Appunti e spunti dalla conferenza europea di FEANTSA a Bruxelles

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Appunti e spunti dalla conferenza europea di FEANTSA a Bruxelles
Appunti e spunti dalla conferenza europea di FEANTSA a Bruxelles
Le conferenze europee che FEANTSA organizza ogni anno sono sempre dei momenti
importanti di confronto, scambio e dibattito. La conferenza è costruita su due giorni, come
una sequenza di visite studio (solitamente il giovedì), sessioni plenarie e workshop su
tematiche dedicate. Considero questi momenti aperti organizzati da FEANTSA come
preziose opportunità di incontrare persone interessanti, da cui e con cui ricevere
suggestioni durante i vari momenti di lavoro; sono inoltre l'occasione per incontrare e
sviluppare nuovi pensieri e riflessioni. A causa di una serie di ritardi aerei, quest'anno ho
potuto unirmi unicamente al secondo giorno dell'edizione 2016, partecipando ai lavori del
venerdì e rinunciando all'intera giornata di giovedì. Sin dalla mia prima partecipazione, ho
trovato il mio modo per vivere questi incontri: la condivisione di riflessioni, suggestioni e
discorsi apre alla creazione di nuovi pensieri e discorsi che nascono e si sviluppano nei
giorni e nelle settimane seguenti. Anche quest'anno a Bruxelles ho adottato lo stesso
approccio, raccogliendo i discorsi in appunti che condivido dopo averli fatti sedimentare e
macerare per alcuni giorni, dopo averli riorganizzati come forma pensiero suddividendo i
temi in singoli discorsi.
La sessione plenaria, ovvero il discorso della competenza.
Le “capacità” e le “competenze” sono considerate spesso come bastanti per se stesse.
Per evitare di generare in-avvertiti solipsismi, conviene procedere con un'analisi dei
bisogni iniziali e della domanda di cura, proponendo un approccio olistico verso le persone
a cui la cura è offerta, capace di un'apertura al discorso dell'altro e a dove il suo dirne
possa condurre all'interno di una cornice definita di contesto. Come conclusione di un
processo, non potrà mancare una precisa verifica dei risultati netti.
Il percorso delle “capacità e competenze” ha una valenza però soprattutto interna, per
diversi motivi. In ogni dinamica relazionale, il punto del discorso è sempre centrato sulla
significazione che ogni soggetto fa di ciò che viene detto. Il fulcro della questione è una
doppia domanda: “quali capacità per quali competenze?”.
Come spesso mi capita di ricordare nel mio lavoro con i gruppi, l'ambito che ci compete è
l'analisi dell'esercizio della competenza, ovvero il dirne qualcosa delle modalità con cui
singolarmente utilizziamo la nostra competenza, lasciando da parte la dimensione della
volontà e delle intenzioni, e centrandosi sul netto. Vedere l'esercizio della competenza
consente di evidenziare le dinamiche potere-correlate. L'esperienza dimostra che,
specialmente quando l'esercizio della competenza viene negato o forcluso, l'intervento
relazionale e organizzativo si trasforma da attività di competenza a movimento autocentrato e auto-referenziale. Questo movimento può essere più o meno consapevole; in
entrambi i casi, è un movimento che risponde ad una decisa domanda narcisista: l'intera
relazione è, deve essere, di una qualche utilità per il soggetto.
All'opposto, un esercizio della competenza svolto con onestà intellettuale sulle modalità
con cui capacità e competenza vengono utilizzate, consente all'operatore della cura di
liberare energie, attenzioni e curiosità per l'altro, e per essere di una qualche utilità per la
persona di cui ci si prende cura.
Il grado di intimità e di trasparenza che si può creare all'interno della relazione di cura sarà
allora una naturale conseguenza al netto dell'onestà e della applicazione di questa
specifica posizione di apertura all'altro.
La sessione plenaria, ovvero il discorso dell'economia.
La dimensione economica è spesso la cartina di tornasole di ogni dibattito sociale.
Le persone possono infatti passare interminabili sessioni di approfondimento su come
rendere il mondo migliore. Senza un'analisi approfondita delle determinanti economiche
che sottostanno all'esclusione, alla povertà e/o alla fame, ogni discussione risulterà anche
politicamente corretta, ma pretenziosa.
Per ragionare di cambiamenti reali, bisogna iniziare ad affrontare la realtà, a partire dalle
determinanti economiche e sistemiche.
Affrontare la centralità delle dimensioni economiche che determinano la povertà,
l'esclusione sociale e la fame, non significa assumere l'economia come punto di
riferimento. Significa unicamente essere onesti e sufficientemente seri nel predisporre un
approccio pragmatico che sostituisca gli spot promozionali e le buone intenzioni, e la loro
inconsistenza.
Qualche tempo fa, a margine di un seminario aperto, una persona mi disse che se fosse
stato accantonato un centesimo di euro per ogni parola spesa intorno alla povertà e
all'esclusione sociale, queste sarebbero state sradicate ormai da anni, e coloro che
continuano a parlarne avrebbero dovuto dedicarsi ad altro. Interessante pensiero, che
rimette al centro il pragmatismo e l'analisi dei risultati netti delle politiche. Senza la verifica
dei risultati netti, il dibattito continuerà, e povertà ed esclusione continueranno ad essere i
fratelli depressi della democrazia.
Non c'è nulla di complicato nell'applicare il vecchio adagio di economia domestica per cui
prima di iniziare una qualsiasi attività, si fa la lista della spesa sulla base dei soldi a
disposizione e del risultato che si vuole ottenere.
In mancanza di questa basica regola che tutti conosciamo, immancabilmente si crea una
distanza crescente tra parole e azioni, e, peggio, aumenta la voragine tra azioni e risultati
netti. Eccesso di pessimismo? Sarà …
“To eradicate extreme poverty & hunger” è il primo obiettivo della Millennium Campaign,
lanciata dalle Nazioni Unite nel 2000 e che doveva portare il risultato entro il 2015.
La “Post-2015 Development Agenda” ci proietta verso il 2030.
“Eradicate extreme poverty” è stato uno slogan per la strategia di Lisbona, lanciato nel
2000 e che doveva portare risultati entro il 2010. Nel 2005 è stato rivisto, e reinserito nella
nuova Strategia di Lisbona l'obbiettivo “Ending homeless”, che ha anche definito il 2010
come anno europeo “for Combating Poverty and Social Exclusion”.
Nel 2010 è iniziato un nuovo percorso all'interno della strategia decennale “Europa 2020”,
che si pone l'obbiettivo di liberare 20 milioni di persone dalla loro condizione di povertà
entro il 2020. La storia continua …
Fintanto che mancheranno o rimarranno vaghe le determinanti politiche ed economiche, e
l'analisi dei risultati rimarrà un'opzione, tutto slitterà a interessanti approfondimenti da
condividere in ambienti confortevoli per chi vi partecipa, ma non cambierà sostanzialmente
nulla per chi vive in strada o è sotto minaccia di sfratto.
Anzi, paradossalmente, il processo rischia di ridursi al seguente sillogismo:
→ mettere in discussione le determinanti e le cause economiche, e le responsabilità
politiche e sistemiche, che sottostanno alla povertà non è propriamente
considerato “politicamente corretto”, ne quantomeno “politicamente efficace”
→ viceversa, è “politicamente corretto” e “politicamente efficace” disegnare arabeschi di
innovazione per l'innovazione, arricchita da colorate uova di Colombo
→ al posto di programmi di investimento reale e sistematico basati su prevenzione,
soluzioni individuali e analisi degli impatti, si tende a parlare di ciò che ci si trova
dinanzi
→ i risultati nel frattempo sono un incredibile e drammatico percorso:
➥ a fronte di una crisi generata dalle banche, un numero di persone molto grande
ha perso il lavoro, e, di conseguenza, la propria fonte di sostegno
economico;
➥ senza più possibilità di onorare i mutui, un numero impressionante di sfratti
hanno portano un numero enorme di persone a perdere la loro casa;
➥ le case tornano in possesso esclusivo delle banche che hanno creato la crisi, e
che reimmettono sul mercato le case di cui si sono re-impossessati in
vendita e in affitto
➥ parte dei surplus del guadagno delle banche deve essere per legge destinato
alle fondazioni bancarie che finanziano bandi contro la povertà e
l'esclusione sociale
Se questo ciclo non fosse così drammatico per le migliaia di persone che lo vivono su
base quotidiana, meriterebbe un premio per la miglior strategia di pulizia della coscienza
collettiva.
Un workshop dedicato, ovvero un discorso sui migranti.
A metà degli anni novanta capitava spesso di sentire nei diversi scenari europei che la
condizione della grave marginalità sociale stava radicalmente cambiando per causa dei
migranti provenienti dai paesi dell'ex-patto di Varsavia. All'epoca spesso c'era chi diceva
che la provenienza di tante persone da paesi non-UE, avrebbe costretto a rivedere le
politiche di contrasto della grave marginalità per via dei migranti extra-comunitari.
Nei 15 anni che seguirono, accaddero due cose: gli stati dell'est divennero membri della
Comunità Europea, ricevendo ingenti somme di denaro per migliorare le condizioni di vita
adeguandole agli standard occidentali.
In quegli stessi anni, il mercato unico si ampliò e trovò una sistemazione redditizia per quei
flussi di persone, trasformati in mano d'opera pronta all'uso.
Altri 5 anni e dove c'era stato il maggior beneficio di questa situazione, scoppiò la crisi: tutti
abbiamo visto il collasso delle banche per la bolla immobiliare e speculativa, il loro
successivo salvataggio e le misure di austerità subitaneamente introdotte.
Oggi capita di sentire che i rifugiati e i migranti extra-comunitari stanno radicalmente
cambiando il dibattito sulla povertà e la grave marginalità.
Può capitare di avere l'impressione di una certa ripetizione, con l'unica differenza della
provenienza degli attori principali, quasi un ritornello “mamma mia, here we go again / how
can I resist you”?
Spesso ripeto come la realtà abbia una caratteristica inconveniente: esiste.
Cosa è cambiato nella sostanza e nel merito (ovvero al netto) in 15 anni di discorsi? Sono
cambiati alcune aggettivazioni, passando da un flusso di migranti “extracomunitari
provenienti dall'est europeo non ancora Eu”, ad un flusso di migranti e “rifugiati provenienti
da paesi non europei”.
La differenza sembra risiedere nella condizione di essere “non-europeo”. Ridurre il
discorso ad una questione di confini porta il dibattito verso una pericolosa deriva di
confronto etnico. Noi contro loro. Europei contro ex-colonie. Sarebbe un'affermazione
davvero imbarazzante per ogni auto-proclamata democrazia in un mondo globale.
Cosa accomuna i migranti dell'est-europa degli anni '90 con i rifugiati dei nostri giorni è
l'essere considerati loro (in quanto persone, individui, gruppi) l'aggettivazione su cui pesa l'
homelessness. È un movimento importante: il cambiamento è su chi cambia lo scenario, o
altrimenti detto, sul colore e sulla provenienza geografica.
Mentre i problemi rimangono tali e quali, anche l'indicibilità delle cause sistemiche ed
economiche che sono la causa di povertà, migrazioni ed esclusione rimangono uguali a se
stesse. Le banche continuano a fare il loro lavoro. La finanza continua a fare il proprio
lavoro. Le multinazionali continuano a fare il loro lavoro. I governi e le istituzioni
continuano a fare il loro lavoro. Il terzo settore continua a fare il proprio lavoro. I poveri, i
rifugiati, gli esclusi … la matematica ci insegna che il risultato non cambia se l'unica cosa
che cambia è l'ordine dei fattori.
Un workshop dedicato, ovvero un discorso su reciprocità e coproduzione.
Come mi capita spesso di condividere, se non si cambia nulla, se non si mettono in
discussione le cause strutturali, ma solo i sintomi e gli effetti di un fenomeno, nessun
cambiamento è sperabile.
Se in generale una serie di interventi di contrasto alla povertà non producono risultati netti
sostanziali, ci sono sostanzialmente due possibilità.
La prima è dare la responsabilità, e spesso la colpa, alle persone di cui ci si dovrebbe
prendere cura. Purtroppo accade spesso. La seconda possibilità è di mettere in
discussione la posizione, l'approccio, le pratiche e l'apertura di chi è operatore del
prendersi cura. Se possiamo operare un cambiamento nella nostra struttura interna, allora
anche nella struttura esterna saranno possibili cambiamenti altri, e dell'altro.
Quando mi trovo a lavorare per supportare gruppi e organizzazioni a raggiungere risultati
netti diversi, preferisco iniziare mettendo in discussione il ruolo strutturale del gruppo
stesso, le sue dinamiche interne ed esterne, affrontandone il funzionamento, l'equilibrio, i
pregiudizi, i ranghi interni, il clima. La ragione è semplice: è la struttura a determinare un
sintomo, mentre un sintomo fa sempre riferimento alla sua struttura.
Non è nulla di complicato: quando un bambino ha la febbre (sintomo), la questione è se
sia un sintomo di un semplice raffreddore (causa strutturale), oppure se sia il primo
sintomo di un'infezione (altra causa strutturale). Se come genitore mi fermo a trattare la
febbre come realtà a se stante, rischio che l'infezione peggiori e la situazione si aggravi.
Ogni genitore sa che la questione vera non è la febbre, ma cosa la causi. Non il sintomo,
ma la struttura. Non penso ci siano motivi accettabili per cui prendersi cura di un bambino
sia diverso dal prendersi cura di un'altra persona.
Ci sono diversi approcci, strumenti e metodi che permettono gli operatori della cura di
mettere in discussione la propria posizione come punto di partenza. A seconda delle
diverse categorie professionali, questo può assumere sfumature ed evidenze diverse.
È il discorso delle dinamiche transferali e controtransferali: ogni psicologo clinico sa che
sono la significazione di un discorso di cura.
È il discorso della gestione delle emozioni, letta in chiave di resilienza e/o di empatia: ogni
educatore sa che sono imprescindibili nella costruzione di un percorso di reinserimento.
È il discorso dell'avere diritto a determinare la propria vita e i propri cambiamenti: ogni
persona che cura o di cui ci si prende cura sa che se non siamo noi i pieni soggetti del
cambiamento, se qualcosa cambia, è solo adattamento temporaneo. Ogni persona che
cura o di cui ci si prende cura sa che per essere soggetti del cambiamento è necessario
che esista uno spazio logico, reale e simbolico che permetta il riconoscimento dell'altro, la
dignità, il rispetto, la responsibilità, una reciprocità dinamica.
Alle équipe con cui lavoro propongo ogni volta che mi è possibile un approccio olistico,
esistenziale e partecipato nell'ambito del prendersi cura. La partecipazione e i principi
della co-costruzione ne sono un valido strumento, specialmente all'interno dei servizi
sociali ed educativi; con semplicità ed efficacia diventa possibile:
- riconoscere gli individui come soggetti competenti
- far partire ogni discorso dalle competenza delle persone
- imparare a condividere l'assunzione delle responsabilità, lasciando la responsabilità al
soggetto della cura
- aprire alle competenze pratiche dei pari inserite all'interno di una struttura formativa e
in riferimento al professionista
- essere estremamente attenti ad evitare ogni forma di trappola relazionale legata alle
dinamiche di potere
Questi principi non sono nuovi: a partire da Vygotskij, la gestalt e il costruttivismo fino
all'approccio esistenziale al lavoro clinico sono state scritte pagine importanti sulla co-
costruzione come struttura fondante ogni serio intervento di cura.
Per rimanere in generale sull'ambito di intervento dei servizi di cura, potremmo iniziare a
vedere i tre principali livelli di co-produzione:
- descrittivo: una forma base nei servizi avviene quando l'intervento è individualizzato
secondo un approccio clinico, olistico ed esistenziale, ma le attività che vengono
condivise non vengono rediscusse, e non concorrono alla ridefinizione del servizio.
A questo livello, la co-produzione non è esplicita: ne consegue che le persone che
beneficiano del servizio non vengono formalmente riconosciuti come pieni soggetti
del cambiamento, che rimane iscritto alle virtù educative, riabilitative e
taumaturgiche del servizio stesso
- intermedio: all'interno del percorso di cura, il riconoscimento la dignità e il rispetto
definiscono la struttura della reciprocità del processo. A questo livello, la coproduzione inizia ad essere esplicita attraverso il riconoscimento della centralità
vera del soggetto della cura, che partecipa, per esempio, alla definizione degli
standard di servizio e nella scelta dei professionisti con cui lavorare
- trasformativo e generativo: all'interno della complessità dei percorsi e dei processi di
cura, le persone sono riconosciute formalmente come i primi soggetti che possono
dirne qualcosa del proprio percorso. A questo livello, la co-produzione è
sostanziale, esplicita e pervasiva attraverso il riconoscimento della piena
soggettività della persona, con la piena attuazione delle competenze e dei diritti che
ne derivano.
Dato che il variegato universo di chi si prende cura è composto da differenti
professionalità, che ad ogni tipologia di intervento e ad ogni categoria di professionisti
corrisponde un diverso tipo di contratto con i soggetti della cura, cercherò di mantenere il
discorso sul piano più semplice possibile: l'uguaglianza è reale unicamente su un piano
esistenziale. Ogni altra forma dice qualcosa dei pregiudizi, delle aspettative e del livello di
narcisismo del prestatore della cura.
Proprio come accade per ognuno di noi, tutte le persone hanno più probabilità di affrontare
un cambiamento quando questo è centrato sul riconoscimento della responsabilità
individuale, piuttosto che non in un'assunzione di colpa.
È fondamentale strutturare l'intervento di cura a partire dalla dignità e dal rispetto della
responsabilità che viene determinata autonomamente dal soggetto. Qualsiasi strada
venga percorsa, è significativa, e può essere significata, unicamente a partire da chi la sta
percorrendo. L'intervento valutatorio esterno rischia di distrarre dal processo individuale,
dal momento che il focus non è un contendere su chi abbia ragione, ma un accogliere e un
significare in cui chi presta la cura interviene come facilitatore, non come comandante.
Giocando sulla grammatica, si può dire che il soggetto è la persona che porta la domanda
di cura, mentre il professionista si porrà come uno tra gli oggetti della cura stessa.
Quando mi viene richiesto di prendermi cura di una persona, o di un gruppo, ripeto sempre
come io non possa conoscere molto delle persone con cui lavoro, ma che sono a
disposizione per accompagnarle in un loro percorso che li conduca a trovare le loro
risposte, e che mi guarderò bene dal fornire le mie al posto loro.
Un workshop dedicato, ovvero un discorso sulla differenza tra bene-essere e
bisogni.
Ogni processo di cura dovrebbe avere come assunto il bene-essere, ovvero un livello di
qualità esistenziale che supera di gran lunga la mera soddisfazione dei singoli bisogni.
Il bene-essere di-svela alle persone con cui lavoriamo la possibilità di accedere ad una
dimensione propria, individuale, esistenziale, di pacificazione con la propria storia
(individuale, familiare e transgenerazionale), di ridefinizione della propria forma, di
riscoperta delle proprie risposte e di tutto ciò che non si sapeva sapere, di ascolto delle
mancanze e dei desideri, di riappropriarsi del senso più profondo della propria vita.
Il bene-essere implica il superamento dell'orizzonte del godimento, e l'apertura all'eros.
Un percorso di cura con questi presupposti è un inizio, non un traguardo. Il processo sarà
disseminato di trappole relazionali, una delle quali ha proprio a che fare con la
responsabilità.
È uso comune sentire l'espressione “condividere le responsabilità”. Questa frase mi è
sempre suonata bizzarra. Se venisse applicata a noi, probabilmente reagiremmo in modo
deciso ogni qual volta un altro da noi provasse ad inserirsi nella sfera della nostra
responsabilità per prenderne una parte da condividere. Quando all'università passiamo un
esame con un buon voto, la responsabilità è nostra. Se qualcuno ci dicesse che è grazie
ai consigli altrui, probabilmente risponderemmo piccati. Sembrerà incredibile, ma funziona
così per chiunque, anche per le persone di cui ci prendiamo cura.
La responsabilità può essere assunta solo in termini individuali. È invece possibile
condividere questa assunzione, e gli accordi che ne conseguono sono gli unici che
possono essere condivisi in reciprocità e mutualità.
Infine, un'immagine per chiudere questi appunti. È l'immagine dell'ingenuità.
Quell'espressione che a volte compare sui volti, e che spesso ha una funzione
consolatoria, a volte in parte assolutoria. Come mi ricordava anni fa una persona con cui
lavoravo, l'ingenuità è un lusso che si può permettere solo chi non debba combattere
contro i demoni propri e altrui per garantirsi la sopravvivenza giornaliera. All'opposto, c'è
l'immagine di chi offre la propria professionalità nella cura, fermandosi rispettosamente
dove inizia l'altro, senza bisogno di forzare: se fossimo onesti e attenti, vedremmo che un
cambiamento sta già accadendo.
Nota:
Forse è un segno dell'età, ma sono sempre più convinto che nel lavoro di cura, che implica sempre un
autorizzarsi responsabile rispetto alla propria competenza, al processo e all'approccio scelto, sia
fondamentale una seria formazione. Così, per chi volesse approfondire:
- sul tema della partecipazione, le guide pratiche sviluppate dal gruppo Partecipazione di FEANTSA:
Get a different result...get people participating, disponibile in English, Catalan, French, German, Polish,
Spanish (in fase di traduzione in italiano)
Redistributing the Power, disponibile in English, French, Dutch, Polish, Spanish e German
Empowering Ways of Working, disponibile in English e French
- sul tema della co-produzione:
Co-production in social care: what it is and how to do it, 2013
Appari P., Il laboratorio come luogo di co-costruzione della conoscenza, 1999
Galbusera L. & Fuchs T., Comprensione incarnata: alla riscoperta del corpo dalle scienze cognitive alla
psicoterapia, 2013
Galbusera L. & Fuchs T., Embodied understanding: discovering the body from cognitive science to
psychotherapy, 2013
Galimberti U., Psiche e techne, 1999
Mattei S., La co-costruzione del contenitore dialogico,
Miato L., La teoria Vygotzijana, 2004
Luglio 2016, Paolo Brusa
link per la bio: www.paolobrusa.it