Il ventre nella montagna2

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Il ventre nella montagna2
Gianni Garamanti
Il ventre nella montagna
Il primo caldo di aprile cercava di entrare dentro la spessa coltre di neve delle Alpi per
scioglierla del tutto e scoprire finalmente la terra al sole.
“Aspettatemi...” Fran era di un bel rosso acceso in viso quando si bloccò per gridarci con le
braccia sprofondate sotto il ghiaccio sgocciolante “Insomma, volete aspettare!”
Da dove ero io, molto più in alto, sembrava una bambina che avesse osato troppo e che ora,
carponi sul costone appuntito di roccia, le bionde code di capelli da una parte e dall'altra del
cappello di lana a filo grosso, si trovasse in grossa difficoltà. Dan rise sguaiato e io non volli essere
da meno. A quel tempo avevamo sedici anni e una gran voglia di non essere garbati con chi metteva
il broncio.
“Se qualcuno di voi non mi viene ad aiutare immediatamente mi metto a urlare!” disse lei
incrociando le braccia, seduta sullo spuntone di pietra scivolosa, nella posizione che avevo visto
prendere al fachiro indiano del circo che passava da Goose Creek.
Dan, Franny e io ci conoscevamo dall'età di sei anni: i nostri genitori erano metodisti della
chiesa di St. James, che da noi al sud frequentano in pochi. Abitavamo tutti lungo la Old State road
e la Statale 254, una zona che, collegando il Golf Club con i centri commerciali e le rivendite di
auto usate del bacino idrico, rappresenta la nostra classe sociale meglio di qualunque altra zona di
Goose Creek.
Al college ci eravamo iscritti tutti e tre, ma avevamo aspirazioni diverse: Franny voleva
diventare una veterinaria, Dan un campione di uno sport qualsiasi per conquistare più donne
possibili e io non riuscivo a togliermi dalla testa i romanzi e la vita di Fitzgerald. Passavamo
moltissimo tempo insieme, studiando, ascoltando musica e fumando sigarette.
A volte litigavamo per delle sciocchezze, come quel pomeriggio sulle Alpi di Chamonix, con
Dan che voleva far vedere a Frances quanto era bravo e bello, e io che lo prendevo in giro cercando
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di farlo sembrare uno sciocco per i suoi atteggiamenti da super-uomo.
“Respira Franny! Riempi bene i polmoni d'aria e poi spingiti avanti, verso il passaggio che
t'ho segnato!” urlava a squarcia gola dalla rupe più alta, lui, impettito come un pavone.
“Non ce la faccio, Dan, lo vuoi capire?” disse Frances.
“Non chiedergli di usare la testa,” scendevo stando attento a non scivolare verso di lei “le sue
limitate capacità intellettive sono concentrate sui muscoli in tensione...” avevo paura di fare brutta
figura e rovinarle addosso sulla neve ghiacciata e bagnata “Lui riesce a fare solo una cosa per
volta!”
“Fai un passo a destra, salta sulla roccia che hai accanto!” Dan continuava a guidarla dall'alto
“E sta' attenta a quell'imbranato ché ti fa cadere”
Un boato in lontananza, era un altro costone di neve che si staccava dalla montagna per il
disgelo di primavera. Dan smise di parlare, si assicurò meglio lo zaino sulle spalle e partì in una
discesa a rotta di collo verso di noi, un muflone nel periodo del calore, forte di ormoni e adrenalina
da vendere “Arrivo!”
Un fragore più vicino fece dire a Frances che sarebbe stato meglio tornare indietro.
“Jim, siamo sicuri che ce la facciamo a salire fin là?”
“Certo!” disse Dan togliendole le muffole e iniziando a strofinarle le mani “E comunque
arriveremo dove vorremo arrivare, sempre”
Con un salto atterrai goffo vicino a loro “Ragazzi, nessuno ci costringe ad andare avanti se
non ce la facciamo”
“Sei impazzito?” esclamò Dan “Siamo arrivati fin qua, non vorrai tornare subito indietro!”
“Io ho freddo...” disse Fran guardando le mani bianche che Dan cercava di far tornare in vita
“credo che il prof si sia raccomandato di non andare oltre la costa ovest e sopra quei...”
“Mister Kellogg's non ce la fa a portare la pancia nemmeno sopra la collina del club del golf!”
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ridemmo pensando al professore di matematica che colpisce la palla con un wood, spedendola a
dieci iarde immancabilmente fuori dal green “Se quel ciccione si aspetta che ci fermiamo a vedere i
paesi delle valli qui intorno e che rinunciamo a salire su, si sbaglia di grosso!”
“La neve si sta sciogliendo” azzardai.
“E allora? Hai paura che ti cada addosso una slavina, cacasotto che non sei altro!” Dan lo
faceva di continuo, mi guardava stringendo gli occhi e sperava che reagissi con la sua stessa
dialettica da giocatore di rugby “Le slavine cadono molto più in alto, noi qua sentiamo i botti ma
non c'è proprio nessun pericolo, credetemi, lo so”
“Come fai a saperlo, tu?”
“Come-fai-a-saperlo-tu,” ripeté storcendo tutta la bocca per rifarmi il verso “devi sapere
sempre tutto, saputello?”
“Le slavine sono lassù in alto...” Franny appoggiò molle la mano di nuovo guantata sulla
spalla del suo amico più fisico e lo guardò con grande ammirazione “Non mi lascerete ancora salire
da sola, vero? Ho freddo e sono un po' stanca...”
“Se avrai bisogno ti porterò anche sulle spalle, te lo prometto Franny, tranquilla!” ci alzammo
insieme da terra.
“Chiediglielo davvero di salire sulle spalle, Fran, poi vediamo in quale crepaccio mi tocca
venire a recuperare tu e Mister Muscolo” volli avere l'ultima parola, ma forse non mi sentirono
perché tutti e due avevano già ripreso il cammino. Dan in testa, Frances che ogni poco si
agganciava alla sua cinta. Io chiudevo la fila dietro.
Verso la metà del mattino ci fermammo per mangiare in una piccola radura cosparsa dei fiori
gialli delle viole e fili di tenace erba canina. Frances sfilò dalla mia sacca le bottiglie di Coca-Cola,
poi aprì lo zaino di Dan e tirandone fuori i sandwich che aveva preparato giù al campo. Erano tutti
buonissimi, qualcuno al formaggio, altri col prosciutto dolce di quei posti. Io mangiai molto pane e
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bevvi quasi un litro di coca-cola. Alla fine non ricordo se ci buttammo subito sdraiati a terra,
sopraffatti dalla stanchezza e dalla soddisfazione o se facemmo programmi per le giornate seguenti.
“Quando finirà?” disse Franny.
“Perché deve finire?” a Dan non piaceva pensare che le cose belle finissero.
“Prima o poi,” nessuno rispose, ma non era necessaria una risposta perché sapevamo a cosa si
riferisse Frances e non ci andava d'iniziare quel discorso. Quindi, a quelle parole, seguì soltanto un
silenzio imbarazzato.
“Le viole fioriscono in tempi diversi,” dissi io “le probabilità di essere impollinate
raddoppiano e, in questo modo, favoriscono la sopravvivenza della loro specie”
“Che strane” commentò Frances, distratta.
“Non tanto” disse Dan.
“Perché, sembra normale a te?”
“Forse sì, insomma, Dolly va in calore due volte l'anno...” Dolly era il cane di Dan, in casa
sua le volevano bene più che a un secondo figlio, che invece mancava, “sarà uguale anche per le
piante, no?”
“Un’anomalia genetica casuale...” aggiunse Franny girandosi verso di me, che fissavo nel
cielo le nuvole che cambiavano di continuo forma e si muovevano come uccelli, “è una scelta
vantaggiosa che con il tempo è diventata la normalità, vero Jim?” mi sfiorò una guancia con le dita
fresche e poi passò a carezzarmi il dorso della mano, che conservavo tra i fianchi dei nostri corpi
rilasciati.
“Be', ognuno di noi possiede un escamotage...” disse Dan interrompendo il nostro idillio e
tirandosi su, con un panino in una mano e la sigaretta nell'altra, “in fondo basta saper conoscere un
buon trucco per vivere meglio e avere il vantaggio sugli altri” allora ci alzammo anche io e Frances.
“E senza quello che tu chiami trucco, la specie umana non esisterebbe già da un bel pezzo,
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saremmo stati sopraffatti da altre forme di vita, pronte a rubarci il nostro spazio vitale” dissi io,
appena prima che un boato cupo e più vicino dei precedenti ci facesse trasalire.
“A te, gran secchione, ti fregherebbe il posto un gufo!” disse Dan infilandosi tra due rocce e
ricomparendo un istante dopo su un costone stretto e almeno dieci metri più alto rispetto al nostro
“Però ora andiamo ché voglio arrivare... arriva... arr...” la voce di Dan si spense “...n-n-non è...”
ricordo che i suoi occhi erano diventati bianchi, l'iride azzurro era un puntino minuscolo al centro di
due cerchi abbaglianti.
“Che succede, t'è caduto il cervello nell'erba?” dissi io finendo di raccogliere i resti del
bivacco.
“Mio dio...” al contrario di me, Franny aveva capito benissimo quello che stava di fronte a
Dan, si stava sporgendo fuori dalla piccola radura, anche lei pietrificata da quello che vedeva.
“Cos'è... quello?”
Non era proprio tutto un aereo, intero voglio dire, era come se qualcuno l'avesse tagliato a
metà, avesse ordinato su un tavolo enorme le due parti con tutte le loro cose dentro e poi ne avesse
presa solo una per incollarla sul fianco della montagna. Da quel punto sporgevano: l'ala sinistra,
mezza fusoliera, due o tre finestrini, che lasciavano intravedere intatte le poltrone dei viaggiatori e,
questo è il particolare che mi è rimasto più impresso, il codone di fondo, piegato a novanta gradi
come carta pesta.
Il ghiacchio era scivoloso e non fu semplice arrivare vicino a quei resti. Ci rendemmo subito
conto che, tra dove eravamo e la metà dell'aereo, potevano staccarsi intere lingue di roccia e
formarsi pericolosi crepacci. Dan rimase in testa al gruppo, Franny mi prese per mano.
“Quando sarà successo?” chiese lei, ma nessuno rispose.
Dan sembrava avere la situazione sotto controllo e organizzò il passaggio sull'altro costone di
monte: prima saggiava la stabilità del sentiero con un bastone e poi, con le braccia, si aiutava per
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tenersi dritto e indicarci la via più sicura.
“Jim, ho paura” Fran mi strinse più forte la mano, ebbi la sensazione di esserle necessario ma
allo stesso tempo sembrava fosse lei a guidarmi verso il luogo di quel disastro, finché non ci
bloccammo tutti e tre terrorizzati dal crollo di un tratto di sentiero davanti a noi.
“Attenti!” urlò Dan saltando dall'altra parte del crepaccio che si era formato “Di qua, presto!”
Il salto non fu così lungo, ma atterrammo ugualmente sulle ginocchia vicino al nostro amico e
ci allontanammo di corsa, spaventati dal pericolo di un'altra frana.
“Guardate,” Dan si fermò con le gambe aperte sopra un congegno strano, un blocco di metallo
lucente, scuro e pieno di morchia e viti e bulloni, di certo una parte del motore dell'aereo “a cosa
sarà servito?” io però ero già oltre perché volevo avvicinarmi il più possibile a dove affiorava l'ala.
A me mancava il fiato, “Venite...”, la fusoliera dell'apparecchio si era fusa con la montagna:
metallo e roccia erano coperti dalla ialina e beffarda trasparenza del ghiaccio che faceva brillare il
disegno del corpo nudo di una danzatrice del ventre.
“Una ballerina! Ma che razza di aereo è questo?” Dan toccava quella figura, non credeva ai
suoi occhi. Immobile accanto a lui, io cercavo di riunire al meglio le poche idee che mi erano
rimaste per capire cosa dovevo fare. Fu allora che sentimmo gridare.
“Fran!” corremmo verso di lei.
Frances era caduta, i muscoli delle cosce che tremavano dentro i pantaloni, indietreggiava con
il sedere a terra, le braccia tese dietro la schiena, gli occhi sbarrati. Ogni poco fermava
quell'andatura da gambero, prendeva pugni di neve e li scagliava senza forza davanti a sé, contro
qualcosa che solo lei poteva vedere.
“Fran che succede? Che c'è! Che è successo...” adesso eravamo più vicini e rallentammo la
corsa per paura di cadere giù nel dirupo. La nostra amica fissava con orrore verso terra, davanti a
lei, vicino ai nostri piedi.
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La Cosa deve venir su da un punto preciso del sentiero, questo fu il mio pensiero un istante
prima che Frances strozzasse una lunghissima “A” in gola, facendo un balzo all'indietro e perdendo
l'equilibrio. Sbatté contro il fianco della montagna, quasi perse i sensi e lentamente si lasciò andare
stesa al suolo.
Finalmente vedemmo anche noi la Cosa orrida che l'aveva sconvolta: un lungo e turgido
peduncolo, coperto da una membrana brunastra, che sporgeva dalla base del costone per almeno due
spanne, duro rigido e gonfio. Una parte così insolita che non si sarebbe detta appartenere, o essere
mai appartenuta, a un organismo vivente.
Al di là delle leggende che sono circolate per anni dopo l'accaduto, fu così che scoprimmo il
primo resto umano del disastro aereo del Boeing 707 Kangchenjunga: un braccio di donna.
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Ormai era chiaro che l'inverno stava terminando in modo del tutto improvviso. La neve si
disgregava a malincuore e veniva e trasportata lenta su banchi di ghiaccio che si frantumavano con
violenza verso valle, lungo le pendici della montagna.
Il sole riverberava i raggi contro ogni cosa. Seduti a terra, mano nella mano, Dan e Frances e
io ci guardavamo in attesa che qualcuno parlasse per primo.
“Ho letto da qualche parte, su una rivista, che degli aerei caduti su queste montagne non sono
mai stati trovati...”
“Ho freddo” disse Frances.
“Di inverno è impossibile mandare a recuperare i resti fin sulla vetta...” parlavo cercando di
trovare io stesso qualche risposta all'assurdità di quello spettacolo.
“Ma ora non è inverno e non siamo certo in vetta, che ci fa qui quel coso? Come c'è arrivato?”
Dan.
“Probabilmente spinto giù dal disgelo...” provai a spiegare e a spiegarmi.
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“Ce l'hai una sigaretta, Dan?” Dan passò la sigaretta a Frances e si misero a fumare insieme.
“I ghiacciai spingono tutto quello che trovano verso il fondovalle...”
“Che ore saranno?” chiese Frances.
Dan mi scoprì il polso per sbirciare l'ora e disse: “Undici e mezzo” io ero l'unico a avere
l'orologio.
“È possibile che i... che quest'aereo c'abbia messo anni e anni per arrivare fino a qui...”
“E pensi che... tutti quelli che... insomma, che tutto il resto sia ancora molto lontano, vero
Jim?” il pensiero di scoprire i cadaveri dei passeggeri ci stava tormentando: l'ombra di un sospetto,
l'avvicinarsi di un momento tanto orribile quanto inevitabile, una scoperta che poteva cambiare il
corso delle nostre vite, che avrebbe segnato il nostro destino. Era l'inevitabile conseguenza di
esistenze scomparse, precipitate tanto tempo prima, delle quali era dunque giunta l'ora di riaffiorare
il ricordo, anche se in modo tragico e irrimediabile.
“Potrebbero essere ovunque” disse Dan sputando l'ultima boccata di fumo dalla sigaretta e
gettandola il più lontano possibile da noi.
“Quello che non riesco a capire è dove si trovi l'altra metà dell'aereo...” a volte dico ancora
delle cose così, senza un senso preciso, o almeno senza pormi il perché le dica.
“Jim, vaffanculo! Cosa te ne frega dell'altra metà! Vuoi l'altra metà di questo cazzo di
ferraglia? Vai a cercartela, ma non dire 'ste cazzate!” Dan era nervoso e più i nervi gli saltavano, più
Frances gli si stringeva accanto “Ora dobbiamo fare mente locale: il sentiero è spaccato, troppo
pericoloso tornare indietro”
“Non potremmo cercare un altro passaggio?” fece timida Frances.
“Infatti! E abbiamo ancora tutta la giornata per trovare questo passaggio per il ritorno, e
almeno cinque ore prima che cali il sole”
“Io non credo di voler andare ancora avanti” disse Franny, io e Dan fummo d'accordo con lei.
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“Dovremo tornare ad avvertire gli altri” suggerii io senza volontà.
“Non c'è tutta questa urgenza, a dire il vero” controbatté Dan.
“Chi avrà viaggiato su quest'aereo?” la domanda di Frances spostò il pensiero dai cadaveri dei
passeggeri alla curiosità di sapere qualcosa di più sulle loro vite. Per noi fu un po' come un risveglio
che ci dava nuovo coraggio e energia. Un principio vitale al posto di un'impressione di morte, un
inizio e non più la fine.
Fu allora, e non dopo aver scoperto gli altri resti come si è tanto detto sui giornali e in
televisione, che riprendemmo a far programmi per la giornata.
Dan si mise a cercare in tutta la zona circostante un nuovo passaggio sicuro e relativamente
facile per garantirci il ritorno a valle; Frances avrebbe tentato di accendere un fuoco per scaldare il
pranzo e di stabilire il punto esatto in cui ci trovavamo sulla cartina geografica della zona; io,
invece, dovevo cercare più indizi possibili sul disastro aereo da riferire una volta tornati alla base.
Ne avevamo discusso insieme: la decisione di restare là, vicino a quella metà di aereo, al
braccio tronco di una donna e di mangiare e di giocare a fare gli esploratori venne a tutti e tre. Forse
ci facemmo influenzare dalla stanchezza, dal fatto che era ancora mattina e che il sole era bello
caldo. Comunque sapevamo che non saremmo più potuti tornare là, perché la partenza per Venezia
della nostra comitiva, era fissata per l'indomani. Una giornata così bella era davvero un peccato
perdersela per qualcuno a cui non potevamo essere ormai di alcun aiuto. Uno di noi, adesso non
ricordo chi, disse che la donna a cui apparteneva il braccio non si sarebbe mossa da là. Così la
questione fu chiusa e facemmo come ho detto: ognuno con un compito preciso e l'idea di rimanere
per tutto il tempo necessario a godercela.
Dai segni sulla mezza carlinga, scoprii che all'aereoplano avevano dato un nome:
Kangchenjunga. La sua tratta era Bombay – New York ed era un modello Boeing 707. Tutta la sua
parte anteriore si trovava ora conficcata nel ghiaccio e nella pietra dura delle Alpi. Volendo saperne
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di più pensai che dalla cabina del pilota avrei trovato qualche carta e conosciuto il nome di chi
guidava. Grattai sul ghiaccio e tolsi molti strati di neve che vi s'era indurita sopra. Infine trovai una
apertura sulla fusoliera e, aiutandomi con una spranga di ferro che doveva essere una parte del
motore o della turbina, piegai la striscia di lamiera che si frapponeva alla mia esplorazione. Il sole
entrò prima di me nel corpo dell'aereo. Misi un piede all'interno di quel mostro e il metallo
scricchiolò tutto con una leggera e prolungata vibrazione che mi spinse ancora più deciso dentro.
Il ghiaccio abbracciava i passeggeri, che mantenevano intatte le loro forme, le espressioni di
orrore, le ossa e i muscoli contratti in un inutile e immane sforzo. Potevo riportarli in vita
sciogliendo quella spessa coltre che li vetrificava? Sciocchezze! Feci pochi passi nel corpo del
mostro di metallo perché lo spazio si riduceva subito e sarebbe passato nient'altro che un piccolo
animale, forse appena un gatto. Allora pensai al gatto, a cosa avrebbe combinato quassù in alto una
bestia come quella, un predatore. Niente, come me. Mi voltai per tornare fuori, ma la mia attenzione
cadde su una borsa di cuoio attaccata al suolo, uno scalino scivoloso da grattare via con facilità.
Così feci, presi la borsa e, finalmente, uscii fuori dalla metà della carlinga di quell'aeroplano con il
mio trofeo.
Così trovai un mondo molto diverso da quello che avevo lasciato e nessuno ad aspettarmi.
La prima cosa che mi colpì fu il clima tra Dan e Frances. Mi spiego meglio: Dan e Frances
sono sempre andati d'accordo, noi tre andavamo sempre d'amore e d'accordo, ma ora c'era qualcosa
di cambiato e fuori proporzione. Quello che vidi fu lui cercava di prenderla con una corda a lazo e
lei che rideva e gli saltellava intorno e che sembrava proprio un'altra persona rispetto a qualche
minuto prima, aveva dimenticato la botta in testa, la paura delle frane e delle slavine, la storia dei
resti umani e perfino la questione della nostra amicizia, di cui non volevamo parlare né io, né Dan.
Ma in fin dei conti, che dovevo aspettarmi se i corpi dentro l'aereo li avevo visti solo io?
Non interruppi i giochi e mi misi un po' a vedere cosa succedeva laggiù, tra loro due,
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insomma, come andava a finire la finta lotta. Noi siamo pur sempre brave persone, lo eravamo
prima e lo siamo rimaste anche dopo questa storia. Inutile che qualcuno ci abbia dipinto in modo
diverso: veniamo da famiglie perbene, siamo gente che ha a cuore il proprio lavoro e che rispetta il
prossimo. Quel giorno volevamo essere felici, pur sapendo che la nostra amicizia sarebbe durata
ancora poco.
“Tu non torni con noi al campo carina!” gridava Dan verso Franny.
“Invece sì che ci torno,” faceva lei scappando da una parte all'altra intorno a un piccolo monte
di legnetti che era stato accatastato proprio al centro dello spiazzo “invece tu non mangi nemmeno
un salamino” gli disse mentre lui la prendeva finalmente con la corda “lasciami andare, guarda che
chiamo Jim! Lasciami...” ma Dan non mollava, anzi, stringeva la corda sempre di più fino a
immobilizzare completamente Franny e a farla adagiare in terra come un vitello rosa. Dan rimase un
attimo con le gambe aperte sopra di lei, poi si stese vicino e la slegò. Frances si arrese solo quando
fu libera dalle corde e abbracciò l'amico. Non intervenni ancora perché volevo vedere fino a che
punto si sarebbero spinti, stavolta Franny non si sarebbe limitata a civettare: sarebbe diventata la
donna di Dan. Sciocchezze!, pensai e m'incamminai verso di loro.
“Jim!” Franny era felice di rivedermi “Dov'eri finito!” mi venne incontro e mi abbracciò, Dan
recuperò la corda, non sembrava proprio contento, ma non era neppure arrabbiato per la mia
intrusione “Danny ha trovato qualcosa! Non puoi immaginarti...” lo guardai, ma lui teneva lo
sguardo sempre da un'altra parte “Soldi! Un
sacco di soldi, soldi-soldi-soldi! Sono dollari,
tantissimi dollari, saranno qualche migliaia... fagli vedere Dan!”
Quando ci eravamo divisi, poco prima di darci i compiti, eravamo d'accordo su un fatto:
qualunque cosa avessimo trovato, quella sarebbe appartenuta a chi la trovava per primo. Quindi, a
sapere dei soldi, pensai a Dan improvvisamente ricco, anche se lui non dimostrava un grande
entusiasmo.
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“Hai trovato un passaggio, Dan?” gli chiesi.
“Sì, è solo questione di attraversare quel costone a nord e poi... insomma è facile, anche più
facile del sentiero dell'andata”
“Dove hai trovato quei soldi?” gli chiesi.
“Perché?” volse gli occhi in alto, verso il sole o, forse, evitando il sole e cercando di
concentrarsi su qualche nuvola che cambiava forma nel cielo “Che differenza fa?”
“Se appartengono a qualcuno?”
“A chi?” questa volta Dan si girò verso di me, quegli occhi sempre più bianchi e piccoli
“Chissà quanto ce n'è ancora sparso qua attorno!”
“Dovremo avvertire qualcuno....”
“Sei un pazzo! Sono ricco con quei soldi, siamo ricchi! Possiamo lasciare la scuola, andiamo
ad abitare in un bel palazzo tutto nostro, possiamo vivere senza più bisogno di lavorare!” si capiva
bene che Dan odiava la parola fine, che non avrebbe mai accettato di lasciare me e soprattutto
Frances “Che me ne frega di andare all'università, sai che sballo con tutti quei soldi! Chi meglio di
te, poi, saprebbe farli fruttare!” non sapevo che rispondergli e Fran pensò di rincarare la dose.
“Jim, ascolta... so come la pensi su certe cose, ma questa volta è diverso...” mi prese una
mano e mi guidò vicino a Dan, anche troppo vicino, “Sai che non riesco a scegliere,” era vero “non
lasciamo che l'università ci divida...”
“Non so, ma credo che sarebbe nostro dovere dire cosa abbiamo trovato qui...”
“Perché dovremmo andare a dire a qualcuno quello che abbiamo trovato?” fece Dan.
“Perché qualcuno potrebbe ancora cercare queste cose, i tuoi soldi...”
“E così dovremmo dire che abbiamo trovato una fortuna!”
“Sì, credo di sì” dissi senza certezza.
“Ma a chi importerebbe? Questa gente è precipitata con un aereo, è morta! Sono spariti, non
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c'è più nemmeno una loro traccia in questo mondo!” Dan era furioso e gonfio di rabbia per la mia
solita ostinazione.
“Ti sbagli, Dan...” mi fissarono entrambi col terrore che stessi per dire qualcosa di molto
brutto, e infatti: “Sono là dentro... sembra... sembravano...” mi mancavano le parole, Frances mi
tenne stretto “Sembrano ancora vivi, ne ho visti tre, quattro...” non riuscii più a parlare.
“Jim...” Frances mi abbracciò, strusciandosi a me.
“E allora? Probabilmente qui c'è molta altra roba, doveva essere un aereo privato, di quelli
che portano le persone straricche, questa gente è morta, non ne avrà più bisogno e poi lo diremo, sì,
che l'aereo è qui, d'accordo! Ma prima guardiamo bene se c'è qualcosa di importante o di prezioso!”
Fu allora che Franny, la cara dolce amica di scuola, la bambina dagli occhi verdi, quella che i
miei genitori sognavano sarebbe diventata una perfetta madre per i loro nipoti, la ragazza acqua e
sapone che un sacco di volte mi aveva scherzato sul fatto che sarebbe arrivata intatta all'altare,
insomma, proprio lei, Franny, mi mostrò il sacchetto pieno d'oro e brillanti che aveva trovato.
“Non sono incredibili, Jim? Ti rendi conto di quanto sono belli?” avrebbe potuto piangere e
morire per quella roba, me ne accorsi dalla sua voce, strozzata, sommessa, avida “Non potrei mai
averli in vita mia...” come dire che la sua esistenza era già segnata, che non avrebbe fatto molta più
strada della sua mamma infermiera, che sarebbe stata costretta prima o poi a seguire le orme del
padre e, se tutto andava bene, avrebbe pure aperto una sua minuscola clinica veterinaria, ma si
sarebbe di certo ammazzata di lavoro il resto dell'esistenza per pagare i debiti con le banche. Ora
davanti a lei si presentava un bivio: da una parte, la strada portava dritta e piana alla stessa vita dei
genitori; dall'altra, invece, Frances poteva entrare in un nuovo mondo fatto di curve, salite e discese
verso lusso, amore e passione, libera di sentirsi la donna che si aspettava di diventare e nient'altro.
“Ti rendi conto, Jim...” concluse Frances.
“E tu non hai trovato nulla dentro quell'aereo?” subito dopo averlo chiesto, Dan sembrò
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ricordarsi che avevo già parlato dei corpi dei viaggiatori. Una persona in sé avrebbe potuto
dimenticare quel fatto? No.
“Sì,” dissi imbarazzato “ho trovato una borsa, di cuoio,” mi guardavano aspettando che
dicessi cosa conteneva “ma non l'ho aperta”
“Fammi vedere!” fece Franny cercando la borsa da qualche parte là attorno “Dove l'hai
nascosta? Dan guarda di là...” mi superarono gettandosi a capofitto alla ricerca del mio trofeo,
coime se fosse stato minimamente paragonabile a quelli loro.
“La vedi, Danny?”
“Niente da fare, l'ha nascosta proprio bene questo gran figlio di...”
“Ma è solo una borsa,” non potevo permettergli di prendersi la soddisfazione di prendersi la
mia borsa, era mia, l'avevo trovata io, ora era mia “non vale niente, ma poi non eravamo d'accordo
che quello che veniva trovato qui...” non finii la frase perché saltai vicino al mucchio di neve sotto
al quale avevo infilato il mio trofeo “Non provate nemmeno a toccarla, voi!” urlai, e in quel
momento capii che la borsa era diventata non solo una mia proprietà, ma anche una parte del mio
corpo, la zona oscura dei pensieri che facevo da quando sono nato, l'ombra dei miei desideri, l'altra
parte di me.
“Bene, allora è deciso!” dissero insieme i due giovani demoni che mi giravano rapidi intorno
“Non faremo parola a nessuno, torniamo giù e lasciamo che sia qualcun altro a scoprire che
l'aereoplano si è schiantato qui”
“Ma non si è schiantato qui...” provai a dire.
“Chissenefrega, Jim!” mi chiuse la bocca Frances con un bacio “Sono felice che ti sia
convinto”
“Non possiamo fare altro per loro, ma restiamo sempre noi, no? Per noi possiamo fare
tantissimo con i miei soldi e con le pietre di Fran” Dan guardò la mia borsa “Cosa contiene la tua
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borsa, Jim?”
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Alle tre del pomeriggio ci trovavamo ancora in quella radura. Il braccio di una donna
sporgeva indisturbato dallo zoccolo della parete rocciosa a pochi passi da noi, presi a giocare con i
nostri sogni e il destino che quei trofei avrebbe presto cambiato.
Dan contava e ricontava i suoi trecentomila dollari, li disponeva quelle mazzette verdi
secondo un ordine di volta in volta diverso e sorrideva a ogni aggiustamento.
Frances aveva perso qualsiasi espressione del viso, i suoi lineamenti mi sembravano adesso
solo tondi, anche se per tutti gli anni che ci eravamo frequentati, avevano assunto per me i tratti
fondamentali della vita che sorride, la rigogliosità del benessere, la luce della fantasia. Ora c'era in
lei solo un viso tondo, due abbondanti labbra immobili e gli occhi spenti di chi ha un'idea fissa.
Passava le dita su una delle fotografie che aveva trovato accanto ai gioielli: una donna matura in
négligé si mostrava mollemente disposta all'obiettivo del fotografo. Un'istantanea che poteva essere
stata scattata per un amante, o nel gioco segreto tra un marito e una moglie, oppure anche solo per il
gusto di compiacersi. Era evidente che quell'immagine riusciva ad attrarre Franny, a disporla verso
un sogno che poteva durare nel tempo. Solo la nudità della sua signora stava spingendo la mia
amica dentro fantasie corrotte e piacevoli.
La mia borsa, invece, conteneva fogli, tantissimi fogli, testi scritti con una stilografica, un
libro di Fitzgerald, una specie di lettera a una figlia lontana, così lunga che a leggerla sembrava un
diario, e poi le formule di-non-so-che della bomba atomica indiana.
Quel pomeriggio lessi con una foga che non ricordo di aver più provato né per un romanzo, né
per un saggio. Il proprietario della borsa era indiano, dell'India, ma il suo era un ottimo inglese
scritto. Il suo lavoro riguardava la fisica nucleare, era autore di moltissime pubblicazioni tradotte in
tutte le lingue del mondo, lui aveva formulato idee nuove sull'energia che potevano sprigionare certi
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atomi una volta bombardati e divisi in so-che-cosa-di-preciso. L'uomo al quale appartenevano tutti
quei fogli che stavo leggendo di nascosto, come un ladro o una spia, o tutte e due le cose insieme,
aveva un nome, si chiamava Homi Jehangir Bhabha e doveva essere stato un uomo davvero
notevole. Non parlo del suo lavoro, importante, condotto a livello internazionale, ma anche della
sua vita privata.
Nonostante ora sappia molto di più sulla sua esistenza, dei suoi continui viaggi, dell'impegno
pacifista contro l'uso dell'energia nucleare per la guerra e sulla sua lotta per debellare la povertà del
popolo indiano, oggi mi sembra di conoscere questo scienziato meno di quando ne lessi per la prima
volta le carte private. In quei momenti anche io mi persi dietro a dei sogni, quelli di un amico che
piano piano mi diceva i suoi segreti, le sue debolezze, le sue paure.
La lettera di Bhabha che catturò la mia attenzione iniziava così:
Carissima e dolce mamma,
quanto vorrei che il poeta dicesse la verità, che un dolce sonno potesse scendere sugli occhi
del tuo bambino, un sonno dal villaggio delle fate, all'ombra di foreste illuminate, dal chiarore
delle lucciole... spesso mi accade di non vedere la luce negli occhi degli uomini, né di quelli che
conosco, né di quelli che conoscerò, o meno, di quelli che non saranno miei amici. A volte penso
che non vedo perché sono cieco. Se la luce è dentro il niente di un atomo, allora quanto può
illuminare l'anima di un essere umano... tu mi fai vedere meglio, con la tua voce e saggezza.
Mi manchi tanto, come manco io a te, lo so. Da qui, dalla Terra, e anche di là, da dove il
sonno deve venire a baciare gli occhi del tuo bambino, stanotte...
Un rumore isolato, simile allo sfregamento di due ossa, s'insinuò nel silenzio. Qualcosa che
strisciava, o che gridava sommesso, qualcosa di vivo, non trasportato dal vento o buttato là come
una foglia o qualche seme di pianta. Dan e io ci alzammo e senza bisogno di dire niente, ci
mettemmo chini a cercare l'origine dello strano rumore. Ancora una volta lo sentimmo e Franny si
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allarmò, schizzando in piedi e raggiungendoci, vicino alla carcassa dell'aereo, dietro noi che, con la
maggiore cautela possibile, cercavamo il modo di vedere all'interno del corpo di quel mostro di
metallo e ghiaccio. Ci fu uno scricchiolio e poi un suono di corda pizzicata, forse un Sol ma in
chiave di basso, non facemmo una parola, ma eravamo già spaventatissimi. Gutturale, un suono
nato nella parte posteriore di un cavo orale, aspirando all'indietro dentro la gola di qualcosa che non
era del tutto umano. Fose stata una volpe il verso si sarebbe prolungato, con un topo il tono sarebbe
stato invece più stridulo.
“Entriamo a vedere,” disse Dan e io gli andai dietro.
“Là!” gridai subito “Una coda, c'era una coda di qualche...” Dan mi tenne fermo, ero proprio
sul punto di darmela a gambe “è qualche animale, andiamo via da qui...” ma il mio amico non
voleva davvero saperne.
“Erano veramente tutti ghiacciati? Come il vetro?” i cadaveri erano per Dan una sorta di
grande attrazione da circo “Voglio vedere le espressioni che avevano in faccia prima di morire”
Da fuori Franny ci chiamava, non riusciva a trovare il coraggio di entrare, ma non voleva
neppure rimanere là fuori da sola. E poi la curiosità di sapere ebbe la meglio...
“Ragazzi! Ci siete?” alternava questa piccola voce bassa e tremante con qualche strillo forte
di paura come quando ci avvertì: “C'è qualcosa che si muove dentro, l'ho sentito, ragazzi! Ragazzi
venite fuori, aiuto!” si fece coraggio e sporgendo la testa dentro la carlinga riprese piano “Dan...
Jim... ci siete? Non fate scherzi, ragazzi, ho paura...” e improvvisamente, sentendo il fruscio e il
suono gutturale così vicino fece un balzo all'indietro “Aaaahh! Aiuto, cos'è quello, cosa c'è! Dan,
vieni immediatamente qua!” ma non arrivò Dan.
Un proiettile marrone si gettò contro Frances, colpendola come un pugno nello stomaco. Uno
scheletro coperto di pelo chiazzato, con piccoli artigli scuri e non so quanti arti ossuti era passato tra
le mie gambe e schivando la presa di Dan. Velocissimo, un missile vivo.
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Uscimmo dalla fessura nel metallo forse per rincorrere quella bestia o forse per fuggirne, Dan
e io, e ci scontriamo e spingiamo come estranei in cerca della sopravvivenza, finiamo anche per
terra, appena fuori dalla mezza fusoliera, lui si riprende prima di me e corre da Fran a vedere come
sta. Sta bene, solo spaventata. Io faccio appena in tempo ad alzare lo sguardo e vedere sopra di me
la nuda silhouette della danzatrice del ventre disegnata sotto l'ala dell'aereo, e altre quattro, cinque
decine di quelle orribili bestie scheletrite e spelacchiate mi travolgono, un'orda rumorosa e
frastornante.
“Scimmie!” Dan le contava a ogni passaggio in gruppi di quattro o cinque, di dimensioni tutte
simili, ridotte molto male. Arrivò a contarne trenta, quaranta, forse erano anche di più.
“Sono scimmie!” anche Frances se ne rese conto e smise un po' d'aver paura “Sono solo delle
scimmie” le bestie si arrampicarono sulle pietre del costone tutto intorno alla radura e ci fissavano
imperscrutabili.
“Cosa ci fanno qui delle scimmie?” disse Frances.
“La settimana bianca!” Dan si stirò un bel sorriso sulla faccia al centro della quale gli occhi si
spostarono perfettamente, due capocchie di spillo “Guardate come sono brutte...”
“Come faranno a vivere qui” dissi.
“Cosa vuoi dire, Jim?” chiese Frances.
“Non vivono scimmie sulle montagne, né da qualunque altra parte qui sulle Alpi...” mi
avvicinai con cautela verso una di loro “e non ce ne dovrebbero essere nemmeno in Italia, se ricordo
bene,...”
“Magari sono fuggite da qualche circo...” disse Dan.
“O erano dentro l'aereo” dissi.
“Cosa mangiano le scimmie?” ma Fran non temeva per la salute di quegli animali, quanto per
la nostra.
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“Se poi fossero scappate da qualche circo, non sarebbero certo salite così in alto,” la
scimmietta che avevo avvicinato sembrava inoffensiva “perché qui sulla neve per sopravvivere...?”
all'improvviso la scimmia che guardavo strappò un sasso dalla parete e me lo scagliò addosso
mancandomi di poco.
“Brutta bestia!” Dan gli fu subito addosso e quella fuggì ancora più in alto sul costone
gridando e facendo eccitare tutte le sue compagne “Dovrebbero insegnare l'educazione a questi
animali!” ridemmo.
“Secondo me stavano sull'aereoplano quando è caduto, molto tempo fa,” gli altri mi
ascoltavano in silenzio “vengono da Bombay ed erano dirette a New York con gli altri
passeggeri...” dai miei fogli sapevo che il volo del Boeing 707 risaliva al 1966, quattro anni prima
del nostro arrivo sul Monte Bianco “Sono sopravvissute e in qualche modo...”
“Allora non andavano in vacanza sulle Alpi! Volevano venire da noi in America a spassarsela
ecco perché sono così incazzate ora!” Dan non ci fece granché ridere, perché io e Franny ci stavamo
già tormentando a un pensiero orribile.
“Cosa mangiano le scimmie?” disse Franny.
“Erba!” rispose subito Dan, poi accorgendosi che di erba ce n'era veramente poca intorno a
noi, corresse il tiro “Semi di piante, cortecce di arbusti...” anche di questi vegetali non c'era grande
abbondanza “...qualche animale?”
“Jim, davvero, cosa mangiano queste scimmie?” Frances lo sapeva meglio di me: sono
onnivore, come noi, possono mangiare qualunque cosa di commestibile gli capiti a tiro.
“Certo che con questo freddo devono faticare un bel po' per trovare da campare...” Dan non
capiva ancora “Dico, ragazzi, ecco perché son così emaciate, se la devono veder brutta quassù!”
“La temperatura, se è sempre sotto lo zero, potrebbe conservare come in frigo...” io e Fran ci
guardavamo, Dan se ne accorse, non era contento che accadesse, proprio ora che lui era così forte
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con il suo ricco trofeo di trecentomila dollari sonanti in tasca.
“Be'? Cosa mai dovrebbero conservare se in estate qui il clima è freddo peggio che..” si
interruppe e sgranò i suoi piccoli occhi azzurri “Volete dire che...” aveva capito anche lui “...che
loro hanno mangiato, hanno... hanno...” si voltò violento verso quelle bestie smunte che sembrarono
guardarlo sotto una luce diversa, era il confronto preda-predatore del quale avevamo tanto parlato io
e Fran quando facevamo antropologia a scuola “Maledette bestiacce!” prese la spranga di ferro che
mi era servita per aprire la fusoliera brandendola a mezz'aria come fosse una mazza da baseball, le
scimmie le palle da colpire “Ammazziamole tutte!” il branco iniziò a gridare e a soffiare, avevano il
pelo irto e gli occhi in fuori, Dan rincorreva una di loro e altre dieci o venti gli si avvicinavano alle
spalle, qualcuna si fece vicino anche a me e a Frances.
“Dan, andiamo via da qui, è tardi, andiamo, non c'è tempo, lascia in pace questi animali!”
questo gridai, ma Dan era in trance per la guerriglia che gli facevano e Fran si staccò da me
mormorando solo un no sommesso.
“Perché no?”
“No Jim, no” allontanandosi.
“Spiegami che vuoi dire,” a raccontarla adesso sembra una scena surreale, Dan che cercava di
colpire le scimmie con la sua mazza di ferro e io e Franny in piedi, uno davanti all'altra, a dirci cose
che non avevamo mai detto e che non avremmo mai voluto sentirci dire l'una contro l'altro “ti ho
mai chiesto di scegliere? Non ho fatto domande, non ho cercato di convincerti e senti, davvero Fran,
ascolta...” cercai di essere convincente “Non è mai stato semplice con te!”
“È questo il problema, Jim, sei così... così... banale! Sei sempre controllato, non ti emoziona
niente, tu devi essere il so-tutto-io e non ce ne lasci passare una!” faceva più male a lei dirlo che a
me sentirlo, ma continuò “Sei distaccato, freddo, indifferente, sei sempre così maledettamente
anaffettivo!”
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“Non c'è niente di brutto a vivere una vita normale, non è così orribile come lo vuoi far
passare tu” e a quel punto volevo proprio andarmene, non fosse che lei aveva già girato le spalle e si
fosse diretta verso Dan che aveva costretto in un angolo una delle sue scimmie.
“Carogna di un cannibale, ora te lo faccio vedere io chi è il vero predatore” diceva
digrignando i denti, posseduto dal desiderio di uccidere la bestia antropomorfa.
Il primo colpo le cambiò in un istante l'espressione che, da eccitata, divenne sorpresa, poi
confusa, infine turbata. Crollò a terra con un tonfo greve a dispetto dei suoi poveri grammi di peso e
Dan sopra a infierire.
“Andiamo via da qui, svelti!” cercai più volte di convincere i miei due amici ad allontanarsi
da lì, ma sembrava che non mi sentissero. Frances fissava la scimmia piena di sangue e pelo sporco
di fango e neve, mentre Dan urlava parole che non avevano significato, in un orientale antico che si
era probabilmente inventato lì per lì, alla moda dei karateka giapponesi, con una furia divenuta
incontrollabile, agitando in aria la sua spranga con due fessure al posto degli occhi “Smetti,
andiamo via!”
“Vai via tu, invece, lasciaci vivere come vogliamo!” disse Frances con una voce che non le
avevo mai sentito “Va' via, sparisci, se vuoi andartene, vai!”
La scimmia non moriva ancora, rantolava tra i piedi di Dan, soffocando in gola un suono
sempre più basso e gutturale, sputando sangue dagli orecchi e muovendo i piccoli arti come una
marionetta in mano a un burattinaio impazzito. A un certo punto cessò di muoversi, sembrava
finalmente morta, ma non lo era ancora.
“È morta?” disse Frances.
“Credo” fece Dan.
La scimmia, allora, fece quel verso che cambiò la nostra vita: gemette come un bimbo.
Eravamo lì intorno a lei e capimmo che furono quelle le ultime parole che doveva dire: a noi,
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i suoi assassini, al suo gruppo, di simili, di amici e genitori. Parole, erano proprio come parole,
deboli ma articolate e parte di un discorso che si protrasse per almeno uno o due minuti. Dan lasciò
cadere a terra la mazza di ferro, Frances mise le mani sugli occhi e io piansi di vergogna stringendo
tra le braccia la borsa che avevo rubato al cadavere dello scienziato indiano.
Le scimmie avanzavano verso di noi, le vidi e dissi che era l'ora di andare, in pochi minuti
eravamo sulla via del ritorno a gambe levate.
Scese il crepuscolo quando raggiungemmo la boscaglia, vegetazione che ci faceva sperare di
essere arrivati vicini al nostro campo nel paese di Chamonix. All'apparenza eravamo salvi.
Verso le otto di sera ci accolsero quindi tutti gli altri ragazzi del gruppo del professor
Kellogg's, venne fuori che erano stati in ansia per noi, che avevano avvertito la guardia forestale,
che dovevamo fermare i soccorsi pronti a intraprendere le ricerche sul monte. “Gli italiani” dissero
“hanno preso molto sul serio il vostro ritardo”. Così dovemmo rispondere a delle domande, anche
alle autorità del luogo, avremmo dovuto dire cosa avevamo combinato lassù, fin dove ci eravamo
spinti e se avevamo sentito cadere slavine o se qualche sentiero era stato interrotto da frane. Fummo
tutti e tre molto vaghi, ma abbastanza convincenti. Solo il professor Kellogg's mi prese da una parte,
dopo l'interrogatorio della guardia forestale, dicendomi a brutto muso: “Cosa è successo lassù”
risposi niente e me ne andai dritto in camera mia.
Ciò che la stampa ha riportato nei giorni seguenti l'accaduto, sono le fandonie di Dan che
accompagnandosi con boccali di birra e vin brulé del posto, si vantò di essere arrivato a conquistare
vette innevate, di aver attraversato costoni di roccia ghiacciata e perfino di aver ucciso una bestia
che descrisse come uno Yeti. E l'immaginario collettivo alimentò in questo modo la leggenda su un
abominevole uomo delle nevi, che in verità avremmo dovuto incontrare sui monti dell'Himalaya e
non là, sulle Alpi. Gli italiani rimasero scettici sulle dichiarazioni di Dan, chiesero perché non
avevamo portato il corpo a valle, visto che ormai la bestia era stata uccisa e alla fine nessun giornale
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pubblicò il racconto. Nel nostro Paese, invece, un'intervista rialsciata da Dan resa a una giornalista
di una rivista, descrisse la scimmia uccisa col nome che finì per appartenerle: Metoh Kangmi,
espressione in lingua nepalese per dire Uomo delle nevi. L'animale che avevamo assassinato sulle
Alpi, però, poteva essere considerato solo un bambino delle nevi.
La notte del nostro ritorno al campo di Chamonix la ricordo bene per tutte le ore, minuti e
secondi trascorsi a ripensare alle grida di quel bambino, a leggere le parole d'amore e pace scritte
dallo scienziato Homi Jehangir Bhabha e per lo strazio che mi infliggevano i morsi della mia
coscienza.
Un uomo studiava l'energia nucleare e voleva vedere sconfitta la povertà del suo popolo
rifiutando l'orrore della distruzione di massa; io assistevo con spavento alla trasformazione delle
nostre anime per un sogno di vana gloria e corruzione.
Alle dodici in punto, nel cuore della notte, tolsi dal mio zaino la borsa di cuoio di Bhabha e
attraversai la piazza di Chamonix, convinto di confessare l'accaduto al professor Kellogg's.
La luna schiariva un po' lo spazio freddo intorno al paese, rallentai il passo, mi volsi alle
finestre di Frances, sperando di vederla per l'ultima volta.
La colsi alla finestra, immobile. Dapprincipio pensai che mi avesse scoperto, poi capii che
stava guardando avanti a sé, verso i confini di quella piccola città alpina, della vallata, così simile al
piano in cui si sarebbe per sempre svolta la sua vita.
Fissava un punto oltre quel limite, là dove non sarebbe mai arrivata.
FIN
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