendono, culturalmente, come gesti eroici o purificatori. Per arrivare ai casi di induzione dell’ipotermia o dell’ischemizzazione dei nervi per sviluppare paralisi; si tratta di azioni dimostrative che se spinte troppo oltre possono determinare guai seri o drammi irreversibili». menti. «Se il detenuto chiede di ricevere il farmaco, ma poi dice di volerne ritardare l’assunzione, la guardia può facilmente trovarsi di fronte al dilemma se fidarsi o no». Un controllo rigido e visivo dell’assunzione ha anche la funzione di limitare i rischi che il medicamento non preso, e custodito, possa diventare moneta di scambio fra detenuti, parte di un mercato potenzialmente alimentato anche da quanto – poco, secondo quanto indicano i recenti controlli delle urine effettuati fra i detenuti – riesce a entrare con i parenti in visita, che pure hanno già dato sfoggio di una certa qual fantasia nell’“imboscare” materiale non ammesso. za con cui emergono le cosiddette “ideazioni suicidali” (che nella società libera interessano statisticamente non più di 30 persone su 100mila). Una variabile delicata è l’individuazione delle ideazioni suicidali nei detenuti che non le confessano apertamente, non offrono riscontri oggettivi e non hanno già una patologia psichiatrica. In quei casi solo l’attenzione e l’esperienza del team medico al completo possono aiutare. Laddove il problema sia conclamato o individuato, viene istituita in carcere, su proposta del Servizio medico, una sorveglianza continua costituita da controlli visivi del soggetto sull’arco delle 24 ore, a frequenza variabile. «Il rovescio della medaglia è che questo tipo di misura influisce molto sulla privacy e può determinare un regime di carcerazione in qualche modo degradante. Siamo costretti, per la sicurezza del detenuto, a privarlo di qualsiasi oggetto potenzialmente pericoloso, e con questo possiamo intendere persino determinati indumenti, oltre alle lenzuola». Fantasie pericolose Questo tenendo conto della pressoché inesauribile fantasia che il carcerato sviluppa nella ricerca di opportunità che gli consentano di farsi del male. Non è un caso che nelle strutture carcerarie i cavi della Tv siano corti e che la presa dell’elettricità sia situata molto in alto. Nei casi di ideazioni suicidali una soluzione praticata dagli addetti è la condivisione della cella con un altro detenuto, «ma è chiaro che questa valvola di sfogo può rivelarsi un’autentica tortura per il detenuto “ospite” del caso problematico», nota lo psichiatra. L’ultima ratio in alternativa alle celle ospedaliere presenti nella Clinica psichiatrica cantonale – il cui ricorso deve in ogni caso essere approvato dal diretto interessato – è la cella di contenimento, dove i rischi di farsi del male sono logisticamente ridotti al minimo. «Si tratta in ogni caso sempre di una soluzione transitoria, applicata nell’emergenza, nell’incertezza o in situazioni di crisi», precisa lo psichiatra. Alla luce di tutto questo, e di molto altro, appaiono evidenti le estreme difficoltà quotidiane cui è confrontata l’intera popolazione carceraria, intesa non soltanto come contingente di detenuti, ma anche come apparato di sorveglianza, che ha anche a che fare con una “categoria” particolarmente infida e difficile da trattare: quella dei “professionisti del carcere”, i detenuti con una vasta esperienza carceraria maturata in Europa e non solo, che in galera, per dirla in tre parole, giocano in casa. In questo senso è provvidenziale il servizio di psichiatria del carcere, attivo 24 ore su 24 e strutturato per rispondere alle necessità di sostegno immediato non soltanto dei detenuti, ma anche di chi è chiamato a sorvegliarli. Per sopportare TI-PRESS