LUNA DI LENNI - Round Robin Editrice

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LUNA DI LENNI - Round Robin Editrice
Emanuele Berardi
LUNA DI LENNI
round robin editrice
1.
Venticinque anni dopo, oltre le barriere militari,
una sinistra foresta grigia aveva ripreso a respirare.
Da quando l’uomo non era più la specie dominante,
a brucare tra le sterpaglie contaminate erano tornati
gli animali di un tempo: cinghiali, alci, cervi, volpi.
Esemplari di taglia più piccola, dal pelo rado, aggressivi, sopravvissuti al carico di mutazioni genetiche
provocate da una natura ormai violata. L’uomo invece
non ce l’aveva fatta. Aveva tappato alla meglio la falla ed era fuggito lasciandosi alle spalle abitazioni dismesse, croci e fantasmi di gente morta nel disastro.
La grande ambizione socialista era svanita alla fine
di un esperimento andato male, sepolta per sempre
sotto un velo di polvere radioattiva.
Era stato zio Augusto a regalarci il cucciolo. Facevamo le medie.
― Trattatelo come si deve, non è un giocattolo,
ha dei sentimenti!
Allora io e Claudio avevamo subito cominciato
ad accudirlo come pensavamo fosse giusto fare con
un cagnolino: il guinzaglio, l’osso per farsi i denti, la
cuccia, il cuscino. Divorava tutto! Tutto quanto. Qualsiasi cosa gli capitava a tiro finiva triturata nella sua
bocca.
― Non lo sapete governare, ― ci aveva sgridato il
veterinario. ― Con il cucciolo occorre giocare, ma allo
stesso tempo bisogna avere polso, altrimenti prende il
sopravvento e via! Com’è che si chiama?
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― Cipo.
― Ok Cipo, vieni qua.
Dovettero afferrarlo in quattro, bloccargli il muso e legarlo al termosifone. Soltanto così il veterinario
era riuscito a fargli il suo primo ed unico vaccino.
― È un caso difficile signora, deve aver sofferto
durante il parto, vedrà che se continua così occorrerà
sopprimerlo.
All’inizio giocavamo assieme, con il tempo però, uno speciale istinto selvatico lo aveva reso sempre
più indipendente e la faccenda dello sviluppo della
scatola cranica più lento dell’encefalo risultò tutta
un’idiozia. Cervello compresso o no, cominciò a presentarsi in casa per mangiare e dormire che non aveva nemmeno cambiato tutta la dentatura, e neanche
sempre.
Con gli altri ci eravamo incontrati alle elementari
e per strada. Luchino, Zack, Federico. Figli di gente
che faceva lo sgobbo nel quartiere. Lo zio Augusto, invece, capitò nella nostra infanzia quando il signor Mariotti si era fatto ormai troppo vecchio. Un rapporto
in costante equilibrio tra disprezzo e poesia. Cazzotti
in testa, ma anche sballate a non finire, visto che lui,
d’energia, ce ne aveva avuta sempre da vendere, soprattutto con le donne, che quando ce ne era in giro
qualcuna che gli piaceva gli venivano due occhi così.
― Ecco fatto, diecimila a testa, ripasso a prendervi alle sei.
― Sette.
― D’accordo, sette. E mi raccomando, silenzio!
L’altro era Mahatma. Sua madre era bellissima da
bambini. Capelli neri, gonne lunghe, sandali colorati.
Ci faceva salire in casa e ci offriva aranciata e biscot10
ti. Aveva il pallino dell’India. Ricordo una foto in cucina che la ritraeva assieme ad un ragazzo tutto barba
e capelli e una specie di santone brutto e scheletrico
che teneva in braccio il piccolo Mahatma. Sembrava
una liceale. Vivevano soli. Lei e suo figlio Maurizio che
chiamava Mahatma: ― Perché in fondo, ― diceva, ― il
piccolo Maurizio è una grande anima.
Durante il liceo io e Mahatma trascorrevamo interi pomeriggi assieme: studiavamo, passeggiavamo
per il quartiere. Ce ne andavamo nelle librerie o nei
negozi di dischi a vedere le novità. Cipo ci seguiva
distrattamente, il più delle volte se ne andava avanti
per i fatti suoi assecondando qualche scopo ben preciso senza badare affatto a noi. Conosceva le strade, i
percorsi, ed era anche amico dei negozianti. Con loro
aveva imparato a fare il disgraziato fin da cucciolo.
Si avvicinava con la coda bassa, uggiolava, si lasciava
accarezzare come un animaletto da presepe, ritirava
il suo premio e se ne andava via scodinzolando.
Finivamo sempre nello stesso negozio di animali.
Cipo rimaneva fuori ad osservarci attraverso le sbarre
delle gabbie dei pappagalli esposti in vetrina. Profondo blu vendeva ogni specie di pesci tropicali, persino
uno squalo autentico, ma a dire il vero, ci facevano
pena tutte quelle bestie sotto vetro. Ci muovevamo
allora con un po’ d’impaccio tra gli acquari scambiandoci occhiate miste di meraviglia e sconcerto, e quando uscivamo fuori di lì, il più delle volte, Cipo non
c’era più.
Ma il Mahatma del liceo non era più il Mahatma di
quando eravamo ragazzini. Col tempo i boccoli erano
diventati riccioli rossastri e non era nemmeno più così
ciccione, si era fatto robusto, alto, forte, con mani
che sembravano palanche. Una fifa bestiale a starse11
ne in porta quando calciava un rigore.
Studiava con passione, amava Italo Svevo, diceva
che la sua opera migliore era Senilità, allora si cercava una sedia e cominciava a raccontare dell’amore
impossibile tra Emilio Brentani e Angiolina Zarri.
― Svevo, ― diceva, ― è un maestro insuperabile nella descrizione dei sentimenti che nobilitano le
grandi anime.
Adorava anche Pirandello.
― L’opera letteraria di Pirandello è tutta incentrata nell’evidenziare il contrasto tra l’essere profondo dell’uomo e la realtà che lo circonda.
Che forza! Ore ed ore a sentirgli raccontare queste cose. Per strada e a scuola, durante le interrogazioni d’italiano.
― Benissimo Maurizio. Quanto gli diamo al Fragapane? Otto? Nove?
Eravamo cresciuti entrambi senza padre e questa
cosa, in qualche modo, ci aveva reso fratelli, ma di
questa faccenda non se ne parlava mai.
Gli anni erano volati via disordinatamente, per
strada, a sperimentare noia e malandrinate sopra
tavole da skate, bici sfondate e motorini altrettanto
sfondati, pericolosi quanto armi. Fortuna che in casa
ci si rilassava con i clip di Videomusic, ma soltanto durante quelle rare sere in cui non c’era motivo di uscire. Ricordi sfocati, accavallati uno su l’altro, vischiosi
come la panna di certi gelati che andavano in quel periodo. Alla fine degli esami di maturità ci ritrovammo
tutti in coda agli sportelli delle segreterie didattiche.
A casa ci volevano istruiti e con un futuro a posto e
in regola. Prospettive estinte da anni, tumulate assieme alla salma della prima repubblica. Quando met12
temmo piede alla Sapienza eravamo ormai una specie
di banda. Avevamo già assaporato le emozioni della
piazza, dei cortei, il piacere della ribellione contro
simboli e strutture di oppressione, ma da soli, senza
organizzazione, da cani sciolti. La storia dei manganelli e lacrimogeni però ci aveva subito convinto, e
l’università era la direzione giusta. Lì dentro ci sembrò di far parte di un altro mondo. La libertà di poter
scegliere i corsi da seguire, i collettivi, le ragazze,
gli esami andati male, quelli andati bene, quelli insuperabili, le analisi politiche. E, naturalmente, tempo
e volontà di diventare studenti contestatori modello.
Praticamente l’inizio di tutto, una rovina, una smania
continua. Per ragazzetti smaliziati di Roma sud con
la testa piena di brace scoppiettante, immersi in un
orizzonte corto, uniforme e senza troppe vie di fuga,
bastava veramente poco per mandare tutto in fiamme. E una notte, da giovani militanti estremisti, passammo all’azione. Mica parole.
Il fascista Mauri se ne stava di schiena con un
ventaglio di carte in mano. La finestra del seminterrato ci arrivava alle ginocchia, e il tempo, anziché andare avanti, sembrava espandersi come olio. Armando
Varetti (milanese, ma residente a Roma da metà degli
anni Ottanta) era l’anziano del gruppo, il teorico che,
dal nostro punto di vista, non poteva che essere la
mente delle rivendicazioni che comparivano ultimamente sui muri del quartiere.
Mio fratello Claudio si era messo di vedetta nella
Peugeot abbandonata vicino al cancello. Noi eravamo dentro, accovacciati ai lati di quella finestra, con
l’adrenalina a mille e il fiato spezzato. Il resto della
cricca attendeva il segnale nella Panda di Luchino.
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Era ormai soltanto questione di minuti, mi dicevo, alle dieci e trenta in punto si sarebbe spenta l’insegna
della Banca Popolare di Sondrio, abbandonando quel
tratto del marciapiede al freddo riverbero dei fanali
stradali, ove un po’ di foschia avrebbe fatto scintillare
le goccioline sparse sulle latte delle auto e sui vetri
appannati degli appartamenti più in basso.
Al momento giusto Zack schizzò in piedi a fischiare con le mani a imbuto davanti alla bocca. Una
coordinazione perfetta. Sacco pieno di mazze e gli
altri dietro con uno zompo sul cofano e uno sul tetto dell’auto abbandonata. Mahatma aprì la porta con
un bel quarantasei All star stampato all’altezza della
toppa come nei film americani, col poliziottone davanti e gli altri, pistole in pugno, a interrompere la
scopata del narcotrafficante di turno. Avevamo fatto
più o meno la stesa cosa, con gli stessi tempi voglio dire, e quelli non ci avevano capito niente. Le due teste
rasate scattarono come il grilletto di una pistola. Uno
verso il bomber appeso al muro e l’altro tirando su
una sedia. Ma l’effetto sorpresa l’avevamo creato noi
e, con tutta quell’energia effervescente in testa, si
ritrovarono subito stesi a terra. Sembrava una giostra
mandata a tutta velocità, dove i colpi sordi dei pugni
e i tavoli trascinati dai corpi in lotta montavano quel
genere di carica capace di pomparti come gli eroi dei
cartoni animati. Roba da adulti in corsa. Mosse rapide, toccata e fuga, perché sapevamo benissimo che
tutte quelle vibrazioni di spinta non sarebbero durate
a lungo.
Mauri si dimenava selvaggiamente. Cercava di
resistere, tentava prese, tirava colpi che quando finivano a segno facevano male. Ganci rapidi, a braccia
aperte, da strada. Dettagli di una lotta fisica bellissi14
ma. Il discobolo, i bronzi di Riace, superfici levigate da
disegnare col carboncino assieme a tutti i particolari
anatomici, perché il vecchio picchiatore, duro fino in
fondo, non ci stava mica a subire a quella maniera
da gente tanto più piccola di lui. Ma era una storia
di forma, di classe e di appartenenza pure da questo
lato della barricata. I due skin, ad esempio, avevano
preso subito parecchie botte per quella loro sparata
iniziale ed erano andati giù da un pezzo visto che non
bastava certo lamettarsi la testa per difendersi come
si deve. Varetti invece menava colpi scoordinati che
finivano quasi tutti in aria, perché lui era un teorico,
e si vedeva lontano un chilometro che di duelli doveva
averne visti molti ma fatti ben pochi.
― Bastardi! Siete dei duri eh? Chi vi manda? ―
Urlava col viso rosso più per la rabbia che per i calci
ricevuti.
Dodici minuti e trentacinque secondi netti.
Uscimmo dal seminterrato di corsa, senza dire
una parola, disperdendoci in gruppetti per le strade
deserte e confuse dal sonno.
In cielo splendeva una grossa, grossissima Luna
piena, tonda e luminosa come la lampada della scrivania del dottore di quando eravamo piccoli.
Tolti i passamontagna le nostre teste fumavano
come fiammiferi appena soffiati. Mahatma parlò di
“estremizzazione di un fatto, di azioni connesse al
senso di appartenenza del gruppo”, poi si azzittì di
colpo per via dei lampi biancoazzurri di una gazzella.
Quando le luci sparirono dietro l’angolo, riprese a dire
di “gesti necessari come unica boa di salvataggio” gesticolando e disperdendo il resto delle frasi nell’aria
notturna come quando raccontava dei crepuscolari,
soltanto mezzo tono più alto delle grida di un’auto15
ambulanza.
In casa, nostra madre dormiva con la televisione
ancora accesa sulle scene di un muto coreano trasmesso da Fuori orario. Quel qualunquista di Cipo se ne era
rimasto sotto il letto e non ci aveva pensato affatto di
tirarsi su per farci le feste. Ci preparammo per dormire facendo meno rumore possibile, ma l’emozione,
che pareva incontrollabile, e il bagno ancora occupato da nostra sorella, mi spinsero fuori il balcone.
La notte, con la sua bella Luna, vegliava immobile il meritato riposo del circondario popolare: sui
tetti e lungo le pareti delle case sembrava cercarsi
tra le forme confuse delle pozze sull’asfalto e persino
sussurrare qualcosa ad una gatta di ritorno dai suoi
piccoli giù nel cortile. I tetti dei palazzi attorno cominciarono a brillare d’argento, e quella palla libera
nel cielo, si fece piccola piccola dalla vergogna cercando riparo in alto.
Quella notte la mia sigaretta bruciò magnificamente e, nell’ormai assoluta mancanza di vita attorno, ogni tiro ardeva la carta che moriva di un sottile
crepitio di fine certa.
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