i masalìn mantovani

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i masalìn mantovani
SANTE BARDINI
i masalìn
mantovani
Gli artisti di un mondo rusticale che va scomparendo
Memorie, curiosità, immagini, ricette della maialatura nel nostro contado
Con il patrocinio
Comune Guidizzolo
Città di Castiglione delle Stiviere
Comune di Ceresara
Comune di Cavriana
Città di Castel Goffredo
Pro Loco Guidizzolo
Pro Loco Voltese
Pro Loco Cavriana
Pro Loco Sordello Goito
Associazione Postumia
Gazoldo degli Ippoliti
Ente Filarmonico Guidizzolo
GAL Colline Moreniche del Garda
Amici di Rebecco
Gruppo Micologico “Colli Morenici”
Gruppo Alpini Guidizzolo
Circolo ANSPI Gozzolina
SANTE BARDINI
i masalìn
mantovani
Gli artisti di un mondo rusticale che va scomparendo
Memorie, curiosità, immagini, ricette della maialatura nel nostro contado
Fotografie di Daniele Sinico
Fotografie copertina, inizio capitoli e “Sequenza
di una maialatura mantovana” di Andrea Dal Prato
L’autore ringrazia:
Andrea Dal Prato, direttore della rivista “la Notizia”, per avere concesso le immagini
relative alla sequenza della maialatura, per i costanti, amichevoli incoraggiamenti e
per il suo fondamentale apporto alla organizzazione editoriale del lavoro.
Daniele Sinico per le fotografie dei masalìn intervistati e per essere stato cordiale
compagno di viaggio nel girovagare per tutta la provincia.
Zeno Roverato, maestro masalìn, per i suoi preziosi suggerimenti sulla maialatura
nella terra mantovana.
Tutti i masalìn e gli altri informatori che hanno fornito notizie dirette e memorie
importanti su questa particolare scansione della nostra vita contadina.
Ringrazia inoltre:
Dott. Prof. Maurizio Castelli, assessore all’agricoltura dell’Amministrazione
provinciale di Mantova. Dott.ssa Federica Guidetti, Museo del Polirone di San
Benedetto Po (MN). Dott.ssa Daniela Ferrari, Archivio di Stato di Mantova. Dott.
ssa Elena Montanari, della Biblioteca Baratta di Mantova. Dott. Marco Montesano,
Guidizzolo (MN). Dott. Alberto Guidorzi, Sermide (MN). Renato Burato, Fossato
di Rodigo (MN). L’Accademia Gonzaghesca degli Scalchi. Maria Dalboni, moglie
dello scopritore del sito etrusco del Forcello, Bagnolo San Vito (MN). Dott.ssa
Francesca Rizzini, Amministrazione provinciale di Mantova. Sen.Carlo Grazioli,
Mantova. La Biblioteca di Goito. Prof.ssa Giuse Pastore, Mantova. Dott.ssa Carla
Maturi, direttrice della Biblioteca di Pinzolo (TN).
Per la collaborazione grafica: Claudia Dal Prato Design Studio - Guidizzolo.
L’editore ringrazia:
quanti hanno agevolato con piena disponibilità il suo compito, in particolare: Graziano
Pelizzaro, Annalisa Cappa, Gianfranco Ruffoni, Primo Onofrio, Diego Avesani.
Ringrazia altresì:
tutte le Amministrazioni Comunali, le Associazioni e le ditte private che, con il loro
contributo economico, hanno reso possibile la pubblicazione: Azichem s.r.l. (Goito),
Centro Computer (Cremona), Agriturismo Corte Pompilio (Roncoferraro),
Europneus di Alessandro Cargnoni, FM Elettronica, Furio geom. Sandro, Gandini
Meccanica, Lucchini Idromeccanica, Ristorante La Baita (Cavriana), Tomasi Auto.
Prefazione
Questo libro di Sante Bardini - autore di altri saggi di sociologia rurale analizzata sotto
il profilo dei “mangiari” tradizionali - ci consente di conoscere un nuovo e singolare
aspetto della tematica che gli è cara: i masalìn mantovani.
Alla lettura appare immediato il grande amore per la sua terra che lui complessivamente
definisce “mantovanità”. Con penna leggera, venata da sottile ironia ma capace anche
di scrupolosi approfondimenti culturali, ci porta a rivisitare l’antica realtà del mondo
contadino, a conoscerne risvolti particolari ed a meditare sui suoi valori.
Oggi siamo affascinati dalla modernità ricca di intriganti suggestioni e perciò stesso
tendiamo a rimuovere le dolorose memorie di un’esistenza fatta di miserie, di sacrifici
e rinunce. Tempi difficili ma, alla fine, non del tutto negativi in quanto è proprio nelle
difficoltà che si forgiano i valori dell’uomo.
Il libro di Bardini è anche un’amabile sollecitazione a non dimenticare una storica e
benemerita categoria di artigiani, “artisti” del contado, i quali si sono dati da fare da
un secolo all’altro per rendere meno misero il desco familiare.
Oltre al rigore storico, alla vastità dell’indagine, alle numerose ricette originali
raccolte, alle descrizioni accurate della maialatura ed al concorso sempre evidenziato
delle donne di casa, sono da apprezzare le valutazioni di carattere umano della
ricorrenza. Pur nelle difficoltà del lavoro e lo stringimento costante della fame, si
godeva la semplice gioia festosa di un giorno al quale non era esclusa la felicità di una
tavola finalmente abbondante.
I più attenti fra i lettori coglieranno certamente anche il rammarico dell’Autore per
il riprovevole oblìo nel quale è caduta l’arte di far sö al pursèl nella nostra terra.
Lamenta, giustamente, che stiamo disperdendo un patrimonio di esperienze popolari
assolutamente unico. Esso trae certamente da un’antico ed amorevole rapporto della
gente del contado con la propria terra ma anche da una intelligente scelta della famiglia
Gonzaga.
Era questa una dinastia di alto lignaggio nell’Europa di quei tempi, con dimore
ricche di ragguardevoli opere d’arte ma, alla fine, anche di gusti piuttosto semplici
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nei mangiari di ogni giorno. Per sorvegliare e governare i loro possedimenti avevano
palazzi, affidati ai rami cadetti, sparsi in quasi tutti i più importanti centri della
provincia. I cuochi erano individuati in ambito locale tra coloro, uomini e donne,
che avevano singolari abilità ai fornelli. Nel tempo avveniva dunque uno scambio
di esperienze, una osmosi tra la cucina padronale e quella della campagna che ha
portato la nostra terra a possedere un patrimonio gastronomico invidiabile, superiore
certamente a quello di altre regioni.
Mi compiaccio di presentare questo libro anche perché mi è gradita l’occasione di
evidenziarne le rilevanti potenzialità commerciali che sono legate al recupero della
honesta voluptate mantovana.
Il nostro Paese è sempre più alla ricerca della qualità e questa si realizza soprattutto nel
genuino quotidiano. Abbiamo le carte in regola per dimostrare, ancora una volta, di
essere dei depositari privilegiati sul tema suggestivo della tavola sapiente e deliziosa.
Il saggio sui nostri masalìn non va dunque affidato alla polvere dello scaffale ma va
letto con devota attenzione.
Andrea Dal Prato
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Presentazione
La mia attività professionale comporta un contatto costante con la legislazione finanziaria, con le pratiche amministrative e tributarie e con i bilanci.
Con le scartoffie, insomma.
Va da sé che tale impegno lo affronto con entusiasmo e interesse perché, dopo tanti
anni, ancora mi appassiona e mi coinvolge nonostante le molte complessità proprie
del mestiere legato alla realtà quotidiana, oggi più che mai, irta di insidie e difficoltà.
Nel contesto di un’attività inesorabilmente sempre più coinvolgente e frenetica, ogni
tanto, sento la necessità di ritemprare la mente e lo spirito con qualcosa che mi tocchi
e mi intrighi in una mia antica passione: il mondo contadino ed i suoi mangiari.
Cosa c’è allora di più confortante, sereno e distensivo di un incontro amicale tra vecchi sodali toccati ab imo pectore dallo stesso fervore? Cosa può superare in cordiale
felicità un desco guarnito da un piatto di affettati di sana e robusta costituzione fisica,
distinto da rigorosa genesi contadina, ben guarnito da qualche bottiglia impettita e
maliziosa. Questi sani ingredienti creano così un perfetta combinazione che diviene
ben presto strumento ineludibile per liberare una conversazione sincera, senza insidie,
su temi diversi del nostro quotidiano più intimo e più vero.
Una fetta di salame coscienzioso ha il merito di riportarci a tempi passati, direi addirittura alla nostra infanzia, di evocare il sentimento scomparso dell’autenticità, quella
che nasceva da un contesto povero sino alla miseria - si mangiavano i malfacc fatti
con el pamòi, le erbe spontanee di campagna che dunque non si comperavano – ma
dove tutto era franco e genuino e solidale. Ed il pane era pane.
Ringrazio il prof. Sante Bardini per il pregevole lavoro di ricerca svolto. Mi riconduce da una parte alla mia adolescenza e mi rinfranca dall’altra nel presente. Come
ho detto, di tanto in tanto infatti mi diletto ancora ad impugnare la coltellina lunga e
sottile, a munirmi di un tagliere dalle venature vecchiotte e ad affettare con la stessa
ieraticità con cui si officia un rito. Molto spesso sono attorniato da un gruppo di amici
sinceri che seguono la svolgimento della liturgia anche se con un distacco che è solo
apparente.
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Mi fa piacere che nel libro sia ricordata la città di Castiglione delle Stiviere, e la
frazione di Gozzolina. Qui i masalì (noi lo diciamo così, alla bresciana) sono molto
attivi, particolarmente numerosi e devoti all’osservanza (c’è un che di francescano nel
loro agire).
A Gozzolina, infatti, sono stati recentemente organizzati degli incontri ‘spirituali’ per
la condivisione di competenze, esperienza e orgoglio localistico con l’auspicio che si
possa ben presto giungere alla stesura di un disciplinare che detti i canoni di produzione del salame tipico dell’Alto Mantovano.
Cosa dire poi delle coppe, delle pancette, dei cotechini e di altre mirabilia locali.
Credo infine che lo sforzo del prof. Bardini vada particolarmente apprezzato perché,
raccogliendo e commentando le testimonianze di questa affascinante arte rurale, egli
intende preservare e tramandare il messaggio forte e genuino di una attività tipica
contadina che tanto ha caratterizzato il nostro territorio.
In conclusione, trovo acconcio parafrasare il troppo spesso dimenticato Leopardi:
“… Così tra questa immensità s’annega il pensier mio: e il naufragar m’è dolce in
tanto ben di Dio”.
Marco Montesano
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Introduzione
La civiltà contadina va scomparendo. Insidiata dalla industrializzazione, snaturata
dalla chimica, vessata e stuprata dalle ferree leggi dell’economia della società contemporanea tesa, per definizione, all’avere più che all’essere, vive da tempo un’agonia
irreversibile.
Per la apatia morale che ci condiziona non ci stiamo accorgendo che valori essenziali
- ai quali ci siamo tutti formati - si stanno inesorabilmente disgregando dando luogo
a prospettive inquietanti. È la fine di un lungo ciclo vitale, di un lento processo evolutivo che è stato alla base delle conquiste del mondo occidentale che ora si arrende
all’edonismo.
Restano i ricordi, autentiche pagine di storia, che persone attente recuperano e sistemano con tanta passione come giusto memento per un’epoca plurimillenaria, consolidata nelle sue modalità, scandita dal duro lavoro e dal susseguirsi delle stagioni, contraddistinta da impegno e vivo senso della solidarietà. Sono fondamentali documenti
di vita.
Nella mente dell’uomo si sono consolidate nel tempo delle esperienze importanti e ripetute che ormai, con il passare dei millenni, fanno parte del suo patrimonio genetico.
La paura dell’incognito, la necessità della caccia e della pesca, la malìa del fuoco, la
battaglia per il predominio sul territorio, la difesa della tana, la tutela della famiglia
ecc. costituiscono quelle pulsioni primitive che sono in noi già dalla nascita e che
affiorano dal subconscio ancestrale per ricordarci la nostra estrazione animale. Siamo
legati cioè a quella condizione nativa che cerchiamo, senza riuscirci pienamente, di
celare con l’educazione, cosmesi formale e artificiale che non riesce a nascondere del
tutto la nostra natura originaria.
È questo il tessuto complesso e misterioso che forma la psicologia di un popolo. Esso
è fatto di ricordi, di riferimenti territoriali, di sentimenti, empiti religiosi, norme condivise, usi, costumi e tradizioni cucinarie, legami spirituali, controllo sociale. Tutto
questo rappresenta le nostre origini, l’involucro della nostra coscienza, l’interiore homine.
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Il mondo della maialatura, animato dai masalìn, è una componente essenziale ed indefettibile di questa civiltà.
L’impulso a descrivere il fascino di un mondo particolare che si inserisce con ampio
diritto nell’ambito della civiltà contadina, mi è sorto una sera di giugno del 2011 nella
piazza del comune di Rodigo.
Convenuti dalla provincia mantovana, dai paesi e dalle cascine sparse sulle colline
o nella piana o vicini alle rive del Po, c’erano i nostri masalìn, i fedeli interpreti di
una tradizione antica che da noi affonda le sue radici addirittura nell’epoca etrusca.
Circondati da un folto pubblico curioso e partecipe, seduti a tavoli opportunamente
predisposti, una cinquantina circa di questi validissimi artisti del contado valutavano,
intimamente compresi che la storia li osservava, i salami in gara nella prima edizione
del “Concorso provinciale del Masalìn Mantovano”. Gli epigoni di un tempo passato
ma ancora ben radicati nella memoria e nella riconoscenza della nostra gente, sedevano uno accanto all’altro, un poco intimiditi dall’essere al centro della attenzione
generale, pronti a fare con scrupolo il loro dovere.
Vedendoli intenti a palpeggiare clinicamente, ad annusare, ad assaggiare i capi sottoposti al loro giudizio, ed ascoltando i loro dialoghi animati da una appassionata
esperienza professionale, ho capito che esiste ancora la maniera di essere legati ai
modi dell’onestà.
Con le fette brandite, con rispetto ma non esente talvolta da severi giudizi negativi
come si conviene ad una competizione corretta, scevra dai soliti opportunismi compiacenti, mi hanno confermato che il contado è depositario di valori permanenti che la
modernità non riesce ancora a sconfiggere.
Mi sono subito rafforzato nelle mie aspettative. L’evento di Rodigo non si poteva
assimilare alle tante feste, che soprattutto nel periodo estivo, costellano la provincia
con seducenti richiami mangerecci quali la rievocazione delle tavole medievali, la
rassegna dei risotti, l’antologia della griglia ovvero la giostra rutilante delle fujade.
Mi sentivo immerso in un contesto di rango superiore, sempre di carattere rusticale,
ovviamente, ma dalle connotazioni di cospicuo valore sociologico. Capivo insomma
che ero privilegiato spettatore di un soprassalto identitario inteso a salvare un bene
culturale, un sapido ed incommensurabile patrimonio della cucinaria nostrana che va
disperdendosi nelle nebbie della modernità.
Ho avvertito allora l’urgenza interiore di far gemere i torchi. Ho voluto incontrare gli
interpreti di questo evento così rilevante. Li ho ascoltati, ne ho indagato l’anima, ne
ho raccolto i ricordi in alcune pagine scritte più con il cuore che con la mente. Ho cercato anche di proporre delle immagini a maggiore esplicazione del testo, un corredo
questo che mi auguro possa essere apprezzato un giorno da qualche appassionato di
demologia rurale.
A leggere la lunga storia della cucina si colgono passaggi che evidenziano come i
modi e la varietà delle preparazioni siano tanto soggetti alle scoperte geografiche o
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scientifiche quanto alla mutabilità delle strutture e degli ordinamenti sociali. La conoscenza della patata, del pomodoro, del riso, del formentone, del caffè ecc. hanno
sensibilmente modificato la tavola di ogni nostro aggregato sociale. Ma anche la diffusione della democrazia e della dignità dell’uomo nonché il progredire della istruzione
di base, hanno contribuito notevolmente ad ampliare il consumo di beni alimentari
da parte degli strati meno abbienti della popolazione e nel contempo a diminuire, a
ridurre i fasti delle mense di rango superiore, nobiliari, aristocratiche e borghesi, sino
a raggiungere, soprattutto in questi ultimi anni, una discreta reciproca prossimità.
Alcuni secoli fa le imbandigioni delle tavole signorili si caratterizzavano per la impressionante profusione degli ingredienti, quasi buttati alla rinfusa in ogni preparazione. Non c’era il senso, sviluppatosi successivamente, dell’accordo, dell’armonia
tra i sapori. Si riteneva che il sommarsi di componenti preziose rendesse di per sé
stesso il piatto prelibato. Oggi noi restiamo, sorpresi, direi stupiti per il numero di
tali apporti alla confezione della vivanda. Propongo un esempio tra i tanti possibili.
Ci proviene dal cuoco gonzaghesco Bartolomeo Stefani. Traggo dal suo libro “L’arte
di ben cucinare”, la ricetta della testa di vitello: “Pigliarete due libbre di polpa di
vitello, ben battuta, oncie sei di lardo avertendo che non sii rancido; erbe odorifere,
cioè, mentuccia, maggiorana, serpollo, & altre erbe diverse tutte ben battute insieme,
cascio parmigiano, oncie tre di midolla di bue, libra una di ricotta fresca, libra una di
pasta di marzapane, libra una di cedro condito, oncie sei pignoli, oncie tre uva passa,
quarti tre canella pista, oncia mezza di garofani pesti, un poco di pepe, noce moscata,
e sale a discrezione …”. In tali formule c’è un alcunchè di raccapricciante per l’uomo
di oggi che si troverebbe a mal partito nell’assumere, al di là di ogni considerazione
gastronomica, un insieme tanto rilevante di sapori così intensi e disomogenei.
La classe subalterna, sempre in difficoltà nel combinare il pranzo con la cena, aveva
invece necessariamente sviluppato una cucina assolutamente semplice, povera, sarebbe da dire addirittura primordiale, basata molto spesso su alimenti di risulta che traevano, in particolar modo, da quanto gli poteva offrire la terra che lavorava duramente.
Degli animali di bassa corte (polli, conigli, galline, anatre ecc.) non consumava di
consueto le parti migliori, quelle di pregio, di rilevanza superiore, che vendeva ai
signori o barattava, ma ciò che restava dell’animale. Questo residuo era costituito dai
ritagli, dalle rigàglie (ironicamente le parti spettanti al re): fegato, cuore, collo, testa,
zampe ecc. A Cerlongo, paese dove vivo da tanti anni, con tali frattaglie le residùre
approntano un piatto chiamato “tìngol” (da intingolo) che nella sua semplicità è di
una bontà assoluta, una ricetta perfezionata nel tempo, portato di una lunghissima
pratica comunitaria. Con polenta.
È da parecchi anni che la cucina non c’è più, come scrive il prof. Giovanni Ballarini
presidente della Accademia italiana della cucina. O più precisamente non c’è più la
pratica antica della cura amorevole del cibo della tradizione. Ora c’è - soffocante,
ossessiva, ineludibile e debordante - la cosiddetta “cucina creativa” che si propone di
titillare il cuoco nascosto che c’è in noi. Essa non è più correttamente intesa come nu-
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trizione, sostentamento, pazienza, lavoro manuale. Oggi è divertimento, svago, spettacolo, hobby, competitività, ad uso dei tanti concorsi che ne costellano i dintorni. È
pervasa da una deplorevole fretta che già da sola contraddice ai criteri di ogni buona
pratica dei tegami. Si corre, si taglia, si cuoce, si impiatta con una concitazione che è
al limite della frenesia. Poi si sta lì, scelleratamente, a curare la presentazione come se
fosse un quadro, un’opera d’arte e ci si dimentica che la bellezza è un conto ma che la
calda bontà è un conto di gran lunga superiore. Si va al ristorante per mangiare bene e
non per vedere. Per questo ci sono i musei.
Si è talmente esagerato in questa pratica che al detto “anche l’occhio vuole la sua parte” bisognerebbe sostituire finalmente, come peraltro è sempre stato, “anche il palato
vuole la sua parte”, parte che non può essere offesa da piatti cromaticamente variegati,
pasticciati ma inesorabilmente freddi. È la moda di questi tempi nei quali l’immagine prevale sulla sostanza e dove l’affastellamento verticale, in angoscioso equilibrio
instabile, impera sul cheto servito pianeggiante. Ma, stiamo allegri: come tutti gli andazzi che caratterizzano ogni epoca, anche questo passerà lasciando pochi rimpianti.
Da tutte queste considerazioni emergono ancora una volta i valori perseveranti della
campagna. Sono princìpi e criteri che io ho assunto, senza mai pentirmi, come metodo
e misura dei miei rapporti con il prossimo, con il mondo che mi sta attorno e che mi
guidano nella vita.
Nelle nostre case o corti o comunità, era norma comune la concretezza, il sano realismo, rustico fin che si vuole ma improntato all’efficienza, alla giusta resa del lavoro
non disgiunto da qualche piacere del desco. Il diletto, la soddisfazione, il compenso
personale si racchiudeva praticamente nel ristretto ambito della fondina. Il soprappiù
lo si conquistava tra le lenzuola.
Il lettore attento avrà capito che intendo riferirmi proprio ai masalìn mantovani, attori
tra i più attivi, solerti e provveduti della vita contadina. Questi, con una professionalità
antica che si è trasmessa oralmente di padre in figlio ed allievi, tra becaröl, coltelli,
meséte, tritacarne e budelli, traevano dal maiale allevato con un amore sinceramente
interessato, parte ampia e gratificante del companatico quotidiano. Nascevano così
pancette, cotechini, coppe e salami ed altre sublimità sistemate con orgoglio e compiacenza sul baldachìn. A festeggiare tanta grazia di Dio dopo mesi di desco piuttosto
povero e talvolta addirittura squallido perché al limite dell’indigenza, si chiamavano
la sera i parenti più prossimi ed i sodali della cerchia ristretta, per godere finalmente,
in sana letizia, un pasto amabilissimo ed abbondante.
I piatti che si succedevano per l’occasione erano conformi ad una sequela consolidata
e veneranda, rispettata da tutte le famiglie: macaròn o risòt dal pursèl servito all’onda, ossa, codino e zampetti bolliti con contorno di cren, bussolano mantovano (quello
duro) intinto nel vino. Il quale vino era quello di casa, attinto alla botte della cantina,
quasi sempre reso infermo da una estate torrida che giustificava il detto “al bev pian
ma al va so fort” (sa di aceto).
La serata si svolgeva nella cucina (al lato sinistro dell’ampio andito) grande allora
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quanto tre o quattro volte quelle attuali, con il focolare ben illuminato dalle fiamme di
qualche sòca e con ai lati un curioso arnese in ferro chiamato la pumatéra che sosteneva su appositi ripiani delle mele che liberavano pacifici sbruffi di ventosità. L’allegria
era generale, le risate convinte. Qualche barzelletta un tantinello scollacciata, celie
e frizzi innescati dal naturale allentamento dei freni inibitori - sempre presenti nella
rusticalità del contado di una volta e intrisi di simpatica ironia - rendevano indimenticabile l’incontro. C’erano anche il prete e al dutòr che con la loro presenza davano un
tono rilevante al desco. Erano tempi difficili ed anche i religiosi non disdegnavano il
mangiare rustico né il contorno amicale.
Fuori stazionavano il gelo o la neve o, nei casi più generosi, la nebbia, quella della
valle padana ovattata e spessa, da tagliarsi con il coltello. Le donne di casa, indaffarate
ma soddisfatte della particolare novità, servivano la cena. Le ossa dovevano essere
bollenti, tali da scottare gradevolmente il palato. Ognuno si affrettava a consumare
quanto gli era posto davanti per non darla vinta alla perfidia del freddo che rischiava
di raffreddare la pietanza. Alla fine c’era il caffè, d’orzo, bollente anch’esso, cui si accompagnava, nelle famiglie più benestanti, un goccio di fèrnet o di ferrochina. Grappa
fatta in cantina, di straforo.
Mia mamma si ricordava che in tale occasione i suoi fratelli - sette maschi, capaci
di suonare ciascuno uno strumento diverso – si mettevano assieme per formare una
specie di orchestrina con le musiche da ballo allora in voga. Uno spasso, una felicità
totale. Mi torna alla mente un pensiero di J. Wolfgang Goethe che ogni tanto traggo
dalla memoria perchè riassume stupendamente il mio amore per il contado:
”Odo già il brusìo del borgo
Qui è il paradiso vero del popolo,
felici e contenti tutti quanti.
Qui sono uomo. Qui posso esserlo”.
Oggi, ai primi anni del terzo millennio, la carne e gli insaccati di suino sono ritenuti
cibi di scarso pregio in un contesto alimentare reso esteso e direi pletorico dalla ricchezza che ci ha sciaguratamente afflitti subito dopo la seconda guerra mondiale. E ci
sta ossessionando. Vogliamo tutto e sempre di più, non ci accontentiamo mai di nulla,
l’uomo è pervaso dal furore del denaro, del possesso, è intriso di cupidigia dell’avere
più di quanto gli abbisogna. Vogliamo farci del male, Masoch si aggira fra le nostre
contrade e sparnazza il veleno che ci allontana e ci mortifica nei sentimenti migliori.
Una volta non era così. A sostegno di questa affermazione riporto quanto mi ha raccontato l’informatrice, signora Lina Decca di Cerlongo. A metà del secolo scorso
lei abitava a Cavriana, paese della morena mantovana, poco adatto alla agricoltura,
senza risorse idriche, complessivamente dunque molto povero. Sotto le feste natalizie
in molte famiglie veniva ammazzato il maiale ed era pratica antica che i più poveri
andassero a fare el caedù. Il compianto prof. Antonio Minuti riteneva che la parola
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derivasse dal francese cadeau (dono) e che la sua pratica si potesse riferire agli antichi
diritti comunitari del Settecento. So per certo che questa richiesta di carità, si badi, era
attesa ed addirittura bene accetta dalle famiglie benestanti. Nel basso mantovano era
denominata ùnsar al spròc denominazione fortemente allusiva, connotata dall’affilato
sarcasmo contadino per lenire in un qualche modo il dramma che le era sotteso.
Lina era ancora molto piccola e con un carrettino trainato dall’asinello di suo padre,
sempre ammalato, accompagnava la “Mantuana” e la “Marca” – due anziane donne
ridotte alla miseria – a fare el caedù. Passavano dalle corti di fittavoli che vivevano
discretamente - una volta da una parte del paese e poi da un’altra - e chiedevano un
poco di aiuto. Tutti davano qualcosa. Si trattava di oboli modesti che nel loro assieme erano sufficienti per non morire di fame: un pezzetto di lardo, una salamella, un
piccolo cotechino confezionato appositamente per questa circostanza, un po’ di farina
gialla o bianca, mezza zucca, qualche grepula, una bottiglia di vino, un paio di uova,
legna per il camino ecc.
La mia informatrice aggiunge che in occasione della festa di San Biagio, molti venivano da fuori - era una delle rare occasioni per stare assieme - ed erano ospiti presso
i parenti di Cavriana. In successione: c’era la vigilia, la festa vera e propria che cade
il 3 di febbraio, ed il Sanbiasì, il giorno dopo. Tutti cercavano di fare bella figura e
per questo chiedevano ai vicini, per una o per l’altra di queste giornate, le posate e la
tovaglia bianca, a quel tempo preziosità che molti poveri non possedevano.
Lina ricorda benissimo che se avessero prestato le posate a qualcuno, la mamma approntava per il pranzo dei maccheroni, fatti in casa e alla svelta, più grossi del solito
per poterli mangiare con le dita. Lina completa l’affresco dicendomi che era consuetitudine diffusa, come atto apotropaico per allontanare le malattie, di indossare qualcosa di nuovo per il giorno di Natale. Loro erano poverissimi e quindi erano più solleciti
a tutelarsi dalla sfortuna anche perchè qualsiasi infermità sarebbe stata una tragedia.
La mamma allora, per il bene dei figli, metteva una semplice mollettina di ferro, dal
costo insignificante, sui capelli di ciascuno.
I nostri giovani queste cose non le sanno e se qualcuno gliele dice non ci credono
ovvero le rimuovono con un sorriso di compatimento.
Dicevo del “far su” il maiale.
Il masalìn era atteso da grandi e piccoli con trepidazione. Tutti erano impazienti di
vivere un rito antico, di serenità e di gioia. Egli arrivava e subito dava gli ordini necessari per la buona riuscita dell’impresa. A quel tempo era forte il senso dell’autorità.
Rientravano in questa cerchia ristretta, a prescindere dalla categoria di appartenenza,
tutti coloro che per rango sociale ma anche per credito e fama, godevano di prestigio e
di considerazione. Si andava dunque, passando di grado in grado, dal rasdòr al fattore,
dal proprietario della terra al prete, dal maestro al sindaco. Il dottore, il farmacista ed
il parroco formavano la terna storica di ogni paese, la triade delle autorità riconosciute. La loro parola era ascoltata, attesa e, sovente, seguita. Allora l’istruzione, anche a
livelli modesti, conferiva un grande ascendente.
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Anche il masalìn rientrava in questo singolare contesto gerarchico e ne era consapevole. Quando arrivava, di primissimo mattino, alle prime luci dell’alba se non addirittura ancora al buio, abbandonava la consueta familiarità ed incominciava ad impartire
ordini non con il tono che gli era solito, cordiale ed affabile, ma con quello del comando. Si trattava, ovviamente, di sfumature ma erano percepite nettamente ed alla svelta.
Presiedeva la liturgia che si andava allestendo e nessuno si permetteva di discutere le
sue direttive.
Investito intimamente della parte, a voce bassa, con toni secchi ed imperativi, officiava secondo una esperienza maturata nel corso di tanti anni, attento ad ogni passaggio,
pronto a sollecitare il lavoro, dirimere scelte, valutare modalità, controllare quanto
fatto, approntare conce e pugnare (la parola corretta sarebbe misturare) l’impasto del
salame. Era rispettato per due motivi: perché assicurava una fondamentale riserva di
cibo e perché celebrava un sacrificio pubblico. Dava la morte di fronte a tutti e ciò lo
metteva, in una qualche misura, prossimo alla sacertà.
Ai suoi aiutanti riservava - sempre sotto suo riscontro e vigilanza - la pelatura del
maiale, il lavaggio dei budelli, la manovra del tritacarne (fino a poco tempo fa avveniva manualmente), la riduzione delle carni in pezzi grossolani, la legatura, la foratura
degli insaccati ed altre operazioni minori.
Erano in ballo onore, reputazione, notorietà e da queste discendeva immediatamente
la possibilità di ingaggi presso le famiglie nel duro periodo invernale quando i lavori
nei campi erano fermi. C’era di mezzo il pane ed altri pochi generi essenziali. Sullo
sfondo si stagliava la figura dal buteghér, che faceva credito per l’inverno ed aspettava.
A metà mattina le donne di casa, con le ghiandole dell’animale (caren mate nell’alto
mantovano), i polmoni, la reticella, un pezzo di filetto per dare un gheo di nobiltà, ed il
fegato, approntavano un piatto che è considerato ancora oggi una beatitudine terrena:
la fritüra.
Le ricette sono molte e variano da zona a zona della provincia. Per l’area dell’alto
mantovano ritengo corretta quella del volontariato “cerlonghino”, aggettivo ortograficamente errato ma del tutto corrispondente all’orgoglio di questa comunità.
Si tratta di frattaglie diverse del maiale, aventi ciascuna scarso valore, che vengono
cucinate secondo modalità antichissime. È la colazione tradizionale, con dignità di
pranzo, nel giorno della maialatura. Solo chi l’ha mangiata può comprendere la bontà
di questa pietanza, caposaldo della vecchia cucina campagnola, grossolana alla vista
ma ineguagliabile al palato. Vanta una storia bimillenaria. È talmente diffusa e caratteristica che ho ritenuto opportuno farne un capitolo a parte.
Ho chiesto a tutti i masalìn che ho incontrato se, a loro parere, il salame di una volta
era migliore di quello di oggi. Un tempo - si parla di oltre un secolo fa - l’alimentazione risentiva in proporzione elevata delle condizioni economiche della famiglia
che teneva il maiale. Se c’erano delle ristrettezze - e c’erano quasi sempre - anche la
bestia risentiva di questa povertà e le sue carni non erano un granchè. Ma a contrastare
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questo svantaggio si poteva contare sul fatto che la terra, l’acqua e l’aria erano intrinsecamente di gran lunga diverse e migliori. La conclusione è ovvia: salami eccellenti
e quindi migliori di quelli attuali se prodotti nelle case di benessere fiorente e consolidato. Peggiori nel caso opposto.
Pane, salame ed un bicchiere di lambrusco brioso, rappresentavano - ma lo sono ancora oggi - una formulazione completa, una “carte” angusta ma finita della nostra cucina
contadina. Era una composizione che da sola qualificava la tavola del contado, sia
quella povera che quella ricca. Pane e salame non sempre erano presenti, infatti, nelle
nostre famiglie di salariati e braccianti di campagna, nelle quali talvolta mancava
persino il pane stesso. Ho raccolto penose immagini di parecchie donne anziane, nella
mente delle quali era ben fermo il ricordo che la sporta delle pagnotte veniva appesa
molto in alto affinchè i bambini non potessero arrivarci.
Con il passare del tempo, diventate meno precarie le condizioni economiche, il salame
è passato da protagonista della mensa di un certo rango a piacere di tutti, ad una funzione di complemento del pasto ed a presenza indefettibile in ogni incontro amicale.
Compariva ormai quasi quotidianamente, portato in tavola sul tagliere accompagnato
invariabilmente dalla curtelìna, affilato ma suadente strumento di un po’ di felicità a
buon mercato, di un momento di gioia piuttosto raro comunque nello scorrere di un’esistenza costellata di sacrifici, di rinunce e di fatiche.
È difficile oggi parlare di questo mondo disagiato ed angusto. Appena vi accenno, cercando di acquisire notizie di un passato sociologicamente di grande interesse, i nostri
vecchi si ritraggono, lo sfiorano appena ed anche quel poco me lo descrivono con fatica, quasi vergognandosi di essere stati attori quotidiani di realtà dolorose delle quali
non avevano alcuna colpa. Tentano di rimuoverle con un sorriso mentre si soffermano
volentieri su altri aspetti di quell’epoca: mancava tutto ma c’era una umanità stupenda, con comportamenti e sensibilità che ora si collocano nel repertorio dei bei ricordi.
C’erano comprensione reciproca, solidarietà, amicizia vera, senso del religioso.
A metà degli anni sessanta appare una ennesima rivoluzione nel campo della maialatura. L’accresciuto e diffuso benessere collettivo unitamente alla comparsa dei
supermercati ed alle reiterate raccomandazioni della medicina sui pericoli del colesterolo “polistirolo” nella sarcastica dizione dialettale, dei “tricicli” cioè dei trigliceridi,
inducono profonde trasformazioni nella socialità contadina. Il maiale non è più considerato come prezioso sussidio alimentare, da lesinare oculatamente, con ogni parsimonia per farlo durare più a lungo possibile, ma, come accennavo, occasione di vivaci
incontri amicali, di feste di associazioni e sodalizi, di doni rituali tra le parentele.
All’inizio del secolo scorso, regalare all’amico occasionale un cotechino o un salame
o un cartoccio di grepule (di ciccioli), era considerato uno spreco, un atto malaccorto,
una riprovevole ostentazione. Da allora questo tipo di omaggio - unitamente magari
ad una bella punta di grana, altro prodotto tradizionale ormai a disposizione di tutti
- è diventato un’apprezzabile strenna in prossimità delle feste natalizie o sostanzioso
presente per consolidare un’amicizia sincera.
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Dopo la guerra la maialatura si espande e tocca anche nuclei familiari che le erano
sempre stati estranei in passato. Successivamente, in ossequio alle sollecitazioni della
scienza medica e condizionati dalla tipologia delle abitazioni ormai prive della storica
e fresca cantina, la sua pratica si è andata sempre più riducendo. Oggi si va al supermercato.
Ma il maiale è straordinario e sa adattarsi - come ha fatto peraltro in ogni epoca - alle
diverse necessità dell’uomo. Con una lunga serie di incroci, accuratamente progettati
in laboratorio e verificati sul campo, si è dato vita a nuove tipologie con caratteri
peculiari capaci di corrispondere alle moderne esigenze e quindi con produzione di
carni particolarmente magre, tali da poter essere prescritte anche nelle più rigorose
diete alimentari.
C’è dell’altro. I nostri giovani, sempre alla ricerca di nuovi motivi di incontro, stanno
creando delle aggregazioni di stampo quasi goliardico, ma nelle quali non è difficile
rinvenire il desiderio di riappropriarsi della tradizione, aventi per tema la sperimentazione diretta del “far sü al gugiöl”. Un bel capo viene diviso tra dieci o più ragazzi
che operano sotto la guida di un atipico masalìn, cioè uno di loro, giovane, che ha già
fatto qualche pratica con il nonno, il papà o lo zio. In uno scantinato, con tavoli ed
attrezzature prese in prestito, con tanto di grembiule sottratto alla nonna, si divertono,
ridono, spendono poco per due salami ed un cotechino a testa, con comodo di cena, ris
dal pursèl, un cartoccetto di grepule. Il fascino della discoteca, con tutte le sue insidie,
comincia ad affievolirsi.
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Cenni di storia del maiale
nel mantovano
L’origine del maiale come animale con singolari caratteristiche particolarmente utili
all’uomo è piuttosto lontana ed incerta. Nelle grotte di Altamira in Spagna, tra i numerosi disegni che in un certo senso affrescano le sue pareti a partire da circa 35.000 anni
fa, ci sono delle rappresentazioni di quadrupedi che somigliano molto al cinghiale. Più
certa appare, anche se con contorni ancora imprecisi, la documentazione tratta da immagini (pitture e statue) e da reperti tratti da siti studiati approfonditamente da equipes
di esperti, che fanno risalire la presenza del maiale vero e proprio in Asia circa 5.000
(altri però sono più inclini per un’età più alta, a 7.000 - 7.500) anni fa.
Il maiale, così come lo conosciamo oggi, deriva dalla domesticazione del cinghiale.
Linneo 1758 classifica il cinghiale sotto la dizione “sus scrofa” come specie ed il
maiale, suo diretto discendente, con il nome di “sus scrofa domesticus” come sottospecie. Il passaggio dall’uno all’altro è stato indotto verosimilmente dal fatto che una
popolazione di cacciatori, di tipo essenzialmente nomade, come era quella dell’ homo
sapiens, diventando col passare dei secoli sempre più stanziale, è stata sollecitata ad
utilizzare per la sua alimentazione animali da carne non adatti alla transumanza, in aggiunta agli ovini ed ai caprini che sopportavano invece lunghe migrazioni stagionali.
Ha dunque ristretto prima il cinghiale ma poi soprattutto il maiale in zone ancora vaste
ma comunque confinate quali erano le selve ed i boschi.
Da questa trasformazione della società, con il concorso positivo della notevole prolificità del suino e successivamente con selezioni mirate, partendo dal cinghiale si
ottennero via via animali che si adattarono agevolmente alla nuova forma di vita con
conseguenti modificazioni anche nella struttura e nell’aspetto, in specie nella conformazione del cranio. In un primo tempo questi erano certamente allevati ma allo stato
brado, in terreni cioè chiusi caratterizzati dalla presenza di stagni, di paludi ed in particolar modo di querceti e quindi ricchi di ghiande e di bacche di cui prevalentemente
si nutrivano. Questo lento ma sicuro passaggio dal nomadismo alla stanzialità influì
notevolmente sui caratteri delle prime società dell’uomo. Si costituirono aggregazioni
di più nuclei familiari per formare un’unico insieme, dapprima in forma approssimati-
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va ma poi con una propria organizzazione gerarchica e religiosa aventi connotazioni
di vita sociale ancora elementari.
Col passare dei secoli l’agricoltura e la suinicoltura ebbero il sopravvento sulle altre
forme di approvvigionamento del cibo. L’economia si sviluppò infatti secondo criteri
che privilegiavano la coltivazione e l’allevamento, orientamenti questi che si stavano
sempre più imponendo sulla caccia e sulla pesca, opportunità non sempre sicure e
stabili nel tempo.
Per rilevare in modo corretto la storia del maiale nel mantovano, bisogna rifarsi, almeno inizialmente, alle ultime glaciazioni. Senza approfondire un discorso complesso,
ancora allo studio, che esula oltretutto dal tema del libro, si può dire che le glaciazioni hanno avuto dei periodi ciclici, di avanzamento e successivo ritiro dei ghiacci
in Europa - e di conseuenza anche sulle Alpi - con esiti importanti sui nostri territori.
L’ultima, denominata di Wurm, da un affluente del Danubio, ebbe una durata di circa
110.000 anni e finì approssimativamente 12.000 anni fa, con varie fasi interglaciali
come se si fosse in presenza di una struttura viva e pulsante.
Durante l’epoca wurmiana, i ghiacciai dopo il loro accumulo incominciarono per effetto gravitazionale a discendere dalle Alpi verso la Pianura Padana. Questa enorme
massa, per effetto della escavazione sul fondo e della frizione contro le pareti rocciose, ha portato con sé, spingendola sempre più avanti (è immagine poco scientifica ma
verrebbe da dire, per meglio capirci, come può fare una ruspa oggi) una straordinaria
quantità di materiale che ha sconvolto la conformazione originaria dei territori interessati. Il lago di Garda e le colline della morena mantovana si sono formate in questo
modo. È quindi comprensibile come anche i territori finitimi abbiano subito delle
trasformazioni ragguardevoli non soltanto nel loro substrato naturale ma anche nella
geografia fluviale e nel sistema climatico.
La provincia di Mantova, prossima alle Alpi, è stata positivamente coinvolta da questo sconvolgimento. I suoi terreni ricchi di detriti portati dai ghiacciai, resi soffici da
ghiaia e sassi, potenziati da acque a bassa velocità di scorrimento che la rendevano
particolarmente adatta allo sviluppo arboreo, diedero vita in poco tempo ad una verde
coltre di piante ed arbusti. Questi, sviluppandosi allo stato naturale formarono, in poche migliaia di anni, boschi e selve. Le piante che vi attecchirono furono tigli, cerri,
ontani, olmi, pioppi e specialmente farnie (quercus robur, L.), fagacee di notevoli dimensioni e longevità, produttrici di frutti acheni del tipo ghiande. Quando il cinghiale
(sus scrofa) giunse tra noi trovò nelle zone premontane e nella Pianura Padana un
habitat ideale.
Circa 10.000 anni fa iniziò la fase del Neolitico. È certamente il periodo più interessante per la conoscenza delle dinamiche antropologiche della Pianura Padana. Ci fu il
sorgere e lo sviluppo dell’agricoltura come fonte di approvvigionamento alimentare
cui fece seguito, dopo qualche millennio, quello dell’allevamento. Questo inizialmente si indirizzò verso gli ovini ed i caprini più adatti, come si è detto, alle migrazioni
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stagionali ma successivamente, consolidatesi le tendenze alla stanzialità, ci si rivolse
verso i suini inidonei per struttura e pesantezza a lunghi spostamenti ma eccellenti
fornitori di carni pregiate.
L’accrescimento costante della popolazione e le migrazioni di popoli da altre regioni
europee imposero un graduale ma continuo ampliamento delle aree destinate alle colture con la corrispondente diminuzione di quelle incolte e disabitate. Si formarono i
primi siti stabili le cui tracce, scoperte continuamente anche grazie a nuove tecniche
e strumenti di ricerca, sono attentamente studiate e denominate scientificamente “civiltà”.
Nel periodo romano le terre sono sempre più indirizzate alla produzione agricola ed
accanto ai disboscamenti delle selve inizia, sia pure in proporzione limitata, la riduzione delle paludi e l’arginamento dei fiumi.
Siamo praticamente ai nostri giorni. Molte estensioni vengono assegnate, mediante
centuriazione, ai legionari reduci dalle varie campagne di guerra. Ciò per gratificare
i soldati ma anche per stimolare un’attenta cura del territorio, obiettivo ineludibile
per garantire produzioni alimentari sempre più varie e specializzate e per evitare un
ritorno alla foresta. Anche la nostra provincia venne interessata da queste operazioni.
Dopo il neolitico, nella prima età del rame, si sviluppano sempre più i metodi di conservazione delle carni e dei pesci. Si utilizzano soprattutto la salagione e la essicazione ma è il primo sistema quello che attecchisce maggiormente perché assicura risultati
migliori e più resistenti nel tempo. Intanto la terra che prima era un bene comune
in quanto res nullius incomincia a scarseggiare per il forte incremento demografico
avvenuto a seguito delle migliorate condizioni di vita. Si tenga conto che un figlio in
più, a quel tempo, significava certamente l’aggravio di una ulteriore bocca da sfamare
ma anche l’apporto di altra forza lavoro per la migliore gestione della famiglia e del
gruppo sociale, spesso in lotta contro nemici. I territori collettivi cominciarono allora
a diventare proprietà di chi li lavorava anche se sempre sotto il controllo di primitivi
enti comuni o di rappresentanti locali di iniziali strutture di potere politico ed amministrativo.
In epoca etrusca il maiale era cibo preferito rispetto alla carne bovina ed ovina. Nei
loro insediamenti rinvenuti dagli archeologi e studiati ormai in ogni loro aspetto, si
può evincere chiaramente che era parte preponderante della alimentazione e che gli
erano dedicate anche alcune forme di liturgia religiosa.
“Polibio riferisce che mandrie di maiali erano frequenti in Maremma e aggiunge che i
porcari etruschi, a differenza di quelli greci che spingevano gli animali con un bastone, li guidavano suonando la buccina. Varrone fa rilevare che a tale comportamento
gli animali erano educati sin da lattonzoli”. (Forni).
Il sus scrofa domesticus è un animale facile all’incrocio e molto prolifico. In un anno
potrebbe dare, almeno teoricamente, tre gestazioni dato che ciascuna ha una durata
media di 114 giorni (tre mesi, tre settimane, tre giorni). Proprio per queste caratteristiche l’uomo ha spinto all’esasperazione la selezione modificandone più volte l’obietti-
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vo a seconda delle esigenze della propria alimentazione. Prima si privilegiava la carne
fresca e si allevava quindi un certo tipo di suino, poi si voleva carne da conservare e si
operò per ottenere specie più pesanti, successivamente si preferì il lardo per le esigenze di riserva di grassi e con ibridazioni anche composite si giunse ad un’altra varietà.
Ora si richiedono carni molto magre - così da contrastare i pericoli dei lipidi saturi - e
si è pervenuti con incroci opportuni ad individui diversi.
La scelta ormai definitiva della stanzialità dei gruppi umani, l’espandersi della agricoltura, l’allevamento ormai diffuso del maiale per avere carni fresche, la successiva
conservazione delle carni stesse, tramite la salagione o la affumicazione nonchè la
riduzione delle paludi, le prime costruzioni di argini, per indirizzare il corso del Po
ed eliminare o quantomeno limitare i danni delle piene, annunciano la affascinante e
nobilissima tradizione della maialatura nel mantovano.
Si tende ad una stabilizzazione dei siti e ad un tenore complessivo del quotidiano più
accogliente, più sicuro. La vita del gruppo e della famiglia si distacca dalla concezione del servizio, del sacrifico, della sottomissione alle forze della natura per cogliere
le possibilità che via via si evidenziano di operare al fine di un maggiore benessere.
Dagli studi su questo argomento, sempre più raffinati ed approfonditi, si evince che le
comunità evolvono, il lavoro si differenzia, si specializza e si volge non soltanto alla
ricerca della semplice utilità pratica, ma anche a quella del bello e del buono, con la
formulazione rudimentale di trattamento dei cibi (ricette) che si inseriscono irresistibilmente nelle impronte e nel modo di vivere della nuova società.
Nascono abitazioni più congrue alle necessità della famiglia, sistemi di irrigazione e
di difesa articolati ed efficienti, stoviglie non più essenziali nella loro funzionalità ma
con ornamenti sempre più raffinati e complessi, tessuti con forme, disegni e colori che
li collocano nell’ambito di un gusto sempre più gradevole e talvolta annoverabili, a
pieno titolo, nell’ambito della creazione artistica di valore assoluto. Di quell’epoca ci
sono giunti manufatti di una bellezza sorprendente. L’uomo non è più subordinato alla
realtà che lo circonda e condannato ad accettarla come immodificabile, ma capisce
che può dominarla, piegarla alle sue esigenze. Comincia insomma ad avanzare la sua
ipoteca per fare emergere l’immanenza che gli è connaturata, i caratteri intellettivi ed
estetici che gli sono precipui e che lo differenziano dalla bestia.
La nostra civiltà comincia formarsi. Gli scambi con altri paesi e genti di cultura e storia diverse forniscono apporti importanti per la evoluzione del nostro mondo. Siamo
ormai prossimi all’epoca romana la quale rappresenta il culmine dei valori dell’uomo
sotto l’aspetto militare, estetico, culturale e cucinario. La analisi di questo affascinante contenuto esula dal tema del libro e dai limiti sociologi che vi sono sottesi ma è
assolutamente intrigante, ricca di connotazioni difficilmente riscontrabili in altre tematiche. Ci sarebbe da mettere le mani e rovistare, pervasi dal démone del ricercatore
e lo scrupolo dello studioso, in molti archivi abbaziali e conventuali, o in quelli di famiglie nobiliari o nei polverosi tabulari vescovili, ovvero nelle raccolte di manoscritti
statali e comunali. Si tratta di un lavoro immane che richiede passione e competenza
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documentaristica specializzata.
Sono consapevole delle mie lacune in merito. Mi sono riproposto solamente di raccogliere e di mettere a disposizione di uomini di buona volontà, materiale diretto, più
sperimentale che compilativo, senza quelle mediazioni personali volte molto spesso a
soddisfare l’ego dell’autore e che finiscono per tradire lo spirito documentario.
Da noi questa meditazione speculativa sui primitivi insediamenti umani ha ragguardevoli testimonianze.
Vado a Bagnolo San Vito ad incontrare Maria Dalboni. Mi accoglie nella sua ampia
casa nella quale si fondono con bella armonia la praticità ed il gusto della borghesia di
campagna. È rimasta vedova nel 2003 ed ancora si colgono nelle sue parole l’amore
e la devozione assoluta per Amilcare, il suo compagno, portato via in poco tempo da
un male inesorabile. Un nipotino ci caracolla attorno cercando di attirare la mia attenzione. È bravissimo, ci riesce.
Sono così intensi l’affetto e la fedeltà che Maria pone nel descrivere l’affascinante
avventura culturale del marito alla scoperta del Forcello, che mi sento francamente
commosso. Verso gli anni Settanta del XX secolo, Amilcare Riccò di Bagnolo San
Vito, docente nella scuola di agraria di San Benedetto Po, osservava con grande curiosità che nella località comunale denominata Forcello, per effetto delle arature che
in quegli anni erano molto profonde, apparivano in superficie dei pezzi di ceramica
antica e schegge di manufatti di bronzo. Da attento uomo di cultura non gli fu difficile
collegare tali scoperte con la probabile esistenza di un sito di epoca arcaica che bisognava assolutamente individuare nei suoi contorni e studiare nei contenuti.
In queste passeggiate per i campi era quasi sempre assieme alla moglie Maria e dai
figli, giovanissimi. Talvolta era invece accompagnato dal dott. Zanoni, farmacista di
Mantova, anch’egli appassionato di archeologia.
La presumibile presenza di un deposito derivava dal fatto che il Forcello era un dosso
attorniato da una zona di terre basse, caratteristiche precipue ed ineludibili dei primi
insediamenti umani, edificati per la sicurezza comune in luoghi sopraelevati circondati da acque o da zone paludose, come erano appunto quelle prossime al Po. Amilcare
era assolutamente convinto che là sotto ci fosse qualcosa di molto interessante ed
armeggiando con il metal detector era riuscito a raccogliere via via materiale assai
probante.
Non fu distolto da questa sua congettura nemmeno dal fatto che, portati i reperti alla
Sovrintendenza per i beni archeologici della Lombardia, sezione di Mantova, questi
furono dichiarati, nell’immediato, di scarso interesse in quanto assai simili a moltissimi altri di poco conto rinvenuti attorno al grande fiume, ma poi ampiamente rivalutati
sotto il profilo della loro rilevanza documentale. Per fortuna i due amici trovarono un
inaspettato ed incoraggiante sostegno da parte del prof. Sassatelli dell’Università di
Bologna, eminente etruscologo che ebbe modo di visionare e valutare i ritrovamenti.
Tra i tanti libri di archeologia che Amilcare aveva letto c’erano anche quelli di Mas-
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simo Pallottino, romano, etruscologo di fama internazionale, che propendeva, senza
avere certezze assolute ma comunque in possesso di molte indicazioni (che bisognava
storicamente raccordare ed attestare), che gli etruschi - circa 2500 anni fa - fossero
presenti nel mantovano. Il prof. Sassatelli, lo ricorda Maria, ha detto loro “Verrei io
stesso a scavare perché sono certo che voi avete trovato la vera Mantova etrusca, ma
non posso perché sono di un’altra regione”.
Qui si innesta la lunga, animata e mai sopita disputa sulla presenza nel mantovano
di popolazioni etrusche che traeva soprattutto dalle affermazioni di Virgilio. Il poeta
scriveva:
“... Anche lui conduce un esercito dalla patria, il grande Ocno, figliuolo di Manto
fatidica
e del fiume tirreno, Ocno che a te, Mantova, diede le mura ed il nome materno,
Mantova illustre di nascita; ma l’origine degli abitanti non è una sola:
il suo popolo è composto di tre stirpi; e sotto ogni stirpe
son quattro città, ed essa è la prima, e i più forti dei suoi guerrieri son Etruschi di
sangue”.
Virgilio (Eneide X, 203 - 220).
Quella della realtà di insediamenti preromani nella nostra provincia è stato - ed è ancora, come dicevo - un argomento assai avvertito sul piano storico e sociologico, che
ha originato un dibattito piuttosto insistito e controverso tra gli studiosi. Le ipotesi si
infittavano in quanto i segnali erano parecchi e decisamente convergenti ma mancava
sempre la prova assoluta, incontrovertibile. Il Forcello ha saputo dirimere la questione. Finalmente dopo i carotaggi e le prospezioni stratigrafiche effettuate negli anni
80-83, ebbero inizio gli scavi diretti dal prof. De Marinis della Università degli studi
di Milano, che hanno consentito di acquisire la consapevolezza totale del sito e delle
sue caratteristiche. Si scava ancora, si fanno esami, verifiche e controlli con risultati
sempre molto soddisfacenti.
A questo proposito la signora Dalboni tiene molto ad evidenziare che il nome e la
diffusione a livello mondiale della importanza della scoperta, sono dovuti alla felice
intuizione del sindaco di allora, Fausto Pozzi, il quale ha avuto la coraggiosa accortezza di espropriare il terreno interessato alle ricerche e di dar vita al “Parco archeologico
didattico” che attira a Bagnolo ogni anno molte scolaresche.
In un bellissimo libro scritto a più mani dal titolo “Millenario Bagnolese 997 – 1997”,
Riccò quantifica statisticamente i reperti del Forcello provenienti da animali e ne ipotizza correttamente la destinazione: “I reperti ossei quasi tutti attribuibili ad animali
domestici attestano la netta prevalenza dei suini 58 % circa seguiti da un 24 % di caprini ovini e da circa un 18 % di bovini. Il fatto interessante emerso da queste indagini
osteologiche è che nei resti scheletrici suini mancano in grande quantità le ossa degli
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arti posteriori: fatto che ci permette di ipotizzare la produzione di gambe salate ed
esportate” (pag. 23). I nostri prosciutti nascono così.
I masalìn mantovani vantano dunque degli ascendenti illustri e di elevato livello. Gli
etruschi sono stati i precursori della loro arte.
Il medioevo è un periodo storico estremamente variegato, ricco di avvenimenti importantissimi, sempre al limite tra il laico ed il sacro, tra leggi severe ed astuzie singolari.
L’allevamento del maiale, sempre meno coincidente con quello del cinghiale, si sviluppa ancora in terreni boschivi e selve ma tende a ridursi in spazi sempre più ristretti,
se non addirittura in stabbioli costruiti allo scopo, contigui alle case dei contadini. Da
boschi valutati per il numero di porci che potevano nutrire, si passa a sistemazioni
meno vaste ma prossime alle abitazioni. I maiali si tengono in ambienti dove l’allevamento è meno difficoltoso e più protetto, dove si possono catturare con facilità senza
improvvisare battute di caccia.
Ogni zona si andava strutturando in città, paesi e borghi, animati invariabilmente dalle
imprese eroiche di santi vagabondi ed eremiti isolati in caverne, da quelle criminali di
banditi da strada e da processioni di zoccolanti o conventi di monaci orientati alla fuga
mundi. Ogni piazza era teatro di spettacoli sfarzosi o di battaglie tra famiglie comitali
o di cerretani che si rivolgevano al popolo semplice e credulo osservando il principio,
valido sempre, anche oggi, che recita “con falsità ed inganno se vive la mezza parte
dell’anno, con inganno e falsità se vive l’altra metà”. Il maiale era sempre presente
sia come sicurezza e consolazione, come cibo gradito a tutti, come portata allettante
e sontuosa.
In questo scenario curioso e davvero affascinante, in tale contesto di varia umanità,
emergono uomini dabbene e ladruncoli da strada, notari e pezzenti, catari e signorotti,
malandrini, ghirlande di salami e collane di salamelle, pergamene ed editti, galeri e
tiare papali, abbazie, cenobi, regge, tuguri. E Matilde.
Il porcello è lì, generoso e servizievole, pronto ad illuminare il desco contadino quanto ad esaltare i convivi principeschi. I cuochi di corte ne fanno sempre più uso per
illustrare la magnificenza del loro signore. Pare sia di questi tempi la fantasiosa ed
opulenta ricetta del maiale cotto con dentro un agnello con dentro un pollo con dentro
delle quaglie. Il popolo, di gusti più semplici e meno provveduti, preferisce sempre
comunque la porchetta cotta allo spiedo farcita di aglio e di erbe odorose.
Dopo la fine del laborioso popolo dei Celti e quello succesivo degli etruschi, dopo
la fine del potente e fastoso impero romano si succedono le invasioni barbariche, di
uomini dotati di una carattere forte ed imperativo che portano una civiltà fatta di concretezza, senso pratico cui si congiungeva talvolta l’intima ammirazione per la nostra
cultura. Si ha la sottomissione delle popolazioni dell’Italia settentrionale.
Nel medioevo, eloquenti notizie circa la presenza e l’importanza del maiale in quel
tempo si può desumere dal suo allevamento nelle abbazie di tutta l’Europa come centri di cultura, di preghiera e di commendevole rifiuto delle cose del mondo. Si notino
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le proporzioni. In una semplice commenda di Calvados (Leo Moulin) i monaci templari possedevano 14 vacche, 3 giovenche, 1 manzo, 8 vitelli, 2 buoi, 3 “bestie con le
corna”, verosimilmente capre, e 98 porci. Nel XIII secolo l’abbazia di Cambron - che
un secolo prima riusciva a malapena a nutrirsi – ha 169 vacche, 400 tra pecore e montoni e ben 636 maiali. Tali bestie non avevano bisogno di grandi cure, potevano essere
liberamente lasciate nei boschi, in aree giuridicamente ben delimitate, ed avevano una
resa qualitativamente eccellente e quantitativamente elevata. L’abbazia di Bobbio ne
possiede oltre 5.000 e quella di Sain-Germain-des-Prés circa 8.000.
È interessante anche osservare come la stazza media del maiale aumenti nell’area padana con il passare degli anni. Se si eccettuano le colline moreniche che ne fornivano
una modesta quantità a causa della difficile coltivazione della pianta (gli olivi dell’area gardesana e limitrofe sono gli ultimi geograficamente possibili per via del freddo),
in pianura c’era poco olio e di scarso pregio da utilizzare per il consumo familiare (di
colza, di ravizzone ecc.) per cui la famiglia si è sempre più orientata verso il grasso
animale. Le invasioni barbariche che caratterizzarono l’alto medioevo, ebbero tra le
tante significative conseguenze anche quella di una modificazione dell’impiego del
grasso in cucina. Da un uso praticamente riservato all’olio d’oliva si passò a quello del
lardo ritenuto di sapore più gradito soprattutto nelle regioni italiane invase dai barbari.
Il grasso animale si diffuse e già Antimo, un greco assai considerato alla corte ravennate e molto attento ai costumi dei tempi, nel suo libro “De observatione ciborum”
indica il grasso del maiale come ottimo per condire pietanze di vario genere.
Il lardo entrò anche nella vita monastica, in alternanza con l’olio d’oliva. Questo era
considerato “di magro” e quindi assolutamente necessario nelle varie scansioni temporali che il calendario religioso e liturgico indicava come di severa astinenza, ma
al di fuori di queste poche ricorrenze, era consentito il grasso di maiale. Questo più
ampio utilizzo ingenerò nel tempo una preferenza che solamente da qualche decennio,
a causa delle virtù alimentari dell’olio di oliva, comincia a declinare.
Avvalendosi della sua singolare prolificità e disponibilità agli incroci, si sono ottenuti
tipi di stazza via via maggiore proprio per ottenere una sempre più elevata percentuale
di lardo. Queste le indicazioni del “Museo del salame” di Felino.
AnnoPeso medio
1500
1600
1700
1820
1880
1935
1960
28
82
98
106
125
155
160
180
kg
kg
kg
kg
kg
kg
kg
L’area del Po, o meglio la Pianura Padana, è un concreto esempio di adattamento della
cucina alle risorse locali. Mancando la coltivazione dell’olivo si è orientata da parecchi secoli verso il grasso animale. Era una necessità. Ecco perché le nostre rasdore
imponevano ai loro uomini di allevare maiali di grande taglia.
Ma l’espansione negli ultimi due secoli della produzione di latte e quindi di burro, ha
indotto un’ulteriore evoluzione nelle modalità cucinarie mantovane per cui il lardo è
riservato oggi a pochi piatti ed utilizzato soltanto per ricette di carattere storico, nei
pochi casi nei quali è d’obbligo un’assoluta osservanza alla tradizione. La diffusione
dei caseifici tra la fine del sec. XIX e l’inizio del sec. XX consente di ampliare notevolmente l’allevamento del suino da consumo familiare e per produzione di insaccati
su vasta scala. Come sottoprodotto della lavorazione del formaggio si hanno siero, latticello ed altri liquidi di lavaggio che arricchiti di crusca, farina, frumentone e scarti di
alimentazione domestica, fornivano un importante cibo per i suini. Ogni caseificio ha
la sua porcilaia. Si arrivano a costituire delle grandi stalle suddivise in numerosi stabbi
interni che possono contenere oltre trecento bestie ciascuna. È in questo periodo, a
cavallo tra i due secoli, che si consolidano e si ingrandiscono piccole ditte artigianali
che, sorte inizialmente come attività locali e mai rinunciando quindi alla qualità come
elemento distintivo e peculiare delle proprie produzioni, conquistano in breve tempo
mercati di dimensioni nazionali. Nella provincia mantovana è d’obbligo citare, tra le
altre, la ditta Levoni di Castellucchio.
Un cenno sulle razze allevate nel mantovano. Sino ad un secolo fa la propensione era
per le razze da lardo e quindi si allevava la razza Lombarda che poteva raggiungere
stazze ragguardevoli. Nel basso mantovano non mancava la Parmigiana, la Bolognese
e la Romagnola. Poi, con l’allevamento su vasta scala e con l’esigenza sempre più
avvertita di carni meno ricche di lipidi saturi, sono state introdotte, variamente incrociate tra loro, le razze Large White, la Landrace e l’americana Duroc. Attualmente per
la macellazione familiare il peso medio è invariato (170 - 180 kg) mentre è diminuito
quello degli animali in vendita presso i negozi ed i supermercati che tendono a proporre carni decisamente magre.
La nostra salumaria è di rango elevatissimo e molto diversa rispetto ad altre regioni a
causa dei vari stati in cui l’Italia era suddivisa sino a un secolo e mezzo fa. Abbiamo
prodotti che nessun altro Paese può vantare. Siamo in grado di battere ogni concorrenza anche la più agguerrita e perciò spesso la conquista dei mercati internazionali è
quasi un obbligo morale oltrechè un imperativo commerciale. È obiettivo dalle grandi
prospettive.
Da un punto di vista della tradizione, dell’economia della nostra terra e della sociologia rurale, sarebbe assai interessante esaminare, studiare ed approfondire in tutte le
sue connessioni, questo aspetto rilevante della nostra maialatura familiare o artigianale ma ciò esula dai limiti specifici di questo lavoro.
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Nel mantovano era consuetudine diffusa uccidere il maiale poco prima di S. Martino,
giorno del termine dei lavori agricoli e quindi deputato ai trasferimenti da un possidente terriero all’altro, da un’abitazione ad una diversa, perché si volevano evitare
disagi alla povera bestia. I bambini marinavano allegramente la scuola ed era cosa
tollerata se non addirittura favorita in quanto la maialatura era già di per sé stessa
ottima occasione per apprendere le scansioni della vita contadina e per arricchirsi di
un’esperienza importante. Il maiale veniva tratto in qualche modo fuori dalla porcilaia, stretta e bassa (e con un bestione di oltre due quintali non era facile), e poi lo si
capovolgeva sveltamente, lo si “corava” con uno stiletto infilzato nel cuore e quindi si
tagliavano le vene giugulari, con la rasdora pronta a raccogliere il sangue che finiva
in una pentola di rame, con sul fondo la chiave in ferro del portone di casa per evitare
delle reazioni chimiche dannose. Venivano poi eseguite tutte le procedure di rito per il
sezionamento e la scelta della carni destinate alle varie utilità. Se il maiale era stato allevato a soccida in parti uguali, le due mezzene venivano stimate ad occhio e soltanto
se vi era discordanza ampia tra le due allora si ricorreva alla stadera. Quando le varie
operazioni erano terminate e si era già sistemato tutto sul baldachìn, allora veniva
portata in tavola la cena con il risotto (ma forse era più preferibile al ris, meno grasso
e quasi in brodo), le ossa bollite dalle quali estirpare con modalità barbariche - mani e
denti - brandelletti di carne, gli zampetti, orecchie, codino ed altre parti meno nobili.
Una volta tanto non si risparmiava, c’era un po’ di abbondanza. Le donne brigavano
attorno al focolare mentre gli uomini erano tutti seduti. Quasi sempre erano ospiti il
prete ed il dottore. Con il favore di qualche bicchiere di vino nuovo la conversazione
inizialmente timida e contenuta, fluiva con cordialità in toni sempre più rumorosi.
A questo punto (traggo dall’eccellente Giovanni Tassoni, il più grande sociologo del
contado mantovano) si aspettava con ansia ed ilarità il rito del “martinò” che non era
specifico dell’area mantovana ma, come attesta A. Visconti nel libro “I Lombardi”,
aveva divulgazione regionale. La canzonetta era di tipo amebeo, cioè con versi cantati
alternativamente. Scrive Tassoni: “Ad un tratto, nella sera già buia, s’alzava il canto
di una comitiva questuante. Il chiacchierìo subito cessava intorno alla tavola; tutti si
mettevano in ascolto ammiccando in segno di compiacimento.
Aprite l’uscio, ohibèla
chè vöi vegnar déntar
a g’ho ‘n bel fasoltin
e val vöi regalar
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Dall’interno della cucina, stuzzicante di carni fresche e di fritture, rimbeccava per
celia il coro dei commensali:
So ben che voi l’avete
ma me nu v’el turò
intant stè lé de föra
cantand al Martinò
L’uscio - c’era da pensarlo - restava chiuso; ma i cantori non si scoraggiavano per
questo; anzi riprendevano i versi, ora per offrire un grembiale, ora le scarpette o un
monile all’oibèla irriducibile. La lenta melodia secondava la mollezza (sic) della digestione, nel tepore della chiusa stanza, ma inaridiva le gole canterine, piantate sul
portone.
E se vulì che cante
bagnèm en po’ la boca,
col veşulìn che gosa
a cantarém pü ben.
La Bella lo sapeva; e dal limitare consentiva, finalmente, con le voci raccolte a tener
bordone:
Disturbator di quiete
venite pure avanti
col veşulìn davanti
noi canterém pü ben.
L’uscio veniva spalancato; la compagnia entrava in cucina; le donne offrivano le eccedenze della cena e versavano da bere il vino nuovo, ancora un po’ torbido, ma tanto
cordiale”.
Chi ama i valori permanenti della antica civiltà contadina, coglie immediatamente con un senso di vivo rammarico, ma direi meglio, di sofferto, intimo dolore - la semplicità, la schiettezza, la poetica ingenuità di comportamenti che appartengono ormai
ad un tempo passato. Allora la povertà non portava, se non in casi eccezionali, alla
violenza, oggi è il contrario.
Per completezza di analisi aggiungo una osservazione interessante: nel mantovano i
norcini sono individuati con più nomi quali masìn, masalìn, masalì, masalèr, masalàr,
mazèn ecc. Nella vicina provincia veronese invece non ha un suo nome specifico. Il
motivo, assai rilevante da un punto di vista sociologico, mi è stato spiegato dal sig.
Davide Desto che possiede un agriturismo a Gaium di Rivoli. A suo parere il norcino
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era una figura pressochè sconosciuta in quanto in ogni famiglia contadina, per risparmiare, c’era qualcuno che sapeva lavorare il maiale. Si tenga conto che il mantovano,
dal terreno piatto e ben strutturato, era naturalmente una zona ricca mentre il veronese, dalla superficie ondulata, con alti dislivelli e fondo roccioso, era molto povera e ci
si arrangiava. In questa terra, anticamente, ci si orientava verso la soprèsa, insaccato
di notevoli dimensioni (anche oltre trenta chili) per averlo sempre morbido, conciato
con molto aglio, da consumare con la polenta.
Sull’argomento di questo mio lavoro sono stato informato dall’amico sen. Carlo Grazioli e successivamente dalla prof. Giuse Pastore, esperta in edifici religiosi mantovani, che nei secoli scorsi vi è stato un singolare rapporto, mantenuto sino ad oggi, tra
la nostra città e la comunità di Pinzolo nella valle Rendena. Da questo paese infatti
durante l’inverno venivano a Mantova molti operai, in massima parte facchini e falegnami per la lavorazione del legno per barche e ponti ma anche norcini. Il numero
era talmente considerevole che era stato loro concesso il giuspatronato di un altare
nella chiesa di S. Martino, posta in via Pomponazzo, ed un locale di sepoltura situato
davanti all’altare stesso. Il rogito è del notaio Emilio Righelli e porta la data del 10
febbraio 1604. Sopra l’altare vi è un quadro raffigurante la Madonna con il bimbo
benedicente ed i santi Sebastiano, Antonio abate, Stefano e Rocco, tutti venerati a
Pinzolo.
Mi ha molto incuriosito la presenza di questi masalìn a Mantova. Ho chiesto informazioni presso la biblioteca di Pinzolo. La direttrice dott. Carla Maturi, gentilissima, mi
ha precisato che la tradizione dei salumai più che di Pinzolo è tipica di due frazioni
limitrofe, Strembo e Caderzone. I residenti di Pinzolo svolgevano la professione di
arrotino, mentre quelli di Strembo e Caderzone erano norcini. Molti si sono spinti
anche nella zona di Trieste.
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La maialatura
nel mantovano
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Area collinare
Informatori: Arturo Antonioli, Gino Bonatti, Ezio Moreni
Con il nome maialatura i dizionari defiscono aridamente“il complesso delle operazioni con le quali si prepara la carne di maiale per gli usi di pizzicheria” (Palazzi). Detta
così, in modo asettico, sembra cosa di poco conto. In realtà “fàr sö el pursel” era un
fatto di fondamentale importanza nella vita rurale di una volta, sia perchè da esso
dipendeva in buona misura la disponibilità di grasso e di insaccati per scampare l’inverno, sia perchè era una delle rare occasioni nelle quali si poteva finalmente stare a
tavola senza preoccupazioni ed arrivare, per una volta, alla sazietà godendo per giunta
la compagnia degli amici.
Mangiare era una necessità ma anche l’unica opportunità di procurarsi un poco di gioia senza spendere troppo. Era dunque un giorno molto atteso, al quale ci si preparava
per tempo con un fervore pieno di grandi aspettative. Quotidiane erano le valutazioni
sulla crescita del maiale allevato in uno stalletto o nel porcile, attente le osservazioni
sulla forma del suo dorso, sulla probabile resa in lardo ecc., da parte delle donne di
casa perchè tale obiettivo era quasi un’ossessione. Averne una buona provvista significava possibilità di variare il cibo per gli uomini, compensarli della fatica ed ottenere
le giuste gratificazioni.
A quei tempi la scelta del maiale non era difficile: la razza “romagnola” era la più diffusa proprio perchè assicurava una preponderanza di tessuto adiposo su quello magro.
Adesso vanno per la maggiore la Landrace, di forma affusolata e con una costola in
più, e l’Enduro, incrocio tra la prima e la Large White, estremamente asciutte al punto
da essere consigliate persino nelle diete speciali.
Un tempo i maiali raggiungevano il peso anche di oltre 300 kg. La scrofa non doveva
avere la febbre cioè non doveva essere in calore. Il verro era sempre castrato (sanà,
in dialetto) altrimenti le sue carni e soprattutto la sugna, sapevano di orina tanto da
non poter essere addirittura lavorate. Che fosse un verro mal castrato lo si capiva da
tanti elementi ma soprattutto dal pelo duro ed irto sul dorso. Bisognava dunque stare
molto attenti.
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Tutti, maschio o femmina che fossero, dovevano possedere una schiena molto ampia
e spessa per ricavarne abbondante lardo da conservare al fresco della cantina. Oggi,
mutata la filosofia alimentare, si preferisce invece un maiale molto magro, del peso di
170 - 180 kg.
Il lavoro e le sue sequenze, invariate da secoli, avevano molto di rituale per cui parlare
di cerimonia o addirittura di sacertà non è del tutto improprio. I suoi officianti erano i
masalì sempre supportati da un ristretto numero di giovani aiutanti - verrebbe da dire
“concelebranti” - desiderosi di imparare il mestiere. Era un lavoro che teneva occupati
soprattutto durante i mesi invernali e proprio per questo costituiva una valida alternativa a quello nei campi. Gli ordini, la gestualità, gli attrezzi e la suddivisione dei compiti, erano il portato di una consuetudine tramandata che nessuno osava infrangere.
Dal buon esito della maialatura infatti dipendeva la consistenza della più importante
scorta alimentare - vale a dire della complessiva serenità della casa - per cui non erano
ammesse improvvisazioni avventate e dall’esito incerto.
Le componenti che potevano pregiudicare il risultato finale erano parecchie (concia, insaccatura, foratura, conservazione, cantina ecc.) ed i masalì che commettevano
qualche errore vedevano compromessa la loro professionalità, la loro fama. Ogni volta mettevano dunque a repentaglio qualche futuro incarico, posta troppo importante
per abbandonare la sicura via delle regole consuete. Essi avvertivano questo senso
di responsabilità, non ammettevano iniziative personali ed in pratica sorvegliavano
tutto. La loro autorità, peraltro, non veniva mai messa in discussione. Ci si rivolgeva
a loro premettendo sempre la parola masalì che nel contesto assumeva il significato
di “maestro”.
Ad essi spettavano i compiti più difficili e delicati quali quello di uccidere il maiale
con un coltello lungo ed affilato - frequente l’uso di una baionetta da soldato - di tagliarlo nelle due mezzene, di sceglierne le carni per i salami, i cotechini e le pancette,
di controllare la pulizia dei budelli e soprattutto di preparare la concia, segreto professionale del quale erano gelosissimi custodi e che non confidavano a nessuno. Agli
assistenti di cattedra erano affidate le mansioni di complemento come la raschiatura
delle setole, il disossamento, il sezionamento e la macinatura delle carni, l’insaccamento (ma non sempre perchè operazione piuttosto delicata), la legatura, la foratura
finale e tutte le pulizie dei tavoli.
Le donne avevano invece il compito di approntare il fuoco, i paioli e le pentole, le
pezze e gli stracci, cucire i budelli ed infine di cucinare la fritüra, colazione del mattino piuttosto gagliarda, preparata con il sangue del maiale, fegato, polmone, animelle,
filetto, reticella, carni di scarto e ghiandole (caren mate), prima tutto affettato e poi
soffritto con cipolla in convincente misura ed accompagnato con polenta fresca.
Noi bambini sottolineavamo questo insolito mangiare, ricco ed abbondante, con sorrisi festosi e vivaci esclamazioni. La raschiatura delle setole - che non dovevano essere
tagliate ma levate - veniva effettuata con una apposita raspa, ricavata quasi sempre da
una vecchia falce, o con un coltello usato in un certo modo.
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Le carni magre e le parti grasse (circa un terzo delle prime) venivano macinate, sistemate in un largo contenitore di legno detto mésa o méseta, pesate, conciate diversamente per salami e cotechini, e poi pügnade cioè lavorate lungamente, con le nocche
delle mani chiuse, sino a che le se amava, “si amavano” - espressione stupenda, di
caratura dantesca - e la massa diventava via via più compatta. Se la carne era fredda
si doveva lavorare molto di più.
Per i salami andava bene qualsiasi tipo di carne eccettuata la testa ed i muscoli delle zampe che finivano nei cotechini, assieme, è ovvio, alle cotenne. La fase della
pügnadüra era terminata quando un po’ dell’impasto sbattuto nel palmo e poi capovolto, restava attaccato alla mano. Gli informatori concordano nel dire che per un
buon cotechino le cotenne, tagliate prima a strisce e poi ridotte a pezzetti dalla macchina, devono essere il 50% del totale. Noto, per inciso, che la stessa proporzione si ritrova nell’“Apicio moderno” scritto dal grande Francesco Leonardi, cuoco di Caterina
2ª imperatrice di tutte le Russie, alla voce “Codechini”.
Tutte queste notizie le ho apprese da alcuni norcini di Cerlongo. Per farmi descrivere
come si fà sö el pursel alla cerlonghina (non “alla cerlonghese”, dizione corretta e
quindi foresta) ne ho invitati, tramite il prezioso Virgilio Antonioli, alcuni individuati
con il criterio della “chiara fama” ed ho dato loro appuntamento nella sede dei Cantori
del Caldone, il grande coro locale di canti popolari.
Mi ero preparato molte domande che attingevano tanto ai ricordi della mia infanzia
quanto ad una serie di mie personali scelleratezze culinarie intervenute in giovane età.
Hanno risposto Gino Bonatti di anni 73 (circa 2400 maiali in carriera), Ezio Moreni di
anni 53 (circa 450 lavorazioni) e Arturo Antonioli di anni 57 (circa 400).
I loro maestri, verso i quali hanno espresso sentimenti di commossa gratitudine, sono
stati: Baldi, Rino Minuti detto Pirlì, Messedaglia detto Mosca ed il grande Santo Bonani di Cereta, frazione ad un tiro di schioppo da Cerlongo, detto Santì.
Passato un primo momento di imbarazzo, la conversazione si è svolta molto piacevolmente, direi in modo caloroso ed appassionato, in un susseguirsi di ricordi soggettivi,
di episodi caratteristici e di commenti interessanti. Autentica, nei miei ospiti è stata la
gioia di poter parlare del proprio lavoro ed altrettanto sincero il loro entusiamo. Voci
un po’ fragorose, per la verità, difesa convinta delle proprie scelte professionali ma
grande rispetto per quelle degli altri.
É saltato fuori - ma già lo sapevo - il piccolo mondo della civiltà contadina, proprio
quello che io amo e che con molta amarezza vedo arrendersi, giorno dopo giorno,
incalzato dalla arrembante e stolida angoscia di nuove mode. É scaturito cioè un universo fatto di cose semplici e di valori concreti nell’ambito del quale la maialatura, da
sola, può dire molto ai sociologi.
Un tempo c’era almeno il novanta per cento delle famiglie che confezionava il maiale
in casa. Ora le proporzioni si sono invertite e, là in fondo, si profila arcigno lo spettro
della fine. Un amen commosso.
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C’è buio. Siamo al mattino, verso le sette, di un giorno compreso tra il 20 novembre
ed il 20 dicembre, periodo ritenuto ottimale in zona collinare perchè l’aria è ancora
abbastanza umida. Davanti alla casa è allestita una incastellatura a cavalletto, fatta con
pali di legno, detta becaröl, mentre nel paiolo già bolle l’acqua. Gli uomini si danno
da fare, le donne sono pronte, i bambini già svegli ed eccitati.
Con tecnica consumata, in due ribaltano il maiale ed il masalì lo uccide con un lungo
coltello. La bestia viene stesa su delle assi, si raccoglie il sangue e subito dopo viene
sbollentata con acqua calda e raschiata con la raspa per togliere le setole che non devono essere tagliate ma estirpate. Dopo che il maiale è nettato con cura, lo si solleva
sul becaröl agganciandolo ai tendini delle zampe posteriori. Viene successivamente
eviscerato, tagliato a metà e ridotto in parti: la testa, le frattaglie, i budelli (subito lavati più volte, ripassati ancora con acqua ed aceto, tagliati per la lunga, a misura e dati
alle donne per la cucitura), la vescica ecc. Tutto è buono, non si scarta nulla.
A questo punto, passato il momento cruciale della morte violenta, vissuto da tutti con
un senso di afflizione e di inquietudine, iniziano gli scherzi. Essi rappresentano un
complemento liberatorio ed irrinunciabile della liturgia.
Quelli più consueti si riducono ancora oggi, in buona sostanza, a tre. Al ragazzo più
giovane ed inesperto viene comandato di andare dalle donne a farsi dare al nètaurècie
- o anche sgüraurecie - il nettaorecchie, (strumento inesistente). Questi, ubbidiente,
corre in casa e, complice la residùra, torna con un sacco pesantissimo ove è stato
sistemato un grosso sasso o un prisma di calcestruzzo. Gli si raccomanda di non appoggiarlo per terra perché contiene uno strumento delicatissimo. Sbuffa per la fatica,
quasi non riesce a sollevarlo e tutti ridono della sua ingenuità.
L’altro è decisamente greve ma lo riporto perchè è riscattato dalla componente demologica: gli uomini mandano a chiamare la più graziosa e smorfiosetta delle ragazze.
Viene, le dicono di portare un piatto per il cuore ed i rognoni nonchè un ago con del
filo bianco. La curiosità è femmina: “per far cusa ?” chiede ignara la fanciulla, ore
rotundo. “Per cùsega el büs del cül” (non traduco) è la salace risposta. Sorpresa,
stupore, sconcerto, poi tutti sbottano in risate sgangherate ma piene di innocente bonarietà. L’ultimo consiste nell’ordinare ad un bambino di andare nella corte dei vicini
a farsi dare una improbabilissima squadra tonda per misurare la precisione dei lavori.
Messo in soggezione dal nome tecnico dell’attrezzo ed abituato a non discutere gli
ordini degli adulti, il bambino va di corsa ma viene sempre indirizzato verso altre famiglie. Quando infine qualcuno, impietosito, lo manda a casa, è informato, tra le risa
di tutti, che la squadra tonda è stata trovata. Anche per questa via, comica ma un poco
maligna, si provvedeva ad educare alla vita.
I pezzi vengono portati dentro, in un locale rustico di buon comando o anche in cucina, posti sulle tavole da lavoro e scarniti dagli aiutanti e da qualche collaboratore
occasionale. Il maestro toglie le parti particolari che gli serviranno per le coppe e le
pancette, seleziona quelle destinate a far cotechini, dà indicazioni per eliminare le infiltrazioni di unto. Per fare dei buoni salami occorre infatti un grasso sodo e compatto:
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quello della spalla è sempre il migliore.
Con mano abile ritaglia le larghe e spesse falde di lardo e leva la cotenna agli altri pezzi meno nobili. Il suo occhio è vigile, non gli sfugge nulla, risolve i piccoli problemi,
valuta immediatamente la qualità, scarta inesorabilmente ciò che potrebbe nuocere
alla conservazione: è in gioco il suo prestigio.
Le carni sono tagliate in strisce e macinate. Un tempo, quando ancora non c’erano le
macchine, le cotiche erano poste su una zocca (Arturo lo ricorda bene) e sminuzzate
con un rettangolo di ferro bene affilato alla base avente due manici detto la pistàsa. Le
carni invece erano ridotte mediante mannarine dal lungo manico di legno manovrate
da due lavoranti posti ortogonalmente l’uno all’altro così che il taglio avvenisse nei
due sensi. Gli informatori concordano nel dire che le carni, sminuzzate e non violentate dalla pressione della macchina (mia smunsìde, dice Pierino Bissoli), davano un
prodotto migliore.
Grande attenzione era posta agli strumenti di lavoro ed in particolare ai coltelli ed alla
macchina per tritare le carni. I coltelli - dice Gino Bonatti - dovevano essere fatti di
buon acciaio ed essere sempre ben molati. Si arrotavano soprattutto da una sola parte
e poco dall’altra affinchè il filo fosse sempre sostenuto. Lo si rigenerava di quando
in quando con el salì (affilacoltelli), lungo ferro leggermente zigrinato, passato obliquamente per cinque o sei volte dalla punta verso il manico. Per la macinatrice il
problema principale era di far aderire perfettamente la stella delle lame alla piastra
dai fori dalla quale doveva passare la carne. Questa doveva essere ben tagliata e non
maciullata. Se tutto non era a posto - bastava un’occhiata per accorgersene - si doveva
rifare la molatura dopo solo due maiali per cui i bravi masalì avevano sempre lame
e piastre di riserva per non interrompere il lavoro. Un grande progresso è stato l’introduzione delle lame autoarrotanti con le quali non si doveva ammattire: intanto che
macinavano si affilavano da sole.
Siamo alla concia. Questa, pur con tutte le varianti, proprie di ciascun masalì e delle
diverse aree del mantovano, mantiene ancora molto di quanto si ritrova negli antichi
epulari. L’impasto per il salame viene posto in un capace contenitore di legno, di tara
nota, e pesato. Calcolato il peso netto il norcino lo cosparge di una proporzione personalissima di sale, aglio, droghe.
Molti anni fa, quando i maiali venivano allevati in casa, il sale giungeva sino al 33
- 34 % del peso netto. Ora, con i mangimi ricchi di sostanze chimiche, si scende al
di sotto del 26 %. É considerato normale il 23. Si faccia attenzione che io uso la dizione corrente tra i masalì. In realtà la matematica impone di collocare una virgola
in mezzo alle due cifre. Era pratica consueta non salare troppo l’impasto e per capire
quanto sale si doveva ancora eventualmente aggiungere, si metteva un poco di pesto
in un tegame o semplicemente su un foglio di carta oleata, lo si cuoceva sulle braci e
tutti i presenti lo assaggiavano. Questa grossa polpetta era chiamata tastasàl, pratica
consueta soprattutto nel Veneto e che dalle nostre parti veniva cotta più che altro come
scusante per mangiare un boccone assieme e bere un goccio confortante.
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L’aglio (tre capi ridotti in spicchi mondati e privati dell’anima, in media, per quintale
di impasto) è un ingrediente ineludibile. Può essere aggiunto semplicemente tritato
ovvero posto la sera prima in una terrina con del buon vino rosso, molto alcolico e
di buon corpo che sappia ricavarne l’umore. Dopo aver versato il vino vi si aggiunge
anche il succo strizzando fra le mani gli spicchi spellati e tritati, avvolti in un panno
a trama larga.
La quantità di pepe è piuttosto variabile: da uno (Gino) a due etti (Ezio) per un quintale di pasta di salame. Deve essere del tipo “mezzagrana” vale a dire macinato grosso.
Arturo ci mette anche mezzo etto di quello garofolato (garofanato) che conferisce un
particolare sapore. Una volta - proprio per garantire una buona conservazione - era
immancabile il nitro (salnitro) che a Cerlongo si comperava al fontec (fondaco) di
Elia Nobis ed ora, in bustine, in farmacia. Ha la funzione di evitare la formazione del
terribile botulino e di conservare il colore rosa vivo alle carni stagionate.
Anticamente - ma anche oggi la tradizione non è del tutto scomparsa - oltre ai salami,
come dire, normali c’erano anche quelli particolari. Il più tipico era quello “della lingua”. Si confezionava infilando nel budello, assieme alla solita pasta, anche la lingua
del maiale, prima spellata e tenuta in concia per qualche ora con sale, pepe, droghe ed
aglio. Lo si mangiava cotto, nelle famiglie di rigorosa tradizione, soltanto per il giorno
della Ascensione per cui era noto il detto “chi magna mia el salam el dé de l’Asensa,
per töt l’an el resta sensa” cioè “chi non mangia il salame nel giorno dell’Ascensione
non lo mangia per tutto l’anno”. La ingenua poesiola era considerata di grande comicità ed ironia.
Altri tipi di salami particolari erano quello con l’osso del petto (lo sterno) condito
come la lingua e confezionato con la vescica, o quelli che, come variante, si insaccavano con dentro un pollo, una faraona, un piccione ecc. Questi volatili da cortile venivano puliti bene, messi in infusione precedentemente anche per due giorni con vino
rosso e droghe, riempiti poi di pasta di salame ed infilati, con altra pasta attorno, nella
vescica o in grandi budelli. Erano serviti in particolari circostanze dopo averli cotti in
acqua non troppo salata. Ma torniamo al presente storico.
L’insaccatura va fatta con molta cura per non lasciare all’interno bolle d’aria che farebbero marcire tutto. Quando i salami sono pronti da appendere, proprio per evitare
questo pericolo, vengono comunque tutti punzecchiati a fondo con il furì (forino).
Oltre che con i budelli del maiale l’insaccatura può essere fatta anche con vescica,
budello gentile, pelle delle coste, membrana della sugna, quelle delle cosce ecc. In
queste ultime, assai spesse, può conservarsi sino a due anni.
Nei cotechini diminuisce la percentuale di sale (tra il 20 ed il 22 %) perchè non necessitano di lunga conservazione. Bisogna infatti cuocerli in tempi brevi, entro due
mesi al massimo. Gli aromi sono ovviamente diversi: per 15 chili di pasta si mettono
10 grammi di spezie in polvere (cannella e chiodi di garofano in parti uguali), pepe 20
grammi, un pizzico di salnitro, ed ancora un poco di aglio con il suo vino. Arturo non
mette chiodi di garofano ma noce moscata ed un poco di pepe garofanato. All’aglio si
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toglie, come sempre, il germoglio interno.
Il cudeghì del tripet (fatto utilizzando lo stomaco) è la sublimazione del cotechino, un
trofeo di circa 5 chili che molti anni fa si mangiava a luglio (era l’unico che resistesse
per tanto tempo ma in una cantina fresca), quando si batteva il grano. La famiglia di
Ezio lo fa asciugare per circa 15 giorni poi lo conserva, immerso nello strutto, in un
apposito recipiente.
Le coppe, informa Gino, sono fatte, ovviamente, con la carne del collo cosparsa generosamente di un trito di pepe, sale, cannella, aglio, chiodi di garofano e poi tenute in
un recipiente adatto per 4 giorni, rivoltate due volte al giorno ed infine insaccate nelle
pelli della sugna. Arturo concia le coppe con solo sale, pepe e poca noce moscata.
Ezio con sale e alloro secco sbriciolato, leva il liquido che giornalmente si forma nel
recipiente e quando insacca cosparge la carne con pepe e noce moscata. Il salame è già
buono dopo quattro - cinque mesi, la coppa è ottima a maggio.
La pancetta, altro salume di grande prestigio da queste parti, è condita normalmente,
dichiara Arturo, con la stessa ricetta del salame più una pizzicata di cannella. Qui però
le dottrine divergono: Gino mette anche dei chiodi di garofano, Ezio niente cannella
ma molto pepe.
E il culatello? Non è un insaccato usuale. Ne fornisco la ricetta solo per non tradire
le aspettative dei miei norcini, evidentemente orgogliosi della loro capacità di saper
fare, anche dalle nostre parti, questi veri diamanti della gastronomia emiliana e veneta, che trovano la loro glorificazione rispettivamente a Langhirano ed a San Daniele
del Friuli. Per la verità non è il culatello vero e proprio ma la punta della coscia cioè
il “fiocco”.
Come si tratta? Ezio lascia il grasso ma lo insacca nella vescica, dopo averlo tenuto in
concia per 4-8 giorni con solo sale e foglie di lauro sbriciolate. Arturo toglie il grasso
ma lo insacca nelle pelli della coscia dopo averlo tenuto in infusione con sale, pepe
e noce moscata. Gino addirittura non lo inserisce nel suo repertorio perchè non ha il
tempo di ripassare nelle case dopo il periodo di marinatura, per insaccarlo.
Le migliori cantine? A Cerlongo erano quelle vecchie degli Antonioli, del pret, dei
Ferri e di Nino “Carinchio”. Questi sacri antri, deputati a custodire beni così eccelsi
e profumati, erano conosciuti da tutti perchè al di là di ogni concia raffinata, di ogni
attenta lavorazione, della migliore cura professionale, la qualità del salame è, prima
di tutto, data dal luogo della sua conservazione. Ricordo benisimo che Rino Minuti,
famoso masalì locale, mi ha assicurato che si possono ottenere dei buoni salami anche
se l’impasto è condito con solo sale (indispensabile) purchè appesi in un ambiente
adatto per grado di umidità e per temperatura costante, molto fresca, anche in periodo
estivo. Alcuni contadini che abitavano nelle zone collinari si costruivano, una volta
(ma ce n’è ancora qualcuna), una specie di caverna all’interno della collina proprio
per avere queste condizioni. Io ne ho viste un paio e posso assicurare che i luoghi
erano perfetti per la stagionatura. Ovviamente era necessario, per evitare riprovevoli
incursioni esterne, che questo singolare tipo di cantina fosse costruita in prossimità
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della casa.
Un tempo, come si è già detto, il salame e gli insaccati in genere avevano un solo
scopo, un’unica aspirazione: sostenere la famiglia in periodo invernale. Non passava
giorno infatti che una parte della consistente riserva iniziale non fosse adoperata in
cucina. Era un consumo graduale, parsimonioso e misuratissimo, le porzioni del quale
erano storicamente determinate: una fetta.
Se ”l’uomo è ciò che mangia”, come diceva Feuerbach, i nostri vecchi dovevano essere costituiti di una essenza eterea, impalpabile: a cena una fettina di salame (“proprio
una e trasparente”, precisa Gino) doveva bastare. La si gustava alla fine, dopo averla
resa diafana a forza di passarci sopra con la polenta calda. Qualche rarissima volta ma era considerato come un biasimevole spreco - si tagliava un salame in compagnia
degli amici. Era un momento di consolazione, con un risvolto addirittura di leopardiano - sissignori - se inteso come cessazione momentanea dell’affanno perenne. Si
sconfiggeva, per una sera la parsimonia, la povertà e non era poco.
Il gruppo si ritrovava in quel clima di festa fra uomini, ricco di valori e di implicazioni
socializzanti, per descrivere il quale prendo a prestito, mi si consenta il gheo, alcuni
versi quanto mai acconci di C. Porta:
“el mangià e bev in santa libertaa
in mezz ai galantomen, ai amis
in temp d’inverna al cold, al fresch d’estaa
diga chi voeur, l’è on gust cont i barbis”.
Dopo la legatura, che consiste nel fare passare sopra le corde messe per la lunghezza,
per sostenere il peso del salame, una serie di cappi disposti trasversalmente segue la
fase della foratura. Qualcuno usa la rete elastica, una diavoleria moderna che ha il
vantaggio di stringere continuamente la pelle man mano che il tutto si asciuga ma, a
vederla, stringe il cuore.
Siamo giunti alla fine. I salami ed i cotechini - le pancette, le coppe ecc. - sono disposti
sul baldachì cioè legati sopra una impalcatura che si fissa al soffitto della cantina. É
il trofeo della famiglia, che tutti ammirano con occhio compiaciuto. Dopo una asciugatura di circa una settimana, che richiede ogni attenzione possibile per mantenere gli
insaccati a temperatura costante e per garantire un ambiente al giusto grado di umidità e di areazione (si aprono e si chiudono i finestrelli, si mettono delle braci vicino alla
porta ecc.), si può dire che il più è fatto. Poi si mettono in cantina.
I masalì concordano che i salami andrebbero posti sopra le botti del vino perchè la
lenta evaporazione del liquido assicura il corretto tasso di umidità. Il pavimento ideale
della cantina è quello costituito dalla sola terra o quello fatto di mattoni. Il cemento,
per una volta tanto, non va assolutamente bene. Me ne compiaccio.
Da ora in poi bisogna stare attenti ai possibili difetti che possono mandare a male tutto
il prezioso lavoro. I principali sono:
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- la muffa: si forma generalmente durante gli inverni piovosi, quando il clima è troppo
umido. Per eliminarla si fanno asciugare i salami fuori dalla cantina, all’aria aperta in
una giornata secca e poi si spazzolano. L’operazione viene particolarmente bene con
il getto d’aria che ha il vantaggio di non toccare le pelli. Se non è possibile eseguire
la spazzolatura perchè le giornate permangono umide, si lavano con acqua ed aceto
(metà e metà).
- il lispio (umidiccio sopra la pelle): si lavano semplicemente con acqua ed aceto.
- budelli secchi: è un inconveniente non raro quando l’ambiente è particolarmente
asciutto (el strìca). Si corregge ponendo in terra, sotto il baldachì, dei sacchi di iuta
bagnati d’acqua oppure si inumidiscono direttamente le pelli con vino bianco spruzzato con l’arnese per nebulizzare la biancheria (sprüsì).
- camole (vermi): si formano quando la muffa non viene tolta in tempo. I vermi si
insinuano al di sotto della muffa, non entrano nel salame perchè troppo salato ma ne
mangiano il budello. Lavare con acqua ed aceto.
Con un senso di apprezzabile disagio i masalì mi hanno detto che oggi è pratica diffusa
preservare i salami nel congelatore, avvolti in un sacchetto di carta, durante il periodo
estivo. Ciò è conseguente al fatto che le odierne cantine, costruite con mattoni forati,
non sono più adatte a mantenere il grado di temperatura (10 °C - 15 °C) indispensabile
alla conservazione. A loro parere l’insaccato mantiene il sapore ma perde il profumo.
Le grepule (cìccioli). Dai numerosi ragguagli dei miei informatori, dalle loro attente
e continue precisazioni, ho ricavato la convinzione complessiva che una cattedra in
“grepologia” non sarebbe insegnamento del tutto inutile. Nei supermercati è posta in
vendita una produzione di tipo industriale, non malvagia per la verità, ma secca e brunita come un biscotto. Manca il contatto tenero e pastoso con i denti, manca il colore
dorato tipico delle venature del lardo per cui, stesa sulla polenta, presenta un aspetto
inquietante. I cìccioli vanno fatti con il grasso molle del maiale o meglio ancora con
la pancetta. Si mettono le parti adatte in una pentola di rame con un fondo di acqua
ed a fiamma inizialmente bassa per favorire l’immediato scioglimento dei pezzi più
teneri. Si toglie via via lo strutto che si forma. É quello bianco ed è il migliore, adatto
anche per fare dolci fini.
Verso la fine, quando le grepule cominciano leggermente ad imbrunire, si aumenta
un poco la fiamma per poi ritirarle bene asciutte. Allo scopo può essere utile anche
versare, assai lentamente per evitare spruzzi roventi, un poco di latte o mettere una
copia di pane. Bisogna avere un occhio molto allenato per levarle dal fuoco prima che
brucino. Non si salano.
Per dire quanto la tradizione possa dominare nella maialatura, faccio presente che
la stessa tecnica si ritrova nel “Libro de arte coquinaria” di Maestro Martino, scritto
verso la metà del 1400, nella ricetta “Per far structo de porco”.
Le grepule si mangiano con la polenta. Lo strutto si conserva in vasi di terracotta (pignate da tera) oppure in sacchetti di plastica, messi in congelatore, senza sale.
Per completezza di informazione occorre dire che oltre che con la carne di maiale, i
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salami possono essere fatti anche con quelle di vitello o manzo (il cosidetto mistürì),
di tacchino e di oca. Le parti grasse di questi animali vanno però tolte e sostituite con
grasso di maiale. L’impasto e la concia sono quelli consueti. Il mistürì di manzo e
maiale viene cotto e mangiato di domenica.
Con una punta di amarezza, con un certo travaglio interiore, inserisco qualcuna tra
le modalità più seguite per conservare i salami ed i cotechini quando il caldo della
primavera e, soprattutto dell’estate, rendono inutile anche la cantina meglio costruita.
Con la temperatura alta i salami cominciano a sudare, si seccano ed il sapore si altera.
Una volta, tra le famiglie del contado, c’era la consuetudine di consumarli entro San
Giovanni e cioè il 28 di Giugno. Con l’avvento del freezer qualcuno ha trovato la possibilità, per via empirica ma non corrispondente, per ottemperare alla bisogna.
1)
Si mette il salame in un sacchetto di carta e lo si pone nel congelatore. Lo si
tira fuori un giorno prima del consumo.
2)
Si leva la parte superiore di una bottiglia di plastica da 2 litri, vi si colloca il
salame o il cotechino, si riempie di acqua e si pone – ovviamente in posizione verticale
finchè non si è formato il ghiaccio - in freezer.
3)
Si mette il salame in un involucro di carta da cucina e quindi in un altro di
plastica goffrata. Vi si fa il vuoto con la apposita macchina. Si conserva in frigorifero
a temperatura da 1 a 9 gradi. É soluzione migliore delle precedenti.
4)
Il sig. Giuseppe Zen di Rodigo, esperto in salumaria, dà queste indicazioni.
Il salame stagionato che si intende consumare va pulito dalla muffa con una spazzola
rigida (brüscia) sotto acqua corrente e quindi tagliato non di sbieco ma perpendicolarmente alla lunghezza. La sezione della parte che rimane va leggermente unta di olio.
Si mette poi questa sezione appoggiata su un piatto liscio affinchè sia esclusa dal contatto con l’aria e non si ossidi. Il salame va poi tenuto in un cassetto e mai più riposto
in frigorifero.
La sera della maialatura veniva servito il “risot del pursèl”. Eccone la ricetta canonica
così come dettata dagli intervistati (per una volta assolutamente concordi).
Come già detto è questo il piatto principale che si serve ai masalì, ai lavoranti, alla
famiglia ed agli amici. La cuoca sa che non deve farlo troppo pesante per compiacere
i norcini, stanchi ormai di cibi eccessivamente grassi. Secondo tradizione locale deve
risultare molto morbido, quasi in brodo.
Per mezzo chilo di riso quattro etti di pasta di salame appena fatta, brodo preparato
con acqua, sale e ossa di maiale (ha un gusto dolce, molto particolare), formaggio grana ed un bicchierotto di vino bianco secco (ma in certe famiglie si usava il vino rosso).
Riso vialone nano mantovano, rigorosamente.
Il brodo va fatto molte ore prima, cioè al mattino, con alcune ossa dell’animale e poi
lasciato al freddo così da dare modo al grasso di rapprendersi e di essere facilmente
asportato con un mestolo forato. Comincia ad essere una pratica abbastanza diffusa
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fare il brodo, il giorno precedente, con una mezza gallina vecchia, corretto alla fine
con un poco di dado. È un vulnus all’osservanza ma consente di avere un brodo gustoso, privo di grassi, discretamente allineato alla tavola contadina di una volta.
Rosolare la pasta di salame con il vino bianco (si noti che non si fa uso nè di burro
nè di cipolla). Quando la carne ha cambiato colore ed il grasso si è un poco sciolto,
si versa il riso e lo si fa tostare per qualche minuto. Si porta poi a cottura con il brodo
accuratamente sgrassato e versato sapientemente a mestoli successivi, menando di
quando in quando. Alla fine spolverare di grana padano grattugiato a mano e tramenare delicatamente un’ultima volta. Coprire. Lasciar riposare due minuti. Servire.
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Alto mantovano
Informatore: Zeno Roverato
I ricordi della maialatura come avveniva tanti anni fa, li conservo impressi nella mia
mente fin da ragazzino.
Era una genuina tradizione familiare contadina, rinnovata ogni anno per necessità,
quando la terra nei mesi di riposo non dava alcun frutto, nella semplicità e solidarietà
che distinguevano a quei tempi le umili persone di campagna. Nel timore che possano
sfumare dalla mia memoria, cercherò di illustrare a parole, immagini ed emozioni
vive in me, sperando di riuscire a tradurle il più fedelmente possibile e trasmetterne
l’autenticità.
Una volta, quando nelle campagne si viveva a stento, tra fame e miseria, durante il
lungo e rigido inverno, alcune categorie di lavoratori come i braccianti, i muratori, i
piccoli agricoltori, gli affittuari o mezzadri, si ritrovavano senza lavoro. Erano privilegiati i masalìn, gli unici ad avere una fonte di guadagno, seppur modesta, in questo
periodo difficile. Alcuni di questi, persone forti e determinate, avevano appreso l’arte
dal padre o dal nonno, mentre altri, naturalmente predisposti a macellare, osservando
e collaborando a far su il maiale della propria famiglia e quelli dei vicini, avevano
acquisito facilmente le nozioni di base e, con disinvolto coraggio, si improvvisavano
masalìn ed andavano per le case.
La ricompensa era di grande aiuto per sostentare le famiglie. Inoltre venivano omaggiati della classica “ciupeta”(così detta per la caratteristica forma, equivalente a circa
4 salamelle) e una dopo l’altra, a fine stagione si ritrovavano con un discreto “baldachin”. C’era un po’ di gavetta da fare per farsi conoscere, perché ogni famiglia era
legata al proprio masalìn e lo prenotava un anno per l’altro. Le opportunità all’inizio
erano poche: qualche famiglia nuova, oppure quelle disdette dai masalìn più quotati, in quanto troppo povere o di scarsa collaborazione. Bisognava inoltre procurarsi
l’attrezzatura necessaria, che era così composta: la machina di salam o de masnà (il
tritacarne era una dizione sconosciuta), dotata di due piastre di diverso diametro, con
un unico coltello a crocetta per entrambe, per la macinatura del salame e del cotechino
e due imbuti per l’insaccatura.
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Questa veniva posizionata in una cassetta di legno, che poggiava sul fanale della bicicletta e fissata al manubrio. Il cannello per gonfiare la vescica e le pelli grasse del
surrene, tre o quattro coltelli per sè e per gli aiutanti, lo stiletto per la scannatura, una
piccola scure per sezionare le due mezzene e due raspette, ricavate da una vecchia
falce, per levare le setole dopo la scottatura con l’acqua bollente. Questi ultimi attrezzi
erano riposti in una sporta di cuoio o di paglia attaccata al manubrio.
Con le “sgalmare” (zoccoli di legno) ai piedi e ben avvolto nel tabarro, rigorosamente
col buio, il masalìn, con la bicicletta ben caricata, si recava nella corte, dalla famiglia
con la quale aveva concordato per quel giorno l’uccisione del maiale.
Ancora da lontano, lo si sentiva arrivare dal tintinnio degli attrezzi, per i sobbalzi
della bicicletta e dal rumore della ghiaia solcata dalle ruote. Gli uomini indaffarati nei
preparativi già da alcune ore, si scambiavano un cenno d’intesa, a conferma che tutto
era pronto.
Lo si vedeva sbucare dalla nebbia o dal buio solo quando entrava nello spazio illuminato dal chiarore del fuoco, sotto il paiolo. Tutti lo salutavano con premura, subendo
la soggezione che incuteva. Le donne erano da giorni indaffarate a preparare il locale,
mettendolo in bell’ordine. Avevano disposto il tavolo con sopra l’asse della pasta,
preparato gli stracci e le tovaglie vecchie, tenute da parte da un anno all’altro appositamente per l’occasione. Queste si usavano legate davanti, a mo’ di grembiule, per
appoggiarvi le cose e asciugare il sangue. Avevano preparato i vasi di vetro lavati e
ben asciugati, per la raccolta del grasso e dello strutto, gli altri recipienti, i piani di appoggio necessari e si affrettavano a preparargli il caffè. Gli mostravano come avevano
predisposto, sperando in un cenno di approvazione.
Lui riponeva l’attrezzatura nel locale della maialatura, prendeva solo il necessario per
la macellazione, indossava gli stivali di gomma per non bagnarsi e imbrattarsi di sangue, si rimboccava le maniche e con lo stiletto in mano, si avviava verso il paiolo. Vi
immergeva un autoritario dito per controllare la temperatura dell’acqua. Quasi sempre
contestava: se l’addetto all’acqua riteneva fosse già pronta, per lui era ancora fredda.
Se invece bolliva bene, faceva aggiungere un po’ di acqua fredda, asserendo che altrimenti avrebbe scottato la cotenna, rendendo difficoltosa la pelatura. In questo modo
imponeva la sua autorità. Nessuno osava reclamare o contestare, ma tutti eseguivano
con solerzia ogni suo ordine.
L’atmosfera era particolare, il bagliore e lo sfavillio del fuoco che veniva ravvivato
sotto il paiolo, illuminavano i visi rossi ed il fiato delle persone intorno che indaffarate
si muovevano in silenzio e parlavano sottovoce, quasi volessero non far capire quello
che stavano facendo. Una decina di metri più in là, in fondo alla corte, era illuminato il
porcile. Da dietro il portello di legno rosicchiato e chiuso con un catenaccio di sbieco,
qualche grugnito voleva richiamare l’attenzione di chi non gli aveva ancora portato
il pasto. Al primo accenno dell’alba la persona, cui l’animale era affezionato, aveva
l’ingrato compito di farlo uscire. Impresa difficile in quanto era vissuto sempre in quel
piccolo spazio.
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Con calma, grattandogli la schiena, gli legava una corda attorno ad una zampa posteriore, poi lo sollecitava ad uscire spingendolo da dietro con le ginocchia. Allora
non c’erano i mezzi di stordimento attuali, quindi la fase dell’abbattimento era molto
cruenta. Per alcuni minuti, i versi della povera bestia, immobilizzata su una balla di
paglia per raccogliere il sangue da tre o quattro uomini, suscitavano una profonda
pena. Quando tornava il silenzio era un sollievo per tutti, ognuno riprendeva il proprio
ruolo: chi versava l’acqua, chi aiutava a raschiare le setole attento a non procurare
tagli alla cotenna, chi teneva pulito il posto di lavoro e chi aveva l’incarico di far
bastare l’acqua anche per la pulizia e il lavaggio dei budelli. Dopo l’accurata pelatura
e raschiatura, si toglievano le unghie con l’apposito rampino. Una piccola di esse, il
masalìn se la metteva in tasca, la usava poi, messa in punta al coltello, per infilare le
budelline e aprirle con facilità.
Si fissavano le zampe posteriori, ben divaricate, al picaröl che veniva issato facendolo
scorrere su due robusti sostegni, posti obliquamente contro il muro della stalla o del
portico, fino a che il maiale rimaneva perpendicolare, senza toccare terra.
Si accendeva un pezzo di carta sotto il musetto per bruciare i peli rimasti, un’ultima
lavata e raschiata per togliere eventuali residui e si procedeva all’eviscerazione. Questa operazione era la più attesa, richiamava sempre un gruppetto di curiosi del vicinato
per controllare e confrontare lo spessore del grasso, patrimonio fondamentale perché
era il condimento per tutto l’anno a venire. Nel frattempo la rasdüra portava una sedia
con sopra un piatto per raccogliere le cervella e il midollo, due pezzi di spago, uno per
legare il retto durante l’eviscerazione al fine di non contaminare la carne, l’altro per
legare la vescica dopo averla gonfiata con il cannello di bambù, due tovaglie pulite
per proteggere le mezzene, quando si caricavano in spalla per portarle in casa ed un
mestolo per versare l’acqua all’interno dei budelli durante la lavatura.
Tutto era sistemato con cura e posto a fianco del picaröl. I commenti si accavallavano,
ognuno faceva la propria previsione, fino a quando il coltello maneggiato sapientemente e con precisione dal masalìn, metteva in evidenza lo spessore del grasso che
subito si misurava con la mano, contando le dita sovrapposte. Capitava che qualcuno
cercasse di barare allargando leggermente le dita, per sminuire un po’, altrimenti sarebbe stato più alto del suo. La massima resa che si poteva vantare, era l’altezza di un
“sömes” cioè una spanna con le tre dita interne chiuse. Si esaltava chi aveva azzeccato
la previsione, si giustificava chi l’aveva sbagliata, ma tutti speravano che la signora
autoritaria, rimasta in silenzio per tutto il tempo con una teglia in mano, li invitasse
a mangiare la “fritüra”, che si apprestava a cucinare, non appena il masalìn le avesse
messo a disposizione la reticella, il fegato, il polmone, le caren mate ed un filetto.
Quasi sempre finiva bene, giungeva il sospirato invito a colazione e quel giorno mangiavano tutti. In cambio avrebbero dato una mano per il resto della giornata ed inoltre
il suo uomo sarebbe stato ricambiato dai presenti con altrettante colazioni. Ricevuto
l’invito, regnava subito uno spirito diverso, più gioviale, finivano le polemiche e tutti
si prodigavano per rendersi utili. Dopo l’eviscerazione, serviva occhio e mano ferma
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e decisa per la spaccatura dell’animale. Le due mezzene dovevano risultare possibilmente uguali e non “con due orecchie da una parte”, frase di rito scherzosa, che si
rivolgeva al masalìn pronto all’opera. Qualcuno furbescamente sperava in un errore
grossolano, per poi movimentare tutta la giornata. Le due mezzene venivano lavate
dal sangue, ormai coagulato rimasto all’interno e si lasciavano gocciolare mentre nella stalla, con un aiutante che gli versava l’acqua, il masalìn procedeva alla lavatura
dei budelli con acqua calda ed aceto, preparandoli tagliati a misura per essere cuciti.
Per cucire i budelli, non era difficile trovare la disponibilità delle donne del vicinato
o parenti, perché l’aiuto sarebbe stato poi in qualche modo restituito. Ma più ghiotta
era l’occasione di una bella scorpacciata di pettegolezzi. A volte, durante l’insaccatura, capitava di trovare qualche budello cucito con una fetta dritta e una rovescia, ma
nessuna di loro era stata.
Quando chiamavano per andare a tavola, una sciacquata agli stivali, mezzo maiale
ciascuno in spalla ai due più robusti, si raccoglievano gli attrezzi e si portava tutto
dentro. Varcando la soglia di quella casa, apparentemente povera perché senza lusso, si respirava invece un’atmosfera ricca di calore umano, di semplicità e umiltà,
un’accoglienza genuina e sincera che avvolgeva in un piacevole tepore. Sulla stufa a
legna nell’angolo della cucina, c’era una grossa padella di ferro, piena di “fritüra” che
borbottava sobbollendo, per l’alta temperatura dell’unto.
Sul suo scorrimani erano appoggiati i piatti che dovevano essere preventivamente riscaldati per evitare che l’unto si addensasse quando si serviva la “fritüra”. Sulla stufa
stessa, fette di polenta a non finire.
Seduto accanto, appoggiato alla vasca dell’acqua bollente, l’anziano della famiglia,
rosso in viso tanto era accaldato ma impeccabile con il gilè, la giacca ed il fazzoletto
al collo, si era tolto il cappello però, forse più per rispetto che per il calore e lo teneva
sulle ginocchia, leggermente tremolanti. Si era alzato molto presto per accendere il
fuoco, lasciando riposare un po’ di più chi poi doveva lavorare sodo. A tavola mentre
gustavano quella prelibatezza sapientemente cucinata, parlavano della stagione, di
quando acquistare il maialino per l’anno dopo, per scongiurare rischi di malattie, si
scambiavano opinioni ed esperienze provate. Veniva anche programmato il lavoro
della giornata, assegnando i vari compiti a chi dava la disponibilità di aiuto. Non mancavano mai i complimenti alla cuoca, con la promessa di ricambiare.
Un ultimo bicchiere e il masalìn sollecitava a riprendere il lavoro. La parte più faticosa era fatta, ora si lavorava in casa, al caldo.
Si entrava nella fase operativa specifica, particolarmente importante. Messo il grembiule, il masalìn consegnava un coltello a chi riteneva fidato, dava le istruzioni adeguate e si iniziava a sezionare le mezzene, spolpando cosce, spalle, coppe, pancette
e costine. Si tagliavano le cotenne a strisce, lasciando attaccato lo strato di grasso e
unto, si sistemavano stese in un locale non riscaldato affinché si raffreddassero per
meglio lavorarle in seguito. Si mondava la carne, separando quella da cotechino da
quella per il salame. Operazione abbastanza veloce, per la modesta quantità che si
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ricavava dai maiali di allora (32/40 kg di salame).
Nel frattempo, fissata al tavolo la macchina dei salami, i due aiutanti più robusti iniziavano a macinare mentre il masalìn scotennava il grasso che aggiungeva alla carne
nella giusta quantità (allora piuttosto abbondante). Messo da parte il grasso sodo adatto alla conservazione (macinato o a baffe, sotto sale), il rimanente veniva tagliato a
pezzi piuttosto regolari e posto nel paiolo che l’addetto a fare le grepule attendeva per
procedere nell’esecuzione. La carne macinata cadeva nel meset posto a terra sotto la
macchina. Questo recipiente era presente in quasi tutte le case o veniva preso in prestito per l’occasione. Era un corredo simbolo della maialatura, era un vanto avere quello
più capiente. Era assemblato con assi intere, per evitare fessurazioni e con legno ben
stagionato per non subire calo di peso e deformazioni. Sul bordo superiore in numeri
romani era inciso il peso. Terminata la macinatura, con la stadera si pesava il “meset”e
si sottraeva la tara dello stesso ed il masalìn cominciava a calcolare le percentuali della concia. Aveva già dato disposizione, fin dal mattino presto, delle cose da procurare
e quindi era tutto pronto.
Sale grosso un po’ ridotto con una bottiglia, pepe macinato grossolanamente, spezie
macinate in polvere (noce moscata, cannella e chiodi di garofano), salnitro, aglio tritato e messo a macerare in una scodella di vino rosso. La preparazione della concia
avveniva in un’atmosfera quasi mistica, nessuno fiatava, si udiva solo il borbottare
del masalìn che faceva i propri conti. Fatto il magico miscuglio, lo si spargeva sopra
l’impasto del salame e si procedeva alla pugnatura, rivoltando e mescolando continuamente affinchè la concia si distribuisse in modo omogeneo. Veniva poi rovesciato sul
tavolo ed era un buon segno se si staccava completamente dal meset.
Riposizionata la macchina con l’imbuto, recuperati i budelli cuciti, messi in un recipiente con acqua calda e aceto per mantenerli morbidi, si insaccavano i salami.
Una donna man mano terminava la cucitura dei budelli chiudendo l’estremità lasciata
aperta per permettere l’insaccatura. Mentre il masalìn legava i salami, la macchina
veniva approntata per la macinatura delle cotenne, precedentemente pestate sul ceppo
per ridurle il più possibile, con una piastra a fori larghi. Poi si ripeteva l’operazione
una seconda volta unendovi anche la componente magra, con una piastra a fori piccoli. Entrambe le macinature, erano molto faticose e richiedevano la forza di due uomini
robusti. Dopo la concia del salame, decadeva l’obbligo di sobrietà e gli uomini iniziavano a bere qualche bicchierotto di vino.
Siccome uno tira l’altro, vuotavano qualche fiaschetto riscaldando l’atmosfera. Così
compensavano il pranzo saltato, perché dopo la sostanziosa colazione, non si fermavano a mezzogiorno e recuperavano poi alla sera con la cena. I salami venivano appesi
dove c’era una fonte di calore o nella camera da letto sopra la cucina, perché era la
meno umida e la più calda, quindi particolarmente adatta all’asciugatura (di solito era
la stanza dove dormivano i bambini). Mentre si procedeva con i cotechini, all’esterno continuava la preparazione delle grepule ed ogni tanto il masalìn ne controllava
il punto di cottura. Doveva liquefarsi tutta la parte composta da strutto e diventare
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asciutta e croccante la parte rimanente, composta da lardo e venature di carne. Era
importante la scelta di quando toglierle dal fuoco, per non bruciare lo strutto ma allo
stesso tempo avere la giusta cottura. C’era sempre una persona esperta per questa
operazione, con il supporto del masalìn.
Durante questa fase, per tenere lontani i ragazzini che, tornati da scuola, giocavano
scorazzando attorno al paiolo pericolosamente e con la fastidiosa aggiunta di mille
perché, promettevano loro una prelibatezza esclusiva. Quando lo strutto era quasi
pronto per il travaso, fase a rischio di ustioni, mettevano dei panini vecchi dentro lo
strutto e quando si erano ben insaporiti ne davano uno a ciascun ragazzino, raccomandando loro di non farsi notare. Così se lo mangiavano di nascosto, allontanandosi dal
pericolo ed inoltre, sazi e quasi nauseati, se ne stavano buoni e tranquilli anche la sera,
quando le donne erano impegnate nei preparativi della cena del maiale.
La giornata oramai volgeva al termine. Anche i cotechini erano appesi e, se era richiesto, per ultimo si macinava il grasso posto al freddo per mantenerne la consistenza.
Veniva raccolta, lavata e asciugata l’attrezzatura, che il masalìn gelosamente controllava e riponeva con cura, pronta per il giorno dopo.
A volte il masalìn se era un po’ distante da casa sua o si era fatto troppo tardi, non si
fermava per la cena. Ricevuto il compenso e la ciupeta, soddisfatto dava un’occhiata
al baldacchino completo e forniva qualche suggerimento sulla temperatura da gestire
nei giorni successivi, per l’asciugatura. Si congedava con gratitudine.
La cena era un rituale antico. Si invitavano amici, parenti e i vicini. In genere partecipava un uomo per famiglia, ma si arrivava comunque a un discreto numero. Era una
serata allegra, si mangiava e beveva abbondantemente riso con l’impasto del salame,
ossa, faraona arrosto o arrotolato di lonza preparato dal masalìn, gorgonzola ed emmenthal, tutto accompagnato dal vino nuovo. Talvolta per il masalìn veniva preparata
un poco di minestrina con i fegatini. Spesso si finiva allegramente la serata con una
bella cantata.
In questo ambito, in queste atmosfere, ravvivato da un amore costante per la mia terra
e le sue tradizioni, mi sono educato a questa antica e nobilissima arte.
Sono nato e cresciuto in campagna, essendo la mia una famiglia di salariati, addetti
alla stalla. Abbiamo sempre vissuto in corti agricole abbastanza grandi, con altre tre
o quattro famiglie di lavoranti, oltre naturalmente a quella dei padroni. Ogni nucleo
familiare allevava il proprio maiale per poi macellarlo durante l’inverno. Nel periodo
da novembre a fine gennaio, quando uscivo per andare a scuola, all’età di 7/8 anni, al
mattino presto perché dovevo andare a piedi, udivo spesso i versi di qualche maiale,
che stavano uccidendo, provenire da una delle corti limitrofe. Se non c’era nebbia, si
vedeva il bagliore del fuoco e capivo chi era il fortunato.
Quando però il giorno in cui, ritornando da scuola, notavo certi preparativi in casa
e mio nonno fuori approntava il paiolo pieno d’acqua con accanto un mucchietto di
fascine, ero certo che la mattina seguente sarebbe stato il nostro turno. Preso dall’entusiasmo, dovevo escogitare una scusa per non andare a scuola. Come primo tentativo
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imploravo mia nonna promettendole che non avrei disturbato e mi sarei reso utile. La
risposta era no, se pur con un amorevole sorriso per la tenerezza che le avevo suscitato, anche se il mio proposito era serio. Il mattino seguente, mi svegliavo prestissimo
ed ai primi rumori sospetti balzavo giù dal letto e dalla finestra osservavo i movimenti
esterni. Chissà perché, soffrivo molto, in quelle occasioni, di attacchi improvvisi di
mal di testa, mal di denti o di pancia che fortunatamente si risolvevano passata l’ora
di andare a scuola. Probabilmente i miei genitori, indaffarati com’erano, fingevano di
credermi. Per me era iniziata la più bella giornata dell’anno.
Ho sempre avuto una forte attrazione verso questa storica tradizione. Ne ho subito il
fascino, mi ha coinvolto con forti inconsce emozioni, ed è nata in me una crescente
passione. Questa credo sia la sorgente, nonché l’anima del vero masalìn. Masalìn
dunque per passione, non per necessità.
Ho vissuto la maialatura nelle sue ultime evoluzioni, da quella sopra raccontata a
quella attuale. Nei primi tempi, durante la lavorazione, me ne stavo in disparte attento ad osservare, incantato ed affascinato, ogni movimento del masalìn, nelle fasi di
trasformazione del maiale. Nonostante la soggezione, ero sempre pronto ad ubbidire
a qualsiasi richiesta, cercando di rendermi utile per non essere allontanato. Con il
passare degli anni, aumentava la mia passione e mi arricchivo sempre più di nozioni
e manualità. Mi avvicinavo sempre più al tavolo, fino al contatto con la carne ed i salami. Sono sempre stato piuttosto robusto e dotato di notevole forza, così, nel tempo,
venivo maggiormente coinvolto ad aiutare il masalìn fino a divenirne un prezioso
collaboratore. Gradualmente mi venivano affidate mansioni via via più importanti,
a volte superiori persino alle mie capacità. Io, stimolato dall’orgoglio, le svolgevo
comunque senza esitare.
All’età di venti anni circa, ho creduto di farcela da solo. Con un minimo di attrezzatura, ho provato a mettere in pratica, su minime quantità di carne, ciò che avevo appreso
negli anni, in casa mia e da qualche amico. Sì, il risultato era soddisfacente, ma l’insicurezza era tanta, era molto più semplice lavorare con il tranquillizzante supporto
di un esperto. Mi arrangiavo, ma ero ben lontano dall’impersonare quella figura che
tanto avevo ammirato.
Mio papà, che condivideva la mia passione, mi consigliò allora di andare da Gianni
Cargnoni, amico di famiglia, agricoltore di Selvarizzo, una borgata tra Guidizzolo
e Castelgrimaldo, a chiedergli se potevo seguirlo per imparare. Questi nel periodo
invernale era richiesto da numerose famiglie perché era un valido masalìn. Gianni, un po’diffidente, acconsentì di mettermi alla prova, naturalmente senza nessuna
pretesa di compenso da parte mia. Capì subito la mia potenzialità e mi portò con sè
tutta la stagione, affidandomi presto mansioni di responsabilità (l’abbattimento, la
concia, l’insaccatura ecc.), se pur sotto la sua stretta sorveglianza. Prove di fiducia
gratificanti, che non potevo deludere e che mi responsabilizzavano. É stato un grande
maestro, mi ha insegnato con fermezza, decisione e precisione, senza “ma” e “forse”.
Una tecnica precisa e scrupolosa, mirata a dare il massimo risultato senza sprechi.
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Ogni operazione, fatta in un determinato modo anziché un altro, aveva sempre una
spiegazione logica e precisa. Mi ha insegnato a rispettare l’animale durante la fase
della macellazione e l’attenzione e la pulizia, nelle fasi successive, per non inquinare
la carne. Il suo insegnamento mi ha fatto acquisire la capacità di affrontare qualsiasi
inconveniente o imprevisto e mi ha reso indipendente e sicuro. Al momento di dargli
il compenso, alcune famiglie cercavano di trattenerne una minima parte per il mio
vitto, ma lui era soddisfatto ugualmente anzi a volte mi omaggiava della ciupeta o di
una piccola mancia.
Con queste basi solide, ho iniziato ad impegnarmi con le famiglie che mi richiedevano, guadagnando poco a quei tempi ma riuscendo tuttavia ad acquistare l’attrezzatura
necessaria, abbastanza costosa. Acquisita sempre più esperienza e perfezionata la mia
tecnica, quando mi sono messo in gioco partecipando ai vari concorsi o a gare paesane
del miglior salame, non sono mancate le soddisfazioni ed ho ricevuto gratificanti riconoscimenti. Ogni volta andavo a trovare il mio maestro per renderlo partecipe della
soddisfazione ricevuta. Non potevo fargli regalo migliore, era molto orgoglioso di me
e del suo insegnamento. Solo nell’ultimo confronto, il più importante, svoltosi a Rodigo il 25-26 giugno 2011 e cioè il “1° CONCORSO PROVINCIALE DEL MASALIN
MANTOVANO” - nel quale mi sono classificato primo su 56 partecipanti, provenienti da altrettanti comuni della provincia - non ho potuto coinvolgerlo e mostrargli
la medaglia d’oro perché purtroppo era venuto a mancare poco prima. Mi è spiaciuto
profondamente, nutrivo un sincero affetto per questa persona semplice e modesta.
Aveva 83 anni ma non li dimostrava: una di quelle persone che non invecchiano mai.
Era rimasto sempre lo stesso come quando mi portava con sè e mi presentava alle
famiglie.
Era molto cordiale e dal sorriso contagioso. È stato un masalìn come pochi, una persona speciale, che sicuramente rimarrà nel cuore di tanti. Se potessi gli domanderei se,
da bambino, aveva provato le mie stesse emozioni e se, come me, aveva dormito nella
camera dei salami. Sono sicuro che mi risponderebbe di sì. Spero di riuscire a mantenere viva la passione per questa tradizione il più a lungo possibile, con lo stesso entusiasmo di Gianni, per salvarla dalla caotica frenesia del mondo d’oggi. Questa rischia
di lasciare solo una malinconica nostalgia delle cose genuine e semplici, che per tanti
anni sono state le basi del nostro sano vivere, mentre oggi cedono alla speculazione
industriale la quale chimicamente e con spregio della tradizione, ne ripete le caratteristiche organolettiche tramite adeguate essenze, quasi senza usare la materia prima.
Nel tempo la maialatura, pur mantenendo le tecniche basilari, ha subito significativi
cambiamenti. Fortunatamente la ripresa economica ha diminuito lo stato di povertà.
L’informazione su salute e alimentazione, ha portato a modificare lo stile di vita delle
famiglie. Conseguentemente sono state selezionate razze suine sempre più adatte alle
esigenze, dando preferenza alla massa magra. La stagionatura è divenuta sempre più
difficoltosa a causa del cambiamento climatico e l’irregolarità delle stagioni. Sono
variati certi parametri, diminuendo in modo significativo la percentuale di grasso nel
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salame, la percentuale di sale nella concia e la pezzatura dei salumi.
Ci sono punti vendita specifici, che offrono tutto quanto inerente la maialatura: dalle
spezie, ai budelli di tutti i tipi, alle attrezzature sempre più all’avanguardia. Ognuno
può personalizzare il proprio baldacchino. La selezione delle carni è divenuta sempre
più accurata, con l’intento di migliorare la qualità del prodotto finito. Anch’io mi sono
adeguato nella manualità e nell’attrezzatura, preferendo acciaio e teflon al legno e seguendo le nuove regolamentazioni, ma sempre attento a conservare le caratteristiche
e la tipicità che distinguono il nostro salame fatto in casa. Non si macella più il maiale
a casa. Fino a qualche anno fa lo si poteva fare presso l’allevamento dove lo si acquistava, ma ora sono divenuti anch’essi fuori norma.
Attualmente alcuni allevamenti della zona, si sono attrezzati, creando locali idonei
alla macellazione nel rispetto delle norme igienico-sanitarie vigenti e la convenzione
con l’ASL, per l’assistenza veterinaria. In linea di massima lavorano tutti abbastanza
bene. La materia prima oggi è di buona qualità, ci sono dei protocolli da rispettare
nell’alimentazione e i controlli sono abbastanza severi. Per acquistare un maiale la
prassi è molto semplice: lo si prenota del peso che si vuole, si concorda il prezzo e si
fissa la data e l’ora per il ritiro. Il giorno stabilito, dopo la macellazione e il benestare
del veterinario, viene consegnato nelle due mezzene e completo della propria frittura,
come fosse stato macellato a casa, però con il vantaggio di una procedura sicuramente
più igienica. Mi sono servito presso diversi allevamenti, ma non soddisfacevano mai
la mia pignoleria. Da anni mi rivolgo a un allevamento di Carpenedolo, un po’ scomodo certamente, ma ne vale la pena. La scelta si basa soprattutto, sulla possibilità di
acquistare maiali di 12/13 mesi di età, di 200/ 220 kg di peso e con una ottima resa,
spesso superiore alla media.
La fase dell’abbattimento, avviene dopo che l’animale dalla pesatura passa attraverso
un piccolo corridoio creato con transenne, senza contatto diretto con l’uomo, rimanendo chiuso nel tratto terminale. Qui si corica spontaneamente, tranquillizzandosi. A
questo punto viene stordito con corrente elettrica tramite una pinza ad essa collegata,
avente due elettrodi che vengono appoggiati nelle zone temporali. Il dissanguamento,
la pelatura, l’eviscerazione ecc. vengono svolte scrupolosamente, con la massima attenzione e pulizia da persone competenti.
Altra cosa molto importante è il lasso di tempo, ora molto breve in queste strutture,
che intercorre dalla morte dell’animale alla sua eviscerazione. Circa 15/20 minuti
contro i 60 minuti e oltre, con la prassi tradizionale a casa. I parametri sanitari indicano un tempo massimo per tale operazione di 30/40 minuti, cioè prima che la massa
fecale, all’interno dell’intestino, inizi il processo di fermentazione con produzione di
gas. Essi infatti sviluppano cariche batteriche che possono contaminare la carne, ripercuotendosi negativamente nella fase di stagionatura. Non è una regola ma sovente
può essere una concausa per la compromissione della buona riuscita dei salami .
La mia maialatura si svolge in parte con procedimento generico, di routine, fino alla
disossatura. Dopodiché per la mondatura della carne, invece, adotto la tecnica che ho
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appreso dal mio maestro, che comporta alcune ore di lavoro in più. I vari pezzi grossolani vengono ridotti asportando tutta la parte bianca che li riveste. Nel sezionare la
carne ulteriormente in parti più piccole, si evidenziano le membrane tra le fasce muscolari, i nervetti, qualche coagulo di sangue, qualche ossicino o cartilagine, a volte
qualche cistina o ghiandola e si elimina il tutto. Questa operazione ritengo sia di fondamentale importanza. Basta tenere da parte tutto lo scarto ed osservarlo alla fine, per
convincersene. I miei collaboratori condividono pienamente questa pratica, al punto
che preferiscono eseguirla loro stessi, perché essendo io più veloce nel maneggiare il
coltello, sono convinti, sbagliando, che sia meno accurato.
Quando tutta la carne è sezionata e selezionata, viene stesa sul tavolo e vi si aggiunge
il grasso in giusta quantità, tagliato a pezzetti più piccoli e distribuito uniformemente,
per una migliore invariabilità dell’impasto durante la macinatura. La parte grassa,
comprende la pancetta, il guanciale ben pulito dalle ghiandole e il grasso della schiena e della coppa. Si macina con piastra del 10, avendo ancora la massima attenzione
nel mantenere la giusta proporzione magro-grasso, evitando accumuli di una delle
due parti, altrimenti risulta poi difficile la distribuzione nell’impasto nonostante la
pugnatura.
Le piastre e i coltelli della macchina sono autoaffilanti ed in acciaio inox, perciò è
meglio abbinarli senza più scambiarli, così si adattano l’uno all’altra e sicuramente il
taglio delle carni risulta migliore, fatto in modo netto, senza schiacciarle e sfibrarle.
Dopo la pesatura, preparo la concia per tutta la lavorazione, in un recipiente, mescolando sale a grana media in percentuale del 2,2%, pepe spaccato per lo 0,17%, un
pizzico di spezie (noce moscata, chiodi di garofano e cannella) e salnitro in minima
quantità, meno della metà della dose consentita che è di 15 g /100 kg. Sparsa accuratamente la concia sull’impasto, si pugna o, meglio, si mescola e si rivolta a mani aperte
con le dita allargate, tipo rastrello, in modo da mantenerne la granosità. Verso la fine
aggiungo il vino, colando l’aglio tritato che vi ho messo a macerare la sera prima, 150
gr peso netto, cioè ben mondato, tolta l’anima, e immerso in 2 bottiglie di vino rosso
corposo (io uso il Nebbiolo). Questa dose mi basta anche per i cotechini. Dopo il vino,
ancora due o tre passate e, quando lega bene (el se ama), è pronto.
Preparo i budelli già messi a bagno precedentemente e inizio l’insaccatura. Faccio
uso solo del crespone pelato di scrofa, del calibro 8/9. È un budello naturale un po’
delicato, richiede una certa cautela nella manipolazione ma lo preferisco ad altri tipi,
anche se più robusti e più facili da usare. La legatura con spago abbastanza sottile, la
eseguo con 6/8 corde longitudinali ed a distanza fra loro di 2 cm le trasversali. La lunghezza dei salami è di circa 30/35 cm e mediamente il peso da kg 1,5 a kg 2 ed oltre.
Per preparare i cotechini, uso tutte le cotenne tagliate a strisce sottili e macinate grossolanamente con piastra a 9 buchi. Successivamente aggiungo anche la parte magra,
composta dalla punta dei muscoli, i nervi, parte del diaframma, carne rossa non adatta
per salami, carne della testa, cuore, lingua e lo strato superiore del guanciale, infiltrato
di ghiandole. Rimacino il tutto una seconda volta con piastra del 6, mescolando bene
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magro e cotenne. A volte se non risulta ben omogeneo rimacino per una terza volta.
La concia è leggermente più speziata e salata di quella del salame. Li insacco sempre
in crespone, più corti cioè alla misura di 20 cm circa e mediamente di 1 kg di peso.
Questa mia descrizione è generica perché ogni maialatura presenta delle diversità che
richiedono delle varianti alla procedura consueta, che si valutano al momento. Usando
lo stesso metodo, gli stessi parametri, gli stessi ambienti di stagionatura, ogni maiale
darà sempre dei salami diversi da un altro, mantenendo comunque le caratteristiche
personali e lo stile che distinguono il masalìn. Non c’è uno standard e questo ne conferma la genuinità, senza alcuna ombra di sofisticazione.
Sono presenti inoltre differenze anche tra una famiglia e l’altra, avendo ciascuna le
proprie usanze e abitudini. Per questo ogni maialatura è ricca di aneddoti unici, piacevoli e raramente sgradevoli, perché quella è comunque una giornata di duro lavoro sì,
ma talmente appagante che - con le cose buone uniche di quel giorno, il trionfo finale
del baldachin e il tutto condiviso in buona compagnia - può solo generare un clima
festoso. Spesso questi episodi si rievocano proprio durante la cena del maiale, dopo
qualche bicchiere di vino, stimolando l’ilarità dei commensali.
Oggi più che mai, l’uomo sente l’esigenza di ritrovare se stesso e il proprio equilibrio
interiore. Anche buona parte dei giovani, per fortuna, avverte il bisogno di recuperare
quanto di buono e di bello c’era una volta nelle nostre campagne, nella nostra vita
contadina, certamente difficile ma solida e positiva nelle amicizie e negli affetti famigliari. Ci sono però realtà consolanti che aprono alla speranza.
Il comune di Ceresara, per esempio, con attenzione e costante impegno organizza
numerosi eventi legati alle tradizioni contadine e alla tutela dei prodotti tipici locali.
Nel 2006 la collaborazione tra il Comune di Ceresara e l’Accademia Gonzaghesca
degli Scalchi, ha visto concludere un lavoro di appassionata ricerca e documentazione
con l’ufficializzazione del disciplinare. Nel marzo 2007 è stata appovata la DE.CO.
“del salame familiare artigianale di Ceresara”.
Sono orgoglioso di avere preso parte alla ricerca, come membro del “collegio degli
informatori”. A marzo in occasione della fiera della Possenta, ogni anno si svolge il
concorso del miglior salame. A giudicare dalla crescente partecipazione del pubblico, l’iniziativa conferma la voglia di ritornare, come dicevo, alla bontà genuina da
condividere a tavola in amicizia, magari avvolti da quell’atmosfera umile, semplice,
solidale e festosa come allora, durante la cena del maiale.
È stato piacevole raccontare questa parentesi della mia vita. L’ho fatto con nostalgia
ma sorridendo ai ricordi, anche se con l’amarezza per le cose perdute. Mi auguro ne
sia stata piacevole la lettura e... che mi si perdoni la grammatica.
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Medio mantovano
Informatore
Icilio Benatti
Il maiale dalle nostre parti veniva chiamato - nella parlata dialettale, allora quasi unica
perché anche i pochi che avevano studiato lo usavano nei rapporti con tutti - al gugét.
C’era nell’appellativo un certo senso di amicizia, quasi di affetto verso un bene di famiglia assolutamente prezioso, che avrebbe assicurato il compolentatico per un lungo
periodo.
Subito dopo l’ultima guerra c’era una grande fame, l’Italia doveva riprendersi ed il
lavoro era duro per tutti. Nel periodo invernale, per la stasi delle operazioni agricole
dovuta al gran freddo, il lavoro in campagna mancava praticamente del tutto per cui
ci si arrangiava a fare qualche giornata dove capitava, percorrendo magari parecchi
chilometri in bicicletta per arrivare sul posto di lavoro. Riuscivano un po’ meglio degli
altri a sbarcare il lunario i masalìn, gente speciale, in possesso di una professionalità
acquisita in tanti anni di impegno, che andavano di corte in corte a “far sü al gugét”.
Non ci si improvvisava masalìn. Il lavoro era complessivamente semplice ma era
esposto a tante e tali insidie e responsabilità (ne andava di mezzo la buona gestione
futura della tavola, per mesi e mesi) che il mestiere poteva essere esercitato soltanto
da uomini - solamente uomini - dotati di grande attenzione, sensibilità, buon senso
pratico ed esperienza.
Occorreva un lungo impegno, di anni ed anni, per arrivare al riconoscimento definitivo. Questo apprendistato non era tuttavia disdegnato dai più giovani per due motivi:
si mangiava bene per molti giorni dell’inverno (e già questo non era poco, una sera
di qua ed un’altra di là) e si imparava un mestiere da esercitare negli anni futuri,
indispensabile per sostentare la famiglia quando il lavoro nei campi era fermo. Per
la verità c’era anche un terzo motivo, non così evidente ma certamente da tenere nel
conto giusto: in una società come quella di una volta, quando la scuola dell’obbigo si
fermava alla quinta elementare, si tendeva a distinguersi in un qualche modo nell’ambito della propria comunità ed il titolo di masalìn dava un certo prestigio.
La scelta del maestro (del norcino) da parte di una famiglia era fatta secondo criteri
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diversi ma, in particolare, doveva avere una concia adatta al gusto di tutti e doveva
essere persona capace, in grado di assumersi le sue responsabilità. Una volta individuato quello valido, era assai difficile che fosse cambiato negli anni successivi. Nella
concia le famiglie potevano richiedere delle variazioni rispetto a pochi elementi come
sale, pepe ed aglio ma lui, il maestro, faceva poi quello che voleva. Ascoltava, diceva
seriamente di sì ma alla fine si arrangiava con i cartocci perché capiva che in fin dei
conti era la “sua” concia quella che andava bene e per la quale era stato ingaggiato.
Il maiale veniva ingrassato con la şota, il cibo quotidiano in cui c’era dentro un po’ di
tutto: residui della tavola di casa, farina gialla, patate, zucche di scarto, erbe, crusca,
orzo, cascami di barbabietole, siero del latte, ed ultimamente della farina di soia. Doveva raggiungere un peso superiore ai 200 kg cioè 220 / 230. Certe volte, ed era una
meraviglia che si faceva vedere con compiacenza a tutti, si arrivava oltre i 300.
Lo si ammazzava a dicembre o gennaio e doveva essere di “due agosti” vale a dire
di circa 15 mesi in modo che la carne fosse ben fatta ed il lardo avesse raggiunto un
ragguardevole spessore. Era questo, il grasso, quello che contava. I salami infatti venivano dati in buona parte ai bottegai per saldare vecchi debiti. Ricordo che poi erano
venduti in negozio con la tipica classificazione at prima, at seconda e at tersa (senza
difetti, con qualche difetto, con gravi difetti, quasi al limite della edibilità).
Quelli che venivano a lavorarlo erano quasi sempre due persone e cioè il masalìn ed
un aiutante già un poco esperto detto al garşòn (il garzone). Questi aiutanti iniziavano
in età giovanissima. C’erano degli assistenti che avevano anche 14 - 15 anni. Malgrado l’età erano uomini già fatti, che avevano ricevuto importanti lezioni dalla maestra
sofferenza, brutta ed arcigna ma efficacissima. Avevano senso dell’impegno, erano
seri, fidati, rispettosi.
C’erano poi, a dare una bella mano, i componenti della famiglia e, se non bastavano,
c’erano anche dei parenti chiamati appositamente. Questi venivano volentieri per stare assieme alla sera per la cena finale ma anche perché così sarebbero stati ricambiati,
a loro volta e nello stesso modo, per la lavorazione del proprio gugét.
Il maiale era lavorato nei mesi freddi, da metà dicembre a metà gennaio, sia per la
conservazione delle carni impossibile nella stagione estiva e sia perché non c’erano
mosche, zanzare ed altri insetti che potevano rovinare tutto.
Il giorno prima si preparavano le cose occorrenti e cioè al paröl, le fascine, stracci
e pezze varie, i tavoli ed alcuni tulér (assi della pasta), a volte prestati dai vicini, da
mettere sopra i tavoli per allargare il piano di appoggio. Budelli e spezie per le conce
erano portati dal masalìn. Alla sera era immancabile la festosa cena finale con la famiglia al gran completo, tutti gli aiutanti, alcuni parenti e qualche amico. Come primo
piatto venivano serviti i macaròn, fatti in casa con il torchio o acquistati. Conditi con
un ragù fatto di pist (pasta di salame), cipolla, pomodoro ecc.
Al mattino di buon’ora, ancora al buio, arrivavano gli artisti che predisponevano con
cura attrezzi e coltelli. Questi erano parecchi e venivano usati un po’ da tutti eccetto un
paio che il masalìn voleva riservati a sé per le operazioni più delicate. Il maiale, dopo
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averlo rampinato per trarlo dallo stalletto, veniva macellato (non senza qualche fatica), sistemato su assi sollevate da terra da due alte sponde laterali (il tutto sembrava
una slitta), pulito dalle setole e dalle unghie dopo averlo cosparso di acqua caldissima
ma non bollente, issato cun li tài (le taglie della carrucola) sul becaröl , venivano levate immediatamente le interiora ed i budelli. Questi ultimi, una volta puliti per bene
dagli uomini sotto la vigile attenzione del masalìn stesso, erano consegnati alle donne
di casa le quali con ago e filo li cucivano assieme per ottenere budelli più grandi mentre per le salamelle andava già bene il calibro dell’intestino, quindi tagliato nei due
mezzi seguendo il centro della spina dorsale.
Una volta portate in casa le due mezzene - siamo a metà mattino, circa le dieci - ci si
riposava un attimo facendo colazione. Questa era costituita, per tradizione antichissima, dalla fritüra che era accompagnata da polenta abbrustolita sulle braci del camino.
La fritüra era preparata con reticella, cipolla e polmone a pezzetti, con l’aggiunta
finale del fegato. Assieme a questo piatto caldo c’era anche il gras pistà vale a dire
lardo battuto sul tagliere, ridotto in poltiglia, e condito con sale ed aglio (poco). Vino
lambrusco fatto in casa con l’üa d’or. I miei erano produttori di vino e ne avevano una
buona scelta.
Spettava al masalìn dichiarare la fine della colazione e sollecitare a riprendere le operazioni. Si andava, senza altre interruzioni, sino verso le sette – otto di sera quando
gli insaccati venivano allineati sulle perghe che erano attaccate al soffitto. Questa visione confortante non era chiamata con un proprio nome specifico e cioè al baldachìn
come in altre parti del mantovano, ma era indicato semplicemente come le perghe (le
pertiche).
Dalle nostre parti, al masalìn non venivano date in regalo parti del maiale. Lo si pagava e basta. Non si tirava mai sulla somma pattuita. Allora non c’erano contratti scritti
di qualsiasi specie e la stretta di mano valeva più di un rogito del notaio. Qualche
regalo comunque veniva fatto: al pustìn (il portalettere, il quale si doveva subire, nel
rigore dell’inverno, delle lunghe e faticose biciclettate per portare la posta), al dotùr
e al prét.
Ricordo la pratica dell’ùnşar al spròc. Era un’usanza rispettata in osservanza della
solidarietà comunitaria alla quale peraltro pochissimi si sottraevano per la diffusa
convinzione che la miseria poteva toccare a tutti un giorno, persino a quelli che al
momento erano i più ricchi. Non vi partecipavano ovviamente i figli delle famiglie
di una certa tranquilità economica o quantomeno non povere, perché sarebbe stata
considerata in paese una vergognosa speculazione. I bambini delle famiglie più bisognose passavano di corte in corte, di famiglia in famiglia e cantavano una canzoncina
di circostanza, mezza in italiano e mezza in dialetto, tutta sgangherata nella rima.
Davano tutti qualcosa.
Salami, cotechini, coppe e pancette, dopo l’insaccatura e la legatura, venivano appesi a delle pertiche robuste e sistemate per un paio di giorni in un luogo abbastanza
asciutto e non freddo (cucina) e quindi nella “camara di salàm” una stanza posta a
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tramontana, fredda d’inverno e fresca verso l’estate, quando le perghe si traslocavano
in cantina, sempre fresca e con il fondo in terra battuta. Tra i capi sospesi ai bastoni,
c’era quasi sempre la soppressata di testa, un prodotto tipico dell’area emiliana la
quale dista pochi chilometri.
Per le grepule era d’obbligo la attenta sorveglianza del masalìn perché il passaggio
tra un unto bianco, quasi candido ed un altro marroncino e bruciaticcio, era questione
di pochi secondi.
Parte del lardo era tritata e conservata, giustamente salata, in vasi e pentole di terracotta vetriata. Qualche maestro faceva anche il prosciutto crudo ma doveva essere
molto salato per resistere al clima caldo ed umido della zona, per cui non era molto
apprezzato.
I malanni che colpiscono gli insaccati nel periodo della loro maturazione, sono quelli
che possono derivare da non corrette condizioni ambientali come la errata ventilazione (da porte e finestre), infiltrazioni di fumo (quando si bruciavano le stoppie) o, più
in generale, dal clima esterno: troppo umido per via della pioggia insistente o troppo
secco, ovvero troppo caldo.
La muffa è un elemento naturale, una componente che deve svilupparsi ma ci si deve
preoccupare di quella bianca, molto alta, detta localmente pél dal gàt (pelo di gatto).
In certi casi di ostinata umidità si può formare una specie di morchia denominata molchégn, talora leggermente maleodorante e pericolissima perché potrebbe corrompere
la pelle del salame e penetrare all’interno rendendolo assolutamente immangibile. Per
porre rimedio bisogna lavarli immediatamente con un pennellino passato delicatamente ed intinto in una miscela di acqua ed aceto casalingo in parti uguali.
Il sig. Benatti è anche un appassionato gastronomo, profondamente legato alla cucina
contadina di una volta. Opera su grandi proporzioni e sulla assoluta genuinità degli
ingredienti.
A casa sua ho potuto apprezzare alcuni piatti in grado - da soli ed al di là di ogni più
acuta dissertazione sociologica - di far capire quanto stiamo perdendo con la modernità che ci affascina ed ottunde.
Con estrema fatica sono riuscito ad avere alcune ricette.
Rendo l’onore delle armi: c’è stata da parte sua una tenace resistenza.
Mostarda di anguria
(ricetta di casa vecchia)
Si usano angurie bianche. Levare la scorza e tagliare l’anguria a pezzi. Togliere i
semi. Mettere la polpa in una capace zuppiera e per ogni kg di frutto aggiungere 3 hg
di zucchero ed un quarto di limone tagliato finemente. Lasciar riposare per 48 ore.
Trascorso questo tempo, far bollire velocemente il tutto. La miscela dovrà essere addensata e di un colore biondo non troppo scuro. Lasciar raffreddare quindi aggiungere
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l’essenza liquida di senape nella misura di 12 - 13 gocce per kg di polpa di anguria.
Porre in vasetti e sistemare in luogo fresco.
È pronta dopo un mese e mezzo.
Marmellata di zucchine
(ricetta di casa vecchia. Era denominata “duls e brüsch”)
Occorrono delle zucchine “passate”, cioè molto mature e molto grosse. Nettare, lavare, eliminare i semi interni, tagliare le zucchine a dadini e metterli sotto aceto per
48 ore. Scolare bene e far bollire aggiungendo 3 hg di zucchero per chilogrammo di
polpa, un limone tagliato a fettine sottili ed un paio di chiodi di garofano. Si fa andare
a fiamma molto bassa sinchè la miscela non si è bene addensata.
Mettere in vasetti da conservare al fresco.
Fegato di maiale
(ricetta di casa vecchia. Differisce dalla fritüra)
Per un chilogrammo di fegato di maiale fresco.
Affettare finemente due belle cipolle, dolci, ramate e cuocerle in abbondante acqua
leggermente salata. Fare andare sino a quando l’acqua si è consumata e le cipolle sono
diventate una crema. Addizionare burro, olio, sale, pepe ed alloro. Lasciar cuocere
ancora per qualche minuto.
Spellare il fegato, ridurlo a fettine e porlo nel tegame delle cipolle. Pochi minuti di
cottura, rigirando le fette almeno due volte. Servire il fegato con la sua base di cipolla
accompagnando con polenta.
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Area di confine tra Veneto ed Emilia
Informatore: Alberto Guidorzi
Il maiale era oggetto d’allevamento per la macellazione ad uso famigliare, ma si allevavano anche scrofe per la produzione di maialini da vendere. Era acquistato in
primavera o addirittura in autunno, mantenuto fino ai primi freddi dell’autunno successivo e macellato. I ricoveri dei maiali erano angusti vani ricavati sotto i pollai o
addirittura sotto il forno da pane.
All’interno vi era una vasca in cemento che fungeva da mangiatoia, la quale veniva
riempita dall’esterno attraverso un’apertura ad imbuto. L’alimento era costituito da
una brodaglia,”la bróda dal pòrc”, che spesso era l’acqua in cui erano stati lavati i
piatti usando come sgrassatore un pugno di farina gialla, altra farina e crusca erano
aggiunte oltre a resti di cibo o scarti di verdure come le bucce delle patate e croste di
polenta staccate dalla pentola o paiolo di rame. Nei mesi finali di mantenimento e per
accelerare l’ingrasso, si somministrava farina gialla in quantità più abbondante, patate
sottomisura cotte e zucche coltivate per quest’uso. Il maiale è un animale onnivoro,
ma che non può alimentarsi di fieno a causa della conformazione del suo apparato
digerente. Può invece mangiare erba e radici, per cui durante i mesi più caldi e nelle
ore più afose, si portava all’aperto in prati erbosi e ombreggiati dove, legato tramite
una lunga catena di ferro attaccata al suo collare, scavava con il “grugno” e sfuggiva
anche agli eccessivi caldi che lo avrebbero fatto soffrire limitandone l’accrescimento.
Normalmente per l’ingrasso si allevavano solo maschi castrati. Le scrofe per la produzione di maialini da vendere partorivano verso la fine dell’ estate, i maialini si allevavano per tutto l’inverno e nella primavera successiva si vendevano. Si cedevano
anche al caseificio cooperativo che con l’apertura primaverile cominciava un nuovo
ciclo d’allevamento di maiali e così valorizzava i sottoprodotti della fabbricazione del
formaggio. Era un’attività integrativa della famiglia contadina che copriva un periodo
relativamente morto per i lavori agricoli. Vi interveniva una figura particolare: “il
castrino”, che era lo specialista nel privare dei testicoli i giovani animali al fine d’accelerare i tempi dell’ingrasso. A lui era demandato anche il compito di “piallare” loro
i denti per evitare ferite alle mammelle della madre durante l’allattamento. Quando
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il castrino operava, i dintorni erano invasi dalle grida acutissime dei maialini oggetto
dell’operazione cruenta. Per la nostra zona e per i dintorni operava il “castrìn ‘d Magnacaval” (il castrino di Magnacavallo), la cui professione era tanto pregnante che i
suoi figli erano conosciuti semplicemente come: “I fioi dal castrìn” (i figli del castrino). Poteva capitare che i nati di un parto fossero soprannumerati rispetto al numero
delle mammelle della scrofa per cui qualche maialino per tutto il periodo dell’allattamento poteva poppare solo dopo che gli altri si erano ben nutriti. Esso era chiamato
“‘l scarecc” e stava ad indicare l’ultimo nato e il più malnutrito.
Il maiale era macellato alle prime gelate di fine autunno o inizio inverno in modo
da lavorare la carne a temperature basse e poter mantenere più a lungo inalterate le
frattaglie e le parti destinate al primo consumo. Il maiale di una volta aveva un’età
minima di 12 o 13 mesi o anche più per cui la carne era molto meno acquosa di quella
dei maiali attuali macellati solo dopo nove mesi, l’alimentazione era inoltre molto più
varia. Al mattino presto arrivavano i due macellai (operai agricoli che cercavano di
integrare i loro scarsi guadagni). Con una grossa e robusta fune legavano una zampa
del maiale e lo trascinavano fuori dal porcile, facendolo gridare come un ossesso. Era
il segnale che spingeva i ragazzini a precipitarsi nella corte. Mentre uno tratteneva
l’animale, l’altro si avvicinava e, afferrata con una mano la zampa anteriore destra,
con l’altra, tenuta nascosta dietro la schiena, impugnava un lungo coltello appuntito e
tagliente. Spesso si trattava di baionette di moschetto, residuati di guerra, opportunamente affilate. Il maiale, con due dei quattro piedi immobilizzati, poteva facilmente
essere rovesciato sul fianco e offrire il punto del corpo dove conficcare il coltello per
arrivare dritto al cuore e trafiggerlo. Il grido si faceva altissimo e reiterato per poi man
mano affievolirsi. Era sopraggiunta la morte. Il coltello lasciato infilato serviva da
convogliatore del sangue che fuoriusciva copioso e che era raccolto in una pentola,
lasciato coagulare e mangiato poi fritto tagliato a fette. Le donne di corte già dalle prime ore della mattina avevano provveduto a far bollire molta acqua in grossi paioli di
rame su focolai improvvisati,“li furnaşèli”, sistemati in vicinanza del porcile. L’acqua
bollente raccolta con secchi era versata sulla pelle del maiale morto in modo da ammorbidire l’epidermide e rendere più facile l’asportazione delle setole. La raschiatura
dell’epidermide e dei peli avveniva il più alla svelta possibile tramite lame affilate
ricavate da vecchie falci fienaie rotte. Il tutto era raccolto per essere venduto a produttori di pennelli. L’acqua bollente facilitava anche l’asportazione, mediante l’ausilio di
uncini, delle unghie dei piedi. Anche queste erano vendute: macinate avrebbero costituito concime organico (il cornunghia), che ora l’agricoltura biologica ha riscoperto. Il
corpo del maiale era appeso ad una trave del portico o ad un cavalletto appositamente
costruito, per mezzo di legature sulle zampe posteriori, rafforzate da ganci inserite nei
tendini. Era lasciato penzolare e, per facilitare la fuoriuscita del sangue ancora ritenuto dal corpo, si sgozzava. Contemporaneamente si procedeva allo svisceramento e alla
divisione in due mezzene, “li sc-iapi dal pòrc”.
Gli intestini erano svuotati, rivoltati, lavati, sbollentati e passati nell’aceto per la di-
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sinfezione. Dopo il taglio in pezzi, erano consegnati alle donne per la cucitura di un
estremo. Diventavano i budelli destinati a contenere (secondo il diametro) la carne
dei cotechini, dei salami, e delle salsicce. La vescica urinaria costituiva anch’essa
un contenitore di conservazione, mentre fegato, polmoni, reni e cuore sarebbero stati
cucinati come frittura. Una parte del fegato era fritta subito in tanta cipolla e somministrata, assieme ad abbondante polenta, come colazione di mezza mattina ai macellai
ed ai componenti della famiglia. Il grasso per friggere era ricavato da una pellicola
reticolata che avvolgeva il fegato. Le due mezzene, private delle parti interne molli,
ben sgrondate e pulite dal sangue, erano divise in tre pezzi: la parte posteriore (i prosciutti), la parte mediana e la parte anteriore (spalla e testa). La parte mediana nella
zona dorsale e sotto la pelle (la cotica) aveva il lardo, il condimento per eccellenza
delle famiglie di una volta. Più lo spessore di grasso era alto e più si apprezzava l’animale, ora è l’inverso, sono cambiati gusti ed esigenze alimentari. Il grasso della zona
ventrale con infiltrazioni di carne magra era la pancetta che poteva essere semplicemente conservata sotto sale come il lardo o essere cosparsa di sale, pepe e spezie varie
e arrotolata per farne un salume insaccato o avvolto in “carta pecora” da consumarsi
stagionato.
All’interno della parte mediana dell’animale vi erano due depositi di strutto racchiusi da una pellicola trasparente, cartacea e consistente che serviva per fabbricare un
contenitore d’insaccati, in particolar modo la coppa. Il lardo mantenuto attaccato alla
cotica era tagliato in bande larghe, salate nella loro parte interna, fatte combaciare
in coppia, avvolte nella “carta pecora” (tipica carta oleata, ormai sparita, ma l’unica
sufficientemente resistente e impermeabile prima dell’avvento della plastica) e appese
ad una trave del soffitto. La massaia ogni mattina ne tagliava una piccola fetta che
usava per fare il soffritto, “‘l sufrìt”, alla minestra del pranzo di mezzogiorno. Parlare,
allora, di una famiglia che mangiava la minestra con “il soffritto” ad ogni pasto era
come definirla benestante. É evidente che con i mezzi di conservazione del tempo era
inevitabile ritrovarsi, col passare dei mesi, del lardo irrancidito, “grass rans”, ma ciò
non era motivo sufficiente per smettere di mangiarlo. Solamente quando era divenuto
veramente immangiabile, si sceglieva un’altra utilizzazione: si conservava assieme ad
altre sostanze grasse di scarto e non più commestibili per fare il sapone casalingo che
poi sarebbe servito per il bucato.
Le parti anteriori e posteriori erano disossate e se ne ricavavano quattro tipi di carne:
quella da salami (il miglior muscolo con le migliori parti grasse) quella da cotechini
(la carne meno pregiata dei muscoli), quella per le salsicce (che si consumavano senza
grande stagionatura) e quella per la testina (le parti cartilaginose della testa e le più
grasse) che doveva essere cotta, tritata, condita, insaccata e mangiata abbastanza alla
svelta. Nella parte superiore, subito dietro la testa, vi erano due muscoli che servivano
per fare la “coppa”. Le carni per gli usi sopraindicati erano tritate con apposite macchine, salate, pepate, speziate, aggiunte di aglio, mescolate ed insaccate nei “budelli”
del maiale o in altri, che si acquistavano, ricavati dai bovini. L’aggiunta d’aglio ha
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sempre contraddistinto i salami delle nostre zone rispetto a tutte le altre limitrofe. Il
budello riempito di carne era legato nella parte superiore e tutt’intorno. Alla carne da
cotechino normalmente si aggiungeva una parte di cotiche tritate, da cui deriva appunto il nome. I ritagli particolarmente grassi erano accumulati e consegnati alla massaia
che li poneva nel paiolo sotto il quale ardeva un fuoco moderato e costante. Nel grasso
che si scioglieva cominciavano a nuotare i ciccioli, “li grasóli”, che erano estratti dal
liquido con la schiumarola e lasciati ben scolare. Essi erano un ottimo accompagnamento per la polenta. Particolare cura era data a questa operazione perché i ciccioli
non fossero troppo fritti e lo strutto, la parte liquida, non ingiallisse, ma solidificandosi
rimanesse bianco. Esso sarebbe servito per le fritture, al posto dell’olio, dei “pinsìn”,
delle “lattughe” di carnevale, del pesce pescato nei fossi e nei canali. Il prosciutto di
coscia era fatto solo dalle famiglie che uccidevano più maiali e quindi dalle più ricche,
poiché se si volevano fare buoni salami vi si doveva necessariamente includere anche
la carne della coscia. Alla fine della lavorazione rimanevano le ossa con residui di carne, le zampe (i sampét), le orecchie, il codino e il grugno. Queste parti si mangiavano
per prime, di solito lessate e risolvevano almeno per una settimana il problema del
pasto. Come già accennato, la scelta dei mesi più freddi per la macellazione favoriva,
in mancanza di frigorifero, la conservazione delle carni, e nello stesso tempo forniva
alimenti particolarmente calorici in un periodo dell’anno in cui il fisico era pronto ad
assorbirli. Da un osso particolare della zampa del maiale si faceva un giocattolo per
i bambini, “al frul” il cui nome in dialetto deriva dal rumore che esso faceva se fatto
roteare nell’aria mediate l’ausilio di una corda infilata in un foro praticato nella sua
parte mediana. Qualcuno se lo ricorda? La conservazione degli insaccati era praticata
in casa, prima in una camera riscaldata per l’asciugatura (con la massima attenzione
affinchè il budello non si seccasse troppo e si staccasse dal trito di carne interno) e poi
in una camera fredda e non molto umida per la prima fuoriuscita della muffa normalmente era la camera da letto,“la càmara di salàm”. Per definire qualcuno un po’ tonto
si affermava che era “nato nella camera dei salami”.
Solo i salami duravano per tutto l’anno, mentre, nell’ordine, si consumavano salsicce,
testina, cotechini, pancetta e coppa. La conservazione dei salami nelle giornate più
calde di primavera - estate era fatta nelle cantine aziendali con pavimento in terra
battuta ed esposte a nord. Il salame era simbolo di accoglienza per l’amico o il parente
che venivano in visita oppure prezioso dono di riconoscenza per favori ricevuti. Per
la famiglia si tagliava ogni tanto e si mangiava come companatico, ma con molta
parsimonia. Si racconta che un nonno capo famiglia, a cui era demandato il taglio e la
distribuzione delle fette del salame, durante un desinare abbia allungato ad un nipote
una fettina di salame e per ricordargli il dovere di riconoscenza gli abbia detto: “vedat to nonu!” (vedi tuo nonno!). Al nipote, purtroppo, sembrò che la fetta fosse così
sottile da essere quasi trasparente e pertanto rispose: “sì, purtròp, c’av vedi nonu” (si
nonno che vi vedo, purtroppo!). A quei tempi si dava del “voi” ai nonni, alle persone
anziane in genere e ai mariti.
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Il maiale nella letteratura
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In un libro che tratta del suino e del suo rapporto con l’uomo nel corso di un lasso
temporale di alcuni millenni, non potevano mancare alcune citazioni - brevissime, a
mo’ di esempio perché la produzione è sterminata - alle numerose ricette, metafore,
paradossi, simbologie e divertissements sul tema, sempre caratterizzati da un elegante
registro ironico.
Il gugèt è stato infinite volte soggetto di scherzi ed operette umoristiche che superando
il riferimento all’animale, con consolidati risvolti popolari e talvolta scurrili, hanno
finito per darci testi di cucina e letterari di pregevole e raffinata cultura. Ne propongo
alcuni esempi tratti, come dicevo, da un patrimonio immenso.
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Omero (incerte data di nascita e di morte), grande poeta epico.
Odissea - libro XIV – traduzione di Ippolito Pindemonte
In esso si narra dell’incontro tra Odisse o ed il suo fedele servo Eumeo, devoto porcaro. Si descrive lo stabbio ove Eumeo tiene i maiali con grande cura e la sua sofferenza
per dover servire ogni giorno ai Proci le carni per le loro gozzoviglie.
Trovollo assiso nella prima entrata
D’un ampio, e bello, ed altamente estrutto
Recinto, a un colle solitario in cima.
Il fabbricava Euméo con pietre tolte
Da una cava propinqua, e mentre lungi
Stavasi Ulisse, e senz’alcun dal veglio
Laerte, o da Penelope, soccorso:
D’un’irta siepe ricingealo, e folti
Di bruna, che spezzò, quercia scorzata
Pali frequenti vi piantava intorno.
Dodici v’eran dentro una appo l’altra
Commode stalle, che cinquanta a sera
Madri feconde ricevean ciascuna.
I maschj dormian fuor, molto più scarsi,
Perchè scemati dall’ingordo dente
De’ Proci, a cui mandar sempre dovea
L’ottimo della greggia il buon custode.
Trecento ne contava egli, e sessanta;
E presso lor, quando volgea la notte,
Quattro cani giacean pari a leoni,
Che il pastor di sua mano avea nodriti.
Calzari allor s’accomodava ai piedi,
Di bue tagliando una ben tinta pelle,
Mentre, chi qua, chi là, gïano i garzoni.
Tre conducean la nera mandra, e il quarto
Alla cittade col tributo usato
Lo stesso Euméo spedialo, e a que’ superbi,
Cui ciascun dì gli avidi ventri empiea
Della sgozzata vittima la carne.
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Bernardino Prosperi
Lettera ad Isabella d’Este conservata nell’Archivio di Stato di Mantova - Archivio
Gonzaga. Il Prosperi era ambasciatore mantovano presso la corte estense. Nella lettera descrive quanto accadeva a Ferrara ed in altre città (Bologna, Venezia ecc.) per
la singolare festa che vedeva la gara per la conquista di un porco tra popolani affamati. Scritto citato da Emilio Faccioli ed Evio Hermas Ercoli. Ferrara 1506.
“Il signore ha posto suso uno tribunale in la piaceta del castello uno porco ligato per
uno pede, poi parechi fachini e famigli armati cum l’armadura tuta da omo d’arme,
cum boni bastoni in mano de uno brazo de longeza, e cum li ochi velati dentro a li
elmeti; e a sono de le trombette per amazar e guadagnar el porco, si sono bastonati a
modo de aseni, e batendosi uno d’essi sopra il porco per tirarlo al fine, ha avuto de le
mazate senza modo da li compagni”.
Maestro Martino
Cuoco alla corte del Reverendissimo Monsignor Camorlengo et Patriarcha de Aquileia. È forse la prima ricetta della salamella nostrana. Metà secolo XV. Dal “Libro
de arte coquinaria”.
Se tu vorrai fare bone salzicchie di carne di porcho o d’altra carne.
Togli della carne magra et grassa inseme senza nervi et tagliala ben menuta. Et se la
carne è dece libre metteve una libra de sale, due oncie de finocchio ben necto et doi
oncie di pepe pistato grossamente; et mescola bene queste cose inseme et lassale stare
per un di. Et dapoi togli di budelli ben necti et ben mondi et impieli de questa carne et
poneli asciuccare al fumo.
Johannes Bockenheym
Johannes Bockenheym era membro di rango elevato del clero tedesco alla corte di
Papa Martino V con il compito di responsabile delle cucine. Abituato ad approntare
vivande per persone di dignità ed abitudini diverse, come erano appunto quelle che
formavano la cerchia del pontefice, scrisse un singolare trattatello dal titolo “Registro di cucina” contenente 76 ricette, in tardo latino, delle pietanze che più si addicevano agli uni ed agli altri. È curioso notare che il maiale era preferito dagli italiani.
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Minestra di carne
Sic fac ministrum de carnibus. Recipe carnes porcinas macras, cun petrocilino, et
radicibus eius, et pista illa insimul cum cultello, et pane grattato, et tempera illa cum
ovis et speciebus bonis; et fac illa omnia insimul modicum bulire. Et erit bonum pro
Italicis.
Così si fa la minestra di carne. Prendi carne magra di maiale, tritala con il coltello,
insieme a prezzemolo, radici di prezzemolo, pan gratttato e mescola con uova e spezie
buone. Fai bollire tutto insieme per un poco.
E sarà buono per gli Italici.
Maiale arrosto
Sic debes assare porcum. Recipe intestina eius, scilicet jecorum et pulmonem, et pistailla cum cultello, et tempera illa cum ova dura, lardone, et petrocilino, maiorano,
et uva passa, et speciebus dulcibus. Et tunc scinde porcum per latus, et mitte ad spitonem, et inmitte illam temepraturam, et consue bene latus; et trahe unum pedem per
alium, propter bene stare, et facvalde plane rostire.
Et erit pro divitibus.
Così si deve fare il maiale arrosto. Prendine le interiora, cioè fegato e polmone, tritale con il coltello e mescola con uova sode. Poi taglia il maiale per il lungo, farciscilo
con l’impasto e ricucilo bene. Mettilo allo spiedo dopo avergli legato le zampe l’una
all’altra in modo che vi stia saldo. Fallo arrostire bene e a lungo.
E sarà per i ricchi.
Fritüra di maiale allo spiedo
Sic fac vigitellos de porco. Recipe jecorem eius, et pulmonem, cum aliis intestinis, et
fac partes ad longi-tudinem unius digiti, et circunda illas partes cum rete illius porci,
et fac rostire in spitone. Post hoc recipes species dulces, cum brodio buono. Et mitte
illas partes superius in scutella, ita quod brodio non tangantur, et sparge superius species dulces.
Et erit pro Romanis.
Così si cucina la corata di maiale. Prendine il fegato, il polmone e le altre interiora e
fanne dei pezzi dello spessore di un dito, avvolgili nella rete del maiale e falli arrostire
sullo spiedo. Poi prendi buon brodo con spezie dolci e metti i pezzi di carne in una
scodella, separati dal brodo, e cosparsi di spezie dolci.
E sarà per i Romani.
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Zuppa di carne
Sic fac brodittum de carnibus. Recipe carne porcinas coctas, et pista illas cum cultello,
et tempera illa cum caseo recenti, ova, et zapharano, cum brodio grasso; et mitte intus,
et non moveas donec veniat tempus prandendi. Tunc species ad scutellam.
Et erit pro Italicis.
Così si fa la zuppa di carne. Prendi carni di maiale già cotte, tritale con il coltello
ed aggiungi formaggio fresco, uova, e zafferano. Mettile nel brodo grasso e lasciale
riposare finchè non sarà ora di pranzo. Servi in una scodella con spezie.
E sarà per gli Italici.
Domenico Romoli
Detto il Panunto. Ottimate fiorentino, scalco di papa Leone X e di altri nobili aristocratici, uomo dotto, esperto di cucina e di politica.
Da “La singolare dottrina … de’ condimenti di tutte le vivande …” – 1560.
Un paracuore in potaggio
Questa vivanda sarà brutta e buona, né per molti si costuma. Quando il porco sarà
stato morto tanto che il sangue sia corso al cuore e ghiacciatovisi, si spaccherà il
porco cavandogli prima le trippe politamente. Pigliate poi un vaso polito e tagliate
tutto il restante del fegato, polmone e cuore, grassoli, animellette, gangole e sangue,
e mettete ogni cosa così sanguinosa in quel vaso. Lievatevi il fegato dal polmone e vi
lascerete le punte e quelle sue alette. Lavate poi ogni cosa con vino bianco e acqua;
con la medesima lavatura con tutto il sangue, se viene, sarà del ripreso, e quanto più
sanguinoso sarà, sarà migliore. Mettete ogni cosa a bollire con la medesima lavatura
in una pignatta di terra; come la schiuma sarà ingrossata, si lievi questa sola volta
lasciando cuocere i duo terzi; cavatelo sopra la tovaglia polita e tagliate ogni cosa insieme grossolanamente. Pigliate de’ porri bianchi e tagliategli similmente alla grossa,
e fategli soffriggere da per sé, e tanto che sieno quasi cotti mettete il paracuore nel
tegame o cazzuola polita con il fondo del suo brodo più sanguinoso, che a fatica sia
coperto. Mettetevi poi i porri soffritti , erbette odorifere tagliate e pepe acciaccato che
ne senta; lasciatelo fornir di cuocere e farete i vostri piattelli con spezie dolci sopra.
(Il paracuore è il polmone)
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Maffio Venier
Poeta, arcivescovo, cortigiano presso papa Sisto V e Francesco I de’ Medici. Era
della nobile famiglia veneziana dei Venier (1550 – 1586). Lo scritto è un lamento
amoroso in stile bernesco.
Signora mai, vu manizé per tuto
cussì sto porco infina ale buele:
donca per far salsizze e mortaèle
vu ve degné d’un animal sì bruto ?
Mò mi, che son per vu morto e destruto,
no m’avì mai tocà nianca la pèle;
forse che lu de quele mani sì bele
se sentì mai d’amor caldo un persuto ?
Orsù, s’ammazza el porco, e mi son morto
Mile volte per vu; ma ingiustamente,
che lu muor a rason, mi muoro a torto.
Lu tuttavia ve ‘l tegnì sempre arente,
e mi non avì mai nessun conforto
de sì longo servir con tante stente !
Agostino Gallo
Bresciano, importante agronomo italiano, uno dei protagonisti dell’agronomia cinquecentesca. Da “Le vinti giornate dell’agricoltura et de’ piaceri della villa…” 1580.
Ancora si debbe tenere de’ porci per ammazzarli grassi nel tempo del freddo per bisogno della famiglia e de’ lavoratori, tenendoli però serrati in luogo commodo per lo
verno e per l’estate, il quale sia solato d’assi di larice sopra i travi di rovere o piu tosto
di castagna, le quali non si tocchino appresso un dito, e non vi sia il terreno appresso
un braccio, acciochè il piscio loro possa penetrare e star maggiormente asciutti. Essendovi poi un albio talmente accomodato che vi si possa metter il lor mangiare senza
aprire altramente l’uscio. Ai quali si possono dare le lavature di cucina, il brodo di
latte, le ghiande di rovere, i frutti dei giardini, la diversità dell’erbe, le rape cotte con
la semola e senza, la melica macinata o cotta, e il farinaccio de’ pellizzari, ma non
già quello de’ molinari perciocchè fa la carne spongiosa, che abonda di spuma nel
cuocerla.
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Vincenzo Tanara
Importante agronomo italiano e magistrato a Bologna. Di famiglia aristocratica, gli
spettava il titolo di marchese.
Tra gli scritti arguti e burleschi più ricorrenti, c’è il “Testamentum porcelli”, già noto
verso la fine del IV secolo dopo Cristo. Ne ha parlato S. Gerolamo nella sua bella prefazione al Commentario di Isaia. Veniva recitato dagli studenti nelle scuole di allora
come tiritera, con grandissimo spasso.
Nel tempo ha subito delle modificazioni. Il testo qui riportato è quello del Tanara ed
è tratto dalla sua opera “L’economia del cittadino in villa”. Il maiale aveva nome
Grunnius Corocotta. Come benefattore dell’umanità dona all’uomo non soltanto il
suo corpo ma anche i suoi premurosi pensieri.
Testamentum porcelli
“Avvedutosi certo venerabil porco, che dal protosguattero Zighettone doveva esser
macellato, gli addimandò un hora di tempo per poter disporre delle sue facoltà, così
comparve il notaro di Svigo, il quale rogò l’ultima volontà di quello.
“Prima lascio che il mio corpo sia, da una caterva di golosi con varia cuocitura nel
loro ventre seppellito.
Lascio a Priapo (Dio della fecondità e degli orti) il mio grugno, col quale possa cavare
i tartufi dal suo horto.
Lascio a’ librari e cartari i miei maggiori denti, da poter con comodità piegare e pulire
le carte.
Lascio a’ dilettissimi Hebrei, dai quali mai ha avuto offesa alcuna, le setole della mia
schiena, da poter con quelle rappezzar le scarpe e far l’arte del calzolaio.
Lascio a’ fanciulli la mia vescica da giocar.
Lascio alle donne il mio latte, a loro proficuo e sano.
Lascio la mia pelle a’ mondatori e mugnai, per far recipienti da acconciar i grani.
Lascio la metà delle mie cotiche a’ scultori, per far colla di stucco, e l’altra metà a
quelli che fabbricano il sapone.
Lascio il mio sebo a’ candelottari, per mescolarlo a metà col bovino e caprino e far
ottime candele, con le quali li virtuosi possono alla quiete della notte studiare.
Lascio la metà della mia songia a’ carrozzieri, bifolchi e carrettieri, e l’altra metà a’
garzolari per conciare la canapa.
Lascio le mie ossa ai giocatori, per far dadi da giocare.
Lascio a’ rustici, miei nutritori, il fiele per poter senza spesa cavar le spine dal loro
corpo, quando scalzi e nudi nel lavorar la terra gli fossero entrati nella pelle, e per
poter senza spesa, in luogo di lavativo, l’indurato corpo irritare.
Lascio agli alchimisti la mia coda, acciò conoscano che il guadagno che son per fare
con quell’arte è simile a quello che io faccio col dimenar tutto il giorno la detta coda.
Lascio agli hortolani le mie unghie, da ingrassar terreno per piantar carote.
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In tutti gli altri liei, lardi, prosciutti, spalle, ventresche, barbaglie, salami, mortadelle,
salcizzutti, salcizze e altre mie preparationi, intuisco cuglio che sia mio herede universale il carissimo economo villeggiante”.
Vittore Vettori
Mantovano, “dottor fisico” e poeta – autore de “Le piacevoli rime” - 1744
Lo strambotto di stile bernesco, cioè burlesco, sottoriportato, è stato scritto per la
morte del porco dell’amico Gian Maria Galeotti. La donna di casa è molto dispiaciuta ma si consola quando il marito decide di lavorare ugualmente il maiale e di
conservarne le carni in vasi di terracotta coperti di strutto.
In morte di un porco
Al Galeotti, o genti, è morto il porco,
è morto il porco al Galeotti o genti.
Guardate come accadon gli accidenti;
in su la bruna sera
lo afferrò per gli orecchi la versiera
e fu percosso dall’ombra dell’Orco.
Povero porco! Io lo vedo sdraiato
Ch’e’ pare addormentato;
la dolente massaia
gli sta, piangendo, a lato,
e sbatte nel paniere la civaia.
Poi gli appresta nel secchion la broda,
poi gli tira la coda,
poi lo chiama per nome;
ma perché nulla sente e non si scuote,
la disperata si graffia le gote
e si caccia le mani entro le chiome.
Il Galeotti intanto
Non bada al di lei pianto.
Ma quando la massaia il sente dire
Che, fatto in pezzi, lo vuol seppellire
Negli orci con lo strutto,
riman col ciglio asciutto.
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Tigrinto Bistonio Pseudonimo secondo lo stile accademico, gonfio di sfumature arcadiche e mitologiche, dell’abate Giuseppe Ferrari di Castelvetro di Modena (Accademia de’ Dissonanti) - Da “Gli elogi del porco” - 1761.
Sembri raschiato un candido Armellino
E sembri aperto ricca galleria,
A pompa, e gloria del saper divino.
Son tutte le tue parti in simmetria,
E la macchina tua si estima assai
Dalla tagliente rossa notomia.
A ogni figura accomodar ti sai,
Arrosto, Fricandò, Lesso, Bragiole,
E sempre piaci, e non disgusti mai.
Mastro lo cuoco senza Te non suole
In Pranzo signoril figurar bene,
Ne fa scialacquo, ed il Padron sen duole.
Più avanti si adira contro coloro che sono in realtà i veri maiali e cioè gli uomini
avidi, vili e volgari. Scrive:
Chi mangia a due ganascie, un porco egli è;
Porco chi ha sempre il gorgozzule in molle;
porco chi scarno in pria, grasso si fè:
Porco chi non ha il sangue, che gli bolle;
Porco chi lascia un peto in abbandono,
Porco il Melenso, il Brodoloso, il Molle.
Nelli
(autore del XVII secolo, non meglio identificato)
“... per preparare i salumi, macellato che sia il Majale, e levatone il pelo, e ben mondo
e pulito si separano i Lardi, i Lardoncelli della gola e della ventresca, le sugne e il sevo
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per farne lo strutto, si staccano le bondiole, le spalle e i prosciutti, e della carne che
rimane segli con molta cura la migliore e più magra per farne i salami da conservarsi
privandola di ogni sostanza tendinosa, cartilaginosa e aggiungendovi tanta quantità
di carne grassa, che basti ad ammorbidirla. Quella che rimane sarà serbata anch’essa
a farne dei salami, i quali per essere di qualità inferiore sono facili a rancidire, e perciò si consumano al più presto. Prima però di fare i salami bisogna tritar bene con la
Mannaja e molto fina la carne, che si manipola poi e per così dire si impasta fino al
necessario a conservarla, e tanto pepe bastante a renderla saporita.
Alcuni costumano di mettervi dell’aglio stemperato nel vino, in quantità così discreta, che le carni non ne contraggono che un odore molto remoto. La quantità di sale
necessaria è generalmente di sette once (g 191) per ogni peso (kg 8,2) di carne e il
pepe che molti costumano di mettere in coccole initere, e molti altri ammaccate, non
oltrepassi mai due once (g 54/55) per peso; dopo si manipola e si rimescola di nuovo,
e ben bene, finchè il sale e il pepe vi si distribuiscano ugualmente. Preparata così se
n’empiranno gli intestini dello stesso Majale, che saranno stati con la massima cura
liberati dalle feci, e puliti e a più riprese lavati nel vino tiepido, o nell’aceto nel quale
spesse volte rinnovato, saranno stati per alcun tempo immersi. Ed ecco fatti i salami,
che si attaccano al soffitto di una stanza temperata finchè siano discretamente asciutti,
che poi si trasportano in un’altra camera ben ventilata dove passano due mesi circa e
che di là si portano in cantina o in altri luoghi sotterranei freschi.
Prima di trasportarli in quest’ultimo luogo di loro dimora sarà utile ed anche necessario di lavarli in una emulsione fatta in olio e aceto”.
È una delle rare ricette antiche per fare i salami
Francesco Leonardi
Cuoco della imperatrice Caterina II di Russia. Da “L’Apicio moderno” 1797.
Mortadelle (un tempo venivano così chiamati i salami)
Prendete della carne di maiale la più magra e tenera che sarà possibile; quella dei
prosciutti sarebbe la migliore; levategli tutte le pelli e nervi, tritatela una cosa giusta.
Per ogni decina di carne vi vogliono due libbre e mezza di lardo fresco, tagliato in
grossi quadretti e condito con sette once di sale fino; unite questo lardo col suo sale
alla carne; aggiungeteci per ogni decina di carne un’oncia di pepe sano, qualche garofano sano ed un poco di cannella in polvere; mescolate e maneggiate il tutto bene con
le mani, a forza di braccia, onde acquisti la composizione di una certa consistenza.
I budelli più adattati sono le molette, cioè l’estremità del budello del maiale, oppure
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grossi budelli di manzo detti volgarmente mazzi di vaccina; questi debbono esere ben
lavati e puliti; riempiteli con un imbuto di stagno, ben stretti et incalcati, legateli con
uno spago da una parte, mentre dall’altra il budello è chiuso di sua natura, e legate
anche all’intorno a diverse incrocicchiature; indi appendetele, fatele scolare dodici
ore circa, poi mettetele alla stufa, fatele sfumare con legno di ginepro e alloro, avendo
attenzione che il fumo sia moderato e mai divenga fiamma, bastando due o tre tizzi, e
cambiargli sito a misura che le mortadelle principiano ad asciugarsi. Quando saranno
asciugate per tutto, cioè fino alla legatura superiore, levatele, appendetele in luogo
arioso ed asciutto, e se cavassero anche dell’umidità le farete sfumare un altro poco
nella stessa stanza. Queste si mangiano crude e rare volte si fanno cuocere.
Trilussa
(Carlo Alberto Salustri – 1871 – 1950) poeta romanesco ironico e pungente, di elevato valore letterario - Da “La vacca e er maiale”.
La vacca, riferennose ar maiale:
Nun te vergogni? Dio quanto sei zozzo.
Pe’ te è normale che ariempi er gozzo
de quello schifo? Embè, sarà normale…
Io so’ convinta, è mejo ne la vita
a magna’ ‘st’erba fresca, è più pulita.
J’arispose er maiale: Dici bene!
Ogniuno magna (a scanzo de l’odore)
quer che ritiene je dà più sapore
e quello che a l’orfatto je conviene.
Je dai troppo spago a questa favola,
ne riparlamo quanno stamo a tavola
e vedrai che la boria te sparisce
quanno t’accorgi de la preferenza
e che ognuno che se mette a mensa
quasi sempre er maiale preferisce.
Comunque, co’ coniji, co’ galline
ce toccherà de fa’ la stessa fine.
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Carlo Levi
Scrittore e pittore (1902 - 1975) - Da “Cristo si è fermato a Eboli”.
Il sanaporcelle
“Poi venne la neve, le mani delle donne si arrossarono per il gelo, sopra i veli bianchi
apparvero le grandi mantiglie di lana nera; e un’immobilità più ferma, un silenzio più
fitto del consueto parve addensarsi sulle distese solitarie dei monti.
Una sera che un vento selvaggio aveva portato qualche squarcio di sereno, udii squillare la tromba del banditore, e rullare il tamburo; la strana voce del becchino ripeteva,
davanti a tutte le case, con la sua unica nota alta e strascicata, il suo appello. – Donne,
è arrivato il sanaporcelle! Domattina, alle sette, tutte al Timbone della Fontana con le
vostre porcelle. Donne, è arrivato il sanaporcelle! – La mattina il tempo era incerto,
ma fra le nuvole basse appariva qualche lembo di cielo. La neve era quasi tutta sciolta:
restava, a chiazze, qua e là, nei luoghi dove il vento l’aveva accumulata. Uscii presto
di casa, e mi avviai.
Il Timbone della Fontana era un largo spiazzo, quasi piano, fra i monticelli di argilla,
nei pressi dell’antica sorgente, un po’ fuori del paese, a destra della chiesa. Quando ci
arrivai, nella luce ancora grigia lo vidi già pieno di folla. Quasi tutte le donne, giovani
e vecchie, erano là; e molte tenevano al guinzaglio, come un cane, la loro scrofa: le
altre le accompagnavano, e venivano ad assistere alla sanatura. Veli bianchi e scialli
neri ondeggiavano, al vento: un gran sussurrìo, un frastuono di voci, di grida, di risa,
di grugniti, si spargeva nell’aria tagliente. Le donne erano tutte eccitate, rosse in viso,
piene di apprensione e di appassionata attesa. I ragazzi correvano, i cani abbaiavano,
tutto era movimento. In mezzo al Timbone stava ritto un uomo alto quasi due metri,
e robusto, col viso acceso, i capelli rossi, gli occhi azzurri e dei gran baffi spioventi,
che lo facevano assomigliare a un barbaro antico, a un Vercingetorige, capitato per
caso in questi paesi di uomini neri. Era il sanaporcelle. Sanare le porcelle significa
castrarle, quelle che non si tengono a far razza, perché ingrassino meglio, e abbiano
carni più delicate. La cosa, per i maiali, non è difficile, e i contadini la fanno da soli,
quando le bestie sono giovani. Ma alle femmine bisogna togliere le ovaie, e questo
richiede una vera operazione di alta chirurgia. Questo rito è dunque eseguito dai sanaporcelle, mezzi sacerdoti e mezzi chirurghi. Ce ne sono pochissimi: è un’arte rara, che
si tramanda di padre in figlio. Quello che io vidi, era un sanaporcelle famoso, figlio
e nipote di sanaporcelle; e passava di paese in paese, due volte all’anno, a eseguire
la sua opera. Aveva fama d’essere abilissimo: era ben raro che una bestia gli morisse
dopo l’operazione. Ma le donne trepidavano ugualmente, per il rischio e l’amore per
l’animale familiare.
L’uomo rosso si ergeva possente in mezzo allo spiazzo, e affilava il coltello. Teneva
in bocca, per aver libere le mani, un grosso ago da materassaio; uno spago, infilato
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nella cruna, gli pendeva sul petto; e aspettava la prossima vittima. Le donne esitavano
attorno a lui: ciascuna spingeva la vicina o l’amica a portare per prima la sua bestia,
con grandi esclamazioni e deprecazioni. Anche le scrofe pareva sapessero la sorte
che le aspettava, e puntavano i piedi, o tiravano sulle corde per fuggire, e strillavano
come ragazze impaurite, con quelle loro voci così umane. Una giovane donna si fece
innanzi con la sua bestia, e due contadini che facevano da aiutanti afferrarono subito
la maialina rosea, che si dibatteva e gridava di spavento. Tenendola ben ferma per le
zampe, che legarono a dei paletti conficcati in terra, la sdraiarono a pancia all’aria. La
scrofa urlava, la giovane si fece il segno della croce, e invocò la Madonna di Viggiano,
fra il mormorìo di partecipe consenso di tutte le altre donne; e l’operazione cominciò.
Il sanaporcelle, rapido come il vento, fece un taglio col suo coltello ricurvo nel fianco dell’animale: un taglio sicuro e profondo, fino alla cavità dell’addome. Il sangue
sprizzò fuori, mescolandosi al fango e alla neve: ma l’uomo rosso non perse tempo:
ficcò la mano fino al polso nella ferita, afferrò l’ovaia e la trasse fuori. L’ovaia delle
scrofe è attaccata con un legamento all’intestino: trovata l’ovaia sinistra, si trattava
di estrarre anche la destra, senza fare una seconda ferita. Il sanaporcelle non tagliò
la prima ovaia, ma la fissò con il suo grosso ago, alla pelle del ventre della scrofa; e,
assicuratosi così che non sfuggisse, cominciò con le due mani a estrarre l’intestino,
dipanandolo come una matassa. Metri e metri di budella uscivano dalla ferita, rosate
viola e grigie, con le vene azzurre e i bioccoli di grasso giallo, all’inserzione dell’omento: ce n’era sempre ancora, pareva non dovesse finir più. Finché a un certo punto,
attaccata all’intestino, compariva l’altra ovaia, quella di destra. Allora, senza usare
il coltello, con uno strattone, l’uomo strappò via la ghiandola che era uscita allora,
e quella che aveva appuntata alla pelle; e le buttò, senza voltarsi, dietro a sé, ai suoi
cani. Erano quattro enormi maremmani bianchi, con le grandi code a pennacchio, i
rossi occhi feroci, e i collari a punte di ferro, che li proteggono dai morsi dei lupi. I
cani aspettavano il lancio, e prendevano al volo, nelle loro bocche, le ovaie sanguinanti e poi si chinavano a leccare il sangue sparso per terra. L’uomo non si interrompeva.
Strappate le ghiandole, rificcò, pezzo a pezzo, spingendolo con le dita, l’intestino dentro il ventre, ricacciandolo a forza quando quello, gonfio d’aria come un pneumatico,
stentava a rientrare. Quando tutto fu rimesso a posto, l’uomo rosso si cavò di bocca,
di sotto i gran baffi, l’ago infilato, e con un punto, e un nodo da chirurgo, chiuse la
ferita. La scrofa, liberata dai ceppi, restò un attimo come incerta, poi si rizzò in piedi,
si scrollò, e strillando si mise a correre per lo spiazzo inseguita dalle donne, mentre
la giovane padrona, liberata dall’ansia, cercava nella tasca, sotto la sottana, le due lire
di compenso per il sanaporcelle. L’operazione non era durata in tutto che tre o quattro
minuti; e già un’altra bestia era afferrata dagli aiutanti, e coricata con la schiena a
terra, pronta al sacrificio. La scena di prima si ripeté: e, una dopo l’altra, per tutta la
mattina, senza interruzione, le scrofe furono sanate. Il giorno era chiaro ormai, con
un gran vento freddo, che portava qua e là degli stracci di nuvole. L’odore del sangue
gravava nell’aria: i cani erano ormai sazi di quella carne ancor viva. La terra e la neve
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erano rosse; le voci delle donne si erano fatte più alte, le scrofe sanate e quelle ancora
da sanare strillavano insieme, ogni volta che una era buttata in terra, rispondendosi e
commiserandosi, come un coro di lamentatrici. Ma la gente era allegra, nessuna bestia
pareva dovesse morire. Era ormai mezzogiorno; il meraviglioso sanaporcelle si rizzò
in tutta la sua statura, e disse che avrebbe rimandato al pomeriggio quelle poche bestie
che restavano da sanare. Le donne cominciarono ad andarsene, con i loro animali al
guinzaglio, commentando: il sanaporcelle, seguito dai suoi cani, contando le monete
del suo guadagno, si avviò alla casa della vedova per mangiare; e anch’io me ne andai
dietro a lui. Per qualche giorno, in paese, non si parlò d’altro: si trepidava al pensiero
che qualche complicazione potesse far morire qualcuna delle scrofe sanate: ma tutto
andò bene, i cuori si rassicurarono e ogni apprensione sparì. Il sanaporcelle era partito
la sera stessa per Stigliano, coperto di benedizioni, con i suoi baffi rossi da sacerdote
druidico, e il coltello del sacrificio.
Giovanni Tassoni
Il più grande demologo mantovano. Autore di numerosi libri e saggi sul nostro folclore. Membro di varie accademie. (Viadana 1905 – Villafranca di Verona 2000). Da
“La maialatura”, articolo scritto per “Quadrante padano” 1985.
Se, nel primo stadio della nutrizione si lasciava libero di grufolare nel brolo o per il
prato di casa, gli si metteva poi al grifo un anello metallico perché non danneggiasse
la cotica erbosa.
Il periodo migliore della maialatura era stabilito dal massimario popolare: Par
sant’Andrea / ciàpa ‘l porch, par la séa*, noto ancora al tempo delle X Tavole veneziane del sec. XVI, che ammettevano peraltro una dilazione per ragioni climatiche:
Par san Maté, ciapa ‘l porch par i pé, purchè non si andasse oltre il limite massimo
del carnevale: a carnaval al porsèl al va masà, né si scegliesse - vivaddio ! – la festa
di Sant’Antonio abate, protettore degli animali in generale e del maiale in particolare.
Vi fu, nondimeno, chi trasgredì al tabù religioso e, sgozzato il porcello proprio il 17
gennaio, se lo vide sorgere vivo dalla tinozza dove stava per dissetolarlo, e sgambar
via fulmineo dentro la palaia in fondo alle barchesse. Né, per quanto cercasse nella
selva dei pali, gli fu possibile ritrovarlo. Il gran Santo di Coma aveva punito l’apostata
e tratto in salvo il suo protetto.
Proverbio: Chi ‘n ghà né ort né porc / gh’hà sémpar al müs stort. (Chi non ha né orto
né maiale / ha sempre il muso di traverso).
* Per séa in dialetto mantovano si intende seta. Nel nostro caso le setole (mia nota).
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Ottorino Bernardelli
Scrittore di sociologia rurale mantovana. Proverbi mantovani in dialetto. Dal libro
“La maialeide”.
Al gugiöl gras al n’é mai cuntent.
Al gugiöl pulì al n’é mai gras.
Al gugiöl magar a s’agh dà la farina şalda.
Al nimàl pegar agh toca sempar li giandi böghi.
Al nimàl pegar al magna sul l’aqua da lavà şò.
Al nimàl pegar al magna sempar la şòta freda.
Al porch al dis dam, dam, e mia cuntaram né més né an.
Al porch al völ magnar spurch e durmir pulì.
Al porch mal vià cuma‘la pensa a’la fa.
Al porch quand l’è pin l’arbalta l’albi.
A ghé dò robi chié buni sul da mort: l’avar e al porch.
An bişogna mia guardar l’albi, bişogna guardar al gugiöl
An bişogna mia vendar al pursél par cumprar an gugiöl.
An val mia saràr al pursèl dopu ch’é scapà al gugiöl.
Chi a gh’à an bun porch al gh’à an bun ort.
Chi a ghà an fiöl sul, a’là fa mat; chi a ghà an porch a’là fa gras.
Chi a Nadal al n’à màsa mia al porch, par töt l’an al gavrà al müs stort.
Dal gugiöl n’as böta via gnint e dlà gugiöla gnanca al nömar dal telefunu.
Far i salàm agh völ caran ad gugiöl e spèsi, far al siùr agh völ sul i bèsi.
I gugiöl i sà stima a pesu.
In mancansa dal gras iè buni anca li codghi.
L’acqua d’avrèl: la pegura la red, al bö l’ingrasa, al porch al la màsa.
L’avar lé cum’al porch, lè bun sul quad lè mort.
L’è sempar mei püsar ad gugiöl che ad cuiùn.
Li tre felicità dl’om iè: far al raşdur, masar al gugiöl e armagnar veduf.
Marcantìn e porch is peşa quand iè mort.
Parma bèla, Rès gentela, Modna pursèla.
Se par Sant’Andrea (30/11) al porch pral’ pel tan’al ciaparè, fin dop Nadal tan’al
cuparè.
Porch a l’aria e peguri al sul.
Pòrc ad mulinèr, can da bchèr, dòna d’ustarìa, an‘töri mìa.
Pòrch ad mulinèr, caval di frà e fiöi ad vedvi iè töti mal vià
Pröma d’andar a cumprar al gugiöl bisogna giustar al pursèl.
Quand al gugiöl l’é gras, l’é ura at masal.
S’at vö an bèl gugiöl, in mars bisogna töl.
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Modi di dire
Averach nà testa ca la magna gnanca i gugiöi.
Ésar an bèl gugiöl nègar.
Ésar an gràn nimàl (o nimalùn).
Ésar indrè cume la cùa dal gugiöl, ... clà gira, cla gira e l’è sempar lé,.. d’aturan al büs
dal cül.
Métar al porch a l’òra.
Stàr ferum cume an gugiöl ca pèsa.
Star ferum cume nà roia chi a’grata la pansa.
Ebe Rossi
La maialatura ha sempre stimolato la vena poetica di tanti cantori popolari. Mi è
parso opportuno richiamarne un esempio in questo capitolo, proponendo quello della
signora Ebe Rossi di San Matteo delle Chiaviche di Sabbioneta. Lo scritto mi è pervenuto grazie alla cortese collaborazione della signora Daniela Saccani e del marito
Sergio Aldrighi, animatori del “Fogolèr”, sodalizio dialettale di Mantova.
Al masaler
1ª parte
Na bèla matina, cun quatar di ad brina,
ma propria bunura, pröma ch’a spunta l’aurora
e pröma ch’a canta anca al galèl,
in biciclëta, cun sö na casëta
u cun an sistèl cun dentar i sò fèr,
arivava in dl’èra al masalèr.
In meşa ai sò fèr, a gh’era an pügnal
par masà stu pùar nimal.
Intant i òm cun ad legna an bèl masöl
i eva bèla fat föch sota al paröl.
Av deghi pròpria che quand al nimal al mureva
a töti an pu agh dispiaşeva.
In .sna grada u barèla, il fava arbaltà
par pudìl mèi vultà e pirlà.
Dopu il bruvava, il plava e dentar li urëci ben il raspava,
e cun li sidèli, par. i sghirlët
i l’inpicava sota i purghët.
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In mèşa il taiava cun la folsa e i curtèi,
e po’, sufiand mütè in n’ucarina,
i gh’infiava la psiga a dl’urina.
E senpar li doni, cun gran critéri,
li ciapava al sanch cun li süperi,
parchè na volta as tgneva dacat töt,
a strava via propria angot.
Dopu, par vedar s’l’éva bütà ben u mal,
na s-ciapa i gh’a bsava a stu. pùar nimal.
Il sbatéva in s’an taulàs, i gh taiava li fëti dal gras
e i a miteva in dli casëti, ben saladi, invèrsi e indreti.
Vers a li ot, par rumpar la fam e la frescüra,
.
i magnava la pulenta cun la fritüra.
Dopu, al masalèr, cun sti curtèi al cuminciava a fa di tuchèi.
E la risdura: «An tuclëin al va ai vsëin,
n’atar tuclëin al darom al .pustëin,
al veterinari e al siur dutur, par salvà la facia e l’unur,
an tuclëin al dom a la fiöla, ch’l’è spuşada a Vèla Saviöla».
Tra vsëin, amich„ cunusent e parent,
agh vuleva an bö, par cuntentà töta sta gent.
E tra tuchèi, tuclëin e tuclon al dvantava pisnëin
stu bèl nimalon.
Intant in d’an canton dal gran camaron
cun na scusàla e li manghi brodghi, al famèi al pistava li codghi.
2ª parte
In dl’èra, in n’ atar canton, i fava föch sota an fugòn
pian pian as brüşava an fasëin intregh,
i fava bóiar li grëpuli in dal dulègh
e cun na pèsa bianca, in mèşa dò schidi,
i a stricava pès che a dli vidi
e là dinturan, fra latëin e latón,
a gh’era parecul da scutas par dabon.
In dla stala u in d’an camarëin,
li doni sintadi in s’an scanëin,
cun an padlëin ad braşi taca i süpèi
bagulando, li cuşeva töti i büdèi.
Cun la furbşina, al didàl, na göcia e na spöla,
i a miteva in sna şmuiaröla.
In sal mesdé, cun sta bèl muviment,
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ad fa an bevr’in vëin, quaşi as catava mia al temp!
Intant al masalèr ad trit l’éva fat an mücion e an mücen:
al prom ad salam, al second ad cutghen.
Al la misciava in sal taulàs,
cun ai, sal, pévar, spèsi e la fòrsa di bras,
parchè al ciapès par ben al sò sals.
E finalment insacava i büdèi cun la machina a man
e cun la lasa i ligava i cudghen e i salam;
cun la püsè longa e sütila a dli büdèli,
i fava la résula a dli salamèli.
Par cumpletà e fni la funcëta,
i cuşéva la spala, la copa e la pansëta.
I a pasava dal taulàs a longa a li pérghi a sgusulas.
E, dopu töt sta gran laurà, agh restava da svonşar e da frigà.
E intant a gneva sira e ura ad .mangià:
in dal brö d’ òs i trava dentar al ris
e töta sta gent as licava i barbis
ma, al de dopu, l’era ris e òs.
“Porcu mond ladar, asasëin e balòs.”
E proma d’ andà a cà, i òm i biveva l’ ültim bicer ad vëin
e, a li doni, s’agh dava al sò scartusëin
cun dentar trè grëpuli, sucuanti òs e an pu ad fritüra,
par prüdensa e fa bèla figüra.
Proma d’andà a lèt, al paisan, taca i travèi al cüntava i salam,
e sò muier, vardand a l’insö:
“Me a vaghi a lèt, parchè an an pòs propria pö.”
E che a fnes la fòla dal masalèr,
dal pùar nimal, dla ròia u dal vèr.
George Orwell (Eric Arthur Blair)
Grande scrittore noto per i suoi penetranti approfondimenti di carattere sociologico
e politico, sempre venati da una sottile, piacevole ironia. È stato anche giornalista e
saggista. Da “La fattoria degli animali”. Passaggi diversi accostati tratti dal capitolo
primo.
“Durante il giorno era corsa voce che il Vecchio Maggiore, il verro Biancocostato
premiato a tutte le esposizioni, aveva fatto la notte precedente un sogno strano che
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desiderava riferire agli altri animali. Aveva dodici anni e cominciava a divenire
corpulento, ma era pur sempre un maiale dall’aspetto maestoso, spirante saggezza e
benevolenza, benché mai fosse stato castrato. In breve cominciarono a giungere gli
altri animali e ognuno si accomodava a seconda della propria natura.
Quando vide che tutti si erano bene accomodati e aspettavano attenti, il Vecchio
Maggiore si rischiarò la gola e cominciò: «L’uomo è la sola creatura che consuma
senza produrre. Egli non dà latte, non fa uova, è troppo debole per tirare l’aratro, non
può correre abbastanza velocemente per prendere conigli. E tuttavia è il signore di tutti
gli animali. Li fa lavorare e in cambio dà ad essi quel minimo che impedisca loro di
morir di fame e tiene il resto per sé. Il nostro lavoro coltiva la terra, i nostri escrementi
la rendono fertile, eppure non uno di noi possiede più che la sua nuda pelle. Voi,
mucche che vedo davanti a me, quante migliaia di galloni di latte avete dato durante lo
scorso anno? E che ne è stato di quel latte che avrebbe dovuto nutrire vigorosi vitelli?
Ogni sua goccia è andata giù per la gola del nostro nemico. E voi, galline, quante uova
avete deposto in un anno e quante di queste uova si sono dischiuse al pulcino? Le
restanti si sono tutte mutate in danaro per Jones e i suoi uomini. E tu, Berta, dove sono
i quattro puledri che hai portato in grembo e che avrebbero dovuto essere il sostegno
e il conforto della tua vecchiaia? Ognuno di essi fu venduto al compiere di un anno e
tu non li rivedrai mai più. E neppure avviene che la misera vita che conduciamo abbia
il suo corso naturale. Non mi lamento per me, perché io sono tra i fortunati. Ho dodici
anni e ho avuto più di quattrocento figli. Questa è la naturale vita di un maiale.
Poco mi rimane ancora da dire. Solo ripeto di ricordar sempre il vostro dovere di
inimicizia verso l’uomo e tutte le sue arti. Tutto ciò che cammina su due gambe è
nemico. Tutto ciò che cammina su quattro gambe o ha ali è amico.”.
Stefano Scansani
Già caporedattore ed ora direttore del quotidiano “La nuova Ferrara”. In precedenza
è stato responsabile delle pagine culturali della “Gazzetta di Mantova”. È autore di
numerose, penetranti ed esaustive pubblicazioni sui mangiari della società contadina.
Da “Fenomenologia del maiale” - Ed. Tre Lune -- Mantova. 2006
Il maiale non è come il pane e non è come il vino. In Italia si dice pane e basta, si dice
vino e basta, anche nei dialetti. Invece per esprimere il maiale reale e il maiale concettuale le lingue hanno provveduto a moltiplicarsi e a sovrapporsi: maiale, suino, porco,
verro, scrofa, con tutti i vezzeggiativi e i peggiorativi del caso. La parola maiale, che
è attinente alla dea Maia, è l’unico che ha una relativa eleganza sacrale fra i tanti termini ambigui, polivalenti. Il vocabolario grugnisce passando da porcello a lattonzolo
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(latòn in dialetto), porcastro, magrone, verro e troia. Verro potrebbe essere legato alla
mascolinità, quindi al latino vir, decisamente maschio, più anticamente deriverebbe
dall’indoeuropeo wers che significa fecondare. Tant’è che nei dialetti illustri del vicino Veneto il verro è chiamato màs-cio. Tutti gli altri nomi dell’animale hanno invece
un legame con la voce propria della bestia: sus, scrob, gor, pork.
Il maiale è un suono. Molte sue varianti sono anomatopee tanto plastiche e diffuse da
essere diventate nomi. Così come è capitato per la tortora che fa tut-tur o per il tacchino che nel mantovano diventa pit o pitòn e nel modenese toch ad imitazione del suo
richiamo. Per quel che riguarda il porco un esempio fulminante dei prestiti linguistici
storici e internazionali sta nei mantovani gugiöl, gugét, gugìn, gugión.
Si tratta di una bellissima serie di nomi alterati, diminuiti, vezzeggiati, peggiorati con
una stessa radice, come il francese cochon. L’origine è pressochè analoga in tutti i paesi di lingua neolatina. Nomi che imitano il sonoro del maiale o il richiamo del maiale
inventato dagli uomini:
in francese gor
in castigliano garrino
in catalano garrì
in galiziano cucho
in portoghese cochim
in rumeno cuciu
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Incontri con
i masalìn
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Zeno Roverato Ceresara
Zeno è un masalìn di tutto riguardo, anche nell’aspetto. Viso bene irrorato circondato
da una barbetta suggestiva, struttura importante, corporatura solenne, sorriso sempre
sollecito che ispira grande cordialità. Viene da una famiglia di salariati prima e di
braccianti poi, che lavoravano per conto di possidenti facoltosi i loro terreni a Ceresara e Castelgrimaldo. Sin da piccolo ha vissuto le difficoltà (assai spesso contigue
alla vera e propria miseria) che un tempo caratterizzavano inesorabilmente la vita
contadina. Prima di entrare nel dettaglio della sua professione mi descrive, con partecipazione viva, quel piccolo mondo antico fatto di ristrettezze ma ricco di umanità, di
comprensione, di aiuto reciproco, di solidarietà, che erano i valori cardinali sui quali
si reggeva l’esistenza di tutti.
I salariati erano coloro che badavano alle stalle e si distinguevano, nell’ambito delle
categorie rurali di una volta, dai braccianti che invece lavoravano la campagna. Il
lavoro da compiere era suddiviso in “spese” ed ogni spesa costituiva il lavoro giornaliero di un uomo e comportava la cura ed in particolar modo la mungitura, di dodici
vacche. Badavano anche agli altri animali quali tori, asini, cavalli. Mi precisa che con
tre spese una famiglia faceva molta fatica a campare per cui si arrangiava con l’orto, il
pollaio, i conigli, le uova che consumavano o vendevano barattandoli con quanto era
indispensabile per la casa come pentolotti, coltelli, piatti, un po’ d’olio o un pezzo di
stoffa. Quando moriva un vitello, per ragioni igieniche doveva essere subito sotterrato
e Zeno mi racconta che non era raro il caso che di notte andassero a dissotterrarlo per
poi cucinarlo. Il commento: “era una delle rare volte in cui si mangiava della carne”.
Si dice che in casi disperati la bestiola morisse inaspettatamente.
Per avere il credito necessario (fare la spesa con il libretto) la famiglia doveva godere
di grande fiducia per cui tutti i suoi membri si comportavano in modo molto corretto.
Ogni nucleo familiare viveva nella casa del padrone ed aveva come corredo storico
il porcile (pursìl) per il maiale. Il maiale veniva allevato vicino a casa con quanto era
allora possibile dargli e cioè scarti della cucina di casa, siero di latte, patate, un po’
di farina gialla ed altro ancora, ingredienti necessari per fare la broda (detta şota) che
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era poi versata calda nel truogolo. Il maiale forniva il compolentatico per arrivare sino
all’estate e la rasdura (la donna che reggeva la casa) era attenta a far durare il più possibile tale scorta preziosa, soprattutto quella rappresentata dal lardo che deve arrivare
come optimum allo spessore di un sömes, cioè di una spanna con le dita interne volte
verso il palmo. A quei tempi infatti non era tanto importante il salame che si otteneva
dalla lavorazione quanto il lardo. Di salame se ne mangiava poco e quasi sempre a
cena: tre fettine sottili come ostie - quasi trasparenti precisa Zeno - finivano nel piatto
degli uomini assieme a quattro fette di polenta. C’era poco da stare allegri.
Per avere un po’ di legna gli uomini andavano, magari in pieno inverno a raccogliere
i taparèi cioè quei monconi che sporgevano dalle radici dopo il taglio dei grossi rami
da utilizzare nel lavoro dei campi e che si seccavano. In estate le cose non erano però
molto diverse e ricorda ancora che venivano delle vere e proprie squadre di uomini in
bicicletta dalle colline (Volta Mantovana e Cavriana) sulle quali, per la conformazione
del terreno, c’era purtroppo poca terra da coltivare. Precisa che questi lavoratori, lieti
di avere il pane assicurato, arrivavano cantando. A mezzogiorno, sotto la barchessa
della stalla, mangiavano qualcosa portato da casa oppure consumavano quello che una
donna che abitava nella corte aveva loro approntato. Da piccolo non conosceva svaghi
o divertimenti, niente giocattoli. Le bambine giocavano a “campana” che, secondo il
compianto prof. Antonio Minuti, derivava dalla modalità, legata all’abilità ed al caso,
di assegnazione delle terre centuriate ai soldati romani come riconoscimento per il
servizio militare prestato.
Il discorso si fa serio e non manca una notazione di carattere sociale che volentieri
riporto. La fame, almeno entro certi limiti si intende, stimola al lavoro ed all’impegno
personale. Il benessere e la ricchezza oltre le normali necessità inducono al gioco ed
al disinteresse. Ricorda con piacere che d’estate andava su e giù in bicicletta dalla casa
alla campagna a portare l’acqua per i braccianti arsi dalla calura.
Parliamo della sua procedura per confezionare la carne di maiale, par far su el pursèl
secondo la sua dizione. Ci tiene a sfatare una credenza diffusa nel contado mantovano
e cioè che sia l’arte della concia la componente fondamentale per ottenere un ottimo
salame. Una volta infatti le ricette erano formule preziose che ogni masalìn teneva
accuratamente per sé al fine di non pregiudicare, diffondendola, gli ambìti ingaggi
delle famiglie. Per il sig. Roverato è certamente una componente fondamentale per
il buon esito, per la buona riuscita dei salami, ma non la prima. A suo convintissimo
parere il buon prodotto ha inizio molto prima e cioè dall’allevamento del maiale, dalla
cura con la quale viene accudito, dal cibo che mangia, dall’ambiente in cui vive e dalla
modalità della uccisione.
L’uccisione. Si apre tra noi un discorso difficoltoso, fatto di parole espresse con toni
smorzati, come si può ben capire. È un argomento penoso e triste che comunque
affrontiamo. Lui non tollera le varianti nelle quali affiorano tracce di crudeltà compiaciuta e di sadismo vero e proprio che non depongono mai a favore dell’operatore
(volutamente non lo chiama masalìn) e che oltretutto incidono pesantemente sulla
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bontà delle carni. Il maiale va ucciso con attenzione, direi con simpatia, quasi con
delicatezza, non c’è bisogno di violenza. Lui va di persona nello stalletto, con suoni
accattivanti e dolci lo spinge fuori e poi - il più velocemente possibile e con l’animale
sempre molto tranquillo - lo abbatte con un colpo di pistola sulla fronte che spara un
tondino di acciaio lungo circa sei-sette centimetri. Questo penetra nel cervello ed immediatamente priva di ogni senso l’animale che non avverte quindi nessun dolore. Poi
con un coltello affilato lo scanna, gli recide cioè le arterie prossime al cuore.
Il masalìn una volta era ingaggiato per conoscenza, per bravura, per amicizia ma soprattutto perché la sua concia era gradita alla famiglia.
È ancora buio quando arriva. Giunge in bicicletta con davanti la cassetta degli attrezzi
e sul manubrio la sporta dei coltelli e delle raspe, sorta di spatole ricavate da qualche
vecchio ferro da falciatura dell’erba. I suoi assistenti sono giù sul posto ed aiutati dagli
uomini della famiglia hanno già approntato il paiolo (al paröl) di rame con l’acqua
bollente. Questo per la verità era compito specifico del più anziano della casa sia per
il fatto che per la tarda età si alzava sempre piuttosto presto e sia perché da persona
esperta del lavoro da compiere era più di altri meticoloso ed attento alla bisogna. Già
dalla sera prima era stato approntato, in un luogo opportuno della corte, una balla
(bòtula) di paglia con sopra un asse o uno scaletto steso per la lunga. Lo scaletto e la
paglia avevano la funzione di sostenere l’animale e di drenare l’acqua caldisima con
la quale lo si bagnava, a zone e con grande cura, così da scottare la cotica senza cuocerla e poter allo stesso tempo estirparne i peli, le setole (operazione detta peladüra).
All’osservatore esterno sembra questa, in fin dei conti, una cosa semplice, banale.
Non è così perché se si scalda troppo la cotenna questa si cuoce e non è più possile
levare le setole stesse. L’operazione infatti veniva compiuta, contemporaneamente, da
due persone che operavano in perfetto accordo. Il compito più rilevante era quello di
versare accortamente l’acqua calda e non quello di raschiare i peli secondo il diffuso
assioma, sempre ripetutogli dal padre, che in definitiva quel ca péla al pursèl l’è quel
che bröa (chi il maiale è soprattutto l’uomo che lo sbollenta).
Subito dopo il maiale veniva appeso a gambe aperte su un apposito treppiede detto
picaröl (da impiccare) e si tagliava per la lunga nelle due mezzene con la fòlsa, una
mannaia grossa ed affilata.
Il nostro non è mai andato a scuola il giorno della maialatura. Stranamente gli capitava quel giorno un improvviso mal di denti o di testa o di pancia che benignamente si
risolvevano dopo l’ora della campanella. Gli venivano affidate delle piccole incombenze che lui svolgeva con grande impegno. Intanto guardava e non gli sfuggiva nulla: vedeva ed imparava. Con il passare degli anni la sua partecipazione all’impegno
collettivo si ampliava e si faceva sempre più consapevole, apprezzato ed utile. Era
contento e piano piano interiorizzava (il verbo è corretto) gli arcana del mestiere.
Da un uomo particolarmente robusto, le due mezzene venivano portate in casa e sistemate su dei tavoli. Con sapiente lavoro di coltello venivano tagliate le parti da destinare ai salami, alle coppe, alle pancette, ai cotechini, alle grepule ecc. Dalle nostre
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parti soltanto ultimamente ci si sbizzarisce nell’approntare prosciutti, culatelli, lombi
da stagionare ed altre amenità. Una volta la pezzatura principale, come si è già detto,
era rappresentata dal lardo che veniva salato per la conservazione e steso su delle assi
nella parte più fredda della cantina. Quasi tutto il resto, levate le coppe, i cotechini ed
i ciccioli, finiva nel salame non depauperato quindi, come purtroppo accade ora, delle
sue componenti più apprezzabili.
Zeno si dilunga a raccontarmi nel dettaglio queste operazioni. Avverto che non gli
sono davanti, lo sguardo mi fissa ma lui è lontano, è là, davanti alla mezzena. Con i
coltelli in mano la scruta, la analizza e da ex infermiere le fa, come dire, una radiografia.
Già al momento dei tagli opera delle selezioni che ritiene ineludibili. Distingue subito
la polpa della carne dalla parte bianca cioè dal grasso e dallo strutto che poi seleziona
ulteriormente. Non mette i muscoli della gamba nei cotechini ma li apre, ne elimina la
parte nervosa e dura e pone la polpa nel salame. Vi aggiunge anche quella che ricava
dalla mondatura dell’osso dello stomaco. A suo dire sono essenziali, ineludibili.
Taglia la carne in pezzi piccoli ed anche da questi toglie le pelletiche interne. Poi vi
aggiunge, in proporzioni convenienti secondo la sua sapienza masalina, il lardo della
pancetta unitamente a quello della schiena. Macina con la ”machina di salàm” (altrimenti denominata tritacarne, ma è dizione desolante), colloca nella méséta, impasta
e condisce.
Nella pasta del salame convergono tutte le carni utili mondate con ogni cura possibile,
da grasso molle (unto), pelletiche, nervetti ecc. Si passano alla macchina con piastra
del 10 e si stende il macinato su un piano di legno (ora di plastica per alimenti) molto
capace o in una mesèta, una specie di grosso bacile rettangolare di legno con lati obliqui. La si concia a spaglio con il preparato di cui sotto e quindi la si rimesta (si pügna).
Si bagna con il vino profumato di aglio e si pügna nuovamente. Il vino va messo per
ultimo perché tende a legare l’impasto e quindi a penalizzare la rimestatura. Si lavora
sino a quando un pugnello sbattuto contro il palmo della mano posto in verticale, resta
attaccato al palmo stesso. Poi si insaccano i salami, si legano e si forano i budelli con
l’apposito strumento (la furèla). Salami, coppe, pancette, cotechini ed altre sublimità
si appendono infine al baldachin.
Ai bambini venivano fatti degli scherzi, semplici ed innocenti, per insegnar loro ad
essere attenti e consapevoli delle gherminelle che la vita avrebbe inevitabilmente arrecato. Ricorda benissimo questo: veniva chiesto ad uno di loro di andare in casa e
farsi dare dalla rasdora del grasso per ungere i coltelli, richiesta assolutamente sciocca
perché il lavoro si stava svolgendo proprio immersi nel grasso. La donna di casa capiva e sgridava bonariamente il piccolo che si immusoniva per essere stato preso in
giro. Era scuola anche questa.
I suoi criteri per la scelta dell’animale giusto sono questi: maiale lungo, due belle
cosce, spalle larghe, asciutto di pancia, orecchie ritte.
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CONCE
Salame
La ricetta è quella di una volta quando la percentuale di sale era piuttosto alta. Oggi,
per via dei mangimi, tale componente è alquanto diminuita. Si tenga conto che nella
dizione corrente, osservata in tutta la nostra provincia, non si mette la virgola fra le
due cifre.
Proporzioni nell’impasto: se il salame è fatto con carne e pancetta va il 50 % dell’una
ed il 50 % dell’altra. Se invece si confeziona con carne e lardo va rispettivamente il
70 % ed il 30 %.
- Sale: 22 %
- Pepe: 1,7 – 2,0 %
- Aglio: 3 capi medi o 4 piccoli per maiale
- Vino rosso corposo: due bottiglie per maiale
- Spezie (vedi sotto in “coppe e pancette”)
Zeno priva l’aglio dell’anima interna (il germoglio) e poi lo trita grossolanamente
e lo mette a macerare in un vaso chiuso ermeticamente, con il vino la sera prima in
modo che ceda tutto il suo aroma. Il giorno della maialatura versa nell’impasto il solo
liquido.
Coppe e pancette
Misto di spezie fatto da lui, calibrato nell’arco di una ventina d’anni: passare al macinacaffè una noce moscata, un pugnello di chiodi di garofano, una piccola stecca di
cannella. Raccogliere in un barattolo con chiusura ermetica in modo che l’aria non
ossidi il composto.
Nella pancetta è opportuno fare prima delle incisioni in senso longitudinale per favorire ed accelerare la presa di condimento, sulla coppa non è necessario.
Il trattamento su coppe e pancette lo fa subito e poi le mette a macerare in una bacinella con il 35 % di sale (in realtà, come è stato ricordato, il 3,5 %), il 25 % di pepe,
spezie (quelle sue, indicate sopra) un poco più del salame, un sospetto di salnitro (un
pizzichino), vino rosso. Non bagna con il vino subito ma solamente dopo qualche ora
per dare tempo al sale di fare la sua importante azione di espulsione dei liquidi interni.
Insacca le coppe e le pancette per ultime, quando ha finito tutto il resto. Poi le lega e
le affida al baldachìn.
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Salamelle e pesto
Dice: ho sperimentato diverse composizioni di carne, variando le parti anatomiche,
escludendone alcune e scegliendone altre. A mio avviso il miglior risultato si ottiene
usando in parti pressappoco uguali, i fondelli (fine lombata), i sottospalla, la rifilatura della coscia da prosciutto e la pancetta. Tutte queste parti sono anatomicamente
inerti, non lavorano come la coscia la spalla o la coppa, che trasformate e insaccate
innescano un decorso chimico molto utile nel caso del salame, a favorire il processo
di stagionatura. Sono per questo indicate per un prodotto da consumare fresco, perché
conciate acquisiscono una morbidezza e una fragranza superiore che rimane inalterata. Questa la ricetta:
ingredienti per 100 kg di pasta:
- Fondelli o scanelli - Sottospalla
- Rifilatura coscia - Pancetta
- Sale media grana
- Pepe spaccato 1/16° - Spezie
- Aglio tritato
- Vino rosso corposo
- Salnitro
kg 25
kg 25
kg 25
kg 25
kg 2
g 160/180
un bella pizzicata
g 120/150
1 litro
un pizzico
Lavorazione:
Mondare la carne eliminando la parte bianca molliccia, eventuali nervetti e membrane
interne, tagliandola a piccoli pezzi. Stendervi sopra la pancetta, tagliata a pezzi più
piccoli della carne per una migliore uniformità durante la macinatura, evitando cumoli di grasso che poi non si riuscirebbe a distribuire in modo uniforme. Macinare con
piastra dell’otto (diametro fori), e conciare come il salame (diminuendo la percentuale
di sale al 2%).
In una ciotola, o altro recipiente capace, mescolare il sale, il pepe, le spezie e il salnitro e spargere sopra l’impasto. Rimestare (pugnare). Alla fine versare il vino dopo
averne eliminato l’aglio tritato messo in precedenza a macerare. Tramenare ancora un
po’ fino che il tutto lega bene.
Insaccare le salamelle o fare i sacchetti di pesto. Si può assaggiarlo subito a pizzicotti
o fare qualche polpettina di tastasal, così, per prova e per piacere.
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Lombo insaccato
Sezionato il lombo dalla mezzena, lo si pulisce per bene lasciando il filo di grasso
che ha da una parte, lo si sistema in un recipiente sufficientemente lungo dopo averlo
condito rivoltandolo in un miscuglio fatto con sale 30 - 35 %, pepe 18 - 20 %, un bel
pizzico delle sue spezie (vedi sopra in “concia per coppe e pancette” fatto cioè con
cannella, noce moscata e chiodi di garofano) ed una presina di salnitro. Il miscuglio
dovrà essere abbondante per utilizzarne anche nella lavorazione successiva.
Si tiene la carne nella bacinella per una settimana in un posto molto fresco eliminando
ogni giorno il liquido che si sarà raccolto sul fondo ed aggiungendo ancora del miscuglio sia per compensare quello che intanto sarà stato assorbito dalla carne e sia per
aromatizzare eventuali zone rosse che non hanno ricevuto condimento a sufficienza.
Alla fine della settimana tutto il miscuglio saporoso che il bravo norcino avrà preparato sarà stato completamente utilizzato. A questo punto si bagna con vino rosso ed
aglio come è stato fatto per i salami. Dopo un giorno di macerazione lo si lega stretto e
lo si insacca in un budello di buon spessore. Si lega ancora all’esterno e lo si appende
per la maturazione.
Cotechino
La concia è leggermente più speziata e salata di quella del salame. Si insacca in crespone, alla misura di 20 cm circa e mediamente di 1 kg di peso.
RICETTE
Il sig. Roverato è un gentleman chef molto valido. È stato indagato più volte per produzione e spaccio di risotti stupefacenti. Nei vari incidenti probatori, ai quali anch’io
ho partecipato come giudice, è sempre risultato stupendamente colpevole.
Ris dal pursèl
Zeno è un raffinato. Distingue con sicurezza tra i due risi che adornavano la cena della maialatura. C’era quello tipo risot menà e l’altro - a suo parere più in linea con la
vecchia tradizione - da servire in brodo. Ritiene quest’ultimo quello consueto perché
i masalìn, che una volta passavano l’inverno tra lardo e strutto, avevano in uggia i
mangiari troppo grassi.
Fare un brodo con sole ossa del maiale, acqua e sale. Sgrassare nella misura più ampia
possibile e versare in una pentola la quantità necessaria per il piatto. A parte preparare
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il condimento mettendo in tegame dai bordi alti la pasta del salame, un trito di sedano
e un poco di conserva di pomodoro fatta in casa, quel tanto che basta per dare al ris
un colore rosato e non rosso. Addizionare mezzo bicchierotto di vino bianco e fare
cuocere.
Far bollire il brodo di ossa, versare il riso vialone nano mantovano (3 bicchieri ogni
5 persone) e fare andare a fiamma non troppo alta. A metà cottura addizionare il condimento e, “tramenando” di quando in quando, portare alla fine. Aggiustare di sale.
Solamente per scrupolo scientifico, Zeno mi fa presente che qualcuno, in vena di
turpitudini innovative, ci mette anche del dado. Sistemare nei piatti servendo del formaggio grana a parte. Siccome la preparazione al momento è così ardente da ustionare
la lingua, non è raro il caso che qualche commensale si faccia sfacciatamente portare
due piatti della delizia: uno per l’immediato ed uno per dopo.
Risòt a la pilota
Usando un comune bicchiere (circa 160 ml), preparare la dose del riso. Un bicchiere
a persona è una buona e abbondante porzione.
In una pentola antiaderente, con fondo spesso, versare tanti bicchieri di acqua quanti
quelli del riso, più un mezzo bicchiere (indipendentemente dal numero di quelli di
riso). Salare leggermente e portare a bollore, quindi versare il riso, cuocere a fiamma alta e scoperta mescolando di tanto in tanto dai 4 ai 6 minuti, cioè fino a quando
presenta, l’aspetto del risot menà piuttosto asciutto (l’acqua deve essere quasi tutta
assorbita). A questo punto abbassare la fiamma, coprire con coperchio e sopra mettere
una tovaglia o un asciughino.
Dopo 10 minuti mescolare velocemente il riso e ricoprire come prima. Dopo altri 10
minuti spegnere e fare il “cappello” versando il condimento sul riso senza mescolare
e ricoprire per alcuni minuti.
Infine aggiungere una manciata di grana, mescolare bene il tutto e dopo un altro
“riposino”, di un paio di minuti, si può servire.
La fase finale di attesa è molto importante, anche se richiede un po’ di sofferenza,
serve a smorzare l’alta temperatura che disperde gli aromi, dar tempo al riso e al
pesto di conoscersi a fondo per poi esprimersi al meglio.
Con un po’ di attenzione nel misurare l’acqua e il riso, il risultato è garantito.
Preparazione del condimento da farsi mentre si cuoce il riso.
In altro tegame sciogliere una noce di burro, aggiungere il pesto, circa 120 g per ogni
bicchiere di riso, a volte con un rametto di rosmarino (facoltativo). Lasciare rosolare
alcuni minuti, poi mettere un po’ di vino bianco e terminare la cottura; piuttosto breve
(15 minuti circa) per conservare l’aroma e la fragranza del pesto.
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Lombo in tegia
Prendere del buon lombo nel peso adatto alla bisogna, lavarlo accuratamente, asciugarlo e fargli due profondi tagli a V in senso longitudinale. Introdurre inizialmente nei
due solchi un trito composto da: salvia, rosmarino, alloro, sale, pepe, un pizzichino di
spezie (le sue: cannella, garofano e noce moscata). Completare poi, fino a riempire i
tagli, con burro e formaggio grana a listarelle. Strofinare all’esterno con sale e pepe,
legarlo stretto e cuocerlo in una teglia dai bordi un poco alti con solo vino bianco. Si
può arricchire degnissimamente il piatto mettendo attorno alla carne delle cipolline
bianche ben mondate. Fare andare al coperto ed a fiamma bassissima per circa tre ore.
Una volta lo si metteva in un àngol dla stüa e lo si abbandonava là, al suo destino.
Quando è ben cotto e colorito, slegarlo ed affettarlo. Servirlo con le cipolline come
contorno.
Tortellini dolci
Ingredienti
per la pasta frolla:
- farina
- burro
- zucchero
- uova
- lievito per dolci
- rum
- zucchero vanigliato
g 350
g 150
g 150
3
g 4/5 circa
un goccio
q. b.
- marmellata di fichi - marmellata di susine
- amaretti a piacere
- limone
g 500
g 500
g 150/200
la buccia
per il ripieno:
Esecuzione:
Impastare farina, lievito, burro, zucchero, un uovo intero più due tuorli ed il rum.
Deve risultare un composto ben consistente. A parte mescolare le marmellate, gli amaretti tritati, la buccia grattugiata del limone. Prendere un pezzo di pasta, spianarla un
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po’ con le mani, metterla tra due fogli di carta da forno e con il mattarello tirare una
sfoglia dello spessore di 1 euro circa. Togliere il foglio superiore della carta e con
una tazza tagliare dei cerchi. Sollevare un disco alla volta, mettere un cucchiaino di
ripieno al centro e quindi ripiegare delicatamente e premere sui bordi per sigillare il
tortellino.
Cuocere i dolcetti in forno - meglio se ventilato - per circa 25 minuti a 150 °C. Sistemare in una guantiera e spolverare con zucchero vanigliato.
Macedonia sotto spirito
Procurarsi un recipiente di vetro a bocca larga. Zeno usa una damigiana per l’aceto da
15 litri per avere un risultato generoso. Si inizia a febbraio con i mandarini giapponesi,
si termina a ottobre con l’uva adatta a conservarsi sotto spirito. Tenere il recipiente al
buio o ricoprirlo con carta. Si aggiungerà man mano la frutta adatta di stagione, matura ma ben soda, sempre lavata, asciugata e tagliata a pezzi o lasciata intera secondo la
varietà e le dimensioni. Addizionare ogni volta 3 hg di zucchero per ogni kg di frutta
che si aggiunge e mantenerla ricoperta di alcool a 90° che, dopo la prima volta, verrà
aggiunto saltuariamente, perché la frutta cala di volume e emette il proprio liquido.
Questo in dettaglio il procedimento:
Inizialmente porre nel vaso 1 kg di mandarini interi, 3 hg di zucchero e coprire con
alcool. Nello stesso modo si prosegue nel tempo, con ananas mondato e a pezzi, fragole intere, albicocche a pezzi, pesche a pezzi, ciliegie intere, melone (ben mondato)
a pezzi, pere a pezzi, uva tipo bigolona (acini interi).
La frutta, esclusi ananas e melone, non va sbucciata. A Natale raggiunge la sua entelechìa.
Lingua di manzo salmistrata
Prendere una grossa lingua di manzo, nettarla e lavarla bene, asciugarla e massaggiarla con un pizzico di salnitro. Sistemarla poi in un contenitore con coperchio. Aggiungere sale grosso, misto spezie, 2 spicchi di aglio, due rametti di rosmarino, una foglia
di alloro spezzettata, tutto distribuito uniformemente. Coprire e porre in frigorifero o
al freddo se la stagione è quella invernale. Girare ogni due giorni o meglio quotidianamente per un mese. Terminata questa fase di marinatura, lavare la lingua sotto acqua
corrente, sistemarla in un recipiente capace e farla cuocere per 3-4 ore. Pelarla appena
scolata ed ancora caldissima e servire calda o fredda a piacere. Può anche arricchire
un vassoio di salumi se bene affettata sottilmente alla macchina.
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Zeno, animato da spirito certosino, fornisce anche una tabella che gradua sale e spezie
a seconda del peso iniziale della lingua.
Per un peso iniziale di kg 1 mettere 40 g di sale e 25 g di misto spezie, poi aumentare
- per pesi maggiori - aggiungendo 4 grammi di sale e 2,5 grammi di spezie per ogni
etto in più di lingua fresca.
Esempio:
peso iniziale 1 kg sale g 40 spezie g 25
peso iniziale 1,2 kg sale g 48 spezie g 30
Per il misto di spezie usa un composto già preparato da una ditta di sicuro affidamento. Nella cartina non sono specificate le dosi (lui presume un pizzico di ognuno), ma
solo gli ingredienti: pepe - ginepro - coriandolo - origano - alloro - cannella regina rosmarino - salvia - anice stellato - macis - timo - finocchio - basilico - noce moscata
- menta - maggiorana - dragoncello - chiodi di garofano.
Qualche anno fa comperava il cartoccetto dalla drogheria Zanini che aveva il suo negozio in via Verdi a Mantova. Il sig. Zanini era un artista delle droghe. Gli tributo un
encomio sincero e riconoscente.
Pulàstar in tegia
Ingredienti (per sei persone):
- un pollo grosso oppure sei quarti posteriori;
- una grossa cipolla o due medie;
- un peperoncino piccante e tre spicchi di aglio mondati e senza germoglio interno;
- 6 foglie di alloro e 5-6 rametti di rosmarino;
- due belle pizzicate di origano, olio extra vergine di oliva e burro;
- un bicchiere di vino bianco, una spruzzata di brandy, sale, pepe;
- olive nere denocciolate (circa 300 g) e succo di limone.
Esecuzione:
Preparare un trito con alloro, rosmarino. In un tegame capiente fare rosolare tre o
quattro cucchiai di olio, una noce di burro, la cipolla affettata finemente ed il peperoncino. Quando tutto è pronto addizionare il pollo (tagliato a pezzi o i quarti posteriori
se non si cucina il pollo intero), salare, pepare, spolverare con l’origano e la metà del
trito fatto precedentemente. Dopo cinque minuti girare il pollo e cospargerlo con l’altra metà del trito stesso. Fare andare a fuoco medio per circa un’ora. A questo punto
le carni si saranno aperte ed il loro liquido interno si sarà evaporato. Spruzzare di
brandy (il cognac italiano) ed addizionare le olive scolate. Continuare la cottura per
una ventina di minuti e poi versare il succo di mezzo limone. Dopo altri pochi minuti,
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spegnere la fiamma. Lasciare riposare per qualche tempo prima di servire, meglio se
può attendere una notte intera.
Avvertenze: se il pollo è di natura ruspante i tempi saranno ovviamente più lunghi,
in alternativa al pollo si può cucinare una faraona, meglio se bella, grossa e fattrice.
Fujade cun el pisù
In questi ultimi tempi quasi tutti i network televisivi presentano programmi con chefs,
massaie, nonne e giovinotti che illustrano le loro ricette antiche, vecchie e moderne.
È una pervasione fastidiosa, soffocante. Non mancano persino quelli che non si fanno
mancare nulla e si rifanno alla storia della civiltà del mondo con gli approfondimenti
inevitabili sui mangiari asiatici.
In uno di questi, uno studioso giapponese ha esplorato l’origine dei noodles, una sorta
di bigoli di farina tondi e grassottelli appiattiti successivamente con le dita. Pare che
provengano dalle pratiche alimentari di popoli indo-cinesi. Hanno una storia di almeno tremila anni. Si servono ancora nelle strade di molti paesi orientali in un brodo di
pollo e verdure e vengono introdotti nella bocca con necessarie aspirazioni rumorose
(una modalità sconcertante).
I noodles mantovani si chiamano fujade e si condiscono in modo molto diverso. A mio
parere - un tocco di sana partigianeria non guasta - sono decisamente più piacevoli. Ce
lo dimostra questa ricetta.
I piccioni sono sempre stati una presenza ragguardevole nella cucina contadina di
tutti i tempi. La loro destinazione elettiva era l’abbinamento con la pasta fatta in casa,
le fujade, vale a dire le fettuccine moderne, dizione quanto mai angosciante. Questa
ricetta è quella di una volta.
Prendere dei piccioni, spennarli, pulirli, tagliarli in quarti e farli andare in una teglia
con - tutto a freddo - poco olio, una noce di burro, uno spicchio di aglio intero, un
rametto di rosmarino, qualche foglia di salvia, vino bianco secco, sale e pepe q.b.
Cuocere a fuoco moderato quel tanto che è sufficiente per riuscire a spolparli (il tempo varia secondo l’età dei volatili). Dal fondo di cottura togliere l’aglio e gli aromi,
aggiungere una noce di burro, un trito di cipolla, carota, sedano e un po’ di pancetta
tagliata a dadini. Fare rosolare a fiamma bassa e quindi aggiungere tutta la polpa, la
pelle e le frattaglie, precedentemente sminuzzate con un coltello su un tagliere. Addizionare una foglia di alloro. Lasciare insaporire. Dopo una decina di minuti unire il
pomodoro in minima quantità (il suo gusto non deve prevaricare quello del piccione),
aggiustare di sale e pepe e bagnare ancora con vino bianco secco.
Cuocere a fuoco lento per circa due ore. Lasciare riposare. Il tutto viene meglio se
preparato il giorno prima.
Ottimo per le classiche tagliatelle ma, se capita di avere a disposizione dei bigoli fatti
col torchio, la sostitizione è assolutamente consentita.
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Silvano Buoli Schivenoglia
Il sig. Buoli, baldo giovinotto di ottant’anni, mi accoglie sulla porta di casa con un
ampio e compiaciuto sorriso. Ci eravamo sentiti per telefono qualche giorno prima ed
ero atteso. La moglie Anna Maria Riccardi, con il senso della semplice ma cordiale
ospitalità propria del contado, ci prepara subito il caffè. Il mio fotografo di fiducia Daniele Sinico inizia il suo lavoro. Il leggero senso di imbarazzo che ci coglie quando si
parla con gente sconosciuta, viene subito dissolto seduti attorno al tavolo da pranzo in
una conversazione nella quale prevale il dialetto, lingua nostrana che ben si acconcia
al tema.
Silvano ricorda che ha cominciato ad interessarsi attivamente - prima era solamente
viva, infantile curiosità per l’insolito evento - quando aveva appena quindici anni.
Seguiva ed aiutava i masalìn che venivano a far su al gugèt nella sua casa. All’età
di 25 invece, per la assoluta necessità di compensare il poco lavoro in campagna del
periodo invernale, si era messo assieme, come aiutante, ad un norcino molto esperto
che ricorda con gratitudine, Gino Formigoni.
Allora non c’erano tutte le comodità di oggi. Si alzavano alle cinque del mattino,
andavano a lavorare in bicicletta, con le sporte degli attrezzi ben fissate ai manubri
o su portapacchi di fortuna, sempre al freddo ma talvolta anche sotto la pioggia, la
neve o con il tormento del ghiaccio, e tornavano all’una di notte dopo una giornata di
dura fatica, trascorsa al limite della concitazione ma anche molto appagante. Ricorda
infatti che già la distesa delle carni sul lungo tavolo, la loro suddivisione nelle diverse
specie secondo l’impiego successivo, l’odore penetrante delle spezie e soprattutto la
vista delle falde di lardo, dei salami, delle coppe, pancette e cotechini, sollecitavano
in tutti un insolito senso di piacere, di gratificazione, quasi di euforia, a ricompensa
psicologica, direi spirituale, di mesi e mesi di angosce e ristrettezze alimentari.
Contrariamente a quanto oggi si potrebbe pensare, lo scopo principale della maialatura allora non erano tanto gli insaccati, da utilizzare, con parsimonia anacoretica, come
companatico ovvero come merce di scambio con il buteghèr, ma il grasso, quello della schiena in particolare, che garantiva un po’ di condimento nei piatti che la rasdura
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quotidianamente preparava per la famiglia. L’obiettivo dunque era il lardo per cui si
preferivano le scrofe ai verri. Una scrofa di oltre tre quintali era un trofeo, certamente
raro ma non impossibile, da esibire compiaciuti ai vicini di casa, sorpresi ed un tantinello invidiosi.
Il maiale allora era mantenuto con la şota, un misto di tutti gli avanzi di cibo domestico cui si aggiungevano farina, patate, orzo, crusca e siero del latte preso in caseificio.
I contadini di condizione benestante non aggiungevano il siero per allungare la şota,
perché volevano risultati migliori in qualità e quantità. Nello stalletto, a sostituire il
maiale appena ucciso, veniva messo ad allevare un altro dell’età di circa tre o quattro
mesi.
Il porcile era situato nel portghèt (il portichetto della barchessa) in un apposito stabbiolo. Il giorno fatidico venivano messe ai lati della porta le grate di un carretto da
lavoro così da restringere al gugét, una volta fuori, in poco spazio altrimenti c’era da
diventare matti a rincorrerlo nei campi. Il giorno precedente si aveva l’accortezza di
non dargli nulla da mangiare in modo che fosse sollecito verso un poco di pastone che
gli si metteva davanti, nello spazio costruito.
Appena uscito dalla stalla, veniva sveltamente ribaltato dagli uomini ed infilzato con
al curadòr (la traduzione sarebbe il cuoratore ma è infelice) ferro tondo di circa 6 mm.
di diametro, lungo 30, terminante con una freccia acuminata e ben arrotata. Appena
compiuta la violenta operazione la punta dell’arnese, per evitare malanni, veniva resa
innocua ficcandola in un tappo di sughero. In una pentola di rame con dentro un ferro, il maestro raccoglieva il sangue della bestia che successivamente veniva nettata e
pelata dagli aiutanti.
Per quest’ultima necessità la si sistemava su delle grate o delle assi per lavarla accuratamente con acqua fredda e togliere la maggior parte della sporcizia evidente. Successivamente il maiale era bagnato a zone con acqua calda (ma non bollente) a 80 °C
circa per facilitare la asportazione delle setole, tramite un apposito raschietto.
A questo punto si collocavano due timoni da carro contadino (quello trainato da buoi)
appoggiati contro un muro, nella corte teatro di tutte queste operazioni e si fissava
una traversa che li congiungeva nella parte superiore. A questa erano legati ad una distanza di circa due metri uno dall’altro, due paranchi detti tài (da taglia). Sotto questa
incastellatura veniva portato il maiale e gli venivano assicurate le zampe posteriori,
una per paranco, a degli uncini che giravano attorno ai tendini. Con la carrucola era
sollevato completamente e lavato di nuovo per eliminare ogni ulteriore residuo di
sudiciume.
Lo si tagliava allora in due mezzene che finivano, portate dai garzoni più robusti, in
casa sul grande tavolo della cucina. Qui si sezionavano le parti che il masalìn indicava per la confezione dei vari prodotti finali: salami, pancette, coppe, cotechini, lardo,
grepule (non ce la faccio a scrivere “cìccioli”).
Gli intestini appena estratti dall’addome, venivano portati subito nella stalla per lavorarli riparandosi un poco dal freddo (ma talvolta si operava nel gelo della corte). L’ òm
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di büdei, aiutante giovane ma molto attento li puliva accuratamente. Si macinavano
le carni quasi sempre con la piastra dell’8, si condivano e con la macchina azionata a
mano si confezionavano i salami insaccando la carne nei budelli e legando poi i capi
con dello spago.
Alla fine, con un apposito piccolo attrezzo detto furin o furèla, fatto come una piccola
spazzola rotonda con infilzati degli aghi di ferro (ma in mancanza si adoperava anche
una forchetta) si bucavano per tutta la superficie andando in profondità per far uscire
tutta l’aria. Questa, se fosse rimasta imprigionata all’interno avrebbe formato delle
bolle che avrebbero resa rancida la carne.
I salami stavano per due o tre giorni nella stanza del camino per asciugarsi. Questa
operazione era delicatissima e se non controllata a dovere poteva pregiudicare il buon
esito finale di tutta la partita. Quindi le stanghette venivano sistemate nella camera
da letto, fresca ma non frigida dove sostavano per tutto marzo. Ai primi caldi della
primavera si trasportavano in cantina.
La sc-iapa dal gras (la falda del lardo) dopo essere stata ben mondata, era subito cosparsa di sale grosso e restava stesa per una settimana per consentirle di cacciare gli
umori interni, poi era infilata ad un uncino ed appesa al soffitto della cantina o di una
stanza molto fredda. La rasdura andava di buon mattino con un coltello e toglieva via
via ciò che serviva al fabbisogno del mangiare quotidiano.
CONCE
Salame
- Sale 2,8 %
- Pepe da 0,26 a 0,28 %.
In un quintale di pasta andavano circa due etti di pepe o poco più.
- Aglio la quantità variava a seconda del gusto delle famiglie.
In media si metteva una bella manciata di spicchi (poi mondati, privati del germoglio interno e tritati) su 60 - 65 kg di pasta.
- Vino rosso, corposo, 1 bottiglia in tutto
Salam dla lengua
Era il salame speciale che veniva consumato il giorno della Ascensione. Silvano non
spellava la lingua ma la raschiava. Se si agiva bene la superficie veniva via senza
troppe diffcoltà. Di buon mattino vi faceva un taglio per la lunga e dentro al taglio
poneva del sale. Alla sera levava il sale, introduceva in un budello e quindi insaccava
mettendole attorno la pasta del salame. Si mangiava cotto.
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RICETTE
Porchetta
Avverto una certa fierezza nell’esposizione del procedimento. Il piatto non era consueto dalle nostre parti e quindi conferiva all’operatore una considerazione in più.
La porchetta va lavata per bene e quindi conservata nella sua interezza, compresa
assolutamente la testa e la cotica. Si asportano solamente le interiora e le ossa. Si sala
all’interno con le stesse proporzioni del salame, quindi si condisce con foglie intere di
alloro ed un trito abbondante fatto con rosmarino, salvia, altro alloro e pepe a mezza
grana. Le proporzioni sono tra di loro circa uguali in peso. Niente aglio.
Va cotta nel forno del pane utilizzando il pomeriggio quando non si cuoce più nulla
ma la volta refrattaria è ancora ben calda. Deve restare a crogiolare per 12 ore.
Prosciutto al forno
È compiaciuto del mio stupore. “Sa fare anche questo, gli chiedo ?”. Certo che lo sa
fare ed è anche piuttosto semplice.
Il prosciutto va trattato come la porchetta. Va ben ripulito e condito con il misto di
erbe (alloro, rosmarino, salvia, pepe e sale visto prima) che si inserisce nella carne
tramite buchi piccoli e profondi fatti con un coltellino lungo ed acuminato. Cottura
come per la porchetta cioè in una placca, al forno, per 12 ore.
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Gianni Vicini San Giacomo delle Segnate
Sono tra le brulle terre di San Giacomo delle Segnate, paese nel quale sono stato
sfollato da piccolo per sfuggire ai bombardamenti ed alle tragedie della guerra. È
una campagna particolare, con pochi alberi a causa, io suppongo, di un sottosuolo
ricco di sale, che risente ancora di una lunga permanenza di fondali marini. A San
Rocco chiedo informazioni circa l’abitazione del signor Benatti presso un’osteria di
impronta decisamente moderna. È gestita da cinesi i quali, con i modi cortesi e con lo
stile riguardoso che è loro proprio, mi fanno capire, più a cenni che a parole, che non
sanno dirmi nulla. Passo davanti alla villa Arrigona, semplicemente stupenda nelle
sue linee architettoniche bene evidenziate da un accurato ed avvincente restauro della
facciata, e finalmente arrivo a casa Benatti, dall’amico Icilio. Ad attendermi c’è anche
il sig. Gianni Vicini, suo suocero, masalìn di lunga esperienza, persona di altri tempi,
pacato nei modi e con un atteggiamento di grande rispetto nei miei confronti. Superato
il leggero disagio iniziale, rotto il ghiaccio del rapporto con un estraneo, capìto che
sono della stessa pasta semplice e schietta, Gianni si apre come un vecchio amico. Il
colloquio scorre piacevolmente tra brume invernali, mezzene, budelli, salami e grepule. Mi avvince per il tono e la accuratezza della esposizione. Icilio e Gianni sono due
personaggi dal carattere diametralmente opposto: dinamico e sempre sollecito alla
battuta ed al lazzo il primo, posato e riflessivo il secondo.
Il sig. Vicini inizia già prima dei tredici anni a seguire lo zio Mario Vicini e Adelchi
Rovesta, due famosi norcini della zona, nei loro spostamenti di corte in corte a far su
al gugèt. Andavano dove erano stati ingaggiati anche a 10 /12 chilometri di distanza,
in bicicletta al mattino prestissimo, non di rado verso le quattro e mezza, con qualsiasi
tempo - ricorda sorridendo certe bufere di neve - con gli attrezzi in una borsa attaccata
alla canna della bicicletta. In spalla si mettevano li tai (corda con carrucole che serviva per issare il maiale).
Il maiale veniva spinto fuori dallo stabbio ma ricorda che altri lo traevano all’esterno
mediante un uncino detto rampin ficcato in una balza della gola. Poi, rovesciato sul
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dorso, con un coltello lungo che era quasi sempre una baionetta militare bene affilata,
gli trapassavano il cuore. Era questa un’operazione che richiedeva occhio e perizia per
non trasformarsi in un tormento che poteva pregiudicare la bontà delle carni.
La bestia era poi lavata con acqua fredda per togliere lo sporco sulla pelle e quindi,
posta su un sostegno. Lo si bagnava poi con quella calda a circa 70° / 80° per levare
le setole. Gli uomini facevano poi passare un uncino tra i nervi delle gambe posteriori
e lo tiravano su con li tai poste a circa metri 1,60 una dall’altra, legate ad una rudimentale incastellatura. Qui il porcello veniva nuovamente lavato e riguardato attentamente
e con un coltello affilatissimo si toglievano le setole sfuggite alla prima passata. Lo
si apriva dalla parte della pancia, si levavano le budella e le frattaglie e, poi, con una
folsa (mannarina dal lungo manico di legno) si procedeva alla divisione in mezzene.
La prima, attenta e trepidante occhiata era volta alla resa in lardo. La rasdura, che era
intanto venuta per raccogliere il sangue, la valutava con pignolerìa e scupolosità assolute. Non sbagliava di un niente, la sua lunga esperienza le consentiva di giudicare
con un colpo d’occhio la durata della riserva e di pensare già alla ripartizione mensile
del suo utilizzo.
Si mettevano da parte le setole e le unghie per venderle poi al raccoglitore.
La bestia veniva poi portata in casa. Ricorda che quando era giovane e forte (aveva
quindici anni) ha portato dentro con grande fatica una mezzena, pesantissima caricatagli sulla schiena dagli uomini. Rovesciata su un tavolo questo si è spaccato in due.
A questo punto incominciava la coinvolgente procedura della scelta delle varie carni:
queste per i salami, queste altre per i cotechini, questo per le pancette ecc. Lui intanto
approntava le conce. Faceva tutto ad occhio, secondo una prassi consolidata ed attento
a non farsi carpire la ricetta.
Non si buttava nulla. Persino al spisurlèr, il membro del maschio, trovava una sua
precisa utilità: ungere la tomaia di sòcui, degli zoccoli. L’occasione era decisamente
propizia per uno scherzo di tipico carattere contadino. Quando levavano il pene al
verro operando verso le parti basse, sistemavano a bello studio il maiale e dicevano
ad un ragazzo presente: và da drè a tör al cuìn (vai dietro a prendere il codino). Il
giovincello ignaro si vedeva arrivare un affare lungo circa 50 cm che assomigliava ad
una coda ma era un’altra cosa. Appena lo prendeva in mano tutti si mettevano a ridere.
Questo spisurlèr veniva appeso ad un chiodo della stalla e al bisogno lo si scaldava
un poco davanti al focolare e con questo si ungevano le tomaie degli zoccoli. Quelli
alti, precisa Gianni, all’interno dei quali per avere un poco più di caldo e proteggere i
piedi dal rigore invernale, si metteva della paglia. Suo nonno cambiava la paglia ogni
mattina.
Il lardo una volta veniva macinato, salato e poi messo in piccoli orci di terraglia. Era
il canonico, rituale, ineludibile condimento di tutte le minestre in brodo, con cipolla
e conserva fatta in casa, e delle pastasciutte. Parlando di conservazione dei prodotti
della ricca giornata, salta fuori che il sangue lo friggevano con del formaggio e poi
era insaccato in un budello. Oggi sembrerebbe qualcosa di disgustoso e ripugnante ma
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allora era un accompagnamento delizioso con la polenta. Alcune salamelle venivano
conservate anch’esse in un vaso di terracotta, ricoperte di strutto.
Passiamo alle ricette.
Malgrado il clima di sincera cordialità, avverto che fa fatica a darmi la formula della
“sopressata di testa”, un insaccato caratteristico della zona emiliana. È la “sua” ricetta,
quella che porta ad un risultato finale di grande livello gastronomico, per il quale va
famoso in tutta la zona. All’inizio recalcitra decisamente, poi nicchia, quindi tentenna
ed alla fine, prospettatagli l’importanza di annoverare nella propria gamma un simile
capo per la affermazione dei masalìn giovani, verso i quali avverte un obbligo morale, cede. Per la continuazione della specie (quella dei masalìn), me la descrive allora
minutamente.
CONCE
Salame
- Sale
28 %
- Pepe 0,2 % (due grammi per ogni chilo)
- Aglio ad occhio e secondo gusto familiare.
Circa quattro - cinque capi medi per quintale di pasta
- Salnitro
(per conservare e mantenere un colore vivace)
15 grammi per quintale.
Proporzione carni / grasso (di spalla soprattutto) 70 % e 30 %
Pancetta
Ingredienti: sale, pepe, cannella, chiodi di garofano macinati finemente. Non sa precisare le quantità. Il sale era in proporzione maggiore, garofano e cannella in rapporto
molto più basso.
Fare dei tagli, non profondi, per la lunga ed inserire la concia. Arrotolare bene stretto
e legare. Infilare nel budello e legare ancora.
Coppa
La concia era come quella della pancetta, in proporzioni leggermente diverse.
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Cotechino
- Sale
- Pepe - Aglio . Spezie
25 %
0,2 %
a seconda del gusto familiare
(miste, in bustina, acquistate dal buteghèr) una bella spolverata.
Ancora non sa quantificare, andava ad occhio.
Sopressata di testa
Nettare bene la testa del maiale togliendo solamente gli occhi, non belli da vedere.
Sistemarla in una pentola capace e poi farla bollire in acqua per il tempo necessario
affinchè le ossa si stacchino dalla carne. A cottura avvenuta si pone la testa sul tavolo
e con molta attenzione si eliminano le ossa, denti, sangue e parti scure. Ciò che risulta
si taglia a pezzetti grossolani.
Aggiungere ogni due chili di bollito, mezzo chilo di pasta di salame già trattata con i
suoi aromi. Condire il tutto con sale a mezzagrana, pepe a discrezione personale, 15 g
di aglio tritatissimo, un pizzico di spezie miste da bustina comperata al supermercato.
Lavorare l’impasto. L’acqua di cottura non va buttata ma rimessa ancora sul fuoco a
scaldare.
Insaccare a mano in budelli (ne serviranno tre o quattro a seconda della loro dimensione e della grossezza della testa), legare accuratamente come si fa per i salami ed
immergere gli insaccati per 5 minuti, non di più, nella acqua di cottura ben calda, quasi bollente. L’operazione ha lo scopo di amalgamare e legare bene tutte le componenti
interne. Bucherellare infine con la fürela per fare uscire il liquido in eccesso.
Dopo quindici giorni è già pronta per il consumo. La fetta deve stare in piedi. Sorridendo, Gianni precisa che deve essere granda cume la röda dal carriàs (spessa come
la ruota del carro).
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Battista Toaldo
Castelbelforte
Subito ho creduto di essermi mosso per nulla. La dimora bella, grandissima, ben curata in tutti i suoi aspetti, esprimeva la confortevole comodità delle case della borghesia
rurale di una volta. Giardino ampio e signorile, una sala da pranzo con un tavolo per
sedici persone, marmi di pregio, qualche stucco alle pareti, mi avevano indotto a pensare di essere venuto a Castelbelforte per incontrare un ricco signore con l’hobby della
norcineria. Non sarebbe stato, ovviamente, quello che cercavo.
Mi ero sbagliato, l’impressione iniziale non era corretta.
Seduto al tavolo della cucina ho parlato a lungo e con estrema cordialità con il sig.
Battista di anni 76. Ne ho ricavato la sensazione di uomo schietto, semplice, concreto
e realista, vecchio ed appassionatissimo masalìn, andato per anni a maialare presso le
famiglie locali a raggranellare qualcosa di utile per scampare ai rigori dell’inverno.
I Toaldo sono venuti a Castelbelforte nel 1925. La famiglia era originaria di Pozzoleone di Nove, centro notissimo per le ceramiche artistiche vicentine. Erano in tanti,
poveri nella scarsella ma ricchi di quella buona volontà che è dote permanente ed
indefettibile della gente del contado. Con gli anni e con l’impegno hanno messo in
piedi prima ed ampliato poi un’azienda agricola importante con una stalla di bovini di
circa settecento capi.
Ci tiene a raccontarmi le sue memorie e lo fa con intelligenza, con realismo, consapevole che gli operatori dell’arte masalina vanno diminuendo sempre più ed avanza il
dolore della sua scomparsa. I giovani che sostituiscono gli anziani sono sempre meno
ed anche questi, per legge naturale, seguono la stessa sorte. Ha cominciato a 8 – 10
anni assistendo, subito dopo la guerra, alla lavorazione del maiale fatta da un caro
amico del padre Matteo, il sig. Aldo Braga, classe 1910, che operava certamente con
criteri e conce dell’ottocento. Mi dice con una sostanziosa punta di orgoglio che ha
ucciso e lavorato un maiale, con tutte le responsabilità connesse, all’età di sedici anni.
Un primato.
Mi descrive la successione delle operazioni. La settimana precedente, dopo attento
consiglio familiare, veniva fissata la data fatidica. Si andava allora a comperare i budelli da Lino Cavallari di Castelbelforte, fornitore attento e scrupoloso di tutti i norcini
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della zona. Al mattino del giorno prescelto, ancora al buio, si mettevano a bollire circa
80 litri di acqua nel caratteristico, grosso paiolo di rame e si approntava un erpice con
fissata sopra una grata, una alta sponda da carro, sulla quale doveva poi essere steso
l’animale. Operava con attenzione, quasi in silenzio con ordini secchi, impartiti come
schiocchi di frusta. Il maiale nel porcile si muoveva nervosamente, sentiva che c’era
qualcosa di insolito. Uno o due aiutanti andavano dentro e con pazienza lo spingevano
fuori. Appena varcata la soglia Battista lo ramponava nel sottogola (mi informa che
altri masalìn praticavano diversamente: gli mettevano un laccio che passando tra i
denti gli attorcigliava il grugno), poi un suo fratello, diventato con la pratica un vero
specialista, gli prendeva la gamba anteriore sinistra e facendo leva con la propria spalla in un attimo lo rovesciava. Due tenevano ferme le zampe posteriori. Battista, con
un coltello lungo e sottile, lo scannava recidendogli le arterie. Il sangue usciva a fiotti
(4-5 litri) e la mamma Armanda era già pronta a raccoglierlo in una pentola con sul
fondo la chiave in ferro della porta di casa per evitare le reazioni chimiche del rame.
La bestia, collocata sulla grata, veniva subito lavata con acqua fredda per togliere
lo sporco più evidente e quindi si procedeva con acqua calda per la spellatura delle
setole. Aggiunge che in giornate molto fredde era necessario stendere sulla pelle un
sacco doppio in modo che l’acqua stessa non diventasse subito fredda ed impedisse
o rendesse difficoltosa l’estirpazione dei peli. Le setole si toglievano con una meticolosa raschiatura mediante delle raspette ricavate, per evitare spese, da vecchi ferri per
falciare il fieno. Per ultime si levavano quelle delle zampe tenendole immerse in un
secchio di acqua calda. Setole ed unghie venivano date a qualche modesto raccoglitore ed il corrispettivo consisteva in una mancia, piccolissima, per i bambini.
L’animale veniva attaccato al becaröl, termine di derivazione tedesca. Dopo aver levato le interiora ed i budelli, si lavavano accuratamente quelli grossi e si tagliavano
a misura e a strisce quelli piccoli che poi venivano cuciti a fette appaiate (i fet) dalla
mamma Armanda Pezzorgna. Quindi diviso in due parti mediante la falséta, un coltellaccio speciale, il quale consentiva di operare lungo la spina dorsale passando al
centro di ogni anello.
Le mezzene riuscivano perfette. Si portavano in casa e subito collocate sull’ampio
asse della pasta. Quindi si sezionavano e si suddividevano le carni secondo le loro
varie utilizzazioni: per i sa-lami, per i cotechini, le coppe, le pancette, le grepule ecc.
La testa era tutta destinata ai cotechini. Le infiltrazioni di grasso nelle carni venivano
accuratamente levate per accrescere il pregio dei salami. Questi ritagli finivano nei
cicciòli o nei cotechini. Il lardo della schiena con tutta la sua cotica spessa e coriacea,
veniva tagliato in grossi pezzi rettangolari, salati in superficie, dalla parte viva, e distesi su apposite assi tenute al fresco nella cantina. Le cotiche della pancia (al pansàl),
più morbide e tenere, venivano messe nei cotechini.
Alla cena della sera non venivano mai invitati il prete ed il dottore per una forma di
rispetto nei loro confronti: si voleva evitare che sentissero delle espressioni volgari.
Le regalìe di prammatica erano quasi sempre costituite da due braciole attaccate (la
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dopia brasöla). La casa dei Toaldo era prossima all’area veronese per cui si rispettava
la tradizione del “tastasàl”. Questi non era altro che un poco di impiœm che veniva
cotto sulla griglia. Si diceva, con ironia tipicamente contadina, che si valutava se il
sale era stato messo nella proporzione corretta.
CONCE (di una volta)
Salame
- Carne 85 % e grasso 15 %
- Sale 28 – 32 % di sale mezzo fino
- Pepe 2 etti a mezzagrana per q
- Aglio 2 capi e mezzo per q ridotto in poltiglia al coltello, ora con un mixer
- Vino rosso una bottiglia
Cotechino
- Sale 30 – 32 % (la quantità è più alta rispetto al salame perché molto si disperde nell’acqua di cottura.
- Pepe misto (pepe e pepe garofanato) 2 etti per q
- Niente aglio, niente altro
Si macina prima con la piastra del 16 e poi con quella dell’8
Pancetta
Sale e pepe come per il salame. Spezie: un pizzico di un misto fatto con cannella,
chiodi di garofano e noce moscata. Fare dei buchi con un coltello nella pancetta ed
infilarvi pizzicate del trito stesso.
RICETTE
Gras pistà
Il gras pistà è un cardine, direi meglio un monumento, della vecchia cucina mantovana. Su un tagliere si battono, in proporzioni variabili secondo gusto familiare, 3 etti
di lardo di schiena, uno spicchio di aglio senza il germoglio interno, una manciata
di prezzemolo, sale. Si batteva il tutto su un tagliere da cucina sino a farlo diventare
una pasta. Per rendere l’operazione più facile si usava bagnare ogni tanto il coltello
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nell’acqua bollente. Talvolta parte del battuto si metteva nell’acqua stessa con l’aggiunta di qualche cucchiaio di conserva di pomodoro fatta in casa. Era il brodo nel
quale si cuocevano tagliatelle, pastina o riso.
Si poteva anche spalmare su delle fette di polenta ben calde. In questo caso era la
merenda o la cena contadina. Per questo uso si era soliti aggiungere al battuto un poco
di pasta di salame.
Cuore in padella
Tagliare il cuore del maiale appena ucciso a fettine sottilissime. In una padella fare un
fondo di reticella e cipolla affettata e fare andare a fiamma bassissima. Quando il tutto
è ben disfatto, alzare la fiamma, addizionare le fettine di cuore e dare alcuni minuti di
cottura (non troppi chè altrimenti la preparazione tende ad indurirsi). Salare solamente a questo punto. Pepe a piacere.
Salam in dal tegìn
Va fatto possibilmente con salame non troppo stagionato. Allo scopo Battista conserva
in freezer alcune salamelle fatte da lui nella maialatura di casa. Avvolge ciascuna in un
pezzo di carta morbida, le colloca in un sacchetto di plastica, con la macchina apposita
fa il vuoto e poi surgela.
Al momento dell’uso, la salamella va tagliata a fette trasversali un poco spesse che poi
saranno messe, senza alcuna aggiunta, in un tegamino. Questo va tenuto sulla fiamma
in posizione obliqua così da raccogliere sul bordo del fondo tutto il grasso che cola.
Evitare dunque che la salamella si imbibisca di unto.
Mettere le fette in un piatto. Con polenta, ma Battista preferisce il pane.
Risòt a la pilota
In una zona storicamente risariva non poteva mancare la formula del noto “risòt a la
pilota”. Richiede molto tempo per cui i cuochi locali si sono specializzati in nuove
modalità di cottura ma nelle famiglie di stretta osservanza si mantengono le proporzioni e la prassi della procedura antica.
Un chilo di riso vialone nano assolutamente mantovano, acqua, poco sale. Mettere
l’acqua nella stagnada (paioletto di rame), portarla a bollore e versare il riso che deve
superare di tre dita (5-6 cm) il pelo dell’acqua. Se questa è troppa la si toglie con un
mestolo, se è poca la si aggiunge, calda.
Appena ripreso bollore, mescolare con la stecca. Fare andare per 5-6 minuti a fiamma
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allegra. In questo tempo il riso dovrà avere assorbito tutta l’acqua di cottura. Spostare
la pentola su un calore appena accennato, coprirla mettendo un panno tra il coperchio
e la pentola stessa. Dopo 25 - 30 minuti assaggiare il punto di cottura andando a prendere il riso ben al di sotto della superficie (sopra è quasi sempre indietro). Se il riso è
al punto giusto, sgranare con la stecca, condire con il pesto (il tastasal) fatto cuocere
in solitudine, senza aggiunte e per non più di dieci minuti, a fiamma bassa (altrimenti
perde il suo profumo). Informaggiare abbondantemente con grana padano grattugiato,
rimettere il coperchio, tenere al caldo per tre o quattro minuti e poi servire con un
mestolo forato.
Un tempo per mantenere calda la pentola e consentire al riso di passarsi bene, si usava
mettere un panno di lana attorno alla pentola stessa. Era detto al tabàr, il mantello.
La cosa era tuttavia più di sapore pubblicitario e folcloristico che non un’effettiva
esigenza gastronomica.
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Sergio Todeschi
Soave di Porto Mantovano
Durante le mie peregrinazioni alla ricerca della verità sulla norcineria nostrana, non
ho mai incontrato una persona tanto sensibile, meticolosa e compresa di nobili valori
esistenziali - tra la filosofia e la poesia - come il sig. Todeschi. La sua descrizione della
maialatura è assolutamente particolare. Vi è spazio certamente per un impegno vissuto
con partecipazione ma si incontra anche lo zelo compassionevole e venato di amore
per la natura ed il prossimo, chiunque sia, anche un animale dunque, del vero masalìn
che sa che deve uccidere ma vuole farlo senza procurare sofferenza, senza crudeltà.
Mi parla infatti della sua attività invernale con distacco sereno, pacato, pervaso di
accenti toccanti. Sento che per lui non si trattava di dare la morte ad una bestia qualunque ma a quella di un compagno di vita, quasi di un amico, vissuto con la famiglia
per più di un anno. Il maiale non era insomma un estraneo, gli si voleva bene e si
apprezzava, come dire, il suo sacrificio.
Ha iniziato a 13 anni al seguito del norcino Mario De Biasi che aveva circa una ventina d’anni più di lui. Era dunque anche questi molto giovane ma aveva avuto come
maestro un caposcuola riconosciuto e già anziano, Giuseppe Poli.
Ci addentriamo nell’atmosfera cruciale. Il giorno prima le donne approntavano il
grande paiolo di rame (litri 180) e le fascine per il fuoco da scaldare l’acqua. Sergio
voleva che ad andare a spingere il maiale fuori dallo stabbiolo fosse uno di famiglia
che lo conosceva bene perché, mi informa con voce sommessa ma sicura, il maiale è
come l’uomo condannato a morte che scalcia. Anche lui avverte immediatamente se
c’è qualcosa che non va. Ciò stimola inizialmente la sua diffidenza che si trasforma
subito, se capisce l’antifona, in reazione violenta. Su questo duro e penoso argomento
ha fatto delle esperienze con il veterinario dott. Cesare Trazzi di Sant Antonio di Porto
Mantovano che ritiene sia stato il suo grande maestro. Il Trazzi consigliava di abituare il maiale ad uscire dal porcile, diventato ormai la sua tana, e talvolta di portarlo a
passeggiare per la campagna. Se non si fosse agito in questo modo e si fosse usato
violenza all’animale al momento della macellazione, a convinto parere del dottore, il
tessuto si alterava e cambiava addirittura colore. Sergio ha constatato personalmente
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che la carne della coscia, la prima che si vede al taglio, non era più rosea ma scura. La
qualità di tutti gli insaccati veniva in questo modo assai compromessa.
Appena ucciso l’animale, si stendeva per terra sopra un asse e con acqua calda ma non
bollente lo si pelava. Todeschi ancora adesso, malgrado le molte comodità moderne
(sorridendo mi dice che non ha più le sgalmare, gli zoccoli di legno di una volta, ma
gli stivali di gomma), esegue l’operazione in questo modo.
Poi veniva attaccato al becaröl e lo si sollevava. Si facevano le mezzene e si procedeva per le ulteriori operazioni secondo la prassi consueta nel mantovano. Non mancava, con tutta la solennità che le conferiva il rango di rasdüra e con tutta la curiosità
femminile che le spettava di diritto, la padrona di casa. Invariabilmente sollecitava il
masalìn a fare le mezzene alla svelta per valutare lo spessore del grasso ed altrettanto
perfidamente questi rispondeva “va pian che se no dopo at resti mal” (và piano che
altrimenti dopo ci rimani male).
Tagliato l’animale a metà, le due parti venivano portate dentro e stese su una “banca”.
Vale la pena di precisare che Soave è un paese vicino al Mincio ed al Lago Superiore
di Mantova, comunità dunque di pescatori e di lavandaie. La “banca” era il lungo asse
per lavare i panni. Se non c’era in casa lo si chiedeva in prestito. Era il primo supporto
delle mezzene che poi si portavano in casa e sistemate sull’asse dle tajadèle.
Per la cena della sera, occasione di cibo abbondante, di vino nuovo e quindi di allegria, erano sollecitate a partecipare una o due persone per famiglia del parentado oltre
ai masalìn ed a qualche amico. Gli inviti erano accuratamente ponderati in base alle
relazioni interfamiliari ed alla necessità di riconoscere favori importanti. Le presenze
dunque erano molte ma anche molto soppesate, dalle 12 alle 18 bocche. Almeno per
tutto l’immediato dopoguerra non si voleva abbandonare il sano principio della parsimonia. C’era sempre il prete, il dottore, il veterinario e, talvolta, la signora Elide, la
levatrice che li aveva fatti nascere tutti quanti.
Tra gli scherzi per i bambini piccoli ricorda il rapatìn. Si prendeva un’unghia del
maiale e la si poneva al caldo del focolare. L’unghia si ritirava ma poi posta su un
piano freddo liberava delle energie meccaniche che facevano compiere dei saltelli al
rapatìn con un rumore sordo e caratteristico. Una curiosità per i più piccoli ed uno
spasso.
Il racconto fa posto alla conversazione. Si snoda sulla comparazione tra la vita di un
tempo e quella attuale. Ricorda che nel 1948 la spesa totale per la lavorazione di un
maiale era di 400 lire, venti centesimi di euro. Erano parecchi i giovani che lo seguivano sia per imparare - in campagna è un principio basilare anche se dopo si fanno altre
cose - ma soprattutto per mangiare la fritüra a metà mattina e la cena abbondante e
cordialissima la sera. Si prosegue sulla falsariga del confronto tra le due società: quella di un tempo e quella che stiamo vivendo. Le conclusioni sono sempre molto amare.
Con parole venate di amarezza ci rappresentiamo i drammi della droga, constatiamo
l’impressionante aumento della criminalità, ci soffermiamo sulla difficile educazione
dei giovani, ci confermiamo nella decadenza del sentimento religioso. L’accresciuto
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tenore di vita lo paghiamo a caro prezzo.
Relativamente alla produzione alimentare delle grandi industrie, Sergio lamenta che
oggi i cibi sono snaturati inizialmente dall’aria, dalla terra e dall’acqua, che non sono
più sane come una volta, e poi dall’uso smodato di concimi, conservanti e coloranti
sparsi dappertutto con mano luciferina.
Alzando gli occhi al cielo quasi a chiamare Dio a testimone di tanta nefandezza, concludiamo assieme con il mantovanissimo giudizio: “sporcacioni, veh!”. Con una “c”.
CONCE
Salame
Sale 32 – 33 % (mette un po’ più di sale quando il clima è umido)
Pepe 2,5 etti per quintale di impasto
Aglio 3 capi o teste per quintale
Vino 1 bottiglia di vino bianco secco (usa vino bianco perché così il salame non si scurisce e resta chiaro)
Pepe garofanato in polvere (i masalìn lo chiamano garofolato) un paio di cucchiai
Noce moscata una grattatina
Cotechino
Come il salame ma con un poco più di sale in quanto dovrà cuocere nell’acqua che ne
sottrarrà parecchio.
Moretta
(È un capolavoro della tradizione veneta che si fa con il sangue del maiale. È stato
portato dalle nostre parti da agricoltori venuti nella nostra provincia molti anni fa.
Sergio ha appreso la ricetta e l’ha preparata molte volte).
- 5 litri di sangue,
- mezzo chilo di pane grattugiato,
- 2 hg di formaggio grana grattugiato,
- 2 hg di mostarda mantovana fatta con mele campanine,
- i polmoni del maiale
Si macinava il tutto e si condiva con 3 etti di sale, due cucchiai di pepe a mezza grana,
poca noce moscata grattugiata, poca cannella sbriciolata, un bicchiere di vino rosso
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corposo. Veniva poi insaccata in rocchi successivi come le salamelle. Aveva un colore
molto scuro. Era cotta lessata oppure cucinata in tegame con conserva di pomodoro
fatta in casa, per un quarto d’ora. Qualcuno, mi dice sottovoce e con un sorriso complice, la rifiutava perché gli sembrava uno…
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Valentino Tartari Torre di Goito
Il signor Tartari non è un norcino nel vero senso della parola. Quando era giovanissimo dava una mano - entusiasta, attiva e competente - ai masalìn ed al padre quando
facevano su il maiale. Ho voluto comunque sentirlo come testimone sicuro ed informato sui fatti su un aspetto specifico dell’allevamento suinicolo e cioè la graduale ma
rapida trasformazione da cura familiare a lavoro artigianale e quindi a dimensione
industriale. Il padre ha seguito per tutta la sua vita - con dogmatica ostinazione - una
dieta singolare nella sua essenzialità: salame e pasta al pomodoro (colazione, pranzo
e cena).
Come ho già scritto, dopo l’allevamento allo stato brado in boschi e foreste con querceti, il maiale fu allevato in spazi sempre più ristretti sino a ridursi in epoca moderna
ad una porcilaia posta vicina alla casa, con somministrazione di residui alimentari della famiglia integrati da farina gialla, orzo, patate, bietole ecc. Il tutto veniva scaldato
con acqua bollente e costituiva la şota, versata nel truogolo. È evidente che questo tipo
di alimentazione risentiva moltissimo delle condizioni familiari, del tenore di vita ed
in parecchi casi portava a risultati assai modesti se non addirittura miserevoli sia dal
punto di vista delle resa in carni sia della loro qualità.
Questa situazione la troviamo praticamente inalterata dal medioevo sino al novecento
inoltrato o meglio sino alla prima guerra mondiale o poco oltre, discrimine storico fra
due epoche assolutamente diverse. È infatti di questo periodo la sempre maggiore diffusione, nella provincia di Mantova, di caseifici aventi ciascuno un bacino di prelievo
del latte piuttosto ampio. Dopo la produzione del formaggio e del burro, il liquido
di risulta, cioè il siero, possedeva ancora degli elementi nutrizionali che potevano
integrare la dieta dei suini. Ricordo benissimo che i contadini – o, meglio, i loro figli
giovanissimi - portavano il latte al caseificio con un carrettino formato da una stanga
di legno con due ruote, all’estremità della quale era sistemato un gancio cui veniva
appeso un bidone metallico che all’andata conteneva il latte ed al ritorno il siero.
Il lavoro di Valentino incomincia praticamente a 13 anni. Non amava molto lo studio e
preferiva aiutare il padre che era casaro presso una ditta di Castiglione delle Stiviere.
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L’impegno era notevole ma non gli dispiaceva. Ricorda che talvolta lavava di notte le
vasche di acciaio che contenevano due quintali di latte ciascuna. Con la caratteristica
mentalità del contado mantovano, per il padre il lavoro era impegno assolutamente
prioritario rispetto ad ogni altra cosa e talvolta precedeva addirittura l’attenzione per
la famiglia. L’azienda lavorava 70-80.000 quintali di latte all’anno e siccome ne occorrevano 5 per una forma di grana, il conto è presto fatto: oltre 14.000 furmaie.
Attualmente - è pratica di questi ultimi anni - il siero rimasto dopo l’estrazione della
cagliata, possiede ancora una discreta parte di proteine e di carboidrati ma non va più
nella şota dei maiali. Viene scremato e poi venduto per fare cosmetici e generi alimentari. Portato alla temperatura di 6 °C è immesso in un apposito silo da cui viene
prelevato con autobotti. Al maiale dunque non va più nulla. Ora sono alimentati con
mangimi specifici programmati in base all’età ed al peso degli animali. Data questa
indipendenza dall’attività casearia, oggi ci sono molti agricoltori che allevano maiali:
fanno il pastone con i mangimi (granoturco, soia, orzo, crusca e sali minerali, macinati
ed addizionati tra di loro in proporzioni studiate da un computer) e li sciolgono non
più nel siero ma nell’acqua calda.
Ricorda che molti anni fa, verso gli anni ottanta, qualche giorno prima della sua uccisione veniva somminisrata al maiale una şota con dentro parecchio zucchero. Ciò
serviva a rendere la carne più gustosa, più gentile.
RICETTE
Filét in sle braşe
Al mattino della maialatura prendere il filetto e metterlo in una marinata fatta con vino
rosso, pepe ed aglio. Alla cena della sera, tagliarlo longitudinalmente con il coltello
bene affilato svolgendolo via via così da ottenere un’unica bisteccona. Appiattirlo
leggermente con un batticarne e cuocere per poco tempo su brace intensa coperta da
un velo di cenere. Servire dopo averlo tagliato a pezzi.
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Giordano Dugoni Roncoferraro
Conosco il geom. Giordano Dugoni da moltissimo tempo. Oggi, al momento dell’intervista, ha 86 anni portati con spirito garibaldino anche se attualmente opera nelle
retrovie, ai servizi di sussistenza risottara per via di fastidiosi acciacchi alle gambe.
Da qualche tempo porta il bastone che gli conferisce l’aspetto tipico del signore di una
certa età del contado mantovano. Mente dunque lucida, serena ma sempre presente e
talvolta addirittura pugnace.
Un esempio: si stava parlando del risòt a la pilota ed in particolare della sua consistenza tanto asciutta da richiedere frequenti irrigazioni di lambrusco. Gli ho chiesto
se, a suo illuminato parere, il nome poteva derivare dal riso pilav - di origini anatoliche o giù di li – in quanto anch’esso molto sgranato e secco.
Mamma li turchi! Con voce vibrante non ha voluto sentire interferenze saccenti sul
piatto locale che si chiama appunto “a la pilota” in quanto trae solamente dai pilarini
o piloti, lavoranti addetti alla pilatura nelle aziende risarive di una volta. Accostarlo,
anche se solo nella cottura, ad altri piatti apparentemente similari, l’ha assunta come
una provocazione, un attentato alla materia della quale detiene, nobilmente, la cattedra di Roncoferraro, un’angosciante eresia da collocarsi subito in partibus infidelium.
Cautamente, senza dare nell’occhio, mi sono ritirato.
Ancora in giovanissima età seguiva come aiutante il padre Carlo, muratore, che d’inverno combinava il pranzo con la cena facendo il masalìn. Il padre, emigrato in Germania nel ‘39 per trovare il lavoro che qui scarseggiava, fu arrestato e rinchiuso in un
campo di concentramento e precisamente nel lager di Badhall. Una parentesi triste in
un insieme di ricordi non troppo felici. Anche il nonno Selùm (Anselmo) era masalìn
per cui i Dugoni si configurano come una validissima stirpe norcina.
I suoi ascendenti, e lui stesso, hanno usato sempre le stesse conce. Erano considerati
specialisti del cotechino al punto che i loro prodotti venivano assunti come pietra di
paragone nei confronti degli altri. Li facevano piuttosto piccoli in modo che si cuocessero perfettamente anche all’interno ed anche per il fatto che altrimenti il budello
correva il rischio di rompersi malgrado lo stretto involucro di pezza nel quale erano
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avvolti per la cottura.
Veniamo al maiale. Il giorno prima si approntavano il paiolo di rame per l’acqua calda, gli stracci, i panni e le pezzuole per le varie necessità. Si allestiva anche al becaröl
al quale legare la bestia e reggerla perpendicolarmente. Era composto da due robusti
travetti di legno con sopra una traversa a forma di giogo da buoi. Questa aveva una
serie di buchi posti a circa una spanna uno dall’altro, entro i quali si inserivano dei
cavicchi di legno per sostenere l’animale opportunamente divaricato negli arti posteriori.
Al momento del sacrificio lo si spingeva fuori dal porcile, se ne bloccavano i movimenti con un uncino innescato sotto la gola detto guiöl, gli si legava una gamba posteriore, lo si ribaltava e lo si corava, gli si trafiggeva cioè il cuore con uno stiletto. Veniva coricato immediatamente su un fianco e la padrona dal mescul (la padrona di casa)
raccoglieva il sangue che sgorgava dalla ferita mentre gli uomini gli comprimevano
la gabbia toracica per agevolarne la fuoriuscita. Questo era raccolto in una pentola di
rame con dentro un oggetto in ferro (quasi sempre - con intenzioni anche simboliche la chiave della porta di casa) per prevenire reazioni chimiche (verderame). Poi veniva
versato in un capace catino smaltato.
Prima di issarlo sull’incastellatura il maiale era lavato accuratamente e gli venivano
estirpate le setole con acqua calda e con raschiette ricavate da un fèr da sgar (un ferro
per falciare l’erba). Si rammenta benissimo della nonna Lina che con il caldarìn (secchio) bagnava la cotica mentre suo marito raspava con diligenza.
La fase successiva consisteva nell’eviscerazione e con una vaschetta si raccoglieva la
massa delle interiora. Quindi si toglievano le altre frattaglie (cuore, polmoni, rognoni,
ecc.) e per ultimo il fegato. Le budella venivano svuotate dagli uomini, nettate più
volte, ripassate con aceto, tagliate nelle lunghezze adeguate e poi date alle donne.
Queste le cucivano con la parte interna voltata verso l’esterno per evitare alla carne
del salame di entrare in contatto con eventuali residui fecali. Con il sangue venivano
fatte le morette, un insaccato diffuso nel Veneto il cui confine dista pochi chilometri.
I due mezzi erano poi portati in casa e stesi su dei piani di legno fatti appositamente
cioè con un bordo rialzato, una piccola sponda, su un lato. Si procedeva alla sezionatura delle varie parti, alla triturazione delle carni dei salami e delle cotiche, all’approntamento dei pezzi interi per pancette e coppe.
Concorda sul fatto che le carni tagliate a coltello, come si usava nell’ottocento quando
il tritacarne era poco diffuso dalle nostre parti, davano dei risultati migliori, mantenevano inalterato il loro sapore perché non erano schiacciate e tormentate dal verme della macchina. L’introduzione della machina ha notevolmente accorciato i tempi della
maialatura casalinga ma ha sottratto qualcosa alla bontà complessiva. A questo proposito ricorda benissimo che per il risotto della sera, il pistùm era ancora preparato alla
moda antica e cioè sminuzzato dalla cuoca con la curtèla. Verosimilmente si seguiva
la via migliore perché si trattava di modesta quantità.
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Quando entriamo nel tema della “mattazione” colgo appieno la sostanza più intima
della sua passione, il vero spirito masalino, l’anima dell’uomo attento e coscienzioso.
È assolutamente contrario ad ogni forma di violenza gratuita e senza senso sull’animale anche se, per consuetudine diffusa, è ancora praticata da qualcuno. Concorda sul
fatto che in questo modo le carni, oltretutto, subiscono delle alterazioni irrecuperabili.
Riporta quanto diceva il padre Carlo: “Se il maiale si accorge di essere ucciso, si fa
venire la febbre (sic) ed i salami i riuscirà col buso”. Cioè con qualche cavità centrale
per cui, nel tempo, sarebbero marciti, sarebbero andati a male.
Le salamelle, fatte con la pasta del salame, venivano conservate in latte di olio vuote,
poste a strati con dello strutto. Sopra, ad ulteriore protezione, si mettevano delle cotiche.
La paga era modesta. Al masalìn venivanno regalate, in aggiunta alla remunerazione
pattuita, le due tradizionali salamelle (la ciupéta) e talvolta i polmoni. Suo padre ha
sempre macellato maiali bianchi cioè quelli dalla cute rosa.
Scherzi? Interessante e significativo questo nel quale avverto un refolo di arguzia toscana. Sullo sfondo mi pare di scorgere la presenza di Chichibio, Calandrino e Frate
Cipolla.
Un giorno Carlino, il padre, riceve la visita di un tale Primizio. Gli dice che il veterinario ha consigliato di ammazzare il maiale alla svelta perché ha un po’ di febbre e
non sa capirne l’origine. Il maiale viene macellato e Carlino gli mette nello stomaco
una piccola bietta, il cuneo in ferro che si usava in campagna per fendere il legno dle
soche. Finge di averla trovata. La fa vedere al contadino e lo assicura che la febbre
certamente viene da lì perché il ferro fa di queste birbanterie.
La sera, all’osteria, Primizio incontra il veterinario e, con atteggiamento di sufficienza, lo rimprovera per non aver capito una cosa tanto semplice. Il veterinario prima
abbozza ma poi bonariamente gli spiega che non poteva assolutamente essere: i suini
mangiano di tutto ma non il ferro. Primizio capisce di essere stato preso in giro, di
essere caduto in un tranello che lo esporrà per anni al divertito dileggio della comunità. Torna a casa e dice al Dugoni (che sta ancora lavorando): “ Carlino, finisci tranquillamente il tuo lavoro che io te lo pagherò tutto sino all’ultimo minuto ma poi non
mettere mai più piede in casa mia”. Non lo ha più chiamato. Noto la fragranza della
burla ma anche la corretteza, l’onestà del contadino di allora che non intende rivalersi
sul compenso. Quello è sacro e va rispettato.
Ricorda questa filastrocca. Era recitata dai bambini, figli di gente povera, che andavano a questuare presso le famiglie contadine, non ricche ma nemmeno indigenti, che
avevano appena “fatto su il maiale”. Nel nome di questa antica pratica - unşar al sproc
- c’era un alcunchè di greve, di allusivo, ma era ampiamente riscattato sia dall’età del
questuante che dalla naturale arguzia popolare, sempre disposta ad ascoltare allusioni
grassocce per poi cordialmente sorriderne:
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La rasdura da sta cà
Che tant buna la sarà
‘na qual roba las darà.
Se las dà an salamìn
O magari an bel cutghìn
Al métrema in dal spurtìn.
Se las dà adla panséta
(E a sperém ‘na bela féta)
A ghem mia ‘d far la dieta
Se las dà salam e pan
Gh’a dsém grazie incò e ‘d man
E pu anca pasadman
Se las dà invece gnént
Agh mandéma un asidént
Par ch’l’as tegna sempr’in mént
Ma a la fin la ringraziém
E stan quegn a turnarém
E ancòr gla cantarém
Dopo aver recitato la flastrocca, con atteggiamento scherzoso ma composto e prudente, il ragazzino allungava un bastoncino, al sproc (lo sprocco, il pollone di un ramo)
attorno al quale la donna di casa metteva sempre qualcosa.
Ho avuto qualche perplessità sulla parola “dieta”. Mi è parso al momento un aggiustamento poetico per conquistare la rima. Lo ritenevo un vocabolo di concezione moderna, affatto sconosciuto nell’ottocento ed in particolar modo nella consueta parlata
popolare.
Mi sbagliavo. È un termine presente nella sezione dialettale dell’Arrivabene (il fondamentale “Vocabolario italiano – mantovano”), stampato presso gli Eredi Segna nel
1882.
Mi corre l’obbligo di ricordare che questa usanza è da secoli conosciuta soprattutto
nell’Italia centrale con il nome di “Sant’Antonio”, patrono degli animali e del maiale
in particolare. Veniva cantata da una brigata di uomini, alcuni mascherati, in una curiosa questua stagionale passando di casa in casa, volta semplicemente a fare un po’ di
baldoria. Le lezioni sono diverse ma non manca mai l’accenno alla malasorte in caso
di diniego. Riporto come esempio un brano abruzzese:
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Sant’Antonio de la Rocca
Damme ‘na piega de savicicce
E si ni’ mi li vò dà
Ti si pozza fracicà
CONCE
Salame (per quintale di pasta)
- 70 % di carne magra
- 30 % di pancetta o grasso sodo
- 2,5 - 2,8 % di sale
- 0,15 % di pepe
- 0,18 - 0,20 di aglio (pestato o tagliato con la mezzaluna)
- Un poco di coriandolo o pepe garofanato
- Un bel pizzico di spezie (cannella e chiodi di garofano in polvere)
- Un litro di vino rosso corposo.
La concia andava sparsa sulla pasta e quindi miscelata cun ùnt ad gumbét
(con olio di gomito)
Pancetta
Andava messa sotto sale per una settimana con cannella, pepe e chiodi di garofano.
Rigirata ogni giorno.
Cotechino
Va fatto con carne della testa, cotica della gola, muscolo, carni rosse non adatte per i
salami, niente orecchie, tritate e condite poi con sale, pepe e spezie.
Coppa
Dopo averla ben nettata e rifilata, si mette sotto sale con chiodi di garofano e pepe.
Pistüm (pesto per il risòt a la pilota)
Per un chilogrammo di pesto:
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- 700 g di carne magra (lombo, coscia, muscolo)
- 300 g di pancetta o altro grasso sodo
- 20 g di sale
- 1,5 - 2.00 g di pepe sfrangiato con il dorso di una bottiglia
- 1,8 g di aglio tritato finissimamente alla mezzaluna
Tritare il tutto con la curtlina (coltello da tagliere, ma ora si usa il tritacarne) e condire.
Il pesto deve riposare dalla mattina alla sera.
RICETTE
Moretta
Esattamente come quella del Todeschi ma senza mostarda. Da consumare solamente
lessata e rigorosamente con polenta abbrustolita.
Custine da puntèl
Molto spesso, secondo la vecchia tradizione contadina, il risòt a la pilota era accompagnato da costine di maiale - o, nei casi più sontuosi, da braciole – per rendere più
ricco il piatto. Non si ponevano sopra il riso ma, con tratto signorile, su un bordo. La
costina aveva il compito, gradevolissimo, di sostenere il piatto stesso, di puntellarlo,
gastronomicamente si intende.
Le costine, suddivise una per una e tagliate a metà o in segmenti ancora più corti,
vanno messe in una padella già unta di burro per evitare che si attacchino al fondo.
Fare andare così, a fuoco allegro, per circa dieci minuti, rigirando spesso. Bagnare con
abbondante vino bianco secco. Fare sfumare e quindi addizionare un paio di rametti
di rosmarino e del pepe. Proseguire la cottura a coperto ed a fuoco bassissimo sino
a quando la carne si staccherà dall’osso. Occorrerà circa un’ora. Salare solamente a
questo punto per non indurire la carne.
Ad ogni commensale vanno serviti tre o quattro pezzi.
Fegat, pulmun, cör in tegia
Tagliare il polmone a pezzetti dopo averlo ben mondato, tagliare il cuore a fettine
sottilissime e fare andare entrambi con reticella di maiale unitamente ad aglio, rosmarino, sale e pepe. Sfumare con vino bianco. Verso la fine aggiungere il fegato tagliato
a fette.
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Risotto con il luccio
Dugoni afferma che si può far risalire con sicurezza a metà ottocento.
Per 4 persone:
- un luccio di Po o di Mincio di circa un chilo
- 500 g di riso vialone nano mantovano
- olio in discreta quantità
- prezzemolo tritatissimo q.b.
- aglio tritatissimo q.b.
- mezza cipolla tritatissima
- mezzo bicchierotto di vino bianco secco.
- brodo di verdure fatto con acqua, sale, cipolla, sedano, carota, qualche foglia
di prezzemolo.
- burro fatto con una zangola casalinga (una bottiglia dal collo largo con dentro la
panna e sbattuta continuamente dai ragazzini di casa)
- formaggio grana grattugiato a mano. (Dugoni afferma che nonna Nina brontolava
perché era una spesa in più ma il nonno Selùm, sorridendo, faceva finta di non sentirla). È da notare che nell’ottocento le mogli davano del “vü” (del voi) ai mariti
in segno di sottomissione e rispetto.
Fare il brodo di verdure, lessarvi il luccio, ritirarlo quando è tiepido e spolparlo accuratamente disponendo le fese su un piatto di servizio in modo da farle stare in un unico
strato. Condire con sale, pepe, olio d’oliva eccellente e cospargere di prezzemolo ed
aglio. Far riposare al fresco per almeno quattro ore affinchè la polpa del pesce assorba
il condimento.
In una pentola soffriggere appena - senza dunque rosolare - la cipolla con l’olio. Versare il riso e tostarlo per qualche minuto. Bagnare con il vino e fare sfumare.
Quando il fondo è piuttosto asciutto, cominciare ad aggiungere via via mestoli di
brodo bollente. Tramenare frequentemente. Dopo circa 10 minuti unire metà del condimento di luccio. A cottura ultimata aggiungere l’altra metà. Spegnere con il riso
ancora al dente. Aggiungere un paio di cucchiai di burro, dare velluto con il grana,
profumare con un giro di pepe fresco da mulinello mantecando delicatamente ad ogni
passaggio. Incoperchiare e far passare tre minuti in operosa quiete.
Risòt a la pilota
Premessa. La preparazione di questo piatto è tipica della zona di sinistra Mincio della
provincia di Mantova. È limitata dunque a cinque comuni su un totale di settanta ma
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è talmente nota che molti autori, approssimativi, la classificano come “il risotto mantovano”. Per la precisione storica: non “il” dunque ma “un”.
La sua caratteristica principale è quella di essere asciutto, con i chicchi ben sgranati,
“che corrono per il piatto” come si usa dire con icastica immagine. La sua cottura richiede molto tempo ed è per questo motivo che molti ristoratori - non tutti, per fortuna
- adottano procedure sbrigative ma, complessivamente, non infami.
Giordano Dugoni, studioso del riso e del piatto, lo esegue di quando in quando per
una ristretta cerchia di sodali. La sua è senza alcun dubbio la vera ricetta antica, consolidata e veneranda, che non si trova in nessun libro di gastronomia. Degustarne una
fondina (con rinforzo) è un privilegio. La esecuzione è stata da me annotata in ogni
suo passaggio successivo nel corso di un pranzo, addì 21 gennaio 2012. Per l’occasione Dugoni aveva convocato il suo grattugiatore di fiducia, il sig. Vito Papotti, persona
dal tocco leggero, quasi soave.
Con una manciata di sale e poca acqua pulire bene la stagnada di rame. Per kg 1,5
di riso, rigorosamente vialone nano mantovano, versare nella pentola l 1,9 di acqua.
Salare poco perché poi si aggiungeranno il pesto ed il formaggio. Portare a bollore.
Versare il riso in modo da formare un cono e poi ruotare la pentola con colpi secchi nei
due sensi affinchè il riso si assesti. Dopo poco si formerà sulla superficie una vaporosa
schiuma grigiastra che in gergo locale è detta matafra. Va tolta con un mestolo forato.
Ripetere più volte quest’ultima operazione e quella della rotazione della stagnada
sino a quando - dopo 6-7 minuti - l’acqua non sarà stata tutta assorbita dal riso stesso.
A questo punto chiudere con un coperchio avvolto in un panno avente la funzione di
raccogliere e trattenere il vapore acqueo. Sistemare su una piastra di ferro con sotto un
fuoco bassissimo. Un tempo si collocava su un sostegno da focolare con sotto alcune
braci ricoperte di cenere. Tenere al caldo per 15 minuti. A questo punto assaggiare
la consistenza del riso cogliendone una forchettata in profondità. Se non è pronto rimettere il coperchio e dare ancora qualche minuto. Fare attenzione: il riso è al punto
giusto quando è tutto cotto, fuori ma anche dentro, quando cioè il dente non coglie più
la durezza della parte interna detta anima. Gli esperti risottari non si fidano troppo del
palato e per essere sicuri - ma anche per fare un poco di “teatronico” che non guasta
mai – collocano un chicco tra due unghie e poi lo schiacciano. Se all’interno non c’è
una parte (l’anima) particolarmente bianca siamo a cavallo.
Nel frattempo preparare il condimento ponendo il pesto (al pistùm) in una capace casseruola assieme ad un etto e venti grammi di burro. Non bisogna avere fretta per non
perdere o compromettere il sapore delizioso. Il fuoco deve essere basso ma piuttosto
prolungato. Questa operazione si definisce sbalüsàr al pist.
A cottura ultimata, dopo un quarto d’ora circa, levare la stagnada dal fuoco, sgranare
delicatamente con una stecca di legno, addizionare il condimento prelevato con un
mestolo forato per evitare un eccesso di grassi, unire il formaggio cui sarà stato addizionato uno scrupolo di cannella. Si manovra delicatamente, con la stecca, in due: il
docente tramena e l’altro, l’assistente di cattedra, versa. Infine tre minuti con il coper-
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chio sopra. È canonico servirlo con il mestolo forato e mangiarlo con il cucchiaio.
La ricetta come si vede è molto semplice ma per un risultato tale da aspirare alla
bigoncia è necessario osservare, con attenzione bizantina, tutte le raccomandazioni
indicate.
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Giuliano Sgarbi - Lino Ferrari Quingentole
Nel contesto di un’indagine complessiva sui masalìn nostrani, non poteva mancare un
cenno, davvero consolatore, sul lavoro di due bravi ragazzi di Quingentole.
Sono assai giovani, se rapportati come età a tutti gli altri intervistati, ma sono animati
da grande passione. Rinunciando alle accattivanti suggestioni della contemporaneità,
fatta quasi soltanto di banalità e di divertimenti a luci psichedeliche, si sono messi
da qualche tempo e con vero entusiasmo a praticare la nobile arte della maialatura.
Esercitano per le loro famiglie e tutt’al più per qualche amico, non potendo dire di no
a tutti ed estenuati da cordialissime insistenze.
Non vanno dunque in giro “a far su”. Ma curano talmente i dettagli di ogni passaggio,
stanno così attenti alla selezione delle carni, si sono talmente addentrati nelle conce
e sprigionano tali entusiasmi quando affettano le loro opere - e ne riempiono i piatti che sono ampiamente ripagati delle rinunzie.
Giuliano ha cominciato negli anni ’80 con il padre Carlo. Lo seguiva come suo assistente e così, come tanti altri suoi colleghi-ragazzi, apprendeva i rudimenti della professione e si innamorava di quel mondo particolare, con aspetti cruenti ma anche ricco
di impegno, di sacrificio, di onestà. Allora viveva a Cavezzo di Modena, area deputata
a produzioni di altissimo livello. Si è sposato ed è venuto ad abitare nel mantovano, a
Quingentole. Si è dato subito da fare per coltivare la sua passione.
Qui infatti allarga i suoi orizzonti con le conce locali, tutto sommato abbastanza simili
a quelle paterne di Carlo, ma con delle variazioni che stimolano la sua curiosità. Non
segue più il padre, ma incontra il cognato Lino al quale non gli è difficile trasmettere
in poco tempo lo slancio e la volontà di produrre e sperimentare per le esigenze di
casa e per non perdere il gusto del buon mangiare. Nasce così un’alleanza di simpatici
spiriti masalini che si trasforma ben presto nella comune intesa di mettere la mani in
pasta, quella del salame ovviamente. E quando c’è la passione si entra rapidamente
in possesso di tutte le sottigliezze e gli accorgimenti tecnici necessari all’arte quali i
criteri di pulitura delle carni, i metodi di insaccatura, i tipi delle spezie, le proporzioni
tra i vari tagli di carne, le avvedutezze per una corretta stagionatura ecc. Sono queste
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le qualità che fanno grande ed apprezzabile un lavoro.
La successione delle varie operazioni è la stessa di tutti i masalìn mantovani, che essi
seguono accuratamente in ogni fase: uccisione del maiale, pulitura, divisione nelle
mezzene, selezione delle carni, macinatura di quelle destinate ai salami ed ai cotechini, aromatizzazione, legatura e loro compiaciuta distribuzione in sli perghi dal baldachìn. Accuratezza e competenza sono coscienziosamente sottese ad ogni passaggio.
Sottolineo il fatto che intervengono con dolcezza sull’animale, lo stordiscono con la
pistola in modo che non avverta alcun dolore. Una curiosità: il sangue lo donano ad
un amico che ne ricava la componente principale per sapide frittate.
La sera del sacrifico, come tradizione comanda, cena con gli amici. I quali sono sempre ben attenti a ringraziare e lodare per non compromettere inviti futuri. Ma non
dicono falsità: il risotto e la fritüra sono eccellenti. Dolcetto finale e vino del brolo
del Priore.
CONCE
Salame
- Sale
2,2 %
- Pepe
0,25 %
- Aglio
0,3 % macinato finemente
- Nitrato di potassio un pizzico (precisamente:5 gr per 100 kg di impasto)
Cotechino
- Sale
2,8 %
- Pepe 0,3 % macinato finemente
- Spezie (noce moscata, cannella chiodi di garofano, finocchio coriandolo) 0,5 %
- Nitrato di potassio un pizzico (vedi sopra)
Coppe e pancette
- Sale
3 %
- Pepe 0,3 %
- Aglio Alcuni spicchi macinati finemente.
- Cannella e chiodi di garofano tritati 0,01 % (in parti uguali)
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RICETTE
Risòt dal gugét
Il piatto veniva servito alla sera nella cena con gli amici.
In un tegame cuocere l’impasto fresco del salame con vino bianco ed un rametto di
rosmarino. In una pentola cuocere riso vialone nano mantovano nel brodo fatto con
le ossa e verso la fine addizionare il condimento ed una noce di burro. A cottura quasi
ultimata spegnere la fiamma, unire una generosa spolverata di parmigiano. Tramenare
il tutto delicatamente, coprire e lasciar riposare qualche minuto prima di servire ben
caldo con altro formaggio a parte.
Dosi per 5 persone: mezzo chilo di riso, mezzo chilo di impasto o poco meno, mezzo
bicchiere di vino bianco, un rametto di rosmarino, una noce di burro e grana padano
grattugiato a mano q. b.
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Mario Buttarelli Rivarolo Mantovano
Suono alla porta e viene ad aprirmi lui stesso. Corporatura importante e sorriso aperto.
Settant’anni, mente vivace ed aperta.
Con lo stile semplice ma pieno di attenzione e cordialità, proprio della campagna, mi
fa accomodare nella sala da pranzo. Dopo i primi convenevoli di rito, avverto che gli
fa un grande piacere parlare della sua professione invernale che gli dà modo di esprimere una vocazione naturale per la maialatura alla quale non era estranea, tuttavia,
l’intima soddisfazione della certezza del cibo.
Proviene da una famiglia di contadini e lui stesso è stato sempre impegnato nel lavoro
dei campi. Ha cominciato ad interessarsi alla maialatura verso i 12 - 13 anni anni.
Quello era un giorno meraviglioso. Era in piedi presto, come tutti gli altri peraltro, e
si dava da fare per aiutare nelle varie incombenze. Stava male solamente al momento
della mattazione. Si incupiva, si dispiaceva. Capiva che era un passaggio obbligato
ma non riusciva a trattenere la sua ansia e la sua paura.
Seguiva ogni tanto lo zio Elia Menozzi, muratore, che d’inverno faceva il masalèr per
sbarcare il lunario come tanti altri. A 16 anni gli chiede se poteva essere il suo assistente abituale per imparare il mestiere ma quello gli risponde che non può in quanto
già in parole con altro giovane. Si rivolge allora ad un certo Luigi Orlandi detto Bigi il
quale, avendo saputo delle sue qualità, è ben lieto di metterlo alla prova.
Va con lui quasi ogni giorno dell’invernata in tutte le case dove era richiesto. Esegue
gli ordini senza lasciarsi sfuggire nulla di quanto fa. È un allievo decisamente sveglio
e quindi guarda, lavora ed impara. Ha una difficoltà iniziale: teme di non riuscire a
tagliare correttamente in due al nimàl, ha paura di sbagliare e la prima volta, con la
sola assistenza del suo maestro, chiede a tutti gli altri di allontanarsi.
Il taglio è perfetto.
Bigi gli vuole bene, lo apprezza, lo perfeziona, gli insegna infine la sottile arte della
composizione delle conce e le loro proporzioni nei vari insaccati, per cui a soli 18 anni
si sente masalèr a pieno titolo. Può assumersi delle responsabilità.
La prima famiglia che lo ha ingaggiato è stata quella del sig. Mario Gandolfi il quale
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- mi riporta con orgoglio il mio norcino - ha detto “Quest’anno voglio il risulèn”. Risulèn è la forma dialettale di “ricciolino”. È conosciuto con questo soprannome che gli
derivava (ma c’è ancora qualche traccia) da una capigliatura indomabile e sbarazzina.
Per uccidere il maiale usava una procedura che da sola la dice lunga sulle sue qualità
professionali. Entrava nel porcile assieme al proprietario dell’animale per non renderlo nervoso. Dentro nello stabbiolo lui prendeva la gamba davanti ed il proprietario
quella dietro dallo stesso lato del corpo. Ad un segnale convenuto ribaltavano la bestia
su un fianco ed il nostro gli conficcava all’altezza del cuore al curadòr, un apposito
tondino di ferro con una estremità ridotta a punta schiacciata ed arrotata. Era un lampo.
Il maiale veniva portato fuori, lavato grossolanamente con acqua fredda, privato delle
setole con acqua calda ma non bollente versata sulla cute e poi raschiata con delle
raspette ricavate quasi sempre dai vecchi ferri usati per segare il fieno. Il sangue era
subito raccolto.
Per issarlo mettevano una piana di legno appoggiata a due muri di sostegno. Attorno a
questa passavano due ligàm (catene che tenevano le vacche fisse al muro della stalla)
e si fissavano a questi ligàm un paio di sidèli (carrucole) che agganciavano, tramite
appositi uncini, il nervo dei piedi. Veniva tirato su e lo si apriva dal davanti.
Poi c’era la consueta trafila del ripasso delle setole, della estrazione e della pulitura
dei budelli, della asportazione delle interiora (fegato, polmoni, cuore, rognoni ecc.).
Tagliato successivamente lungo la spina dorsale si ottenevano le due mezzene che venivano portate in casa. Solamente a questo punto c’era la consueta sosta di metà mattina per la colazione con la fritüra e la polenta fresca approntata dalla cuoca di casa.
Mario sovraintendeva alla pulitura dei budelli ed alla loro cucitura fatta dalle donne.
Tagliava i pezzi secondo le loro destinazioni e li disossava lui stesso per essere certo
che non vi si lasciasse troppa carne attaccata. Assegnava agli aiutanti della famiglia il
solo compito di passare le varie carni ala machina.
Le parti tritate venivano poste sul banc cioè un asse di notevoli dimensioni con tre
sponde: due piuttosto piccole alle estremità ed una più alta lungo il lato maggiore.
Questi rialzi servivano per contenere meglio le diverse paste (per salami, per cotechini ecc,) evitando che trabordassero. Il banc era di proprietà del masalèr e le famiglie
venivano a prenderlo il giorno prima, con un carretto o altro, a casa sua, assieme alla
“misa” altra denominazione della mesèta, la grande conca rettangolare di legno, con
tara incisa a fuoco, dove si mettevano l’impasto dei salami e dei cotechini. Ha sentito
parlare della pistàsa. Ricorda che quando era giovane c’era un vecchio masalèr che
usava ancora questa antica tecnica di tritare le carni con delle mannarine per mia
snervàr la càran.
Oggi non vuole aiutanti. I giovani sono inaffidabili. Cresciuti nel benessere e nelle
comodità, hanno paura del sangue per cui lavora da solo con l’aiuto di qualcuno della famiglia. Ammette però che - uso la sua espressione – “uccidere maiali in serie è
massacrante”. Fa una distinzione sottile e saliente: c’è chi esercita per necessità e chi
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vi aggiunge anche la passione. È solamente quest’ultimo che si affermerà nel tempo e
resisterà più degli altri al doloroso declino della professione. Capisco che appartiene
all’area più nobile della sua partizione quando mi informa che fa salami, pancette,
coppe, cotechini, culatelli, fiocchetti, lonze insaccate ed altre sublimità di cui non
ricordo il nome. Ogni due o tre anni esperimenta qualche nuovo salume.
Tritate tutte le varie carni, preparate le pancette, le coppe, l’impasto dei cotechini ecc.,
insacca con la attenzione dovuta a questo passaggio, che è all’apparenza insignificante, ma, in realtà, pieno di insidie. L’impasto deve riuscire di distribuzione omogenea
nel budello soprattutto senza vuoti interni con ristagno di aria che non sempre fuoriesce anche con una accurata foratura finale.
Parliamo dei salami. Il salame - altra sua sentenza apodittica - è “carne morta ma corpo vivo”. Nel tempo infatti si trasforma, cambia nella forma e migliora nel gusto. È
insomma un corpo vivente che penzola ma non fa paura. Anzi !
Ogni muffa è da togliere. Anche la prima, quella verde. Se prende il lidghèn (specie
di morchia superficiale, appiccicaticcia) non c’è molto da fare. Quindi bisogna stare
sempre molto attenti. La cantina ideale dovrebbe soddisfare questi parametri suggeriti
dall’esperienza: essere un poco sotto terra cioè con tre gradini per arrivare al piano,
situata a tramontana dove non batte il sole, che abbia la possibilità di un giro d’aria
(da regolare in base all’andamento della stagionatura) e un pavimento non di terra
battuta, come pretendono tanti, ma di mattoni di terra cotta semplicemente accostati
(non cementati dunque).
Per una notte i salami appena fatti sostavano in una stanza con la stufa al calor minimo affinchè si asciugassero. Questa stanza doveva avere accesso (una porta) ad
un’altra vicina, ma senza stufa, che riceveva un po’ di caldo dalla prima. Il giorno successivo si trasferivano in quest’ultima, un poco più fresca, per completare il processo.
Poi venivano sistemati in cantina.
Cotechini fatti senza vantrasèl (stomaco), polmone, milza. Una volta allungavano con
questa roba.
A questo punto, dopo oltre un’ora di conversazione piacevolissima e coinvolgente,
la moglie porta un Ortrugo (bianco frizzante) da togliersi il cappello. Siamo alla fine.
Dopo le conce gli chiedo se ha qualche sua ricetta. Mi guarda sorridendo: no, non è
un produttore diretto di amenità palatali, è soltanto un consumatore diretto. Contrariamente ad altri colleghi, accettava gli ingaggi sempre “a condizione”. A condizione
cioè che non dovesse trattenersi per la cena perché ormai al ris cun le verze e al rost
gli ripugnavano.
Mi fa vedere il posteggio delle sue creature: fresco, ben disposto, gratificante, sostanzioso. Un sancta santorum soffuso di amore e di rispetto.
Gli chiedo direttamente perché lo chiamano risulèn. Perchè aveva i ricci, ovviamente. Noto, sorridendo, che doveva essere bello. Lui sorride ed aggiunge, un tantinello
sconsolato, “’na volta”. Ma la moglie che gli è accanto esce con una frase e con un
tono che valgono molto più delle nostre parole: “L’è bèl ancora adès”.
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Vi ho rinvenuto, intatto, l’amore sincero ed affettuoso delle nostre donne di campagna, devote al proprio uomo, attaccate a lui da rispetto e fedeltà. Oggi è poesia allo
stato purissimo.
CONCE
Salame
- Sale 21 % - Spezie miste
- Pepe
- Salnitro (una volta anche il 35 % - mettere una virgola tra la prima
e la seconda cifra)
un etto per q di impasto
come le spezie, un etto per q di impasto
una bustina e mezzo per q.le di impasto (circa 20 g)
Cotechino
Stessa concia nelle stesse proporzioni del salame
Coppa
Messa in un contenitore e condita ad occhio con sale, pepe e spezie. Va rigirata due
volte al giorno. Torna nella famiglia per confezionarla ed insaccarla dopo 5 - 6 giorni.
RICETTE
Cena della sera
Riso e verze con il pesto
Ossa bollite
Al rost (lonza al forno)
Bisulàn pucià in dal vin bianc
Turta düra con la grappa
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Giancarlo Chittolini Rivarolo Mantovano
Ha iniziato come tanti in giovanissima età, 15 - 16 anni. Aiutava un masalìn di grande
fama locale, tal Marino Cauzzi detto Màru. Andava a casa sua in Vespa, una delle
prime serie di questo famoso veicolo, rischiando parecchio sulle stradine di campagna
tormentate dalla neve e dal ghiaccio.
Attraversa con lui tutte le varie fasi della maialatura. Sono le stesse, rituali, della comunità e dei dintorni ma con alcune variazioni molto interessanti. Compera da vari
anni i budelli da una vecchia e seria ditta specializzata per non coinvolgere le donne di
casa in un’operazione fastidiosa e per certi aspetti non più proponibile per cui quando
arrivava il giorno prefissato, gli uomini e le donne della famiglia hanno già approntato
tutto quanto occorre.
Ricorda che al mattino presto, molto presto perché il lavoro si protraeva normalmente
sino a tarda sera, iniziavano le operazioni. Se il porcile lo consentiva lui ed uno della
famiglia andavano dentro e spingevano fuori al nimàl altrimenti cercavano di farlo
uscire da solo, tranquillamente, senza creare situazioni che potessero metterlo sulla difensiva, magari mettendogli davanti qualcosa che potesse allettare la sua fame.
Quando tutto era calmo e tranquillo, in due prendevano la bestia per le gambe da uno
stesso lato, la ribaltavano coricandolo su un fianco e Giancarlo la accorava con lo
strumento fatto da un tondino di ferro terminante a freccia.
Il sangue - dai tre ai cinque litri circa - si raccoglieva immediatamente tagliando le
vene giugulari. L’animale, ormai privo di vita, si lavava sommariamente, come al
solito, con alcune secchiate d’acqua fredda per togliere lo sporco superficiale e successivamente sbollentato con acqua calda per levare le setole e per una pulizia più
accurata. Quindi lo issava nella necessaria posizione verticale con un sistema davvero
curioso e del tutto particolare. Si legavano i capi di una grossa corda, ad una certa
distanza uno dall’altro, ad un trave posto in alto. La corda veniva girata attorno ad un
robusto paletto rotondo con un buco nel mezzo dentro al quale si infilava un piolo così
da formare una specie di verricello a due bracci. Le zampe posteriori venivano legate
al paletto per cui, girando il piolo la corda si avvolgeva attorno al paletto e via via
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alzava l’animale. Confesso che ho dovuto farmi illustrare con un disegno il semplice
ma ingegnoso impianto dentro il quale mi è parso di cogliere, lo scrivo sorridendo,
l’intelligenza pratica di Leonardo.
Con una mannarina dal lungo manico di legno - attrezzo storico nell’ambito della
maialatura mantovana - la bestia veniva sc-iapada in due ed i mezzi erano poi portati
in casa e messi sul banc, ampio asse di legno con delle sponde di circa 4-5 cm ai lati e
di 15 sul fronte. La tradizionale fritüra con la polenta fresca consentiva di rifocillarsi
ma anche di fare due chiacchiere sull’evento. Il vino dava subito un tono di allegria.
Non si stava molto a tavola perché c’era da fare e fare bene. Lui individuava i pezzi
adatti per ricavarne salami, cotechini, pancette, coppe ecc. Poi c’era la macinatura
delle carni che venivano poste nella misa, pronte per la insaccatura. Dopo questa,
momento assai delicato, tutto veniva opportunamente legato con spago di qualità che
andava dall’alto al basso e tutt’attorno al capo. Per togliere eventuali sacche d’aria che
avrebbero compromesso la stagionatura facendo marcire dall’interno, si forava con la
furèla, una sorta di timbro con lunghi aghi appuntiti.
A suo parere il salame riesce tanto meglio quanto più - entro certi limiti, si intende la grana è grossa. A questo proposito ricorda benissimo un norcino locale che tritava
usando delle mezzelune. Ne aveva tre, di varia misura per il primo, il secondo ed
il terzo passaggio. La machina da masnàr esiste in modelli più o meno lunghi, lui
preferisce usare quella corta, così la carne non si riscalda. Il masalèr veniva scelto in
base alla fiducia anca se la roba l’andava da mal (anche se andava a male), precisa la
moglie che assiste incuriosita al nostro dialogo ed insiste perché beva un bicchierotto
del suo limoncino. Poi si metteva il tutto appeso al baldachèn e qui finiva la responsabilità del masalèr.
Sa fare salami normali, con la lingua e con il filetto, coppe, pancette, culatello, cotechino, fiocchetto, lonza insaccata. Mi confessa che uccide il maiale senza provare
sensi di colpa. I quali affiorano invece e gli impediscono l’operazione, caso davvero
curioso, se si tratta di vitelli, capretti, agnelli, volatili ecc.
La cena serale, quella che vedeva per una volta riuniti attorno alla tavola parenti prossimi ed amici, consisteva in ris cun le verşe e pasta di salame, ossa bollite per 4 ore
senza sconti, lonza arrosto e busulàn. Vino nuovo.
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CONCE
Salame
- Sale a mezza grana: 2 %
- Aglio: due capi per quintale Gli spicchi vanno mondati, privati dell’anima interna
e poi ridotti in poltiglia nel mortaio
- Spezie: tre belle pizzicate per quintale. Le spezie sono acquistate ancora oggi in
bustina da una vecchia ditta.
- pepe 0,2 %
- Vino rosso corposo: una bottiglia
- Noce moscata e chiodi di garofano ridotti in polvere: due pizzicate
- Salnitro: g 15-20 per quintale.
Pancetta
Come per il salame ma senza l’aglio. Tenere in una bacinella con il suo condimento
per un giorno. Rigirare ogni tanto.
Cotechino
Come la pancetta, con sale a mezza grana.
Lombo insaccato
Va posto su un asse (in sal banc) e cosparso dappertutto di condimento come quello
della pancetta. Poi lo si colloca per 4-5 giorni in una vaschetta dove perde il liquido
in eccesso. Va rigirato varie volte. Si insacca e si lega al quinto giorno. In sei mesi è
pronto. Va tagliato finemente.
RICETTE
Lonza arrosto (veniva servita la sera della maialatura)
Aprire il lombo a libro. In una terrina mettere pasta di salame, pane grattugiato, formaggio grana grattugiato, 2 uova intere, un poco di latte, 50 g di prosciutto cotto, un
bel goccio di vino bianco, sale ed amalgamare bene il tutto. Fare dei tagli longitudinali
nella carne e farcire inserendo il miscuglio. Chiudere la lonza, legarla ben stretta e co-
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spargere la superficie di sale e pepe. Collocare in un tegame con latte freddo e cuocere
a fiamma bassa. Occorrono almeno due ore. Verso la fine aggiungere ancora un poco
di vino bianco secco. Levare la corda, affettare e servire.
Torta di sangue (il termine torta oggi è improprio. Nella presenza dello zucchero,
ingrediente da signori, trovo una lontana eco della cucina nobiliare del ‘500).
Ingredienti:
- sangue di maiale (1 l circa)
- una bella cipolla
- 1 cucchiaio da cucina di zucchero
- 1 bicchiere di brodo vegetale
- sale q. b.
Friggere la cipolla in una pentola con della reticella, aggiungere il sangue di maiale,
il brodo vegetale e lo zucchero. Far andare il tutto a fiamma bassa finché il sangue
risulta cotto. Salare a piacere.
Ris dal nimàl
Era il risotto che veniva servito la sera a parenti ed amici.
Ingredienti:
- 500 g riso Arborio
- 500 g di verza tagliata finemente
- pesto di maiale a piacere
- olio q. b.
- brodo di ossa di maiale
Soffriggere la verza in una pentola con un fondo di olio, aggiungere tre mestoli circa
di brodo di ossa di maiale, far bollire finché la verza risulti semicotta. Aggiungere il
pesto e fare andare a fiamma allegra per qualche minuto. Versare il riso, farlo tostare
un poco e quindi addizionare via via mestoli di brodo sino a cottura, rigirando ogni
tanto in modo che non si attacchi al fondo. A cottura quasi ultimata dare sapore con
una bella manciata di grana padano grattugiato cun la grataröla. Coprire, attendere un
poco e servire. Alla fine deve risultare un riso molto morbido, non asciutto, tendente
al brodoso.
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Rolando Nadalini Sermide
Vado sul posto accompagnato dall’amico dott. Alberto Guidorzi, membro autorevole
della antica aristocrazia contadina locale in quanto il nonno era un grande possidente
terriero. I suoi studi di agronomia lo hanno portato ad acquisire una cultura specifica
di rango elevato e temprare ed avvalorare una passione istintiva e devota per la vita
rusticale.
Mi racconta che un tempo quasi tutta la campagna sermidese apparteneva alla famiglia Gonzaga che poi l’ha ceduta - si parla, si badi, di migliaia e migliaia di biolche di
terra - ad ebrei mantovani. Noto una quasi totale mancanza di alberi e gli chiedo se è
dovuta ad un terreno ricco di sale in profondità. Rinvengo nella mia memoria il fatto
che in quelle terre migliaia di anni fa c’era il mare. Mi conferma l’ipotesi. È certamente così, come risulta anche da uno studio di carattere universitario redatto dal figlio
dott. Simone, ma c’è di mezzo soprattutto la attuale coltura del melone che ha bisogno
di terreni privi di ostacoli in superficie così da rendere più agevole e vantaggioso il
lavoro delle macchine.
Entriamo nella proprietà del sig. Nadalini. La dimora dove vive è in stile moderno,
posta sul fronte di una corte di campagna con un albero in mezzo e tutto attorno le diverse costruzioni rurali. Rolando ci viene incontro sorridendo e, dopo i cordiali saluti
di rito, mi indica un rustico posto sul lato sinistro dell’accesso. Mi dice che quella è
la casa dove è nato Mons. Penitenti. Resto impressionato dalla sua semplictà, dalla
sua modestia al limite dell’indigenza anche se rapportata ad un secolo fa, quando le
abitazioni erano tutte assai povere.
Mons. Giulio Penitenti è stato una figura religiosa di assoluto rilievo nella nostra
diocesi e successivamente nella curia romana. Nato nel gennaio del 1912, fu ordinato
sacerdote nel 1936. Si era fatto amare da tutti per la sua bontà e per la determinazione
nel fondare comunità religiose volte all’apostolato. Tra queste la “Pia Società Sacerdotale Laicale” per l’unità dei cristiani. Era conosciuto ed assai stimato dal card.
Tisserant.
Siamo ora nella abitazione del nostro ospite. Questi ha cominciato in età giovanissi-
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ma - stigmate sicure della passione - ad interessarsi alla maialatura familiare. Il padre
aveva ben sette fratelli che svolgevano lavori diversi. Uno di loro faceva il macellaio.
Era dunque questo zio che veniva a lavorare al porc verso la fine di gennaio di ogni
anno. Veniva da solo, senza garzoni, perchè nella casa gli aiutanti non mancavano.
Durante la amabilissima ed appassionata conversazione, raccolgo una curiosità, ben
definita nelle sue connotazioni sociologiche dal dott. Guidorzi. Nella zona non erano
rari i vasti possedimenti terrieri acquisiti dagli ebrei. In ogni importante famiglia c’era
dunque il padre, titolare dell’azienda, ma anche un figlio demandato alla cura degli
interessi della proprietà. Era denominato e conosciuto come al didìn. Talvolta c’era
anche una figlia solitamente non sposata che, a mo’ di compensazione, governava
l’andamento della casa sia pure sotto la signorìa indefettibile della rasdora. Questa
figlia era la déda, una sorta di segretaria della azienda stessa con compiti di cura degli
interessi secondari.
La sera prima al gugét era tenuto senza cibo sia per liberarlo in una qualche misura
dalla massa fecale e sia per averlo sollecito, il giorno successivo, verso quel poco di
farina che gli si metteva davanti per farlo uscire dal porcile. Gli si legava una gamba
per non doverlo rincorrere per i campi se qualcosa non fosse andata per il verso giusto. Poi, al masalàr davanti ed un aiutante dietro, gli prendevano le gambe sinistre e,
ad una voce, lo rovesciavano sul fianco destro. Il maestro lo corava (lo accorava), gli
infiggeva cioè al curadòr nel cuore. Se il cuore non era raggiunto al primo colpo si
obliquava il ferro e lo si rigirava nella ferita più volte per attingerlo.
Rolando si ricorda che lo zio poneva l’attrezzo sul punto giusto e rivolto al ragazzo
diceva “cücia” (spingi). Lui eseguiva l’ordine. Mi preme fare osservare che questa
pratica non era assolutamente una manifestazione di sadismo, una specie di gioco
crudele e volgare, ma l’insegnamento pratico ad essere pronti, nella vita, ad affrontare
situazioni anche difficili e ripugnanti per il bene superiore della famiglia e dei figli. La
pratica oggi è assolutamente diversa: si mette tra i denti ed il naso un cavetto di filo di
ferro (al müsét) che lo tiene fermo mentre gli si appoggia la apposita pistola sulla fronte la quale, per effetto di una cartuccia esplosiva, spara un chiodo che lo tramortisce.
Appena morto, al porc è lavato sommariamente con un getto di acqua fredda, collocato poi nella peladòra, una sorta di grande bacile di legno, e sbollentato con acqua
molto calda. La peladòra ha il vantaggio di tenere tutta la cotica al caldo senza che
si raffreddi in breve tempo. Si pelava l’animale. Gli si fissavano le gambe dietro con
due uncini che giravano attorno al nervo dei piedi e, mediante le solite carrucole, lo si
issava appeso ad una piana. Lo si apriva dalla parte anteriore, si levavano le budella
che venivano lavate e rilavate dal masalàr e poi cucite ai lati (i fet) e sul fondo dalle
donne. Si prelevava il sangue che si raccoglieva nella parte inferiore del petto.
Verso mezzogiorno la prima parte della lavorazione dal gugét era terminata. I lavoranti se ne andavano e si ritrovavano alla sera per la cena con la fritüra. Questa sosta è
una specificità locale, difficilmente riscontrabile nell’ambito abituale della maialatura
mantovana. Essa aveva sia lo scopo di consentire ai lavoranti, quasi tutti contadini,
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di non abbandonare per troppo tempo gli impegni nelle stalle e nei campi, ma anche
quello di far raffreddare le carni per averle più favorevoli alle varie lavorazioni il
giorno successivo.
Le mezzene restavano al freddo e solamente al calare della luce venivano portate
nella camaràsa (in italiano la “cameraccia”). Le donne intanto si davano da fare per
approntare la cena, semplicissima e coinvolgente allo stesso tempo, che consisteva sostanzialmente in generose porzioni di fritüra accompagnata da vaste fette di polenta.
Vino lambrusco novello in proporzioni coraggiose, ancora un poco torbidino, appena
spillato dalla botte. Vi partecipavano soltanto i familiari e coloro che si erano impegnati al mattino. Non erano previste regalìe agli ottimati del paese.
Il giorno dopo, con le carni fredde e quindi più rispondenti alla azione dei coltelli, si
sezionavano i due mezzi, si ripartivano le carni secondo le destinazioni per salami e
cotechini. Si riducevano a strisce e poi si passavano alla macchina attraverso piastre
di varie misure secondo l’arte del maestro. La machina era azionata a mano. Chiedo
all’informatore se ha mai sentito di una triturazione delle carni in modo diverso. Sì,
ma andiamo indietro come ultimo ricordo a prima o subito dopo la seconda guerra
mondiale. Rammenta che c’erano norcini che mettevano le strisce su un asse piuttosto
spesso e poi le riducevano in minuzzoli cun al falsòn (la mannarina). A suo parere il
risultato finale, al palato, era certamente di livello superiore perché le carni non erano
tormentate dal verme della macchina.
Le coppe e le pancette venivano rifilate e preparate per essere immesse nel budello. A
questo punto il masalàr approntava le conce. La descrizione, tra il serio ed il faceto,
ha un alcunchè di medioevale che mi riporta di plinco al tempo dei maghi e delle
fattucchiere.
Ho assitito anch’io, da giovanissimo, a questa fase. Era un momento topico. I norcini
dovevano fare dei calcoli per adattare le proporzioni personali, ben fisse nella loro
mente, al peso degli impasti della giornata ed a quello dei pezzi da preparare a parte. Il
masalàr non aveva dimestichezza con la matematica, era ancora fermo allo “zero via
zero forma zero” (tabellina ottocentesca) e gli era piuttosto difficile districarsi. Iniziava allora un borbottìo molto simile - il Signore non me ne voglia per l’accostamento
sacrilego - a quello del sacerdote, fra sé e sé, a bassa voce, prima di un atto liturgico
fondamentale, sempre udito ma mai compreso completamente dai fedeli. Dopo una
lunga biascicata le proporzioni erano raggiunte ed applicate.
La varietà dei prodotti non era molto ampia: salami, cotechini, coppe, pancette e
grasòli (ciccioli). L’unto appena fatto veniva raccolto in pentole at preda, di terracotta. Siccome ai primi caldi della primavera tendeva ad irrancidire, il mio informatore
mi precisa sorridendo che prelevandolo sistematicamente da sopra, erano costretti a
mangiarlo sempre rancido. I quadrotti di lardo si cospargevano con del sale grosso.
In caso di indifferibile necessità si raschiava la falda appesa ad un trave per levare un
poco di grasso dalla parte superiore, quel tanto che bastava par metaràl in sla pulenta
rustìda (per collocarlo sulla polenta abbrustolita).
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La sera si faceva la grande cena canonica con familiari, amici, parenti, il prete. Il
menù era di stretta osservanza e seguiva una tradizione consolidata: macarùn (conditi
con pesto, cipolla e pomodoro), brasöli (braciole, in tegame o sulle braci), filetto,
busulàn (bussolano, dolce tipico della provincia virgiliana).
Vino ‘d bòta, di tipo lambrusco, piuttosto allappante, di rango palatale quindi non
elevato ma riscattato da una vigorosa schiettezza. Un secolo fa lo si beveva cun la
scüdèla (con una scodella di terraglia).
Intanto che c’è, il dott. Guidorzi mi confida una pratica di suo padre. Metteva sempre
aglio e vino rosso corposo nella carne macinata dei salami, ma usava un espediente:
l’aglio tagliato fino lo metteva in un tovagliolo forgiato a sacchetto, poi vi versava
dentro il vino e strizzava il tutto sull’impasto della carne macinata in modo che i
sapori fossero meglio distribuiti. Alla fine - ecco la sostanziosa particolarità - ciò che
rimaneva dell’aglio lo spargeva anch’esso sul trito e con le dita lo incorporava.
CONCE
Salame
- Sale 33 % (una volta)
- Pepe 0,3 %
- Aglio (mondato e ridotto a pezzetti) 2 etti per q di impasto.
- Vino niente
- Salnitro no, no e poi no.
Pancetta
- Sale (ad occhio, ma in quantità approssimativamente quanto
la percentuale che va nel salame)
- Pepe (ad occhio)
- Cannella (ad occhio), in polvere, macinata al momento.
Coppa
Sale, pepe, chiodi di garofano macinati al momento (tutto ad occhio)
Cotechino
Sale, pepe, noce moscata (tutto ad occhio)
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Adriano Luppi
Carbonara di Po
Il sig. Luppi proviene da una scuola di alta formazione masalina. Il padre Oreste infatti è stato masalèr per sessant’anni, sempre assai apprezzato dalla comunità per la
sua valentìa. Oggi è vicino ai 90. È stato molto attivo sino alla fine del secolo scorso
poi, negli ultimi tempi, venendogli lentamente a mancare le forze fisiche, si è ritratto via via dalla pratica manuale senza mai rinunciare tuttavia a guardare, precisare,
intervenire nei passaggi più delicati e difficili, consigliare e qualche volta correggere
l’operato del figlio. Ora ascolta la mia intervista con molto interesse.
Ultimamente dava una mano ad Adriano solamente per legare i salami. Partecipava come poteva insomma per sentirsi ancora attivo ma anche per non abbandonare
l’interesse che lo aveva animato per tanti anni. Si tenga conto che non essere di peso
alla famiglia ed esserle utile in qualche modo, è un impulso forte e nobilissimo nella
nostra concezione del lavoro e dei rapporti interni alla casa mantovana. Farsi servire
perché impossibilitato, era avvertito, nella socialità di una volta, come una condizione
umiliante, come menomazione avvilente per chi aveva lavorato per tutta la vita.
Con il masalèr Adriano, prima del colloquio, come dire, di carattere tecnico, ci scambiamo qualche pensiero sulla realtà di oggi rapportata a quella di una volta. Concordiamo sul fatto che il nostro piccolo mondo antico, ricco di valori umani e religiosi, è
stato stravolto da comportamenti diffusi e quasi tollerati improntati a violenza, disonestà, furbizia, agnosticismo, insicurezza per le persone e le cose. Trovo un’immediata, sincera, partecipata adesione.
Entriamo in una saletta delle scuole. È con noi l’amico Carlo Roncada, bancario in
pensione e quindi attivamente dedito, secondo un consolidato dovere comunitario,
assai avvertito nei piccoli paesi mantovani, alle locali attività di volontariato.
Molti anni fa il padre di Adriano lavorava il maiale per la sua famiglia e per un ristretto numero di amici ai quali non poteva assolutanente dire di no. Era conosciuto per
la meticolosità che poneva in ogni operazione per cui le richieste di ingaggio erano
parecchie. Lui lavorava non più di una quarantina di maiali all’anno. Il figlio era
ovviamente il suo aiutante di fiducia anche perché Oreste aveva capito che oltre alla
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stoffa che dimostrava sul campo e che manifestava con una sempre più convincente
manualità, era pervaso anche dall’amore per il mestiere. Adriano, a 25 anni, per soddisfare le richieste, comincia ad andare da solo, aiutato dallo zio, dal fratello e talvolta
ancora dal padre.
Al momento della uccisione lui entrava nel porcile assieme ad un membro della famiglia in modo da mantenere tranquillo l’animale. Mi dice che la cosa è fondamentale
perché se si innervosisce è facile che nel giro di poco tempo, una mezz’ora all’incirca,
gli venga la febbre con la compromissione immediata e totale della qualità delle carni.
Una volta tirato fuori e posto nella massima calma possibile, veniva velocemente abbrancato per le zampe di un lato, ribaltato sull’altro fianco e accorato con lo strumento
che ancora usa: una baionetta affilatissima risalente alla guerra del 15-18. Mi precisa,
è una curiosità, che tali lame erano di un acciaio tanto buono e compatto da rendere
addirittura difficile la loro molatura.
Siamo al dunque. Occorre il presente storico. Il maiale viene lavato alla svelta e posto
su un asse. A questo punto, dato che le cotiche per età e razza della bestia sono un
poco diverse, su una parte della pelle il nostro versa acqua più o meno bollente sino a
trovare il giusto calore per l’estirpazione delle setole. Quando individua tale rapporto
ottimale dà ordine ai suoi aiutanti di proseguire rapidamente nella operazione. Prima
testa e schiena poi le altre parti. Dopo toglie le unghie con un apposito ferretto.
Issato il maiale sui sostegni per tenerlo verticale, rifinisce la pulizia delle setole cun al
curtèl da pél (con il coltello da pelo) così affilato ed importante che non si usava per
altre lavorazioni. Per levare le interiora, apre al gugèt dalla parte dello sterno. Il sangue scende verso il basso e la rasdora lo raccoglie in una bacinella. È già coagulato e
forma dei grumi particolari detti péni (penne).
La rasdora portava in casa il sangue, la raidèla (reticella), i polmoni, le ghiandole, il
cervello, cuore, fegato, rognoni ecc. Con alcune di queste frattaglie cuoceva la fritüra,
sublimazione del quinto quarto, che veniva servita, a metà mattina, a lavoranti ed altri
familiari accompagnata con una bella polenta fresca solare.
I budelli erano lavati accuratamente dagli uomini con vino, aceto ed aglio. Stavano in
questo liquido disinfettante, caro alla empirica farmacopea contadina, per un paio d’ore quindi venivano strizzati, rivoltati, puliti da eventuali residui, dimensionati secondo
la bisogna e passati alle donne per la cucitura dei lati e del fondo. Poi si consegnavano
al masalèr per l’insaccatura.
Terminata la colazione si sezionavano con attenzione le parti da utilizzare e si suddividevano secondo la loro destinazione: salami, cotechini, coppe, pancette e grépule.
Distribuiva le operazioni ai vari aiutanti di giornata ma poi lui ripassava il tutto per essere ben certo della precisione del lavoro fatto. Le carni destinate a salami e cotechini,
ben distinte ovviamente, erano macinate con la machina di salàm fissata all’apposita
asse con le sponde per tenere tutto ben raccolto. Usa ancora oggi un tritacarne azionato manualmente perché consente di graduare meglio la immissione delle parti da
ridurre. Salami e cotechini vengono insaccati e punzecchiati in profondità con al furòt
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per agevolare la fuoriuscita dell’aria interna. Queste eccellenze palatali unitamente a
coppe e pancette, si appendevano alle pertiche (le pèrghe di salàm) e portate in una
stanza tiepida per l’asciugatura, passaggio molto importante per il loro buon esito
finale. Stavano lì, oggetto di ammirazione e di quotidiano desiderio collettivo, per
qualche giorno e poi si sistemavano in cantina.
La séra dal porc c’era la grande cena alla quale partecipavano i lavoranti, i familiari,
amici e parenti stretti. Si invitavano anche il prete, il direttore di banca ed il dottore. Il
menù era per tradizione antica ed imprescindibile, costituito da risotto fatto con l’impasto fresco del salame e brodo di gallina vecchia, portato in tavola molto morbido,
braciole della lombata cotte in teglia o, secondo consuetudine familiare, sulle braci
del focolare, formaggio grana (Carlo precisa: sémpar, sempre), verdure di contorno e
busulàn. Vino nuovo in proporzioni liberali.
Mi sposto a casa di Adriano dove incontro il patriarca Oreste. È un vegliardo dalla lingua arguta, pieno di memorie. Ripercorro con lui i tempi della mia infanzia nei quali
trova posto anche qualche ricordo curioso. Mi parla di un prete di campagna, estroso,
raccoglitore di anticaglie da brocante, sempre disposto alla questua assillante. Ne riporta i principi ai quali si ispirava: “sat ghè prüdensa at vè a cà sensa, sat tsè sfacià at
vè a cà cargà” (Se sei prudente non porti a casa niente, se sei sfacciato torni caricato).
È presente il fratello di Adriano, il sig. Paolo Luppi. Lavora come norcino presso una
ditta di Santa Croce di Sermide. Ne tesse gli elogi a riprova che ci sono produttori su
vasta scala assai attenti alla qualità. Mi informa che tra le loro specialità si distingue
la sopressata di testa - salume che conosco bene, tipico dell’area emiliana, caposaldo
anch’esso del quinto quarto - che viene prodotto per tutto il tempo dell’anno.
CONCE
Salame
- Sale - Pepe - Aglio - Salnitro - Vino rosso
3 kg per q di impasto (ora siamo sui 2,2 – 2,3)
2,2 etti per q
(ben mondato e tritatissimo) 2,2 etti per q
niente
niente
Cotechino
- Sale 3%
- Pepe 0,25 %
- Noce moscata un poco, ad occhio
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Aglio qualche spicchio
Vino bianco qualche bicchierotto
Pancetta
- Sale ad occhio (poco più del salame)
- Pepe poco
- Cannella una pizzicata
Si fanno delle incisioni longitudinali entro le quali si mette il condimento, poi si arrotola, si lega e si insacca.
RICETTE
Lombo in tegia (si cucinava la sera dal porc)
La cottura deve essere rapida perché la carne tende ad indurirsi. In un tegame mettere
olio o burro (o entrambi), rosmarino e salvia (qualcuno mette anche dell’aglio). Occorre dunque mano svelta e fuoco gagliardo. Fare andare qualche minuto affinchè il
grasso si impregni dei profumi e quindi aggiungere il lombo tagliato a fette. A fiamma
molto vivace, cuocere da entrambe le parti. Spruzzare con poco vino bianco perché
altrimenti la carne si indurisce ancora di più e fare immediatamente evaporare. Salare
e pepare solo alla fine.
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Vico Fava Castelletto Borgo
(MN)
Mi porta subito nel sancta sanctorum. La casa è grande ed attraverso alcuni corridoi
interni saliamo una scala che porta nella stanza dove c’è un baldachìn multiplo (meglio sarebbe dire alcuni baldachìn affiancati, diversi per altezza) al quale sono appese
delle sublimità celestiali. Mi illustra, con il tono pacato ma preciso e puntuale della
docenza, che ben conosco, tutti i suoi prodotti. Ha portato con sé un coltello e lo brandisce a mo’ di bacchetta per indicarmi i prodotti del suo lavoro: vi sono salami e coppe
e pancette ed ogni altro ben di Dio ma anche un insaccato che lui chiama, con vezzo
campagnolo in vena di sofisticherie, “salame pancettato”. Gli faccio notare che nella
dizione corrente in provincia, si definisce “pancetta insalamata”. Lui mi sorride e mi
appioppa un lungo discorso intriso di sapienti proporzioni tra la carne magra e la parte
grassa che ne legittima il nome: insomma c’è più impasto di salame che di pancetta.
È orgoglioso, mi guarda, anzi mi scruta, capisce che me ne intendo, sollecita le mie
valutazioni che non gli faccio mancare: ampie, convinte, apologetiche. Con un tocco
reso sicuro da una lunga consuetudine stacca due capi. Uno è un salame lungo e sottile
come un soave randello, l’altro è del tipo “pancettato” di cui ho detto.
Vico aveva una bottega di salumeria in paese che serviva anche clienti di fuori. Mi
mostra la antica insegna del negozio, dipinta da un artista locale. È di una semplicità,
direi meglio di una ingenuità, commovente. Vi ritrovo, riassunto, il mondo di una volta: essenziale, elementare, sincero ma con la candida voglia di far bene, di conquistare
l’arte.
Dabbasso ci attende la moglie che ha già preparato pane, vino, piatti, tagliere e coltellina. Tra una fetta dell’uno e dell’altro, entrambe di assoluta pregevolezza gastronomica, inizia la nostra conversazione. Vico è un fiume in piena. Quando devo distogliere lo sguardo per scrivere, non riesce a fermarsi e si rivolge al fotografo che mi
accompagna nell’avventura - giovane dabbene ed eziandio provveduto - e prosegue
con lui. Il giovinotto è provveduto si ma non capisce più di tanto, quanto dice il Maestro. Svolge comunque con scrupolo la sua parte: mangia di gusto, si guarda bene
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dall’interloquire ed annuisce coscienziosamente con la testa ad ogni passaggio.
Vico, ottantatre anni portati con piglio baldanzoso, ha cominciato da piccolo a vivere
le meravigliose giornate della maialatura contadina. Il padre Cesare Ruggero era nato
nel 1900 e, ritornato dalla prima guerra mondiale, in un clima esasperato da tensioni
sociali e da grande miseria, raggranellava qualche soldarello andando a far sù al gugiòl aiutato dai fratelli Archimede e Vito. Quando veniva il turno della propria famiglia, lui non andava a scuola e pieno di ansia e di fervore dava una mano nelle piccole
faccende della lavorazione. Impegni di poco conto ovviamente, intanto però vedeva,
imparava, si addentrava sempre più negli enigmi del rito, ne chiariva i passaggi più
ardui, si avvicinava alle conce. A poco meno di vent’anni raggiunge quell’insieme di
conoscenze che gli consentono di assumersi delle responsabilità e di andare presso le
famiglie.
Mi racconta che in quel giorno, entrava nel porcile la donna che abitualmente dava
la şota (il pastone) al maiale così da mantenerlo tranquillo. Dopo veniva dolcemente
spinto fuori in un luogo chiuso affinchè non scappasse via. Se la bestia era restìa lui
usava al rampin, un ferro uncinato che prendeva la pappagorgia del sottogola e impediva al maiale di scappare e lo costringeva a tirare indietro. In questo caso, peraltro
piuttosto raro, bisognava fare alla svelta perché la situazione era insolita e dolorosa e
al gugiòl poteva essere preso, come detto più volte, dalla febbre con immediata alterazione delle carni.
Nei casi più difficili ed ostinati, operando sempre con cautela ma alla svelta, legavano
una corda attorno ad una zampa e lo trascinavano fuori dallo stalletto. Due o tre uomini lo ribaltavano su un fianco e lui con una baionetta, un poco accorciata nella sua
eccessiva lunghezza, lo accorava.
Il maiale veniva posto su una grata di legno, lavato sommariamente con acqua fredda
per eliminare lo sporco superficiale. Poi Vico, con l’aiuto di uno che versava acqua
caldissima ma non bollente, usando una raspéta ricavata come sempre da un vecchio
ferro per falciare l’erba, gli toglieva le setole. Con al rampìn (ferro con un uncino)
gli tirava via le unghie con le quali venivano fatti i carapatìn, singolari giochetti per
i bambini. Per stare allegri, ad uno di questi veniva chiesto di andare a prendere al
malaföc con la carriola. Al malaföc non era altro che una grossa pietra messa dentro
ad un sacco affinchè il bambino non se ne accorgesse. Risate generali.
Il maiale veniva issato a testa in giù su una traversa e quindi sc-iapà (spaccato) in
due parti. Le donne erano pronte con mastelli per raccoglire i budelli e con catini per
portare in casa la picarìa, cioè l’insieme della frittura (costituita da reticella, polmoni,
rognoni, fegato, cuore, sangue ecc.).
I budelli venivano portati nella stalla sia per stare un poco al caldo e sia per eliminare
facilmente la materia fecale, e quindi lavati accuratamente più volte con aceto e sale.
Vico commenta l’operazione così: l’è al büdèl cal fa al salàm (è la cura del budello
che fa il salame). Affermazione piuttosto impegnativa.
Le carni le teneva una notte al fresco così da averle più rispondenti, il giorno dopo,
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al lavoro dei coltelli ed alle lame della màchina. Veniva quindi la fase della selezione
delle parti da destinare alla confezione degli insaccati. Le cotiche, le carni tigliose
e di minor pregio finivano nei cotechini, la parte della pancia dopo essere stata ben
rifilata era condita per farne pancette, quella del collo lavorata con conce speciali per
ottenere la coppa ed il resto era destinato ai salami. Questa fase della lavorazione non
era difficile ed intervenivano infatti anche membri della famiglia solleciti a dare una
mano. Ma lui comunque sorvegliava tutto, non gli scappava nulla, era in gioco il suo
prestigio.
Macinava ed insaccava con una macchina a mano di produzione austriaca. Si allarga a
descriverne i pregi e conclude con una affermazione curiosa: “La Bohemia è la patria
dei salami”. Francamente lo ignoravo.
Verso sera era tutto pronto e venivano portate le perghe (pertiche) lungo le quali si infilavano le meraviglie. Il fastoso insieme delle perghe formava il baldachìn ammirato
con compiacimento da tutti i presenti tra i quali gli amici ed i parenti prossimi arrivati
con gioia. Era già tempo della cena.
CONCE
Salame (proporzioni di una volta)
-Sale 30 % (la percentuale di sale una volta si spingeva anche al 3,5 %.
Si osservi che nella ricetta di Vico la quantità non è alta perché altro sale viene immesso con l’aglio. Vedi sotto.)
- Pepe (sfransà cun al butigliùn, rotto con il dorso di un bottiglione da vino) ad occhio ma circa lo 0,2 %.
- Aglio 3 etti al q pestato nel mortaio assieme a del sale grosso.
- Salnitro
una punta
- Spezie niente
Il condimento va sparso sull’impasto e poi va arà (arato) con le dita. Vico specifica
meglio: la cünsa la và sutrada (la concia va sotterrata)
Pancetta
La concia è sostanzialmente come quella del salame con meno pepe ma con la aggiunta di un poco di cannella in polvere ed una bella pizzicata di nosce moscata.
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Salame pancettato
Nello stesso budello finisce l’impasto del salame condito a parte e dei tocchetti di
pancetta, presa dalla parte della coda dove è più alta, conditi con sale, noce moscata
abbondante, un sospetto di pepe e miscelati bene a mano. Le proporzioni – ecco la
giustificazione del nome – è di dieci chili di pasta di salame e cinque chili di pancetta
lavorata.
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Luigi Bissoli Solferino
Luigi ha incominciato presto ad avvicinarsi alla pratica del far sö el pursèl. A 13 anni
si guadagnava qualcosa legando gli insaccati nella salumeria dei Tonolini che avevano
bottega di fronte a casa sua. Ha appreso l’arte dal sig. Arturo Leoni di Guidizzolo,
lavorante presso la stessa ditta, persona di grande umanità che non gli lesinava consigli, suggerimenti tecnici, segreti dei budelli e delle conce. Solferino è un bel paese di
campagna posto sulle colline della morena gardesana.
È il giorno. Gli uomini e le donne hanno approntato quanto occorre: paröl di rame per
l’acqua calda, fasìne da bruciare, pèse, tovaglie, pentole, corde con le sidèle (carrucole) per issare la bestia, pignatta e farina gialla per la polenta, ecc.
Luigi arriva di buon presto, da solo perché non vuole aiutanti se non quelli della famiglia. Con prudenza ma anche con estrema sollecitudine lega le due zampe posteriori
ed aiutato dagli assistenti (o mediante un trattore) tira fuori il maiale dallo stabbiolo.
Con l’indispensabile aiuto dei presenti lo colloca con fatica su una botola di paglia
e mentre un paio di uomini tirano la corda delle zampe, un altro dà una decisa botta
sulla fronte con il rovescio di una scure, cun l’oc dal manarin. Il maiale stordito non
si muove più di tanto e Luigi con una baionetta del ’15 - ’18 lo accora e poi gli taglia
le vene giugulari. Le donne raccolgono il sangue con un catino.
A dirlo così, il racconto dà la sensazione di un masalì (nell’alto mantovano c’è l’apocope che toglie la “n” finale) rude, caparbio, violento ed insensibile. Niente di tutto
questo. Luigi è persona modesta, pacata, senza toni imperiosi, direi timido e schivo.
Mi addentro un poco nel caso. Mi bastano poche parole. Capisco che di fronte al lavoro - regola interiorizzata e preminente in tutto il mantovano - occorre fare quanto
è necessario senza andare troppo per il sottile. Dalle sue parole emerge il severo condizionamento ambientale che si è riflesso per secoli sui comportamenti comunitari ed
individuali. Una volta la zona collinare, senza acqua e con poche strade, era una terra
poverissima per cui al lauràr, quando c’era, assumeva delle connotazioni imperative
da rispettare senza troppe riluttanze.
Puliva alla svelta la bestia con secchi d’acqua presa dal albi (abbeveratoio) e subito
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dopo ne levava le setole versando dell’acqua calda sulla cotica ed abradendo con un
raschietto. A questo punto al pursèl veniva fissato sulla pica, una robusta traversa
di legno con dei fori nei quali si infilavano, a distanza conveniente, dei cavicchi che
fermavano e tenevano aperte le gambe posteriori. I buchi erano parecchi così da individuare subito quelli più adatti alle dimensioni della bestia entro i quali infiggere i
pioli. La traversa veniva poi fatta scorrere verso l’alto lungo due paletti appoggiati ad
una parete sino a quando al pursèl veniva a trovarsi in posizione verticale.
Una buona parte del lavoro iniziale era stata fatta. Tagliava la pancia del maiale
dall’alto verso il basso e raccoglieva i budelli e le frattaglie necessarie per la fritüra
e per altri piatti di giornata: reticella, cuore, polmoni, fegato, milza, caren mate ecc.
Dopo la sc-iapada (divisione in mezzene), immediate erano le valutazioni sulla resa
del prezioso lardo. Era quello che contava. I salami erano quasi tutti venduti ai signori
di Mantova o al butighér per saldare vecchi debiti segnati giorno per giorno sul libretto della spesa. Si misurava il suo spessore con l’antico criterio del sömes, la spanna
con le tre dita interne raccolte verso il palmo della mano. Nel giudizio le donne erano
espertissime, ad esse importava la quantità del lardo ma anche la sua compattezza. Se
era sodo e non flaccido andava benissimo.
Una volta non c’erano i budelli di maiale o di manzo nella quantità e nella varietà che
oggi è invece possibile trovare un po’ dappertutto. Un tempo si usavano solo quelli
che si ricavavano dalla stessa bestia per cui era una vera arte recuperarli da ogni parte:
dal crespone, dalla doppia cucitura di quelli piccoli (adatti per le salamelle ma non per
i salami), dalle cosce, dai sunşì (le parti grasse che avvolgono i reni, ricoperte da una
pellicina), dalle costine, dalla vescica ecc.
A metà mattina si portavano in casa, in una stanza di basso servizio, i due mezzi e si
mangiava la storica, tradizionale fritüra cucinata dalle donne. Il piatto era decisamente plebeo e dall’aspetto inquietante ma di una brillantezza ineguagliabile. Al termine
della colazione con dignità di pranzo, si lavorava sino a sera. Si sezionavano i pezzi, si
valutava la loro destinazione, si riducevano a proporzioni più piccole e si improvvisavano i soliti scherzi aventi per protagonisti gli ignari bambini. Anche queste, come
dire, imbarazzanti consuetudini rientravano nell’ambito della educazione familiare,
volta a far capire alla svelta ed a non farsi buggerare. Non mancava quindi la solita
richiesta del masalì di andare dalla residura a prendere al netaurèce ma anche quella
dell’amico che rubava i reni e poi sosteneva, tra l’ironia e l’abominio, che il maiale era
di scarsa qualità, non andava bene, proprio per la magagna: mancavano i due organi.
Sconcerto, ricerche affannate, voci sopra le righe sinchè i rognoni saltavano fuori. Immantinente - ma lo sapevano tutti - erano lavati a fondo, affettati e cotti sulla griglia.
Preparate le varie carni per cotechini, salami, coppe e pancette, si tritavano con la
macchina quelle destinate agli insaccati. Per i salami usava piastre del 10 ma anche
del 12 mentre per i cotechini erano dell’ 8 o del 6. Ha sentito parlare del taglio a lama
mediante mannarine e con le polpe stese sulla pistàsa. Lui però non lo ha mai praticato.
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Oggi è come una volta. Gli impasti vengono raccolti nelle mesete, conciati accuratamente (vedi conce) e quindi insaccati a macchina. Legati e forati sono poi appesi alle
pertiche per formare al baldachìn. Li tiene una notte o due nella stanza del focolare.
Se questa non è disponibile mette sotto al generoso tripudio qualche palata di braci
con sopra poca cenere. Nei giorni immediatamente successivi si portano i capi in una
stanza asciutta ed ai primi caldi della primavera si trasferiscono in cantina.
Come sceglie il maiale ? I suoi criteri sono questi: coda grossa, culo grosso (insiste
su questo particolare per cui gli propongo l’aggettivo “maestoso”), pancia sollevata e
non rilassata, spalle ampie, razza Landrace. Alla sera, cena con i parenti, gli amici più
cari, gli aiutanti di rilievo e qualche persona importante alle quali era dovuto l’invito.
Per una volta si mangiava a volontà. Il menù era quello di sempre ma sempre atteso
da tutti: risotto con al pistùm (pesto), ossa bollite almeno quattro ore (bisogna provarle
per coglierne appieno la bontà), qualche polpettina di impiöm (è sempre il pesto ma
con diversa dizione dialettale, più frequente verso l’alto mantovano), formaggio - sal
gh’era (se c’era) precisa - e grapa da scundòn (distillata in casa, di nascosto).
Sono passate quasi due ore. Vedo che si agita un poco. Gli chiedo se deve andare da
qualche parte. Si, c’è una persona anziana che deve essere aiutata a scendere dal letto
ed a muoversi. Non è un parente né un amico ma un cittadino qualunque del paese.
Questa è la vera solidarietà, la vera, sentita coscienza comunitaria. Vado via subito. Lo
saluto con amicizia e riconoscenza. Idealmente lo abbraccio.
CONCE
Salame
(proporzioni di molti anni fa)
- Sale
- Pepe
- Aglio
- Salnitro - Vino rosso 30 % circa
0,3 %
2 etti per q.le (ben nettato e tritato)
poco, ad occhio
un bottiglione e mezzo per q.le di impasto
Pancetta
- Sale 40 %
- Pepe 0,4 %
- Aglio 3 spicchi per pancetta (mondato e tritato)
- Spezie (cannella, chiodi di garofano, noce moscata) un pizzico del misto ridotto in polvere.
Sistemare la carne in una bacinella con il condimento sparso sopra. Versare del vino
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rosso in quantità tale che la copra tutta. Tenere al fresco uno o due giorni rivoltando
alcune volte. Poi insaccare.
Cotechino
La concia è come quella del salame. Viene preparato con le carni meno nobili e con
il 50 % di cotenna.
Coppa
Come la pancetta
RICETTE
Turta de sang (torta di sangue).
La ricetta è della signora Anna Magalini, moglie di Luigi.
Il sangue del maiale era adoperato principalmente per fare morette o come ingrediente
della fritüra ovvero per la turta de sang.
Ingredienti:
- un litro e mezzo di sangue di maiale non coagulato
(per ottenerlo rimestavano il sangue fresco con un rametto pulito);
- un uovo sbattuto
- una cucchiaiata di pinoli
- una bella manciata di uva sultanina
- un po’ di càren màte.
In una zuppieretta mescolare il tutto, porre in una teglia di rame e fare cuocere a fuoco
lento (al forno o sulle braci del focolare) per almeno un’ora. Non era una torta ovviamente anche se aveva delle componenti dolci. A mio parere è una traslazione plebea
dalla cucina principesca rinascimentale.
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Giancarlo Bertellini Suzzara
L’interieziome è costante, sistematica, quasi ossessiva: a ghéra da far ecunumìa,
ghéra da star stréc (stretti di borsa e di pretese, ovviamente). Giancarlo conferma,
ancora una volta, che un tempo - andiamo indietro di quasi un secolo - il maiale possedeva il tratto, la peculiarità della Provvidenza (con la maiuscola, si badi), era un
cospicuo bene della casa perché veniva a contrastare la pervicace fame quotidiana.
Come tale doveva essere trattato con ogni cura possibile, in rapporto alle disponibilità della famiglia, ed utilizzato con grande parsimonia. Allora, nel forese di Suzzara
non c’erano ancora le industrie e le aziende artigiane che successivamente daranno
notevole respiro al territorio. C’era soltanto campagna e le bocche da sfamare erano
sempre troppe.
Un indizio di questa dura situazione si può evincere dal fatto che la scansione dal far
su al gugiöl qui aveva modalità diverse da quasi tutta la restante parte della provincia: il maiale veniva ucciso il giorno prima della sua lavorazione per raffreddare le
carni e renderne più agevole il trattamento. Al mattino dopo i lavoranti ritornavano
ed il maestro per prima cosa levava l’òs giót (l’osso ghiotto, quello dello sterno con
attaccata dell’ottima carne) che poi metteva, con interessata sollecitudine, a cuocere
in una ramina. L’òs giót era messo in tavola per il pranzo. Alla sera, una volta appesi
gli insaccati a li perghi, si mangiava la fritüra. Si eludeva insomma la consueta cena
finale e con essa anche gli invitati di riguardo.
Giancarlo è di conversazione amabilissima. Mi parla di sua mamma Maria Bottazzi,
detta Léise, giunta a 95 anni senza assumere mai una medicina, del suo carissimo amico Ferdinando Montanari e del pronipotino Russell al quale, come avvertito compito
istituzionale, vuole un bene dell’anima.
È giunto alla maialatura di tipo professionale ad una età piuttosto avanzata, verso i 30
anni. Prima dava una mano quando veniva in casa par far su al gugiöl un famoso masalìn della zona, tale Luigi Balboni. Giancarlo stava bene attento alla sua manualità,
a come lavorava di coltello, alla sequenza delle operazioni, alla composizione delle
162
conce, alle accortezze della insaccatura ecc. Mi parla di questo Maestro con un senso
di grande simpatia umana non disgiunta da una ammirazione totale per la sua bravura.
Era il numero uno nella zona di Suzzara e dintorni, il titolare della cattedra.
Mi racconta che una volta lo stalletto del maiale era posto sotto il forno di campagna - monumento significativo ed accattivante della civiltà contadina - in modo che,
ogni tanto, anche lui potesse godere di un poco di caldo. Il giorno fissato lo facevano
uscire con calma, il proprietario o una donna di casa gli stavano accanto affinchè non
si innervosisse. A volte, ma era caso piuttosto raro, lo tiravano fuori con al rampìn, un
uncino di ferro fissato ad un lungo bastone che veniva infisso nella gola dell’animale,
vicino all’osso della mascella inferiore. La bestia piantava i piedi per terra e tirava
all’indietro ma il dolore gli imponeva di assecondare la trazione.
Gli uomini lo ribaltavano su un fianco ed il masèn lo corava con un coltello o con
l’apposito ferro. Lo lavavano alla svelta con qualche secchio di acqua fredda e quindi,
aiutandosi con acqua calda ed il solito raschietto, gli levavano le setole. Operazione
questa piuttosto delicata, che richiedeva assoluta perizia.
Sino a una trentina di anni fa veniva issato sulla solita incastellatura detta pcaröl (senza la “i” tra le due consonanti iniziali). Il maiale era sollevato ad altezza d’uomo per
facilitare l’evisceramento degli intestini e della corata. Il sangue affluiva nella gabbia
toracica e da questa levato per darlo alle donne in attesa. Ora, con i nuovi mezzi in
dotazione a tutti i contadini, lo si solleva con la pala di un trattore. Lui ha predisposto
un attrezzo speciale per questa bisogna che si adatta benissimo alla pala stessa. Me lo
mostra con un pizzico di orgoglio.
Subito dopo, con una affilata mannarina lo tagliava lungo la spina dorsale per ottenere i due mezzi che robusti giovanotti portavano in casa, in cucina o in una stanza da
disbrigo. Erano sistemati su due scàn (gli assi per bucato, con le gambe) e lasciati per
una notte a riposare. Le budella erano subito accuratamente nettate, rivoltate, lavate
varie volte e poi tenute in una bacinella, nell’aceto, sino al giorno dopo, quando aveva
inizio la lavorazione vera e propria.
La mattina successiva le mezzene erano sezionate e le carni ripartite secondo la loro
destinazione: per salami, cotechini, pancette, ecc. Gli aiutanti disossavano sotto la sua
attenta sorveglianza. La maialatura entrava nella sua fase più cruciale ed ogni passaggio poteva nascondere delle insidie tali da pregiudicare il futuro del lavoro.
Mi dà una notizia che avevo appreso di sfuggita parlando con altri masalìn. Prima della guerra o subito dopo, per evitare difficoltà con le machine di salàm ancora piuttosto
problematiche, le cotiche subivano un trattamento preventivo di frammentazione e
sminuzzamento grossolano con la pistàsa. Questo arnese era costituito da una piastra
rettangolare di ferro, con un bordo assai tagliente e con sopra due manici di legno
collocati alle estremità. Era un lavoro semplice ma faticoso. Andando su e giù con
forza, si riduceva a tocchi sempre più piccoli la cotenna, posta su una zocca di legno,
per passarli successivamente alla macinatura.
Quando tutto era pronto procedeva alla concia. Spargeva la miscela sulla carne e ma-
163
nipolava rastrellando con le dita la superficie affinchè pepe, sale e spezie scendessero
in profondità, senza compressioni, lasciando cioè soffice l’impasto. Lavorava a lungo
affinchè la concia si distribuisse uniformemente. Poi insaccava rigirando i salami in
modo che l’impasto avesse una distribuzione omogenea e non si formassero all’interno delle sacche d’aria, quindi legava ed infine forava con al furìn. Destinazione finale:
li perghi (le pertiche) collocate, secondo consolidata osservanza, in dla camara da lèt.
Anche lui concorda che per la massaia era importante il lardo. Lo spessore ideale era
quello di un sémàs, cioè una spanna con le tre dita interne piegate sul palmo della
mano.
CONCE
Salàm
- Sale - Pepe - Aglio - Spezie
una volta anche il 30 %; ora il 22 %
2 etti / q (metà macinato fine e metà a mezzagrana)
3 teste per q (mondato e ridotti a pezzettini). Precisa che nel
suzzarese non piace più di tanto.
niente
Cotechino
Come per il salame ma con meno sale e con la aggiunta di un poco di spezie (cannella,
chiodi di garofano, noce moscata).
Culatello
La descrizione della ricetta è preceduta da un’ampia esegesi con appassionati connotazioni laudative. Il culatello è un capo molto apprezzato nella zona. Tutti i mazèn
locali sanno prepararlo. È naturale, siamo prossimi alla terra emiliana. La maturazione
non dura normalmente meno di un anno. Un suo collega lo tiene a stagionare anche
per 18 - 20 mesi, in ambiente adatto, con temperatura fresca ed umidità controllata. Il
prezzo di acquisto di questi capi speciali è decisamente importante: sino ad 70 euro al
kg. Oggi, anno 2012 a Virginis partu.
Se si considera che la pezzatura media è sui 5 kg si capisce immediatamente il suo valore. A trovarlo poi! Il signor Bertellini non ha dubbi: è decisamente superiore a qualsiasi prosciutto crudo: è delicato, morbido, suadente, coadiutore ineguagliabile per
meditazioni amicali sulla caducità delle cose umane. Con un lambruschino leggero,
di nobile e sicura origine, che non ottunda il palato ma che lo vellichi delicatamente.
164
Si usa la coscia senza il fiocchetto. Lo si stringe con dello spago per dargli subito una
certa forma poi lo si voltola su un letto di sale (23 %, come per il salame), chiodi di
garofano interi, cannella sbriciolata con le dita, poco pepe in polvere ed un pizzichino
di salnitro (come per i salami, precisa).
Deve essere lasciato ad impregnarsi del condimento per 5-6 giorni rigirandolo frequentemente. Alla fine va pulito, insaccato nella vescica e legato con una cordatura
robusta e stretta, che avviluppi tutta la superficie così da dargli la caratteristica forma
a pera.
Stagionatura da uno a due anni.
Sopressa di testa
È un insaccato tipicamente emiliano. È comprensibile quindi che trovi attenzione anche nell’area suzzarese.
Si prende la testa intera del maiale senza la parte interna dell’orecchio, troppo sporca,
e la si fa bollire in acqua sino a quando la carne si stacca bene dalle ossa. E gli occhi,
chiedo io con tono insinuativo? Risposta: “iè bun anca quei”.
Mettere le carni cotte sul tagliere e farne tocchi grossolani al coltello. Condire il tutto
con sale al 20 %, pepe 2 % e poco aglio, 4 o 5 spicchi pestati unitamente al sale. Insaccare e legare. La stagionatura non è molto lunga: da uno a due mesi. Alcuni la affettano già dopo due settimane. Rondelle gaudiose, larghe un dito (devono stare in piedi).
RICETTE
Sangue fritto
Anche il sangue del suino poteva essere l’ingrediente principale per un piatto singolare. Le donne venivano a prenderlo con una pentola di rame sul fondo della quale era
messo un oggetto di ferro. Quasi sempre, con intenzione apotropaica, la chiave della
porta di casa. “Almèn atsì las puliva” (almeno così si puliva) è il suo commento pungente ma con ampi margini di verità.
In un capace tegame - la storica padella di rame con il manico curvo - mettere della
reticella e fare sciogliere. Versare il sangue e rigirare. Condire con sale, pepe e un
poco di buccia di limone grattugiata. Accompagnare con polenta solare.
165
166
Leonardo Dal Prato Guidizzolo
Ammetto subito che ho trovato qualche difficoltà nell’incontro.
Lo conoscevo da anni, piuttosto superficialmente per la verità anche perché ci incontravamo di rado, e non sapevo nulla della sua inclinazione masalina. Il fratello Andrea
mi aveva informato che Leo da tempo si occupa e produce in proprio raffinati prodotti di norcineria. Sono stato mosso dalla curiosità di incontrarlo perchè il tema dei
“masalìn mantovani” che mi tocca di dentro, postula per principio una ricerca su tutti
coloro che sono animati ed hanno praticato, anche se non professionalmente, l’arte.
Sono sincero. Non avevo molto credito, ero piuttosto scettico. Ritenevo che alla fine
si trattasse del solito hobby da esercitare occasionalmente per il puro piacere della
sperimentazione ovvero per stare assieme una sera con compagni dalla forchetta sempre innestata, solleciti a lodare chi li mette con i piedi sotto la tavola. Non è difficile
trovarne infatti più di uno nella consolidata cerchia amicale, disposto a titillare l’ego
di chiunque li convochi per un’occasione mangereccia.
Leo è un uomo maturo, alto, leggermente claudicante per via di qualche acciacco
non felicemente risolto per cui soffre ma non si lamenta. Si caratterizza per una voce
stentorea incupita dall’età e per un sorriso perenne, indelebile, vivido ed accattivante,
che sopprime d’acchito qualsiasi perplessità formale. Offre a chiunque amicizia senza
condizionamenti, distinzioni o barriere di sorta.
È un personaggio eminente della comunità guidizzolese. Il suo carattere intessuto di
profonda umanità ed istintiva simpatia nonchè da una sensibilità ampiamente eclettica
e da naturale capacità introspettiva, sa rapportarsi immediatamente con tutti.
La sua casa di squisita fattura ottocentesca e soprattutto il suo giardino estivo (e d’inverno il suo antro ove regna una confusione perfettamente organizzata nella quale lui
trova tutto immediatamente), sono una specie di porto di mare per i molti amici che
passano nei pressi: un saluto alla voce, una bagola sul paese, un invito ad una sosta
dello spirito, quattro chiacchiere sul mondo e sulle sue miserie, si coniugano sempre
con soccorsi immediati di sua produzione, irrigati da un gotto o due di quello giusto.
La sua vita è questa. È pervaso dal sentimento dell’amicizia, dalla capacità naturale
167
nel campo dell’arte ceramica della quale è autore di vaglia (buon sangue non mente: il
padre Alessandro è stato pittore insigne, un caposcuola con premi conquistati in ogni
parte d’Italia), da una manualità poliedrica e versatile che lo porta a realizzare, oltre
a lavori artistici di altissimo pregio come dicevo, macchine particolari, tavoli, sedie,
lampadari ecc. Ed opere di norcineria nelle quali profonde una antica passione sempre
sorvegliata da una esperienza ormai pluridecennale.
Per capire un po’ di più quanto rattiene nelle sue corde, è necessario aggiungere che
si fa il pane nel proprio forno, che è cuoco di sostanza, alieno da fronzoli estetici ma
raffinato, che è persona di vasta cultura (possiede una biblioteca di circa cinquemila
volumi nei quali ogni tanto si immerge per ritemprare lo spirito) e che as fa sö al nimàl
in casa.
È insomma un uomo libero, un bonario filosofo che ha capito l’essenza della vita, che
è riuscito ad affrancarsi dai lacci delle convenzioni sociali e ad assumere comportamenti condizionati solamente dallo scrupolo dell’onestà e dalla interiorizzazione
senza incertezze di una fede profonda che lo anima e lo sostiene perennemente.
Dal Prato nasce nella casa posta sotto la torre comunale di Guidizzolo, 73 anni fa.
Subito dopo la guerra ha avuto i primi contatti con la maialatura. Ne era affascinato.
Veniva a far sö al pursèl della famiglia tale Terenzio Valenti, un’autorità riconosciuta
nell’utilizzo dei doni che offre la natura. Le sue competenze spaziavano dagli animali,
agli ortaggi, alle erbe, alla frutta, ecc.
Compie la scuola dell’obbligo a Guidizzolo e quindi va a studiare presso l’Istituto
d’Arte “Adolfo Venturi” di Modena. Torna all’età di 17 anni e dopo qualche tempo
si fidanza con la signorina Sandra Maffezzoni, oggi sua moglie, nipote di un grande
allevatore di suini dalle parti di Cavriana. Ha modo dunque di approfondire la sua passione e di apprenderne i rudimenti. Via via migliora la manualità, penetra nel mistero
delle conce, si affina nei passaggi più ardui. Dopo essersi sposato si mette assieme con
il fratello Paolo che abitava a Volta Mantovana, a pochi chilometri da Cavriana e da
Guidizzolo, per fare la prima maialatura completa sotto la sua responsabilità. Non ha
mai ucciso maiali, comperava le carni presso allevamenti locali.
La casa di Paolo era quella dei fittavoli della famiglia Boselli, grandi possidenti terrieri della zona, ed era particolarmente adatta alle necessità della conservazione e
stagionatura. Nelle stanze del piano superiore, alte e con il pavimento di legno, veniva
portato il baldachìn dopo essere stato qualche giorno dabbasso in un ambiente caldo
per asciugare i capi. Sopra stavano sino a primi tiepidi di primavera e poi venivano
sistemati in un’ampia cantina fatta di sasso, tipica della zona. Queste transumanze
erano ottimali, singolarmente convenienti per la stagionatura.
L’avventura va avanti per qualche anno e questo dà modo a Leo di approfondire le
conoscenze e di migliorare la già rilevante manualità. Quando Paolo rinuncia, va per
cinque anni a lavorare il maiale ad Anghiari presso la famiglia Valbonetti, un rampollo
della quale, Fausto, gli era collega come insegnante presso l’Istituto Statale d’Arte di
Guidizzolo.
168
Ormai è masalìn nel senso pieno della parola con esperienze lontane (Toscana) che
altri non hanno. Non si ferma più. Ormai padrone di salami, coppe, pancette, grepule
che sono i cardini della maialatura mantovana e succube della sua innata curiosità
ed intelligenza artistica, si dà da fare per aprire nuovi orizzonti. Aggiunge alla serie
storica della gamma tradizionale di questi paesi, la lonza, il rigatino (pancetta tesa e
molto pepata), capocollo, fiocco, guanciale. Avverte poi l’urgenza interiore di conoscere la tecnica della affumicatura che lo intriga da tempo. Va allora in Val Ridanna
vicino a Vipiteno ed apprende dai contadini locali i segreti di questa lavorazione che
può essere fatta bene soltanto in certi luoghi, a certe altezze e con la totale padronanza
della materia.
Da noi è assolutamente impossibile ma non tanto per le modalità di approntamento
quanto per la stagionatura. Mi racconta infatti che in Alto Adige, luogo deputato allo
speck, dopo aver disossato e successivamente affumicato tutto il maiale, questo era
sezionato in parti che stavano appese per mesi sotto il portico di casa e si asciugavano
quotidianamente al freddo ed all’aria del luogo assumendo sapori particolari. Da noi
marcirebbe tutto.
Lui portava a casa le due mezzene intere completamente affumicate che poi riduceva
in porzioni adatte all’uso di cucina. In malga le frazioni meno pregiate o addirittura
di scarto perchè non commerciabili, venivano affumicate a parte per essere utilizzate
nelle varie zuppe tipiche.
Ha vissuto e vive una vocazione. Parafrasando verrebbe da dire che le vie del baldachìn sono infinite.
CONCE
Non sa precisarmi le quantità dei singoli ingredienti, non li ricorda perché fa tutto ad
occhio. Ritiene comunque che non si discostino più di tanto da quelle tradizionali della terra mantovana. Come unica variante di rilievo ha sostituito, come antiossidante, il
nitrato con l’acido ascorbico (vitamina C).
Salame
Sale, pepe, aglio, vino rosso più alcuni semi di piante officinali che tiene nel suo orto
di casa.
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Pancetta
Sale, pepe, aglio, semi di aromi naturali, vino rosso di buon corpo. Le mette in concia
per almeno 15 giorni in salamoia rigirando ogni giorno. Riescono profumatissime.
Coppa
Come per la pancetta
Lonza (vari tipi)
Tipo toscano: sale, pepe, poco aglio, alloro e rosmarino. Va messa in salamoia per assorbire gli odori per almeno 15 giorni rivoltandola frequentemente. Quando la toglie
la cosparge di pepe e la tiene attaccata al baldachìn per 8 - 10 giorni. Una volta bene
asciutta la avvolge nella carta paglia (quéla dal buteghér) e la pone in cantina per un
mesetto.
Salamelle nostrane
La stessa pasta del salame insaccata a rocchi nel budello piccolo.
Salamelle da mangiar crude
Insaccato di assoluto prestigio. La carne la trae dalla coscia. Per il grasso (15 % della
carne) usa quello del guanciale, più morbido. Sale 18 %, pepe macinato 3 %. Aggiunge finocchio selvatico, vino rosso, aglio (un poco, spremuto dall’apposito attrezzo).
Insacca e fa asciugare per una settimana.
Rigatino (o pancetta tesa)
Prendere la pancetta con la sua cotenna, mondarla dalle pelletiche e cospargerla di:
- Sale 28 – 29 %
- Pepe abbondante
- Aglio mondato e tritatissimo 2 spicchi / kg
- Finocchio selvatico 1 pizzico
- Foglie di alloro tritate (se il profumo piace)
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Guanciale
Come il rigatino. Con la cotica. Appeso in ambiente piuttosto tiepido per una settimana.
Cotechino
- Carne magra - Guancia - Cotica - Sale - Pepe - Aglio
- Vino rosso
50 % (di cui 35 di muscolo di stinco e 15 di lingua spellata)
15 %
35 %
2,2 %
0,3 %
RICETTE
Garganelli con l’anitra selvatica (mi mostra l’attrezzo per i garganelli). Il volatile
gli viene conferito da amici che vanno a cacciare in Austria.
Spennare, pulire, spezzettare l’anitra. In una teglia rosolare un fondo di cipolla, sedano, carota, olio, burro, sale e pepe. Aggiungere l’anitra. Fare andare a coperto ed a
fiamma bassissima finchè le carni si staccano facilmente dalle ossa. Spolpare, tritare
grossolanamente le polpe ed irrorarle con il proprio fondo bruno passato al setaccio.
Condire la pasta. Formaggiare con buon grana padano.
Maccheroni alla chitarra con la salamella (mi mostra l’attrezzo per i maccheroni)
Sbriciolare la salamella in una teglia e rosolarla dolcemente con burro e rosmarino.
Sfumare con del vino bianco secco. Addizionare dei pomodori freschi o in scatola,
pelati e rotti con le dita. Sale e pepe. Portare a cottura a fuoco blando e coperto. Condire la pasta tramenando dolcemente dal basso verso l’alto con due forchette di legno.
Patate al forno
(le giudica eccellenti)
Prendere delle buone patate non troppo grosse e di misura uniforme. Lavarle bene
magari aiutandosi con una spazzola da cucina e non togliere la buccia. Fare un ta-
171
glio longitudinale senza dividere la patata. Nella fessura inserire una foglia di alloro
bagnata in acqua. Sistemare sulla placca del forno, irrorare con un filo di olio extra
vergine d’oliva e cospargere di sale grosso. Infornare a 180° per circa un’ora. Ritirare
le patate e disporle su un piatto da portata. Si mangia tutto.
Carciofi sulla griglia
Scegliere dei bei carciofi freschi e polputi. Ridurli alla sola parte edibile. Tagliarli a
metà e sbollentarli per qualche minuto (5 / 6) in acqua salata. Ritirarli con un mestolo
forato ed ungerli appena appena con olio extra vergine d’oliva. Cuocerli sulla griglia
rivoltandoli qualche volta.
Sistemarli su un piatto da portata e condirli con altro olio, sale e pepe.
Fegatelli di maiale (piatto che lui prepara il giorno della maialatura)
Prendere del buon fegato di maiale fresco, togliere la pellicina, nettarlo dalle vene
interne e tagliarlo a tocchi. Condire i pezzi con un misto di pane grattugiato, finocchio
selvatico, aglio, sale, pepe abbondante. Avvolgerli nella reticella ed infilarli in spiedini di legno alternandoli con foglie di lauro.
Cuocerli in una teglia con strutto abbondante.
Quelli che non si consumano subito possono essere conservati in un vaso ricoperti
dallo strutto. Si mantengono per mesi e si servono al bisogno.
Arrosto di maiale
Prendere un bel pezzo di lombata di maiale, nettarla, passarla sotto l’acqua corrente,
asciugarla accuratamente con carta da cucina. Con un coltello affilato fare delle incisioni in senso longitudinale alla distanza di circa 1 cm una dall’altra. Inserire in ogni
taglio una fetta sottile di rigatino ed un pizzico di misto fatto con sale, pepe, finocchio
selvatico, aglio, coriandolo (semirotto), senape più rosmarino e timo freschi. Legare il
tutto. Sulla superficie spargere ancora un poco di misto e lasciare riposare per un paio
d’ore affinchè la carne si compenetri dei sapori.
Sistemare la lombata in una teglia e fare rosolare con olio e burro sino a quando non
si sarà formata una bella crosticina. Versare mezzo bicchierotto di vino bianco e fare
sfumare. Aggiungere ora un poco di brodo di carne ed a coperto e con fuoco lentissimo cuocere per almeno un’ora e mezzo. Controllare la cottura ed aggiungere, se del
caso, altro poco brodo.
Ritirare, affettare e servire.
172
Peperoni alle olive
Prendere dei bei peperoni carnosi rossi e gialli, lavarli accuratamente, privarli dei
semi e tagliarli a strisce larghe un dito. Stufarli in padella con olio e poco sale. Quando
saranno morbidi e quasi cotti aggiungere delle olive nere tagliate a pezzi. Fare andare
altri cinque minuti e poi addizionare una manciatina di capperi ben dissalati precedentemente e spolverare con pane grattugiato. A metà cottura dare un tocco pungente con
un cucchiaio di aceto balsamico.
Oca selvatica arrosto
Il volatile gli viene assegnato - per competenza - da amici che vanno a cacciare in
Austria.
In considerazione del fatto che l’oca selvatica - a differenza di altri palmipedi dello
stesso tipo - ha uno scarsissimo sapore di pesce, è possibile cucinarla arrosto.
La si frolla preventivamente per alcuni giorni (3 o 4 a seconda del suo peso). Poi la
si lardella abbondantemente con rigatino e salvia battuti assieme ed infilati nelle fese,
quindi se ne cosparge l’esterno con sale e pepe. Preparare intanto un ripieno fatto con
pasta di salamella fresca abbondante e pane imbevuto di una miscela, in proporzioni
uguali, di latte e uova sbattute (almeno due queste ultime). Introdurre nella pancia e
richiudere con dello spago.
Cuocere allo spiedo, a fuoco vivo, pennellando di tanto in tanto, dapprima con olio
extra vergine d’oliva e poi con il fondo bruno che via via si raccoglierà nella leccarda.
A questo si dovranno aggiungere un paio di bicchierotti di vino rosso. Intanto che è al
giro, spolverare per un paio di volte con sale e pepe.
Occorreranno 5 o 6 ore. Portare in tavola il trionfo e scaldare al momento.
ooooo
La moglie di Leonardo, la prof. Sandra viene a salutarmi, siamo stati colleghi per anni
nella stessa scuola. Mi parla con sentita riconoscenza di due dolci che sono stati fondamentali nella crescita dei suoi quattro figli. Mi pare di capire che si tratta di un cospicuo bene di famiglia per cui non posso esimermi dal richiederle le ricette. Eccole:
Torta di mele
Porre in ammollo due generosi pugnelli di uva sultanina (quella grossa). Sbucciare un
kg di mele sode e spruzzarle di succo di limone e zucchero. In un mixer capace mettere 80 g di burro ammorbidito ed un hg di zucchero. Mescolare ed aggiungere due uova
intere. Fare andare lentamente ed addizionare poco alla volta 150 g di farina bianca
173
setacciata unitamente ad una bustina di lievito. Se il tutto non è sufficientemente fluido aggiungere poco latte. Ungere ed infarinare un tegame da torte e versarvi l’impasto
cospargendo la superficie con un poco di uvetta. Affettare sottilmente le mele - magari
aiutandosi con un robot - e fare un primo strato sulla pasta. Distribuirvi sopra l’uva
rimanente e coprire con il resto delle mele. Con grazia.
Versare sul tutto 40 / 50 g di burro sciolto e spargervi 50 g di zucchero. Per un ultimo
tocco raffinato distribuire in superficie poche noci tritate. In forno già caldo per circa
40 / 45 minuti.
Strudel
Preparativi iniziali:
-
Porre in ammollo 150 g di uvetta
-
Sgusciare qualche noce
-
Mettere sul fuoco un pentolino di acqua e portarlo ad ebollizione
-
Sbucciare 1 kg di mele e spruzzarle di limone e zucchero
-
In un tegame mettere 100 g di burro e quando è sciolto (non deve bollire) addizionare 80 g di pane grattugiato. Tramenare con un cucchiaio di legno per 3 minuti
Ci siamo.
In un mixer porre 250 g di farina bianca, un uovo intero, un cucchiaio di olio extra
vergine d’oliva, un pizzico di sale e poca acqua tiepida. Impastare. Levare questo impasto dalla macchina e metterlo sotto un pentolotto caldo ricoperto da qualche panno
da cucina. Per una sua ottimale elasticità, la pasta deve restarci almeno 20 minuti. Nel
frattempo accendere il forno.
Su un telo infarinato, con l’ausilio delle mani e del mattarello, stendere la pasta in un
velo sottilissimo. Ricoprirlo con il pane grattugiato, con le mele affettate finemente
con la macchina, le noci tritate, l’uvetta e completare con un hg di zucchero. Prendere
il telo da un capo e con pazienza arrotolarlo in modo che anche la pasta si avvolga su
sé stessa. Sistemare su una placca un foglio di cartaforno e metterci sopra lo strudel.
Completare con un velo di burro sciolto. In forno per 45 minuti. A cottura ultimata
estrarre, porre su un piatto da portata e biancheggiare con poco zucchero a velo.
174
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Archimede Zangrossi
Castellucchio
Mi sta aspettando. Ci siamo sentiti qualche giorno prima al telefono. Nel corso di una
lunga ed appassionata conversazione abbiamo accertato che siamo in perfetta sintonia
con la valutazione delle cose del mondo, degli sconvolgimenti che turbano la nostra
terra, dei tempi oltremodo difficili per la nostra società contadina ivi compreso il profondo e sentito rammarico per l’arte masalina che va scomparendo.
La porta è socchiusa, suono il campanello e lui viene fuori sorridendo. Non alto di
statura, figura magra e giovanile (80 suonati), sguardo penetrante ed indagatore come
si conviene ad un uomo di estrazione contadina nei confronti dell’estraneo, mi fa accomodare nella sua bella abitazione.
Il padre Aldo era bracciante e d’inverno, con i lavori dei campi fermi, cercava di raggranellare qualcosa arrabattandosi con la pratica norcina. Era davvero bravo anche
perché aveva appreso tecniche e procedimenti dal cugino Luigi Gerola. Archimede a
12 anni, subito dopo la guerra, seguiva il padre in questo lavoro. Aiutava come poteva
a disossare, tagliare le carni, macinare con la macchina a mano, a sbrattare i tavoli
sporchi di grasso e di sangue. Lui è appassionato ma cerca con insistenza un posto che
gli dia una paga per tutto il tempo dell’anno.
È svelto, capace, di pronta intelligenza ed ha voglia di dimostrarlo. All’età di 17 anni
è masalìn finito e comincia sostituire il padre. Ricorda con orgoglio che il sabato, in
paese, si faceva un po’ di festa. Il padre lo mandava allora presso la famiglia dove
era stato ingaggiato, ad uccidere il maiale per averlo pronto la domenica. Quando le
donne della corte (gli uomini erano quasi tutti fuori) si vedevano arrivare un ragazzino minuto gli dicevano, sorridendo, sta atenti cat magna (stai attento che ti mangia).
Entrava nello stalletto, spingeva fuori il maiale con prudenza e delicatezza, lo calmava
e quindi con un colpo secco di baionetta lo giugulava. La bestia si accasciava e piano
piano moriva.
La sua famiglia abitava a Grazie, paese vicino al Lago Superiore di Mantova, e lui
sapeva condurre con perizia le tipiche barche locali dal fondo piatto nel labirinto dei
numerosi canali che si snodavano nella fitta vegetazione fatta di arbusti, canne palustri
176
ed erbe. Portava a caccia il sig. Lino Levoni della omonima azienda di Castellucchio.
Un giorno fattosi coraggio, gli chiede se fosse stato possibile essere assunto presso la
ditta. Il sig. Lino aveva avuto modo di apprezzare le sue belle qualità e conoscendo
anche la sua esperienza nel campo della maialatura, non ha esitazioni e gli dice di
presentarsi. Così, a soli 17 anni Archimede entra in uno dei più rinomati salumifici
italiani. Era il settembre del 1949. Il sabato pomeriggio e la domenica continua per
anni la sua attività di norcino.
Nella Levoni si fa strada e giunge negli anni a sostituire l’addetto alle conce licenziato
in modo piuttosto brusco dopo un’ennesima disattenzione. Il sig. Lino lo ammonisce:
“Èt vist cal là. Se a ta stè mia atenti at fè la stessa fin”.
Tira fuori un blocchetto di appunti vecchio come il cucco, una sorta di Tavole della
Legge, ove sono scritte le proporzioni degli ingredienti per i vari prodotti. Di questi
ultimi mi elenca, con malcelata compiacenza, una lunga sfilza: ungherese (un caposaldo, ricercatissimo da sempre), paesanella, abruzzese, Fabriano, nostrano mantovano,
Felino (nel budello gentile), Napoli e Mugnano (un poco affumicati), sopressa veneta
(insaccata nella bondiana, budello di manzo). S. Angelo (piccolo e pregiato), speck,
mortadella, et cetera, et cetera, et cetera.
Come era possibile produrre questa gamma di insaccati offrendo al consumatore la tipicità di ciascuno di essi ? Era cosa complessa ma anche semplice. I rappresentanti residenti nelle varie regioni italiane, portavano campioni e conce dei loro prodotti locali
più richiesti. In ditta venivano analizzati a fondo, replicati e testati più volte assieme ai
rappresentanti stessi che, dopo assaggi scrupolosi, suggerivano eventuali correzioni.
Per sapienti approssimazioni successive si raggiungeva la formula ottimale. Si approntava allora una produzione di lancio che era consegnata ai piazzisti affinchè fosse
distribuita presso i principali negozi della loro zona. Ma ritorniamo alla dea Maia.
Al buio arrivavano lui ed il padre. Il giorno prima alla bestia non era stato dato niente
da mangiare sia per diminuire la massa nei budelli e sia per invogliarlo a venir fuori
dal porcile. La donna che abitualmente gli portava la şota andava avanti con il solito
secchio. Appena uscito lo si arpionava per la gola con al rampìn per tenerlo fermo ed
il più rapidamente possibile lo si ribaltava. Le gambe davanti avevano meno forza
di quelle dietro e proprio queste erano afferrate da due uomini robusti. Seguiva all’istante l’uccisione con una baionetta. Non era tanto importante colpire il cuore quanto
tagliare l’aorta principale. In pochi momenti moriva.
A quel tempo le donne erano solite raccogliere il sangue per fare le morette. Queste
richiedevano però una elaborazione complessa, piuttosto brigosa, che avrebbe allungato di parecchio il tempo di lavoro con compromissione dell’ora della cena, attesa
con gioia da tutti. Sorridendo mi racconta che in queste occasioni, con un’occhiata
complice fra loro, mettevano in funzione una scappatoia di pragmatica concezione
contadina: mentre la donna raccoglieva il sangue davano un colpetto al maiale morente il quale reagiva con un sussulto delle gambe davanti tenute astutamente libere. Il
recipiente riceveva uno scossone che faceva fuoriuscire buona parte del liquido. Meno
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sangue, meno morette, meno tempo per arrivare con i piedi sotto la tavola.
Seguivano le solite operazioni di lavatura, eliminazione delle setole, sollevamento al
picaröl ed evisceramento. Prima di alzarlo si pulivano bene i piedi e la testa, operazione più agevole con il corpo a terra che non appeso. I budelli erano subito sgrassati,
rivoltati affinchè l’impasto degli insaccati non venisse a contatto con la parte interna,
più sporca, e lavati varie volte con acqua ed aceto. Le donne cucivano i budelli. Il
gentile e la bariöla erano destinati ai salami mentre le budelline venivano aperte per la
lunga tramite un coltello con un fagiolo infilzato nella punta. Tali strisce si tagliavano
poi trasversalmente, alla distanza di circa 25 - 30 cm. (la lunghezza di un insaccato)
e poi, tre a tre (tri fet) cucite assieme. Si ottenevano così gli involucri dei salami. Dal
gentile sino alla bariöla si ricavavano invece i budelli per i cotechini.
A metà mattina un poco di sosta. I due mezzi venivano portati dentro casa e stesi
sull’asse della pasta mentre le donne portavano in tavola la fritüra, la polenta ed il
vino nuovo. Finita la colazione con dignità di pranzo, si tagliavano a pezzi le carni
distinguendo quelle per salami, cotechini, morette, coppe, pancette ecc. Esse erano
disossate, mondate dai nervi, dalle parti sanguinose e dal grasso molle con il quale si
facevano le grepule, in italiano ciccioli, ma è versione asettica, senz’anima. Ci voleva una persona esperta. Si mettevano i pezzi nel paioletto di rame con in fondo un
paio di mestoli di acqua per avviare la cottura e quindi si facevano andare a fiamma
non troppo alta. Il grasso si scioglieva e diventava l’unt (lo strutto). Man mano lo si
raccoglieva e si versava in recipienti di terracotta. Alla fine si levavano - operazione
da fare in pochi secondi per evitare di bruciare tutto - i pezzi ormai bruniti, le grepule
appunto. Prima che diventassero fredde si salavano e si addentavano con soddisfazione perché erano le prime dopo un anno di attesa.
Si riducevano le carni e le cotiche (con un coltellaccio) a strisce per lavorarle meglio.
Si macinava con la machina e si metteva l’impasto nella meséta e si spargeva sopra la
concia ed il vino agliato. Il tutto era lavorato a lungo, voltando e rivoltando, ed “arandolo” con le dita. Nel cotechino finivano le parti meno nobili e le carni della testa.
Parliamo della Fiera di Grazie. È da secoli un caposaldo della sacertà mantovana, un
luogo ed un momento nei quali si coniugavano la religiosità del contado e la voglia
di festa, a mo’ di compenso per le tante tribolazioni patite durante l’annata. Lungo la
strada che porta al santuario ci sono ancora oggi i banchetti che offrono merci di ogni
genere ma soprattutto pane e cotechino fumante. Per quel giorno, pane e cotechino
rappresentano realisticamente la dimensione popolare della fede. Su enormi vassoi
di terracotta (oggi di acciaio) vengono esposti dei monumenti di sei, sette chili sezionati a bello studio così da mostrare le soavità interne, fumanti, dense ed appiccicose,
pronte al sacrificio. La fiera si tiene d’estate quando c’è molto caldo ed i cotechini
sono preparati due o tre giorni prima. Per l’occasione vengono macellati una ventina
di maiali.
Finiamo con un panoramica sui nostri acciacchi. Ci confidiamo, con reciproca comprensione, le rispettive magagne. Mi fa vedere il frigorifero, origine perfida di tanti
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incomodi. È pieno di cose buone che lui, solamente per non buttarle via, si intende,
ogni tanto addenta con successiva arrabbiatura delle figlie.
Mette sul tavolo un cartoccio pieno di grepule. Sono salatine ma pastose al punto giusto. Mi appaiono come un Satana sotto la specie di tocchetti sodi e deliziosi, venati di
carne e di grasso. Per una volta non mi perito di effondere con il maligno.
CONCE
Salame
Sale (una volta) 3 %
Salnitro 20 g / q
Pepe nero in polvere 100 g / q – a mezza grana 150 g / q
Aglio 2 teste / q (tagliuzzato prima con un coltello, addizionato di sale già pesato e
poi ridotto in panàda (in poltiglia) con il dorso di una bottiglia.
Droga 25 g / q (chiodi di garofano, macis, cannella, pepe garofanato)
Noce moscata 25 g / q ridotta in polvere
La concia va sparsa sull’impasto disteso nella meséta ed introdotto con le dita scendendo fino al palmo e quindi va rivoltato e pugnato sino a quando un gnocchetto
sbattuto sul palmo della mano posta in verticale vi resta attaccato.
Coppa
Stessa concia del salame. Va sparsa e premuta in modo che penetri in profondità. Lui
la metteva al fresco, ma non al frigido, tra i vetri e gli scuri di una finestra. La insaccava nella vescica dopo due giorni. Ritornava nelle famiglie per questa operazione ed
anche per macinare il grasso da conservare in recipienti di vetro o di terracotta.
Cotechino
Sale 3,5 %
Salnitro 20 g / q
Aglio poco, ad occhio
Pepe 100 g / q in polvere (come per i salami)
Noce moscata 30 g / q
Chiodi di garofano in polvere 20 g / q
Spezie 20 g / q
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Pancetta
Sale bianco e salnitro 3 %
Quando si arrotola, si mettono all’interno, in proporzioni quasi a piacere, chiodi di
garofano, cannella, pepe, noce moscata, aglio ecc.).
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El Santì e la scuola di Cereta
Cereta è un piccolo paese, frazione di Volta Mantovana. È situato all’interno della
campagna ai piedi delle colline moreniche ma dista poco dalla provinciale per Brescia.
Non vi sono industrie, i laboratori artigianali sono pochi e di modeste dimensioni, la
vita della comunità ha il suo riferimento nella storica osteria dei Ferri, famosa per i
capunsei della signora Lidia.
I ceretesi vivono ancora oggi una vita semplice, di tipo direi patriarcale con echi
evidenti di una lontana quiete arcadica, in conclamata dissonanza con la concitazione
dei nostri tempi e proprio per questo ricca di fascino per chi ricorda il passato con
qualche rimpianto.
Nel secolo scorso, a cavallo dell’ultima grande guerra, dopo l’11 novembre data
canonica per l’inizio delle maialature, non era inconsueto vedere un uomo mingherlino
e di bassa statura, avanzare per le vie del paese con la machina di salàm sulle spalle
ed un borsone (o un carrettino ad una stanga con due ruote da bicicletta) con dentro
gli attrezzi del mestiere. Era Delchi (corruzione dialettale di Adelchi) Bonani, masalìn
che in inverno andava da una famiglia all’altra a far sõ él pursèl.
Era bravo ed aveva sempre qualcuno che lo seguiva per addentrarsi nella pratica e
carpire i segreti delle spezie. Delchi aveva avuto due figli: Rino e Sante. Il primo
faceva l’operaio mentre il secondo era contadino ma toccato intimamente come il
padre dalla rivelazione masalina.
Sante, inteso da tutti come el Santì, si avvia all’arte ed in breve tempo acquisisce
grande fama. Era richiesto in tutta la zona. Piccolo anche lui ma di forte personalità ed
eccezionalmente capace, doveva talvolta rifiutare le molte richieste di giovani, quasi
sempre manovali edili, disponibilissimi ad aiutarlo. Era questo un modo allora per
praticare un secondo mestiere e tirare avanti.
Vado a Cereta a raccogliere elementi certi da uno dei suoi più cari allievi: il sig.
Giannino Primon, ben oltre i settanta ma ancora di piglio giovanile. Mi accorgo che
per lui ricordare questi aspetti del suo passato è un affettuoso ritorno ad una passione
antica.
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Giannino è andato famei (famiglio) all’età di 12 anni dopo una lunga tribolazione
infantile per via della tus canina. Verso i 17 - 18 inizia la sua attività di norcino.
Diventa masalìn completo pronto ad assumersi le relative responsabilità sui 25 anni.
Andava nelle case in motocicletta con la machina di salàm fissata dietro ed i coltelli e
le spezie in un cesto davanti.
Mi accoglie sulla porta e mi conduce ad un tavolo dove è già pronta la cosiddetta
“ospitalità” e cioè un piatto colmo di fette di salame ben presieduto da una impettita
bottiglia di vino nostrano, senza pretese ma di sapida bontà rusticale. Le immagini si
affollano nitide e ricche di particolari.
Entra da giovane nella cerchia del Santì che allora portava con sé, a dare una mano
sapiente, il padre Delchi di 83 anni. Mi dice che questi era magro come il figlio, era
ancora abile ed efficiente e teneva sempre il coltello tra i denti. Apprende da entrambi.
Santì era di una rapidità eccezionale, curava meticolosamente le carni, mangiava poco
e, dopo la fritüra di metà mattina, si alzava da tavola con sollecitudine perchè il lavoro
veniva prima di tutto. Per i maestri allora c’era un grande rispetto. Santì capiva che la
lavorazione era allo stesso tempo fatica ma anche insegnamento per cui ne spiegava
con ogni dettaglio i passaggi più difficili.
Non rimproverava, era comprensivo ma anche di polso fermo quando occorreva. Non
faceva mai violenza al maiale perchè altrimenti “il sangue restava dentro”, le carni
diventavano scure e quindi meno gradevoli al palato. La uccisione avveniva tramite
el scupìn, cioè una specie di grosso chiodo dalla larga cappella fissato trasversalmente
ad un tondino di ferro lungo più di mezzo metro che fungeva da braccio. L’aiutante
appoggiava la punta sulla fronte della bestia ed il masalìn con un colpo preciso della
mazza di legno gliela ficcava dentro. Tramortita, la si scannava e dopo averne levate le
setole si issava sul “becaröl”, un trave orizzontale con dei fori nei quali si infilavano
cavicchi di legno per fissare alla giusta distanza le gambe aperte.
Santì è stato il creatore di uno stile di lavoro, di una metodica di procedimenti, di
scelte e proporzioni delle conce che hanno avuto molti discepoli. Nel tempo infatti era
venuto a formarsi un gruppo ragguardevole di abilissimi artigiani della maialatura per
cui parlare di una vera e propria scuola è ampiamente giustificato.
Consegno i loro nomi alla storia del contado mantovano: Giannino Primòn, Gino
Vagni, Enzo Cavallara, Arnaldo Federici, Gaetano Gobbi, Luigino Pasquali.
Il senatore Renato Colombo di Mantova era solito farsi fare i salami a Cereta.
Ho finito, esco nel cortile e vedo qua e là parecchi gatti. Mi sorprendo e chiedo alla
signora Claretta, moglie di Giannino, da dove arrivano. Mi spiega che vengono portati
da coloro che vogliono disfarsene (sic). Insisto: ma non sono troppi ? La risposta: e
alura, cusa s’ha da far ? La traduzione in italiano sarebbe “e allora, cosa si deve fare”
ma è insignificante, inespressiva, ottusa. Manca il sentimento forte ed ineludibile della
perenne solidarietà contadina, della difesa della vita, di ogni vita.
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Franco Boccazzi Guidizzolo
L’intervista al Boccazzi mi riesce particolarmente ardua e laboriosa. I suoi 67 anni
traspaiono dalla sua incipiente logorrea – per il resto è un giovanotto - che mi impone frequenti soprassalti autoritari per circoscrivere, contenere, ricondurre il discorso
all’essenza del tema. È stato ambulante e verosimilmente qualche giacenza di parlantina facile e debordante gli è rimasta attaccata alla lingua. Quando racconta è un fiume
in piena e anche il più piccolo particolare si trasforma d’acchito in una descrizione
straripante di annessi e connessi. La sua vita è una storia emblematica delle afflizioni
della campagna.
Franco, da giovane, ha vissuto infatti la sofferenza che caratterizzava il lavoro nell’immediato dopoguerra. D’inverno non c’era molto da fare, le entrate scarseggiavano, il
conto con il bottegaio si allungava paurosamente e perciò, oltre all’attività abituale,
si dava da fare come masalìn nelle famiglie del contado. Emerge in tutta la sua tangibilità lo spirito di adattamento proprio degli uomini di una volta e dei guidizzolesi in
particolare. Era una peculiarità, il portato di un’educazione antica dove la privazione e
la parsimonia erano presenze quotidiane in ogni famiglia. Si iniziava da giovanissimi
a percorrere la via aspra della vita, senza mai scadere nella disperazione di fronte alle
difficoltà.
Franco Boccazzi ha cominciato a 9 anni a lavorare come marangone presso la ditta
Cagioni, Tomasi ed Anversa - mobili ed infissi - molto nota ed apprezzata in tutta la
zona. La sua paga era di 500 lire alla settimana corrispondenti a 0,25 centesimi di euro
che lui però vedeva molto raramente perché i titolari andavano ogni giorno e ad ogni
ora – la segatura, si sa, è terribile per la gola - all’osteria della Via de Mès (via Chiassi)
a fare qualche gargarismo curativo.
Apprende l’arte masalina all’età di 24 anni seguendo il suo amico Remo Cagioni,
operaio presso la IAG di Gazoldo. Dopo due anni è maestro finito e va nelle case a
far sö el pursèl da solo o con qualche aiutante occasionale. È molto richiesto per la
attenzione, la bravura e le conce.
183
Mi fa vedere un braccio tormentato. Una volta, per un brusco scarto dell’animale al
momento di sparargli il chiodo per tramortirlo è stato ferito profondamente dal polso
al gomito. Si è legato alla bene e meglio con una corda, si è coperto con un giubbetto
impermeabile ed ha continuato il suo lavoro. La descrizione dell’episodio cruento non
mi ha sorpreso più di tanto. Molti anni fa, nelle nostre zone, non c’erano tempo né
soldi per farsi curare dal dottore per cui le famiglie abituavano a sopportare anche i
dolori più lancinanti. Era un’educazione spartana che forgiava alla vita di allora, rude
e senza fisime ma illuminata da grandi valori umani e religiosi.
Ricorda anche, ma lo fa a stento, con fatica, che una famiglia gli aveva commissionato la lavorazione di tre maiali nello stesso giorno. Lo stalletto era posto un poco in
alto e per accedervi si dovevano salire tre gradini. Ha fatto subito presente che poteva
esserci qualche pericolo ma non c’è stato verso di convincere il proprietario. Allora è
andato su, è entrato nella porcilaia e con la pistola sparapunte ha ammazzato il primo,
poi ha ucciso anche il secondo ma quando ha tentato di abbattere il terzo questo gli
si è scagliato contro e prendendolo con il grugno in mezzo alle gambe lo ha sbattuto
violentemente contro il muro. Riuscito a malapena a sfuggire ad altri assalti, non si è
dato per vinto perchè bisognava guadagnare la giornata. Rientrato nel porcile, appena
ha potuto ha sferrato nel ventre, quasi a casaccio, una coltellata veemente. La pena è
durata quasi mezz’ora.
Arrivava al mattino presto che c’era già tutto pronto: al becaröl per issare il maiale,
al paröl con l’acqua caldissima, la botula ‘d paja per tenere sollevata la bestia e levarne le setole, i tavoli per la lavorazione, i canovacci, la grande padèla per cuocere
la colazione ecc.
La mattazione avveniva in modo decisamente violento, difficile persino da narrare.
Appena tirato fuori dallo stalletto veniva inferto al maiale un colpo violento cun l’occ
dal manarìn (con il retro di una scure, là dove è infilato il manico) sulla fronte. Era
necessario essere svelti e decisi. La bestia era tramortita e quasi immobile. Bisognava
immediatamente scannarla e darle la morte. Altro procedimento: in quattro, uno per
gamba, tenevano fermo il maiale su un asse robusto e lui con un ferro lungo ed acuminato (al scupìn) lo corava stando attento - pietà pelosa - a non invadere la zona della
spalla per non rovinarne la carne.
Pulita alla meglio con ripetuti secchi d’acqua fredda dallo sporco superficiale, veniva
sistemata su una botula ‘d paja, una balla di paglia, e quindi pelata versando acqua
bollente (insiste sull’aggettivo ‘bollente’ che mi sconcerta un poco) sulla cotica e
raspando le setole con il solito raschietto. I peli residui, soprattutto quelli della testa,
erano eliminati bruciandovi sotto della carta, quasi sempre dei vecchi giornali tenuti
in serbo per la bisogna. Dice che faceva un certo senso vedere la testa tutta annerita.
Sembrava il diavolo.
Agganciato poi il maiale ai tendini delle zampe posteriori e fissato ad una traversa
di legno con dei fori per tenergli dilatate le gambe, era sollevato da terra. Si tagliava
dall’alto in basso per la parte ventrale e quindi si estraevano le budella, subito passate
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ai lavoranti per la pulizia, mentre la corata (polmoni, milza, cuore, fegato ecc.) veniva
estratta, lavata, ridotta a tocchetti o fettine e messa a disposizione delle donne per la
fritüra, la deliziosa ed affascinante colazione di metà mattino.
La descrizione delle fasi successive e cioè la scelta delle diverse carni per i vari insaccati, la macinatura delle stesse, la concia, la insaccatura e la legatura non differiscono
sostanzialmente dalla modalità comune a tutti masalìn della zona.
I suoi criteri personali per l’uso della màchina di salàm erano questi: piastra del 10 per
i salami, piastra iniziale del 18 (tre fori) per i cotechini per poi passare a quella dell’ 8
e ripassare una seconda volta con lo stesso diametro.
Il suo repertorio: salame, coppa, pancetta, cotechino, fiocchetto, speck. Drizzo le
orecchie: anche lo speck ? Risposta: si parché a gò la màchina par al füm.
CONCE
Salame
Sale 2,8 – 3,0 (una volta, ora 2,2 al massimo)
Pepe a mezzagrana g 150 per q.le di impasto
Vino una bottiglia di vino rosso corposo per q
Aglio tre teste per q di impasto. L’aglio va sminuzzato, immerso nel vino rosso la
sera prima, strizzato con un panno sull’impasto stesso. I residui di aglio vanno messi
nei cotechini.
Spezie (noce moscata, chiodi di garofano, cannella) ad occhio, una bella pizzicata.
Cotechino
Come per il salame ma con maggiore sale, aglio e spezie.
Coppa
Se si concia nello stesso giorno mettere a bagno con vino rosso condito con il 2,5 %
(peso della carne) di un bel misto di sale, spezie, aglio, pepe.
Pancetta
Non modifica sostanzialmente la sua dottrina aromatizzante. Modifica leggermente
le quantità: tenere per qualche ora in salamoia con vino, sale 3 % e, ad occhio, pepe,
aglio, poche spezie.
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RICETTE
Porchetta
Mi descrive il procedimento con la precisione e lo scrupolo che gli sono propri. Lui
prende un maiale di circa cinquanta chili. Lo netta bene come per la maialatura e
quindi lo disossa accuratamente stando bene attento di non intaccare la cotica. Lo
condisce con:
-
-
-
-
-
-
-
sale 1,5 % del peso vivo
pepe ridotto in polvere nella proporzione di un etto per q
tre cipolle bianche mondate e tagliate a tocchi.
rosmarino (gli aghi di due bei rametti).
un misto di erbe e spezie di sua produzione segretissima, una brancatina
2 etti di burro a cubetti
Il succo di un limone.
Infila e sparge il tutto, ben mescolato, all’interno. Chiude la pancia con ago grosso e
cordino, lega con dello spago e vi avvolge attorno infine una corda grossa, speciale,
elastica, che stringe continuamente anche durante la cottura. Infila tra questa e la cotica dei rametti di rosmarino per rendere più saporito l’esterno.
Porta la porchetta al forno dei Nosari di Guidizzolo (mi informa in assillante continuazione che sono bravissimi) dove viene passata a calore non troppo alto per sei – sette
ore. Dopo due ore il fornaio bagna la meraviglia e la placca che la contiene con due
bottiglie di vino bianco secco.
Secondo i suoi calcoli - sempre meticolosi neh - se da viva pesa 50 chili, disossata ne
pesa 27 e cotta 18.
Ad operazione ultimata toglie il rosmarino messo all’esterno e lo sostituisce con altro
bello, verde, fresco. Perché, chiedo io ? Al fa pu sé bèl vedàr. È più bello alla vista.
Porta alla compagnia, riscuote l’applauso, affetta, serve.
La spiegazione è talmente appassionata e fervida che sono affascinato, commosso. Mi
sembra di essere seduto anch’io là, alla tavola amicale, sorridente e con la forchetta
brandita. Il masalìn Boccazzi, vede il mio turbamento e, svelto di comprendonio, si
immedesima. Mi assicura che provvederà.
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La compagnia del fil de fer
A Castiglione Mantovano, piccolo centro della provincia ai piedi delle colline, si è
costituito un gruppo di giovani che rivive - con l’entusiasmo che è proprio dell’età
- le atmosfere che animavano le comunità contadine di una volta, fatte di impegno e
sacrificio ma anche della gioia di stare assieme dopo il lavoro o nei giorni di festa.
Si sono dati il nome di “Compagnìa del fil de fèr”, storico appellativo delle vecchie
brigate nostrali.
Con il loro dinamismo sono diventati ormai il fulcro della vita del paese, sono attivamente presenti con spirito di servizio, ad ogni incontro sociale ed amano ritrovarsi
escogitando forme singolari di interesse comune. Non vogliono perdere insomma la
dimensione naturale dell’uomo, quel meraviglioso sentimento popolare fatto di amore
per le cose semplici, di schiettezza, di simpatia e, soprattutto, di amicizia.
Ho avuto notizia della loro esistenza facendo ricerche in tutta la provincia per la stesura di questo libro.
Proprio ora che l’arte della norcineria sembra soccombere agli attacchi perversi della
modernità, appaiono improvvisamente dei bravi ragazzi che sia pure con modalità
moderne riscoprono le nostre più autentiche tradizioni comunitarie. Al tempo della
maialatura anch’essi “fanno su al pursèl”, guidati da qualcuno di loro che ha avuto
qualche momentanea esperienza specifica. Alla fine si spartiscono un paio di salami
a testa, un cotechino, qualche grépula ed un paio di pancette arrotolate da degustare,
tutti assieme ovviamente, in qualche bella sera d’estate.
Non sfugge certamente il risultato vero di questo impegno. Esso non si esaurisce infatti in quello che si porta a casa ma in ciò che resta nel cuore e cioè il vivo ricordo di una
giornata trascorsa in sana allegria tra risate, battute, simpatici sfottò e qualche cantata.
Con gagliarda appendice finale della fritüra, monumento della cucina rusticale.
Si capirà facilmente che quel salame, quel cotechino, quel cartoccetto di grepule, non
sono il portato della perfezione masalina, hanno più di una perfida pecca ma possiedono tuttavia un gusto di gran lunga superiore a qualsiasi altro cibo che arriva sulla
tavola. C’è dentro un sapore particolare: l’inappagabile piacere che hanno tutte le cose
fatte assieme e con le proprie mani.
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I masalì di Gozzolina
Mi sembra di essere ritornato in cattedra. È una sensazione forte, intensa che mi tocca
di dentro perché mi riporta indietro di parecchi anni: davanti a me c‘è il gruppo dei
masalì (nella parlata locale cade la consonante finale) di Gozzolina, una frazione
di Castiglione delle Stiviere, posta ai limiti settentrionali della morena mantovana.
Anziani e giovani, maestri ed aiutanti, sono accomunati dalla imperativa passione
della norcineria. Capeggiati dal solerte Maurizio Fezzardi, si sono dati alla resistenza
ed hanno formato un sodalizio vivo e volenteroso che anima le feste della comunità
e che allieta, come una volta, il desco della famiglie. Sono degni del lauro. Eccoli:
Amedeo Scandolara.
Ha cominciato a 9 anni in una macelleria di Casalmoro. È qui da tre anni e si trova
benissimo in questo contesto rusticale. Realizza salami, coppe, pancette e cotechini.
Cura particolarmente la qualità.
Dionisio Bonati.
Inizia a sette anni ad aiutare nelle operazioni. Mi mostra con un certo orgoglio un dito
accorciato da un incidente alla machina di salàm. Ha lavorato circa 900 maiali.
Samuele Trebeschi.
È norcino completo da due anni. Ci tiene a farmi sapere che è un risottaro a la pilota.
Cuoce questo piatto senza il coperchio ma con solo un panno sopra la pentola. A 6
anni collaborava preparando l’aglio.
Maurizio Fezzardi.
Tiene unito il gruppo. Da piccolo aiutava il padre. Prepara anche il fiocco e la lonza
insaccata. Attento e generoso, affetta con maestrìa. È molto attivo e benvoluto. Tiene
molto alla vita sociale della collettività.
Maurizio Treccani.
Inizia a 14 anni con il cugino Luciano Mondelli. Sono sempre assieme. Nel suo
repertorio vi sono anche l’osso dello stomaco (la carne migliore) e le costine
insalamate.
Daniele Piazza.
Comincia a 10 anni con il padre. Talvolta uccide con la pistola ma preferisce le
mezzene già pronte. Nell’osso dello stomaco mette la carne del cotechino. Fa anche curiosità assoluta - il cotechino con dentro la coda.
Enrico Novazzi.
Per 40 anni ha fatto il macellaio, ora fa solamente il masalì. È un’attività piuttosto
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ridotta, per poche famiglie di amici e parenti ma gli piace moltissimo. Produce la noce
con la carne conciata e poi insaccata.
Giuseppe Zilio.
Apprende l’arte all’età di 16 anni con Luigi Morandi. Si appassiona subito ed è pieno
di intimo fervore per rito della maialatura. Nell’elenco delle sublimità annovera anche
il culatello.
Giacomo Treccani.
È un personaggio molto interessante. È reso curioso da un paio di baffi a manubrio di
taglio ottocentesco. Alleva maiali e bovini. Vive il baldachì con lo stesso atteggiamento
dei nostri nonni: la sicurezza, la certezza di avere a disposizione quanto occorre per
mantenere la famiglia e per superare le difficoltà. Un tempo era un’affanno, quasi
un’angoscia e lo capisco perfettamente. Sollecitato, immagino, da questo nobilissimo
sentimento prepara ogni anno una pancetta con cotica di quasi quindici chili. Sono
sorpreso ed ammirato. Nasce un impegno.
Amedeo Scandolara
Dionisio Bonati
Samuele Trebeschi
Maurizio Fezzardi
Maurizio Treccani
Daniele Piazza
Enrico Novazzi
Giuseppe Zilio
Giacomo Treccani
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La fritüra
La fritüra è la colazione tipica di metà mattina dei partecipanti (masalìn, assistenti e
familiari) alla lavorazione del maiale domestico. Sia pure con qualche variazione, con
qualche adattamento locale, è quasi la stessa in tutto il mantovano e dintorni.
La sua ricetta, se letta in filigrana, ci dice molto dei tempi passati, delle ristrettezze
storiche della campagna ma anche della capacità delle donne di casa di porre sul desco
cibi meravigliosi.
Appartiene incantevolmente alla cucina del quinto quarto. Per gli ingredienti che la
compongono potrebbe sembrare un piatto volgare ma non è così. La miscela di sapori
diversi ma aventi tutti la stessa origine, il maiale appunto, e la freschezza della materia prima, riescono ancora oggi ad illuminare anche i palati più esigenti e sofisticati.
Ritengo che a questo concorra in misura rilevante l’ineludibile condizionamento del
“gusto originario” vale a dire quell’imprinting alimentare (si leggano le conclusioni
dell’etologo Conrad Lorenz) acquisito nella primissima infanzia e che accompagna
ciascuno di noi per tutta la vita.
È così rituale, tipica e corrispondente all’atmosfera viva e cordiale della giornata, che
ho ritenuto opportuno raccogliere le ricette ricevute in un capitolo specifico.
Ritengo interessante evidenziare, sotto il profilo della sociologia rurale, come nell’ambito dello stesso piccolo paese la ricetta potesse subire delle varianti significative. Porto ad esempio due cuoche di Cerlongo: la signora Teresina Gaetti (nata il 18 marzo del
1923, tiene a precisare) e la signora Adalgisa “Cisa” Pistoni certamente più giovane,
che teneva un “ambiente” cioè una osteria-trattoria.
Teresina Gaetti: reticella e cipolla iniziali, poi caren mate e polmone, quindi, verso
la fine, fegato, sale e pepe.
Adalgisa Pistoni: tutto a freddo reticella, caren mate, cipolla, burro abbondante, vino
bianco, pepe. Fare andare per oltre un’ora, quasi due. Verso la fine il fegato ed un poco
192
di dado (contaminazione recente). Niente sale.
Un esempio di come si cucinasse questo piatto già nei secoli scorsi, potrebbe essere
quello riportato nel capitolo “Il maiale nella letteratura”, nel brano dell’autore Agostino Romoli con il titolo “un paracuore in potaggio”.
Cerlongo
Qui si chiama fretüra. La formula è tratta dal libro “La cucina cerlonghina”.
Ingredienti: caren mate (animelle, ghiandole, minutaglia, carni non adatte per salami
o cotechini ecc.), cipolla, redesèl (reticella), polmone, fegato, una spanna di filetto,
sangue di maiale, salvia, vino bianco, rosmarino, sale, pepe, limone.
Esecuzione: in un grosso tegame fare un soffritto con la reticella, le caren mate e la cipolla. L’omento sciogliendosi fornisce il grasso necessario. Poi si aggiunge la salvia,
il rosmarino ed il polmone tagliato a pezzetti e si fa cuocere il tutto per un’ora abbondante, bagnando ogni tanto con il vino bianco. A metà cottura unire il filetto tagliato a
fettine, salare e pepare secondo gradimento. Quando siamo quasi alla fine si aggiunge
il sangue cotto ed il fegato tagliati a fettine. La fretüra si serviva con polenta fresca.
Qualcuno vi spruzzava sopra qualche goccia di limone.
Cottura del sangue: si raccoglieva il sangue del maiale in una pentola e lo si cuoceva
con acqua calda leggermente salata. Quando era ben coagulato lo si estraeva con un
mestolo forato e, posto sull’asse da cucina, lo si affettava o lo si riduceva a pezzi.
Ceresara (formula del masalìn Zeno Roverato)
Il sig. Roverato ha delle convinzioni ben precise su questo piatto e sul come veniva
cucinato nel suo paese. Ritiene infatti che le carni del maiale fresche, come lo sono
appunto nel giorno della maialatura, abbiano un sapore ed una fragranza importanti
e particolari che sarebbe colpevole alterare con cipolla ed altri ingredienti. La fritüra
era cotta dalle donne intanto che il masalìn ed i suoi aiutanti stavano nella stalla (un
po’ al caldo) a pulire i budelli. Mentre l’intingolo si cuoceva, si mettevano i piatti lungo il corrimano della stufa così da riscaldarli bene e contrastare il freddo che tendeva
a coagulare piuttosto rapidamente la parte grassa della fritüra.
Ridurre in piccoli pezzi l’unto del surrene (sunşì), e sciogliere lentamente nella grande
padella (non si usa la reticella), quando inizia a liquefarsi aggingere le caren mate e il
polmone (curada) tagliati sottilmente.
Cuocere a fuoco lento per circa 40 minuti, aggiungere il fegato e il filetto a fette sottili
e terminare la cottura (10 minuti circa).
Il sale e il limone viene messo a piacere direttamente nel piatto..
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Schivenoglia (formula della signora Anna Maria Riccardi, moglie del masalin
Silvano Buoli)
Mettere in una ampia padella di rame della reticella con molta cipolla affettata finemente. Quando il tutto si è ben cotto (ma non rosolato) unire le ghiandole della gola,
un filetto affettato finemente ed abbondante fegato nettato e ridotto a pezzi. Aggiungere rosmarino, alloro, salvia, poco aglio, pepe, garofano, cannella. Gli ingredienti vanno messi tutti contemporaneamente nel tegame. Non essendoci il polmone, il
tempo di cottura è piuttosto breve per cui il fegato non diventa duro. Niente vino chè
tenderebbe a rendere coriacea la pietanza.
S. Giacomo Segnate (formula della signora Tersilla, nonna, del masalìn Gianni Vicini)
Mettere nella padella - tutto accuratamente nettato e tagliato a pezzi - la reticella, il
fegato, l’esofago, i polmoni, le ghiandole della coppa e la milza. Fare andare a coperto
ed a fiamma bassissima per il tempo necessario alla cottura (circa tre ore). Servire,
con polenta fresca, come colazione-pranzo per i lavoranti della maialatura. Quello che
restava era sistemato in pentole alte di coccio, coperto a filo con lo strutto e nascosto.
Il sig. Gianni dice “nascosto” con un ampio sorriso. Mi spiega che lui, amante del
piatto e giovane con fame gagliarda, lo cercava continuamente e dappertutto ma non
lo trovava mai perché la nonna riusciva sempre, con furbizia femminile, a sottrarlo
alle sue spasmodiche ricerche.
Soave di Porto Mantovano (formula della signora Emma Germiniasi, moglie del
Todeschi)
Fare un fondo con poco olio, reticella di maiale ed abbondante cipolla. Quando il tutto è ben rosolato, a fiamma bassissima, unire il fegato ben nettato e tagliato a fettine
sottili. Salare e pepare. Alla fine addizionare un bel bicchiere di vino bianco secco e
fare andare ancora un poco. Spruzzare sopra del succo di limone. Con polenta solare.
Talvolta la signora, ma solamente per accontentare il marito, mette un poco di caren
mate cioè ghiandole ed altri rimasugli.
Castelbelforte (formula del masalìn Battista Toaldo)
Formula semplice e sbrigativa. Tagliare il fegato, ben pulito dalle pelletiche, a fette
sottili. In un tegame fare un fondo di reticella ed abbondante cipolla. Bagnare con vino
bianco. Sale e pepe. Unire il fegato già preparato e cuocere per poco tempo altrimenti
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si indurisce.
Talvolta nel soffritto di base già pronto aggiunge i polmoni ridotti a pezzetti, poca
salvia e poco rosmarino.
Torre di Goito (formula della signora Antonietta, moglie di Valentino Tartari)
Prendere della reticella di maiale e soffriggervi molta cipolla. Quando il tutto è ben
cotto (ma non colorito) aggiungervi fettine di filetto ed il fegato mondato e tagliato
a pezzi. Fare andare per non più di dieci minuti. Salare e servire con mezzi limoni.
Niente polmoni nè caren mate.
S. Giovanni del Dosso (formula della signora Claudia Vicini, moglie del masalìn
Icilio Benatti)
Pulire bene la reticella in acqua tiepida, tagliarla a pezzi grossolani e farla sciogliere
un poco in una padella di rame. Aggiungere abbondante cipolla affettata finemente,
polmone ben nettato e ridotto a pezzetti e fare cuocere per circa un’ora. Ad un quarto
d’ora dalla fine addizionare il fegato tagliato a fettine.
Accompagnava tradizionalmente il piatto anche il gras pistà vale a dire lardo battuto
sul tagliere, ridotto in poltiglia, e condito con sale ed aglio (poco). Polenta abbondante, fette in ordine sparso.
Quingentole (formula della signora Marina Sgarbi ricevuta come bene dotale dalla
mamma Ida).
Soffriggere della cipolla con olio d’oliva, un pizzico di pepe e sale quanto basta. A
cipolla rosolata aggiungere il fegato tagliato a fette di circa 1 cm di spessore, friggere
a fuoco alto, girare un paio di volte il fegato fino a che non perde più sangue. Mettere
nel piatto, spruzzare con succo di limone, accompagnare con fette di polenta abbrustolita (preferibilmente sulle braci).
Roncoferraro (formula del masalìn Giordano Dugoni)
In una padella di ferro o di acciaio a doppio fondo, mettere della reticella e due o tre
cucchiai di strutto. Fare sciogliere ed aggiungere subito un paio di cipolle ramate finemente affettate. Fare andare a fuoco lento. Addizionare poi il fegato tagliato in modo
da avere un bordo spesso ed uno fine (come lo spicchio di un pompelmo, precisa Du-
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goni con finezza bizantina). Far passare a fuoco allegro per circa una decina di minuti,
per il tempo necessario cioè che il fegato cuocia ma senza indurire. Alla fine salare,
pepare e spruzzare di succo di limone. Durante tutte le fasi, rigirare con cura affinchè
la preparazione si presenti di colore grigiastro ed eccellente al palato.
Il Maestro precisa: “In casa mia venivano consumati 3 hg di fegato a persona mangiati
cun ordèi (orli) ad pulenta fresca, tajada cun al ref (filo di refe) u brustulìda in sla
piastra dla stüa”. Non traduco, è chiaro così.
Carbonara di Po (antica formula della signora Mercedes Menghini, madre del masalìn Adriano Luppi)
Mettere in una capace padella della raidèla (omento), della cipolla abbondante tritata
finemente ed i polmoni curati e tagliati a pezzetti. Fare andare a coperto ed a fiamma
bassa finchè il polmone diventa tenero. Aggiungere il fegato mondato e tagliato a fette
piccole e sottili. Portare a cottura. Salare e pepare alla fine. Polenta fresca tagliata a
fette con del refe.
Castelletto Borgo (formula della signora Amalia Pinotti, moglie di Vico Fava)
In una teglia capace mettere della reticella, del burro, abbondante cipolla ramata di
Sermide affettata sottilmente ed un poco di dado di carne (horribile dictu, mia nota).
Fare andare a fiamma bassissima finchè la cipolla si sarà appassita e sarà diventata
quasi una crema. Aggiungere di quando in quando poca acqua per evitare che si bruci.
A questo punto addizionare il fegato tagliato a fettine sottili dopo averlo accuratamente nettato.
Alzare la fiamma e cuocerlo velocemente perché altrimenti indurisce. Salare immediatamente. Niente pepe, spezie e vino. Polenta tagliata con il refe.
Solferino (formula della signora Anna Magalini, moglie del masalì Luigi Bissoli)
Nella padella di rame sciogliere, a fuoco basso della reticella. Addizionare poi abbondante cipolla ramata (quella mantovana di una volta) affettata finemente assieme a
rosmarino e salvia. Aggiungere quasi subito le caren mate ed il polmone ben nettato
e tagliato a pezzi piccoli. Cuocere, sempre a fiamma bassa ed al coperto, per almeno
un’ora. Verso la fine, togliere rosmarino e salvia e mettere il fegato pulito e tagliato
a fettine. Niente sangue, né aglio, né vino. Salare e pepare prima di portare in tavola.
Polenta fresca o della sera prima abbrustolita sul focolare.
196
Guidizzolo (formula della signora Maria Tarchini, vedova del grande Masalìn Gianni
Cargnoni)
In una padella capace (quella di rame, con il manico a semicerchio) mettere della
reticella e della cipolla affettata finemente ed in buona quantità. Fare sciogliere e
poi aggiungere caren mate, polmone, rosmarino, salvia e, al coperto, fare andare per
oltre un’ora. A metà cottura bagnare il tutto con un poco di vino bianco secco. Salare
e pepare. A dieci minuti dalla fine addizionare il fegato mondato e tagliato a fettine.
La signora mi dà un’informazione curiosa. Nella sua famiglia, al masalìn ed ai suoi
aiutanti non veniva servita a metà mattina la consueta fritüra ma una colazione vera
e propria fatta di salame, furmai vért (formaggio verde, Gorgonzola), mortadella e
polenta abbrustolita.
Suzzara (formula del masalìn Giancarlo Bertellini. Ha ricordato quella della nonna
Lésie)
Nella padella di rame mettere della reticella, olio e burro (questi ultimi in quantità minime perché costavano) e fare sciogliere. Addizionare abbondante cipolla. Fare
ammorbidire il tutto. Versare del buon vino rosso di casa. Quando la base è pronta
aggiungere il fegato tagliato a fette e ben nettato. Cuocere per un tempo breve. Sale e
pepe. Polenta solare. Niente polmone, né filetto, né carni di risulta.
Cereta di Volta Mantovana (informazione del masalì Giannino Primon)
Il signor Primon informa che nel giorno della maialatura, per arricchire la fritüra,
preparava degli involtini con il sangue rappreso ridotto a tocchi, conditi poi con sale
e pepe, avvolti nella reticella e cotti sulle braci del camino. Venivano serviti a parte
soprattutto come alternativa per coloro che non amavano il fegato.
Castellucchio (formula del masalìn Archimede Zangrossi)
Nettare e tagliare a pezzi il polmone, la reticella e le caren mate (i lacerti, le ghiandole
presenti nel grasso dei budelli). In una teglia capace fare soffriggere la reticella con tre
belle cipolle gialle affettate finemente. Aggiungere il polmone e le caren mate e fare
andare a fiamma bassa per almeno un’ora. Verso la fine addizionare il fegato ridotto
a fettine e dare un ultimo quarto d’ora di cottura. Niente vino. Ritirare dal fuoco ed
insaporire con sale e pepe. Servire accompagnando con fette di limone.
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Rivarolo Mantovano (formula della sig.ra Silvana Grasselli, moglie del masalìn Mario Buttarelli)
In una teglia capace appassire della cipolla tritata unitamente ad abbondante reticella
del maiale. Addizionare un poco di conserva di pomodoro fatta in casa. Quando il
tutto è ben passato aggiungere il fegato del maiale, mondato dalla pellicina e tagliato
a fette sottili. Spruzzare con vino bianco secco dell’Oltrepò (Ortrugo). Sale e pepe
prima di servire.
Roverbella (formula dei macellai norcini Gilberto e Giovanni Savio)
In una padella di rame con l’ampio manico curvo mettere della reticella di maiale,
abbondante cipolla ed un sospiro di aglio (dice proprio così). Fare rosolare per alcuni
minuti e quindi aggiungere - tutto a fettine molto, molto sottili - fegato, cuore, pancetta fresca, filetto e limone. Sale e pepe q. b. Quando il tutto ha cambiato colore addizionare del vino bianco secco ed a fiamma allegra fare sfumare. Portare poi a cottura
in tempi brevissimi altrimenti la carne indurisce. Servire con polenta.
I signori Savio sono da tempo i miei macellai di fiducia. Con la ricetta della loro
fritüra ho dato l’avvio ad una ondata di ricordi. Tra questi lo scherzo che si era soliti
fare ai ragazzi che già davano una mano nella maialatura familiare. A quei tempi (andiamo indietro di quasi un secolo) negli orti delle case di campagna si coltivavano le
verze, cibo invernale diffuso e frequentato. Il capofamiglia rivolgendosi ai ragazzi ed
indicando con finto orgoglio le sue verze ripeteva ogni tanto “Ah, chista sera a fema
propria un bel rişot cun le verşe” (questa sera faremo proprio un bel risotto con le
verze) prospettiva quanto mai deludente. Alla cena veniva servito invece al ris dal
pursèl, gustoso ed abbondante.
Guidizzolo (formula della signora Maria Brulica moglie del masalìn Franco Boccazzi)
In una bella padella dal fondo spesso e piuttosto capiente mettere abbondante reticella
di maiale ed almeno un paio di cipolle affettate finemente. Fare cuocere a fiamma bassa finchè la reticella si è sciolta. Addizionare le caren mate e del polmone di maiale
ben nettato e ridotto a tocchi piccoli. Aggiungere, se del caso, poca acqua.
Fare andare a fuoco lento ed al coperto per almeno un’ora per dare modo al polmone
di diventare tenero. Controllare e rigirare ogni tanto. Ad un quarto d’ora dalla fine
mettere il fegato (nella quantità che si desidera) tagliato a quadrotti dopo averlo ben
nettato dalle vene interne. Salare a metà cottura. Niente pepe. Servire con polenta
fresca ed accompagnare con lambrusco.
198
Sequenza di una
maialatura
mantovana
199
Gianni Cargnoni
Selvarizzo
A complemento del mio lavoro ho ritenuto necessario illustrare i vari passaggi di una
maialatura mantovana con una sequenza fotografica chiara ed eloquente.
Tra le tante che ho visionato mi è parsa particolarmentre esplicativa quella del masalìn
Gianni Cargnoni.
Nato nel borgo di Selvarizzo ma praticamente operante in tutto il contado di Guidizzolo e dintorni, ha fatto di questa professione un vero e proprio interesse di vita. Ha appreso i rudimenti della maialatura dallo zio Carlo che era di origine bresciana. Gianni
è morto da poco, a 83 anni. Non ho avuto la fortuna di conoscerlo. Me ne ha parlato
Zeno Roverato di Ceresara, anche lui grande masalì. È stato attento, sollecito allievo
di Cargnoni e lo ricorda con grande affetto in quanto gli deve la conoscenza profonda
e raffinata dei più segreti aspetti del mestiere. Me lo ha descritto come un uomo semplice, sempre sorridente, pacato nei modi e nei gesti capace tuttavia di alzare la voce
quando vedeva che le cose erano fatte in modo approssimativo.
Gianni aveva sempre l’atteggiamento del vero maestro: insegnava a superare le difficoltà del momento, era prodigo di elogi per gli aiutanti che avessero operato con
attenzione e perizia, sollecitava i più capaci ad approfondirsi nella pratica, ma non
mancava anche di rimproverare bonariamente coloro che non lavoravano con la giusta
diligenza e meticolosità.
Capiva e cercava di far capire che nel “baldachìn” finale dove salami, coppe e pancette facevano bella mostra di sè, era racchiuso non soltanto il compenso della giornata
ma anche e soprattutto il futuro di un desco familiare. Per i contadini poveri il maiale
era un bene prezioso, una dote indispensabile per superare l’inverno, rappresentava la
sicurezza del cibo per arrivare all’estate senza fare troppi debiti con il bottegaio. Era
assiduo di Castelgrimaldo, un paesino di pochissime anime dove permangono intatti
lo spirito ed i valori della campagna mantovana.
201
Nella sequenza della sua maialatura l’intenditore avveduto coglie immediatamente
la sua abilità e la attenzione nei passaggi fondamentali dell’operazione: stordimento
con la pistola per evitare traumi all’animale, pulizia accurata della cotica, sezionatura
perfetta delle mezzene, divisione precisa delle carni, macinatura ben sorvegliata delle
diverse parti da destinare alle varie beatitudini e la insaccatura meticolosa per evitare
la maligna formazione interna di bolle d’aria. Si noti infine – espressione eloquente
della cordialità che ravvivava l’impegno – la bicchierata amicale e sorridente con tutti
gli aiutanti chè sanciva la fine del lavoro.
L’autore delle fotografie e curatore del presente volume.
Andrea Dal Prato
Vive ed opera a Guidizzolo. È figura attiva, dinamica, ricca di entusiasmo, molto
conosciuta in paese. Sempre attento agli eventi che coinvolgono il contado locale
ne diffonde la conoscenza con indefettibile spirito di servizio. Si deve infatti al suo
impegno, ormai quasi ventennale, la nascita di un periodico di informazione e cultura
che ha recentemente vinto il primo premio al concorso nazionale “Premio Cento” per
la stampa a diffusione gratuita (oltre 170 le testate partecipanti).
Figlio di Alessandro, educatore, creatore della Scuola Statale d’Arte di Guidizzolo,
incisore, medaglista e pittore di fama nazionale, Andrea si distingue per la cordialità
spontanea ed immediata, la concretezza dell’azione e, nello specifico, per il grande
amore verso la civiltà contadina e le sue manifestazioni nell’ambito della comunità.
Dal Prato vanta un curriculum professionale di grande rilievo. Segue come fotografo
le manovre militari delle truppe Corazzate in Toscana, Sardegna, Sicilia e Roma. Partecipa a Bologna ed a Lamezia Terme a due concorsi indetti dall’Esercito italiano nei
quali vince il Primo premio. Ha insegnato per oltre 25 anni Tecnica fotografica in corsi
dell’ IRRSAE e dell’ELFAP. Ha ideato, con un gruppo di amici, la rivista guidizzolese
“la NOTIZIA” ed è tra i fondatori del Centro culturale “San Lorenzo” di Guidizzolo.
Con le sue immagini ha contribuito ad illustrare numerosi libri di spiritualità, dimore
gentilizie, arte religiosa e sociologia rurale. Di particolare rilievo la sua collaborazione
professionale con la Casa editrice “La Scuola” di Brescia. Per essa ha curato la ripresa
di immagini presso i musei della città a complemento di testi di carattere didattico.
È iscritto all’Ordine dei giornalisti dal 1991.
202
Abbattimento del maiale con la pistola
Dopo l’uccisione si solleva per far scolare il sangue
203
Pelatura
Dopo la pelatura si cavano le unghie
204
Ultima pulizia dei piedi dopo aver tolto le unghie
Issato sul Picaröl
205
Bruciatura dei peli rimasti
Ultima pulizia prima della eviscerazione
206
Eviscerazione
Divisione in due mezzene
207
Le due mezzene tagliate in modo perfetto
Inizio della sezionatura, viene tolto il filetto
208
Si spolpano le ossa
La spalla viene disossata con particolare attenzione
209
Sezionatura della carne
Inizio mondatura
210
Si prepara la pancetta per la concia
la carne viene pulita togliendo i nervi, coaguli, unto ecc.
211
la carne viene pulita togliendo la pellettica
Macinatura
212
Concia, sale e spezie
Concia, il vino
213
Pugnatura
Si insaccano i salami
214
Legatura
Foratura per far uscire l’aria
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Un momento di ristoro con la moglie Maria
Un momento di ristoro con gli aiutanti
216
I salami appena fatti vengono appesi nella stanza da letto
Dopo l’asciugatura (nella camera da letto) si portano in cantina per la stagionatura
217
218
INDICI
Prefazione pag. 7
Presentazione pag. 9
Introduzione pag. 11
Cenni di storia del maiale mantovano pag. 21
La maialatura nel mantovano - area collinare - alto mantovano - medio mantovano - area di confine tra Veneto ed Emilia pag. 33
pag. 34
pag. 45
pag. 56
pag. 61
Il maiale nella letteratura pag. 65
Incontri con i masalìn pag. 87
Zeno Roverato – Ceresara pag. 88
Silvano Buoli – Schivenoglia pag. 101
Gianni Vicini – S. Giacomo delle Segnate pag. 105
Battista Toaldo – Castelbelforte pag. 110
Sergio Todeschi – Soave di Porto Mantovano pag. 115
Valentino Tartari – Torre di Goito pag. 119
Giordano Dugoni – Roncoferraro pag. 121
Giuliano Sgarbi e Lino Ferrari – Quingentole pag. 130
Maurizio Buttarelli – Rivarolo Mantovano pag. 133
Giancarlo Chittolini – Rivarolo Mantovano pag. 138
Rolando Nadalini – Sermide pag. 143
Adriano Luppi – Carbonara di Po pag. 148
Vico Fava – Castelletto Borgo di Mantova pag. 153
219
Luigi Bissoli – Solferino pag. 157
Giancarlo Bertellini – Suzzara pag. 162
Leonardo Dal Prato – Guidizzolo pag. 167
Archimede Zangrossi- Castellucchio pag. 176
El Santì e la scuola di Cereta pag. 181
Franco Boccazzi - Guidizzolo pag. 183
La Cumpagnia del fil de fer – Castiglione Mantovano pag. 188
I masalìn di Gozzolinapag. 190
La fritüra pag. 192
Sequenza fotografica di una maialatura mantovana Gianni Cargnoni Selvarizzo pag. 199
pag. 201
Ricette
PRIMI
Garganelli con l’anitra selvatica pag. 171
Maccheroni alla chitarra con la salamella pag. 171
Risòt dal gugét pag. 132
Ris dal nimàl
pag. 141
Ris del pursèl pag. 94
Risòt a la pilota (Roverato) pag. 95
Risòt a la pilota (Toaldo)
pag. 113
Risòt a la pilota (Dugoni)
pag. 127
Fuiade cun el pisù
pag. 99
Risotto con il luccio
pag. 127
SECONDI
Lombo in tégia (Roverato)
Lombo in tégia (Luppi)
Lingua di manzo salmistrata
Pulàstar in tégia
Porchetta (Buoli) Porchetta (Boccazzi) Prosciutto al forno Cuore in padella 220
pag. 96
pag. 151
pag. 97
pag. 98
pag. 104
pag. 186
pag. 104
pag. 113
Fégat, pulmù e cör in tegia
Salam in dal tegìn Filét in sle brașe Custine da puntèl
Lonza arrosto Sangue fritto
Fegatelli di maiale Arrosto di maiale Oca selvatica arrosto
pag. 126
pag. 113
pag. 120
pag. 126
pag. 140
pag. 165
pag. 172
pag. 172
pag. 173
DOLCI
Tortellini dolci Torta di mele Strüde
pag. 96
pag. 173
pag. 174
VARIE
Macedonia sotto spirito
Moretta Gras pistà
Torta di sangue (Chittolini)
Turta de sàng (Bissoli)
Patate al forno Carciofi sulla griglia Peperoni alle olive
pag. 97
pag. 126
pag. 112
pag. 141
pag. 160
pag. 171
pag. 172
pag. 173
221
222
Finito di stampare nel mese di marzo 2014
presso Arti Grafice Studio 83
Vago di Lavagno (VR)
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