Coutant c Francia dec

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Coutant c Francia dec
CONSIGLIO D’EUROPA
CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO
TERZA SEZIONE
DECISIONE
SULLA RICEVIBILITA’
del ricorso n. 17155/03
presentato da Isabelle COUTANT
contro la Francia
La Corte europea dei diritti dell’uomo (terza sezione), riunita il 24
gennaio 2008 in una camera composta da:
Boštjan M. Zupančič, presidente,
Corneliu Bîrsan,
Jean-Paul Costa,
Elisabet Fura-Sandström,
Egbert Myjer,
Ineta Ziemele,
Isabelle Berro-Lefèvre, giudici,
e da Santiago Quesada, cancelliere,
Visto il suddetto ricorso proposto il 27 marzo 2003,
Vista la decisione della Corte di avvalersi dell’articolo 29, § 3, della
Convenzione e di esaminare congiuntamente la ricevibilità ed il merito del
caso,
Viste le osservazioni presentate dal governo convenuto e quelle di replica
presentate dalla ricorrente,
Dopo aver deliberato, pronuncia la seguente decisione:
FATTO
La ricorrente, la sig.ra Isabelle Coutant, è una cittadina francese, nata nel
1953 e residente a Parigi. E’ avvocato del Foro di Parigi. E’ rappresentata
dinanzi alla Corte dall’avv. J.-L. Chalanset, avvocato in Parigi. Il governo
francese («il Governo») è rappresentato dal suo agente, sig.ra E. Belliard,
direttrice degli Affari giuridici presso il Ministero degli Affari esteri.
traduzione non ufficiale dal testo originale a cura dell'Unione forense per la tutela dei diritti dell'uomo
DECISIONE COUTANT c. FRANCIA
A. Le circonstanze del caso
I fatti di causa, così come esposti dalle parti, possono riassumersi come
segue.
Dal 1° al 27 settembre 1998 si tenne il cosiddetto processo « Chalabi »,
dal nome di uno dei principali imputati, Mohamed Chalabi, del quale la
ricorrente era il difensore. Nel corso di questo procedimento, erano state
interrogate circa 600 persone, per la maggior parte di origine algerina,
nell’ambiente definito «islamista». Alla fin fine, 138 persone, tra cui il sig.
Chalabi, erano state rinviate dinanzi al tribunale correzionale di Parigi con il
capo di imputazione di partecipazione ad un’associazione a delinquere
finalizzata a commettere atti di terrorismo. Il processo si tenne in una
palestra dell’amministrazione penitenziaria, presso la casa circondariale di
Fleury-Mérogis, trasformata in aula di udienza.
L’organizzazione di questo processo provocò intense proteste,
provenienti in particolar modo dall’ordine degli avvocati di Parigi, il quale
denunciò « l’organizzazione di un processo di massa, che appariva
incompatibile con il rispetto dei diritti di difesa ». Numerosi avvocati
decisero di abbandonare definitivamente l’udienza.
L’8 settembre 1998, la ricorrente pubblicò, a nome del suo cliente, un
comunicato stampa, parzialmente ripreso da un dispaccio dell’Agenzia
France-Presse.
Il testo del comunicato era il seguente:
« Per Mohamed Chalabi
Attraverso quel che succede nel nuovo palazzo di giustizia della prigione di FleuryMérogis, l’opinione pubblica comincia finalmente a rendersi conto dell’infamia dei
procedimenti utilizzati dalle sezioni specilizzate della giustizia francese, con il
pretesto della lotta contro il terrorismo.
Per esigenze mediatico-politico-demagogiche, numerose persone sono state tacciate
come terroristi tra coloro che hanno opinioni politiche diverse da quelle dei poteri
forti.
Ma al di là di ciò che alcuni scoprono nella fase finale pubblica delle udienze del
tribunale, occorre anche parlare di ciò che resta nascosto dietro le quinte dei servizi
della polizia politica e dei giudici speciali della quattordicesima sezione, il cui motto «
bisogna terrorizzare i terroristi » è stato coniato da Charles Pasqua. Questi dichiarava
anche al tempo stesso « coprirò io gli abusi ».
Una volta aperta la caccia, la cosiddetta lotta contro il terrorismo ha ottenuto carta
bianca per impiegare dei mezzi terroristi contro i bersagli indicati dal potere, per i
propri interessi politici o per quelli dei suoi alleati stranieri.
Di qui la pratica delle retate, con dei metodi degni della Gestapo e della Milizia, a
qualsiasi ora del giorno e della notte, contro intere famiglie, compresi i bambini, a
costo di ricoprirli di falsi corpi di reato (come accadde nel caso dei documenti fatti
scivolare dalla DST nell’asciugamano di Kraouche).
Di qui le violenze e le torture durante i fermi di quattro giorni, sotto il controllo dei
giudici della sezione speciale.
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Di qui la messa in detenzione in stato di isolamento totale, per dei mesi o per degli
anni, senza alcuna reale prova materiale a carico, tranne quella di essere « in grado di
… », praticamente senza interrogatorio da parte di un giudice e, a fortiori, senza
confronti, perché, in Francia, i presunti accusatori rimangono anonimi, cosa che i
tribunali considerano come normale!
Di qui le udienze processuali puramente formali, perché i giochi sono già fatti,
essendo i presunti « terroristi » inevitabilmente pericolosi per l’ordine pubblico, e il
volume dei fascicoli testimoniando della serietà delle accuse, anche se essi sono pieni
soltanto di prove prefabbricate dai giudici istruttori della sezione speciale, sotto forma
di domande che anticipano le risposte a sostegno della loro tesi.
Tra i bersagli già designati, così impone l’islamofobia, figurano in buona posizione
coloro che sono di origine araba, con la circostanza aggravante di appartenere alla
nazione dei musulmani, presunti colpevoli del delitto di opinione religiosa terrorista.
Mohamed Chalabi, muhehede, non riconosce che il Tawhid, ma ha diritto di
chiedere giustizia, come le altre vittime del terrorismo della polizia e dei giudici.
Il sig. Alain Marsaud, membro fondatore ed ex capo della quattordicesima sezione
speciale ritiene che la rivolta che ribolle contro i metodi terroristi delle sue squadre
costituisca « un insulto alla giustizia del nostro Paese ».
Più che un insulto, le pratiche e le manipolazioni mediatico-poliziesche delle sezioni
speciali antiterrorismo costituiscono un crimine contro le libertà pubbliche ed
individuali.
E’ più che ora per la Francia che abbia fine questa infamia.
Parigi, 8 settembre 1998
Isabelle Coutant Peyre
Avvocato alla Corte
Per Mohamed Chalabi »
In data 8 ottobre 1998, il Ministro dell’Interno, considerando una parte di
queste parole diffamatoria nei confronti della polizia nazionale, presentò
denuncia al Procuratore della Repubblica di Parigi con l’accusa di pubblica
diffamazione nei confronti di un’amministrazione pubblica ai sensi
dell’articolo 48, comma 1, della legge del 29 luglio 1881 sulla libertà di
stampa (« la legge del 1881 »).
La ricorrente sostenne che, avuto riguardo alla sua qualità di avvocato e
di indagata, e tenuto conto delle circostanze eccezionali del processo in
questione, i giudici dovevano interpretare estensivamente l’immunità
prevista dall’articolo 41 della legge del 1881 al fine di accordarle il relativo
beneficio. Inoltre, la ricorrente sostenne che, per via della sua professione,
doveva denunciare le pratiche contrarie alla Convenzione e che, quindi, il
suo comunicato si collocava nel quadro della polemica politica e del
confronto di idee ammessi dalla giurisprudenza della Corte.
Con sentenza del 2 maggio 2000, il tribunale correzionale di Parigi
stabilì che le dichiarazioni per cui è causa non erano coperte dall’immunità
prevista dall’articolo 41 della legge del 1881 e, sottolineando il carattere
diffamatorio delle parole della ricorrente nei confronti della polizia
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nazionale, la riconobbe colpevole del delitto di pubblica diffamazione nei
confronti di un’amministrazione pubblica, previsto e punito dagli articoli
29, comma 1, 30, 42, 43, 47 e 48 della suddetta legge. L’avvocatessa fu
condannata ad una multa di 30.000 franchi francesi (circa 4.575 euro), oltre
che al versamento simbolico di un franco al Ministero dell’Interno. Il
tribunale ordinò pure la pubblicazione, su tre giornali scelti dalla parte
civile, di un comunicato che rendeva nota la condanna della ricorrente. Il
tribunale giunse alle seguenti conclusioni:
« E’ proprio perchè compete all’avvocato, nell’esercizio dei diritti di difesa,
denunciare pubblicamente e con forza dei fatti o un sistema contrario ai diritti
dell’uomo e la sua funzione lo rende quindi particolarmente credibile agli occhi dei
suoi concittadini, che un avvocato non può permettersi impunemente di rivolgere,
senza prove e senza sfumature, accuse precise e di una gravità estrema nei confronti di
un’amministrazione indispensabile al funzionamento della democrazia e garante in
particolar modo della protezione degli individui contro le azioni terroristiche, quale è
la Polizia Nazionale;
Ora, nel caso di specie, [la ricorrente] non si è limitata ad una generica critica delle
istituzioni giudiziarie e di polizia o anche del funzionamento della lotta contro il
terrorismo; la ricorrente, nel corso di un procedimento delicato, ha accusato in modo
oltraggioso gli apparati di polizia di aver tenuto comportamenti ignobili ed inumani,
senza essere in grado di indicarne un benché minimo principio di prova; così facendo,
non può essere considerata in buona fede ed è integrato il delitto che le viene
contestato (...) »
La ricorrente propose appello. A sostegno della sua impugnazione,
invocò in particolar modo la legittimità della discussione sulle modalità di
attuazione della « lotta contro il terrorismo », il suo « dovere di parola »
nella sua qualità di avvocato ed il principio della libertà di espressione
consacrato dall’articolo 10 della Convenzione.
Con sentenza del 21 giugno 2001, la corte d’appello di Parigi confermò
la sentenza impugnata per quanto riguarda la dichiarazione di colpevolezza,
ma la riformò nella determinazione della pena, riducendo la multa a 10.000
franchi francesi (circa 1.525 euro). In particolare la corte statuì:
« Considerando che la denuncia delle condizioni di organizzazione del processo
riguardante in particolar modo il suo cliente, Mohamed CHALABI, e la critica del
procedimento nel suo insieme costituivano per [la ricorrente], avvocato, un fine
manifestamente legittimo; che le era assolutamente possibile arrivare in pieno a
questo obiettivo, sviluppando un’argomentazione caso mai assortita di giudizi severi,
senza fare per questo delle equiparazioni temerarie ed infamanti;
Considerando che, rivolgendo in modo particolarmente oltraggioso delle accuse
gravissime e vergognose alla polizia preordinata alla lotta contro il terrorismo,
procedendo ai peggiori paragoni per suscitare indignazione, gettando deliberatamente
l’ignominia su un intero corpo di funzionari, [la ricorrente] si è volontariamente
espressa in modo parziale e vendicativo, senza la minima prudenza o moderazione;
che l’esimente della buona fede non potrebbe dunque esserle riconosciuta. »
La ricorrente propose ricorso in cassazione. Nella sua memoria
integrativa, invocò l’articolo 10 della Convenzione e sostenne in particolare
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che la condanna per cui è causa aveva attentato alla sua libertà di
espressione.
Con sentenza del 3 dicembre 2002, la Corte di Cassazione rigettò il
ricorso. Sul primo motivo di impugnazione della ricorrente, che invocava
l’immunità prevista dall’articolo 41, comma 3, della legge, la Corte osservò
che « dal momento che il comunicato oggetto di causa non poteva essere
considerato come uno scritto prodotto dinanzi ad un giudice, la corte
d’appello aveva fatto esatta applicazione della legge ». Sul secondo motivo,
la Corte di Cassazione si pronunciò così:
« Atteso che, per eludere l’argomentazione difensiva fondata sulle disposizioni della
Convenzione e per negare all’avvocato l’esimente della buona fede, i giudici
affermano che, se la denuncia delle condizioni di organizzazione del processo
riguardante il suo cliente e la critica del procedimento nel suo insieme costituivano,
per [la ricorrente], un fine legittimo, quest’ultima aveva la possibilità di sviluppare
un’argomentazione, assortita, caso mai, di giudizi severi, senza per questo
abbandonarsi ad equiparazioni temerarie ed infamanti ; che i giudici ritengono che,
proferendo delle accuse « gravissime e vergognose » contro la polizia investita della
lotta contro il terrorismo e procedendo a dei paragoni con i metodi utilizzati dalla
Gestapo o dalla Milizia del regime di Vichy, l’avvocatessa si è espressa
deliberatamente « in modo parziale e vendicativo » senza la minima prudenza o
moderazione, gettando l’ignominia sul corpo dei funzionari di polizia nel suo insieme;
Atteso che allo stato di queste enunciazioni, la corte d’appello ha motivato la sua
decisione;
Che, da un lato, quando non gode dell’immunità prevista dall’articolo 41 della legge
del 29 luglio 1881, l’avvocato che si esprime a nome del suo cliente non è dispensato
dalla prudenza e dalla cautela necessari per il riconoscimento della buona fede;
Che, dall’altro lato, se l’esercizio della libertà di espressione è garantito dall’articolo
10.1 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo, esso può, ai
sensi del secondo paragrafo di questo articolo, essere sottoposto a restrizioni e
sanzioni in casi determinati dalla legge del 29 luglio 1881; che tale è l’oggetto
dell’articolo 30 della suddetta legge, che commina una sanzione necessaria in una
società democratica per la difesa dell’ordine e per la protezione della reputazione delle
amministrazioni pubbliche, nella fattispecie la polizia nazionale; »
B. Il diritto interno pertinente
Nella loro stesura in vigore all’epoca dei fatti, le disposizioni pertinenti
della legge del 29 luglio 1881 e successive modificazioni sulla libertà di
stampa avevano questo tenore:
Articolo 29 comma 1
« Ogni affermazione o imputazione di un fatto che rechi offesa all’onore o alla
considerazione della persona o del corpo cui è riferita costituisce una diffamazione.
La pubblicazione diretta o a mezzo di riproduzione di questa affermazione o
imputazione è punibile, anche se fatta sotto forma dubitativa o se riguarda una persona
o un corpo di cui non si faccia espressamente il nome, ma la cui identificazione sia
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resa possibile dai termini dei discorsi, grida, minacce, scritti o stampati, inserzioni o
manifesti incriminati. »
Articolo 30
« La diffamazione commessa con uno dei mezzi enunciati nell’articolo 23 contro le
corti, i tribunali, le armate di terra, del mare o dell’aria, i corpi costituiti e le
amministrazioni pubbliche sarà punita con un anno di reclusione e 300.000 franchi di
multa, o soltanto con una di queste due pene. »
Articolo 41 comma 3 e seguenti
« Non daranno luogo ad alcuna azione per diffamazione, ingiuria o oltraggio nè il
resoconto fedele fatto in buona fede dei dibattimenti giudiziari, nè i discorsi
pronunciati o gli scritti prodotti dinanzi ai tribunali.
Ciò nondimeno i giudici, investiti della causa e chiamati a pronunciarsi nel merito,
potranno ordinare l’espunzione delle affermazioni ingiuriose, oltraggiose o
diffamatorie, e condannare il responsabile al risarcimento dei danni.
Tuttavia i fatti di diffamazione estranei alla causa potranno dar luogo sia all’azione
pubblica, sia all’azione civile delle parti, allorché queste azioni siano state loro
riservate dai tribunali, e, in ogni caso, potranno dar luogo all’azione civile dei terzi. »
DOGLIANZA
La ricorrente sostiene che la sua condanna penale in forza della legge del
29 luglio 1881 sulla libertà di stampa costituisce un’ingerenza ingiustificata
nell’esercizio del suo diritto alla libertà di espressione.
DIRITTO
La ricorrente sostiene che la sua condanna penale in forza della legge del
29 luglio 1881 sulla libertà di stampa costituisce un’ingerenza ingiustificata
nell’esercizio del suo diritto alla libertà di espressione, garantito
dall’articolo 10 della Convenzione. Questa norma recita così:
« 1. Ogni persona ha diritto alla libertà di espressione. Tale diritto include la libertà
di opinione e la libertà di ricevere o di comunicare informazioni o idee senza alcuna
ingerenza da parte delle autorità pubbliche e senza considerazione di frontiera. Il
presente articolo non impedisce che gli Stati sottopongano ad un regime di
autorizzazione le imprese di radiodiffusione, di cinema o di televisione.
2. L’esercizio di queste libertà, comportando doveri e responsabilità, può essere
sottoposto a determinate formalità, condizioni, restrizioni o sanzioni previste dalla
legge e costituenti misure necessarie, in una società democratica, per la sicurezza
nazionale, l’integrità territoriale o l’ordine pubblico, la prevenzione dei reati, la
protezione della salute e della morale, la protezione della reputazione o dei diritti
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altrui, o per impedire la divulgazione di informazioni confidenziali o per garantire
l’autorità e l’imparzialità del potere giudiziario. »
Il Governo riconosce l’esistenza di un’ingerenza nell’esercizio, da parte
della ricorrente, del suo diritto alla libertà di espressione. Tuttavia, sostiene
che tale ingerenza era necessaria e proporzionata al fine legittimo
perseguito.
Ritiene infatti che le affermazioni della ricorrente fossero
particolarmente gravi ed eccessive e che non si fondassero su alcun
elemento di fatto. Secondo il Governo, l’interessata non poteva sostenere in
buona fede che il comunicato stampa oggetto di causa costituisse una
strategia difensiva, benchè le fosse permesso, nella sede del giudizio,
esprimersi sulle condizioni del processo, o denunciarle, anche al di fuori di
questa sede, in termini severi, ma non infamanti per gli apparati dello Stato
incaricati della lotta contro il terrorismo.
Inoltre, il Governo ricorda che, se la Corte riconosce agli avvocati il
godimento della garanzia dell’articolo 10, essa ha pure riconosciuto la
necessità che essi hanno di tenere un certo contegno nell’esercizio della loro
missione, contegno di cui la ricorrente non ha dato prova nel caso di specie.
D’altra parte, il Governo sottolinea l’esiguità della multa alla quale la
ricorrente è stata condannata ed osserva che questa condanna non ha
impedito all’interessata di esercitare liberamente la sua professione.
La ricorrente ritiene di aver subito un’ingerenza nell’esercizio del suo
diritto alla libertà di espressione, che non trovava giustificazione alla luce
del paragrafo 2 dell’articolo 10.
Innanzitutto, osserva che il comunicato controverso è stato pubblicato nel
quadro della difesa del sig. Mohamed Chalabi, del quale lei era difensore, in
occasione di un procedimento penale unanimemente criticato, sia dalle
organizzazioni per la difesa dei diritti dell’uomo che dal consiglio
dell’ordine degli avvocati di Parigi. Secondo lei, le condizioni nelle quali si
è svolto tale processo giustificavano appieno le modalità di difesa impiegate
ed il tenore delle parole incriminate.
D’altronde, la ricorrente ritiene che fosse legittimo da parte sua allertare
l’opinione pubblica sulle condizioni in cui gli imputati del processo Chalabi
erano stati arrestati e posti in stato di fermo. Secondo lei, la tutela della
reputazione della polizia nazionale non deve, in effetti, ostacolare il dibattito
sulle eventuali disfunzioni di quest’ultima. Comunque sia, la ricorrente fa
valere che non si trattava soltanto di criticare la polizia nazionale in quanto
corpo di funzionari, ma, più ampiamente, di volgere uno sguardo critico
sulla politica del governo francese in materia di lotta contro il terrorismo e
sui metodi impiegati dagli apparati antiterrorismo.
Riferendosi alla giurisprudenza della Corte, in particolare alla sentenza
pronunciata nel caso Nikula c. Finlandia (sentenza del 21 marzo 2002,
Raccolta delle sentenze e delle decisioni 2002-II), la ricorrente ricorda che
una restrizione alla libertà di espressione di un avvocato difensore non può
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passare per necessaria in una società democratica, se non in casi eccezionali.
Certo, le parole controverse, contrariamente a quelle che erano in
discussione nel caso Nikula, non sono state pronunciate nella sede del
processo, ma rientravano comunque nell’ambito della difesa penale del suo
cliente, dunque rientravano nell’ambito della garanzia dell’articolo 10.
Per le ragioni sopra esposte, dunque, la ricorrente ritiene che la sua
condanna costituiva una restrizione alla libertà di espressione, che non era
necessaria in una società democratica, nè proporzionata al fine della tutela
della reputazione della polizia nazionale. Secondo lei, quella condanna, cui
aveva fatto seguito un deferimento al consiglio dell’ordine degli avvocati da
parte dell’ufficio del pubblico ministero, aveva in realtà il solo fine di
impedirle di esercitare la sua professione.
La Corte constata che la ricorrente è stata condannata dai giudici penali
ad una multa di 10.000 franchi francesi (circa 1.525 euro) per pubblica
diffamazione nei confronti di un’amministrazione pubblica. L’interessata ha
dunque evidentemente subito una « ingerenza da parte di pubbliche
autorità » nel diritto garantito dall’articolo 10 della Convenzione;
d’altronde, ciò non è contestato.
Una simile ingerenza viola la Convenzione, se non sono integrate le
esigenze previste dal paragrafo 2 dell’articolo 10. Occorre dunque accertare
se essa era « prevista dalla legge », motivata da uno o più fini legittimi ai
sensi del suddetto paragrafo e « necessaria, in una società democratica », per
raggiungerli.
Al pari dei giudici nazionali, la Corte ritiene che l’ingerenza fosse
« prevista dalla legge », ovvero dagli articoli 29, comma 1, e 30 della legge
del 1881 sulla libertà di stampa quali erano formulati al tempo dei fatti, e
che tale ingerenza perseguisse almeno uno dei fini legittimi invocati dal
Governo, ovvero la tutela della reputazione altrui, nel caso di specie quella
degli apparati di polizia incaricati della lotta contro il terrorismo (v., mutatis
mutandis, Thorgeir Thorgeirson c. Islanda, sentenza del 25 giugno 1992,
serie A n. 239, § 59). Rimane da comprendere se l’ingerenza per cui è causa
fosse « necessaria, in una società democratica », questione sulla quale le
opinioni delle parti divergono.
La Corte ricorda che, secondo la sua giurisprudenza, essa è competente a
statuire in via definitiva se una « restrizione » sia compatibile con la libertà
di espressione, che l’articolo 10 tutela. Nell’esercizio del suo potere di
controllo, la Corte non ha affatto per compito quello di sostituirsi alle
giurisdizioni interne competenti, bensì quello di verificare alla luce
dell’articolo 10 le decisioni che esse hanno pronunciato in virtù del loro
potere di valutazione. Non ne consegue che la Corte debba limitarsi ad
accertare se lo Stato convenuto abbia fatto uso di questo potere in buona
fede, scrupolosamente ed in modo ragionevole: bisogna considerare
l’ingerenza per cui è causa alla luce del caso nel suo insieme, per stabilire se
i motivi invocati dalle autorità nazionali per giustificarla appaiano « congrui
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e sufficienti » e se l’ingerenza fosse « proporzionata al fine legittimo
perseguito ». Così facendo, la Corte deve convincersi che le autorità
nazionali hanno applicato delle norme conformi ai principi consacrati
nell’articolo 10 e ciò, per giunta, basandosi su una valutazione accettabile
dei fatti pertinenti (v., da ultimo, Lindon, Otchakovsky-Laurens e July c.
Francia [GC], sentenza del 22 ottobre 2007, § 45, con altri riferimenti).
Trattandosi di violazioni addotte alla libertà di espressione, la Corte presta
particolare attenzione al tenore delle parole rimproverate ai ricorrenti, come
pure al contesto nel quale queste parole sono state pronunciate, in particolar
modo allorchè si tratta di lotta contro il terrorismo (v., fra l’altro, Doganer
c. Turchia, sentenza del 21 ottobre 2004, § 22).
Nella fattispecie, la Corte riconosce che il processo « Chalabi » era
atipico per la sua portata e per le condizioni materiali nelle quali si è svolto.
Rileva che una cinquantina di avvocati difensori ha rifiutato di presenziare
alle udienze e prende atto delle critiche provenienti, in particolar modo, da
organizzazioni operanti nel settore dei diritti dell’uomo e da protagonisti del
mondo giudiziario, come, per esempio, il presidente dell’ordine degli
avvocati di Parigi, che ha denunciato questo « processo di massa ».
Tuttavia, la Corte osserva peraltro che la ricorrente ha scelto, una
settimana dopo l’inizio del processo, di esprimersi per mezzo di un
comunicato stampa – che fu poi parzialmente ripreso da un dispaccio
dell’AFP -, a suo avviso per denunciare le condizioni discutibili
dell’interrogatorio del suo cliente e l’impossibilità di assicurarne la difesa
nel quadro di un equo processo. Ora, il fascicolo sottoposto alla Corte non
contiene alcun elemento che tenda a dimostrare che, in quelle circostanze,
tale modo di esprimersi costituisse per l’interessata l’unico modo di far
valere gli argomenti difensivi che intendeva esporre. Al contrario, la Corte
constata che, da un lato, la ricorrente non ha presentato alcuna eccezione di
nullità durante l’istruttoria e che, dall’altro lato, l’interessata, nel
comunicato per cui è causa, travalica l’ambito della difesa penale del suo
cliente per lasciarsi andare ad una requisitoria generica contro i metodi degli
apparati di polizia e giudiziari coinvolti nella lotta contro il terrorismo.
La Corte non coglie dunque alcuna contraddizione con la sua
giurisprudenza nelle conclusioni dei giudici nazionali, secondo le quali le
parole oggetto di contenzioso, divulgate al di fuori della sede del processo,
non costituivano una « difesa » in senso tecnico, esercitata dinanzi ad un
tribunale, e l’interessata non poteva pretendere di beneficiare dell’immunità
prevista dall’articolo 41 della legge del 1881. Oltre a trattarsi in questo caso,
dopo tutto, di una questione che dipende in gran parte dall’interpretazione
del diritto interno, dunque dall’apprezzamento sovrano dei giudici nazionali,
la Corte ritiene in effetti che questa argomentazione sia coerente con la sua
giurisprudenza, specialmente, a contrario, con la sentenza pronunciata nel
caso Nikula c. Finlandia (già citato), in cui la Corte ha concluso per la
violazione del diritto alla libertà di espressione della ricorrente, avvocato
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difensore, nella misura in cui le critiche di costei nei confronti di un
procuratore « non erano uscite dall’aula di udienza » e « vertevano soltanto
sul modo in cui [il procuratore] aveva adempiuto le sue funzioni nel
processo contro il cliente dell’avvocatessa ».
D’altra parte, la Corte osserva che i giudici interni, ed in particolare la
corte d’appello, hanno giudicato che alcuni passaggi del comunicato
recavano offesa all’onore e alla considerazione della polizia nazionale, in
particolar modo quelli che denunciavano l’impiego di « mezzi terroristi »,
« la pratica delle retate, secondo metodi degni della Gestapo e della
Milizia », o « le violenze e le torture durante i fermi di quattro giorni, sotto
il controllo dei giudici della sezione speciale ». La Corte rileva che la corte
d’appello, dopo essersi dedicata ad un esame approfondito di ciascuno dei
passaggi oggetto di contenzioso, ha poi stabilito che la ricorrente non aveva
soddisfatto il suo onere della prova, cosicchè l’esimente della buona fede
non poteva esserle riconosciuta, e che l’interessata si era espressa in modo
parziale e vendicativo, senza la minima prudenza o moderazione.
In generale, la Corte ritiene che l’esame di questo comunicato da parte
dei giudici di primo e di secondo grado abbia consentito di valutare
chiaramente il tenore delle parole pubblicate, in particolar modo rispetto alle
critiche fatte pubblicamente sullo stesso processo da parte dell’ordine degli
avvocati o di altre personalità pubbliche. Al pari dei tribunali nazionali, la
Corte ritiene che alcune espressioni scelte dalla ricorrente abbiano superato i
limiti imposti dal corretto svolgimento del confronto di idee.
Per la Corte, il carattere eccessivo e la mancanza di un fondamento in
fatto delle parole per cui è causa sono aggravati dal fatto che tali parole
provengono da un avvocato. In effetti, pur riconoscendo a questa
professione il godimento delle garanzie dell’articolo 10, la Corte ha a più
riprese sottolineato che il loro statuto specifico colloca gli avvocati in una
posizione centrale nell’amministrazione della giustizia, come intermediari
tra le parti e i tribunali, ciò che spiega le norme di condotta imposte in via
generale ai membri della categoria forense. Avuto riguardo al ruolo chiave
degli avvocati in questo settore, ci si aspetta da loro che contribuiscano al
buon funzionamento della giustizia e, quindi, alla fiducia delle persone nella
stessa (Amihalachioaie c. Moldavia, n. 60115/00, § 27, CEDU 2004-III,
Nikula, cit., par. 45, e Schöpfer, cit., §§ 29-30, e altri riferimenti). Nel caso
di specie, la Corte ritiene che la ricorrente non abbia dato prova della
moderazione e della dignità richieste ai rappresentanti di questa professione
(Casado Coca c. Spagna, sentenza del 24 febbraio 1994, § 46).
Le parole della ricorrente riguardavano specificamente gli apparati
dello Stato incaricati della lotta contro il terrorismo. A tale riguardo, la
Corte ricorda che le autorità di uno Stato democratico devono tollerare la
critica, anche quando essa può considerarsi provocatoria o insultante (v., in
particolare, Castells c. Spagna, sentenza del 23 aprile 1992, , p. 23, § 46), e
che i limiti della critica ammissibile possono in certi casi essere più estesi
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per i funzionari che agiscono nell’esercizio dei loro poteri che non per i
semplici privati (Nikula, cit., § 48). Ciononostante, la Corte riconosce alle
autorità competenti degli Stati la facoltà di adottare, nella loro qualità di
garanti dell’ordine pubblico, delle misure, anche penali, preordinate a
reagire in modo adeguato e non eccessivo a simili parole o ad accuse
diffamatorie prive di fondamento o formulate in mala fede (v. in particolare
Castells, cit., op. cit., e Incal c.Turchia, sentenza del 9 giugno 1998,
Raccolta 1998-IV, p. 1568, § 54).
Nella fattispecie, considerando il carattere ingiurioso per la polizia
nazionale delle dichiarazioni della ricorrente ed il fatto che esse sono state
divulgate pubblicamente a mezzo stampa, la Corte ritiene che l’applicazione
di una sanzione penale alla ricorrente fosse legittima, tanto più che, se
l’ammontare della multa non è trascurabile, non lo si poteva comunque
considerare eccessivo. Per la Corte, tale sanzione contenuta, che per giunta
non ha avuto alcuna ripercussione sull’attività professionale della ricorrente,
ha costituito una risposta non sproporzionata alle parole dell’interessata.
In definitiva, avuto riguardo al tenore del comunicato oggetto di
contenzioso, alla qualità di avvocato della ricorrente e al carattere modico
della multa, la Corte giudica l’ingerenza per cui è causa proporzionata al
fine perseguito, e ritiene che i giudici nazionali abbiano giustificato tale
ingerenza con motivazioni « pertinenti » e « sufficienti ».
Ne discende che la doglianza della ricorrente è manifestamente
infondata e deve essere rigettata ai sensi dell’articolo 35, §§ 3 e 4, della
Convenzione. Di conseguenza, è opportuno porre fine all’applicazione
dell’articolo 29, § 3, della Convenzione e rigettare il ricorso.
Per questi motivi, la Corte, con voto a maggioranza,
Dichiara il ricorso irricevibile.
Santiago Quesada
Cancelliere
Boštjan M. Zupančič
Presidente
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