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ANNO XV NUMERO 166 - PAG 3
EDITORIALI
Cricche e imputati senza diritti
La deriva giustizialista evidente nella carcerazione di De Santis e Balducci
D
opo cinque mesi di detenzione
preventiva sono usciti dal carcere Fabio De Santis e Angelo Balducci, non in libertà ma obbligati agli arresti domiciliari. Le esigenze di custodia cautelare sostenute dalle procure e accettate dai giudici erano del
tutto aleatorie. Dopo le dimissioni
dalle cariche che rivestivano, sia la
possibilità di inquinare le prove sia
quella di reiterare il reato erano inesistenti, mentre per scongiurare la
possibilità di fuga, del tutto ipotetica,
bastava il ritiro dei passaporti. Il fatto è che si è instaurata una prassi perversa, secondo la quale chi non confessa deve restare in galera. Naturalmente non sarebbe così facile per le
procure far accettare questa interpretazione assai stiracchiata della
legge se i giudicanti fossero davvero
terzi, invece di essere legati agli inquirenti dal sistema delle carriere e
delle nomine congiunte. Chi, pur da
posizioni garantiste, si oppone alla separazione delle carriere, come Andrea Orlando, responsabile per la
Giustizia del Partito democratico, dovrebbe fornire una proposta alternativa che consenta di restaurare il
principio dell’inviolabilità della libertà personale in assenza di effettive esigenze cautelari. Ma nel convegno sulla giustizia indetto ieri dal Pd
questi temi cruciali non hanno trovato spazio, ed è un peccato. Sarebbe
necessario far capire che la questione dei diritti degli imputati, in pratica il fondamento dell’habeas corpus,
non è interesse solo di una parte, che
poi viene accusata di sostenerlo per
ragioni inconfessabili.
In questo caso il problema non consiste nella legge, che se fosse applicata secondo la sua lettera e il suo spirito, sarebbe del tutto adeguata. Il fatto
che si sia instaurata una prassi contra
legem e che questa venga oramai considerata una prassi consolidata è invece assai preoccupante. Se le esigenze cautelari si trasformano nel diritto
dell’accusa a tenere in carcere gli indagati che si dichiarano innocenti, si
introduce una forma di pressione
inaccettabile secondo tutti gli standard italiani e internazionali, una specie di tortura. Le organizzazioni dei
diritti umani, che sono tanto sollecite
a fare la lezione all’Italia, non hanno
mai alzato un dito contro questa palese violazione, forse perché è perpetrata dai magistrati e non dal potere
politico. La deriva giustizialista trae
alimento da questi silenzi ideologici,
ai quali sarebbe necessario che i garantisti reagissero in modo compatto,
senza calcoli politici di parte che poi
si rivelano sempre miopi e sbagliati.
L’ingombrante silenzio del Pd su Ganzer
Partito indeciso tra la linea delle procure e necessario senso delle istituzioni
I
vertici del Pd non hanno detto assolutamente nulla sul caso Ganzer.
Un silenzio che inquieta, a fronte dello scontro frontale tra il comando dei
carabinieri e il tribunale di Milano.
Un partito che pretende di candidarsi al governo del paese, e che un giorno sì e l’altro pure s’impanca a insegnare il valore e il senso delle istituzioni, tace imbarazzato a fronte della
clamorosa decisione del vertice dell’Arma, esplicitamente condivisa da
parte del governo, di mantenere il generale Ganzer nel suo delicato incarico a capo dei Ros, nonostante una condanna a 14 anni per reati gravissimi:
uno schiaffo, in guanti bianchi, alla
procura e al tribunale di Milano che
l’hanno condannato. Il Pd in realtà tace perché è diviso tra chi vuole assumere la parte di Di Pietro (che però,
furbamente, tace anche lui) e schierarsi a fianco della magistratura ambrosiana e chi invece ritiene che la
condanna a Ganzer sia un vulnus al
nostro sistema di sicurezza nazionale,
ingiustificabile sotto ogni profilo, a
partire da quello del diritto. Un silenzio che testimonia un allarmante sta-
to confusionale dei vertici del Pd. Ed
è la seconda volta in pochi giorni che
quel aprtito manca di prendere posizione su scabrosissimi snodi istituzionali nel settore della sicurezza.
Poteva infatti essere comprensibile
l’imbarazzo dei democratici sulla condanna di Gianni De Gennaro per i fatti del G8 di Genova, ma è scandaloso il
silenzio del giorno dopo, quando il governo ha respinto le sue dimissioni.
De Gennaro è direttore del Dis, il servizio che coordina Aisi e Aise, un ruolo chiave nei servizi segreti e quindi
era non solo opportuno, ma indispensabile che i vertici massimi del Pd approvassero, o criticassero, il respingimento delle sue dimissioni, nonostante la condanna, per di più per quel
reato. Nulla. Il segretario Bersani ha
taciuto, il vicesegretario Letta ha taciuto e così Veltroni, Franceschini e lo
stesso D’Alema, che almeno ha l’attenuante di presiedere il Copasir, l’organo parlamentare di controllo sull’operato (anche) di De Gennaro, e di essere tenuto a un minimo di riservatezza. Ganzer o De Gennaro, l’impressione è che siano indecisi a tutto.
Ripresa: noi + 0,9, Germania + 2,9
Però c’è bassa inflazione: evitato per ora il rischio della stagflation
L’
inflazione a giugno è scesa all’1,3
per cento annuo, rallentando rispetto all’1,4 per cento di maggio. Non
solo, secondo l’Istat l’indice dei prezzi
al consumo a giugno è rimasto invariato rispetto a maggio. Si poteva pensare che, con la ripresa economica in
corso, il tasso di inflazione tendesse a
salire, invece esso è sceso. E ciò nonostante il deprezzamento dell’euro potesse generare un aumento dei prezzi
dell’import. Nell’andamento delle diverse voci di spesa, emerge, fra maggio e giugno, una diminuzione di 0,3
punti per i trasporti, che controbilancia il lieve aumento (di 0,1) del prezzo
degli alimentari. Questo comunque risulta ancora dello 0,3 per cento inferiore a quello del giugno del 2009. Se
ne desume che il costo della vita per
le persone con minore potere d’acquisto, nell’ultimo anno, è rimasto stazionario. Dunque la ripresa sta percorrendo un sentiero virtuoso, perché
non si accompagna a prezzi crescenti,
ma stabili o in discesa.
Certo la ripresa in Italia potrebbe
essere più vigorosa. Infatti a maggio la
nostra produzione industriale è aumentata dell’1 per cento rispetto al
mese precedente. Meglio dell’area euro (ferma a più 0,9) ma non troppo. In
Germania l’aumento è stato del 2,9 per
cento e in Francia dell’1,9. Le manovre fiscali correttive non sembrano
aver ridotto la ripresa dell’Eurozona.
Lo mostrano i dati della Germania,
ma anche della Grecia che ha subito
una stretta fiscale aspra e ciò nonostante in maggio ha avuto una crescita industriale dello 0,9 per cento. Nei
paesi senza crisi bancaria, le manovre
correttive, riducendo la pressione del
debito pubblico sul mercato finanziario, hanno consentito una maggiore disponibilità di credito alle imprese; e
la riduzione della spesa pubblica, riducendo la domanda, ha contribuito
alla stabilizzazione dei prezzi. Lo scenario della stagflazione è dunque lontano, e non a caso la Bce mantiene invariato il tasso d’interesse, stimolando
la ripresa in modo non keynesiano.
Ma ora urge uno choc pro crescita.
IL FOGLIO QUOTIDIANO
GIOVEDÌ 15 LUGLIO 2010
• Il generale comincia con tre richieste alla Casa Bianca, a Karzai e ai pachistani. Al Qaida nomina il suo AntiPetraeus
Lunedì spie, martedì guerriglia. Ecco l’agenda di Petraeus
Lunedì, il generale Petraeus è atterrato in Pakistan. Il
nuovo comandante della guerra in Afghanistan sa come
gira il mondo e come primo atto del suo mandato si è
presentato a Rawalpindi, la capitale militare del paese,
gemella della capitale politica, Islamabad, a pochi chilometri. Se vuoi battere i talebani, sa bene, prima devi
andare a parlare con i generali pachistani. Petraeus ha
incontrato il capo delle Forze armate, Ashfaq Pervez
Kayani, e in pubblico ha speso le consuete parole di lode e incoraggiamento per gli sforzi contro il terrorismo
intrapresi dal Pakistan. Ma con Kayani, faccia triste, decine di sigarette e le occhiaie di chi nel lavoro deve mediare e tenere conto di pressioni di segno completamente opposto, c’è un rapporto particolare di fiducia. Il pachistano ha ricevuto negli stessi momenti anche una telefonata di Anne Patterson, la donna messa dal dipartimento di stato a guidare l’ambasciata americana in Pakistan. Non si sa che cosa i due americani abbiano chiesto
al generale, ma con tutta probabilità si tratta della solita richiesta: levateci di mezzo i gruppi di terroristi e
guerriglieri pachistani che attraversano il confine e vengono a combattere in Afghanistan, perché conviene anche a voi. Ieri otto soldati Nato sono morti in attacchi in
tutto il paese.
Ieri, il generale Petraeus è arrivato a Kabul, dove ha incontrato il presidente afghano Hamid Karzai. I due sono
impegnati in uno scontro clamoroso sulla questione delle milizie locali. Petraeus vorrebbe una, cento, mille milizie locali nei villaggi più remoti del paese, dove la polizia e l’esercito afghani non arrivano, in modo che la popolazione combatta armi in pugno i talebani. Karzai teme la proliferazione di signori e signorotti della guerra,
che poi contesteranno il potere centrale del suo governo
(che già adesso è parecchio debole e spesso irriso: il soprannome del presidente è “il sindaco di Kabul”). Lo
scontro frontale potrebbe risolversi mettendo le milizie
sotto l’autorità della capitale, ma entrambi sanno che se
in Afghanistan fosse veramente così semplice la guerra
sarebbe finita da otto anni. Ieri Karzai ha ceduto al generale (per ora). Lunedì un infiltrato afghano ha ucciso
nel sonno il comandante di una base inglese e altri due
soldati prima di riunirsi ai talebani.
Al Qaida ha nominato il controPetraeus. Negli stessi
giorni in cui l’Amministrazione Obama ha sostituito il generale ribelle McChrystal con Petraeus, anche al Qaida
ha nominato un nuovo capo delle operazioni in Afghanistan, al posto di Mustafà Yazid al Masri, ucciso da un dro-
ne americano nell’area tribale pachistana del Waziristan
del nord. Il nuovo leader è Sheikh Fateh al Masri, come
indica il nome di guerra al Masri è anche lui egiziano e
secondo fonti dell’intelligence americana non faceva parte di al Qaida, anche se ha una lunga esperienza di combattimento in Afghanistan e in Pakistan. Al Masri, anche
se arabo, è stato a lungo embedded nelle unità talebane
e ha buoni contatti con i guerriglieri afghani. Non è scemo: sembra abbia già detto ai suoi che il grosso delle operazioni sarà condotto a sud del confine, contro il Pakistan, ventre molle della guerra.
Il generale Petraeus chiede alla Casa Bianca di inserire
gli uomini dell’Haqqani network nella lista nera del terrorismo. La rete Haqqani è il gruppo più violento della
guerriglia afghana e anche il più legato agli arabi di al
Qaida. La mossa di Petraeus taglia la strada a Karzai, che
si dice abbia incontrato gli emissari di Haqqani per trattare una spartizione di poteri, ed è uno schiaffo in faccia
all’esercito pachistano, nonostante le lodi pubbliche pronunciate lunedì. Il clan Haqqani lavora a stretto contatto
con l’intelligence militare pachistana, e aprirgli la caccia
contro è un colpo d’avvertimento alle spie che manovrano i talebani e i terroristi come al teatro dei burattini.
• Da Genova a Istanbul alla Svizzera la rete degli amici di Hamas si mobilita per violare il blocco navale della Striscia
Ecco i preparativi (italiani) per la seconda flottiglia verso Gaza
Roma. Gli amici di Hamas stanno organizzando una seconda flottiglia per forzare l’embargo di Gaza. E’ ben più possente
della prima spedizione, che il 31 maggio
ha provocato l’intervento dei corpi speciali israeliani ed è finita con la morte di nove persone: sette navi europee – tra cui
una italiana e una svizzera – sono già pronte, anche se bisogna ancora pagare parte
dei costi. L’obiettivo è totalizzare venti imbarcazioni e, secondo gli organizzatori della campagna, gli attivisti pronti a imbarcarsi sono già novemila.
Nel frattempo il figlio del colonnello
Gheddafi, Seif al Islam, ha spedito verso
Gaza l’Amalthea, un cargo battente bandiera moldava. Unità della marina israeliana l’hanno seguita a distanza intimandole di cambiare rotta. Ieri il capitano cubano, nonostante l’opposizione degli attivisti a bordo, ha diretto il timone sul porto
egiziano di el Arisch. Ma non è escluso che
si tratti di un diversivo per cercare di proseguire verso Gaza dalle acque egiziane.
I promotori della “Campagna europea
contro l’assedio” si sono mobilitati subito
dopo l’epilogo sanguinoso della missione
della prima flottiglia. In Italia, il 7 giugno
scorso, Semih Lütfü Turgut ha aperto le
porte dell’ambasciata turca a Mohammad
Hannoun dell’Associazione palestinesi in
Italia, al presidente dell’Unione delle comunità islamiche italiane e a Manolo Luppichini e Angela Lano, giornalisti militanti che erano a bordo della prima flotta.
Nell’occasione Hannoun ha ringraziato il
governo turco per il sostegno e ha annunciato “l’allestimento della Freedom flotilla 2, che si comporrà di circa venti navi e
5.000 passeggeri”.
Attraverso l’Associazione benefica di
solidarietà con il popolo palestinese (Ab-
spp) – fondata da Hannoun con sede a Genova – si raccolgono fondi per la nuova
spedizione, da depositare presso la Banca
popolare etica. La nave italiana è stata noleggiata, ma la onlus avvisa che bisogna
“pagare la prima rata del 15 per cento e
tra due settimane il resto”. In passato i soldi raccolti dall’Abspp sono finiti alle famiglie degli attentatori suicidi.
Il 7 luglio scorso la raccolta fondi ha
portato Hannoun anche in Brasile, a capo
di una delegazione europea di attivisti anti israeliani, dove il vicepresidente del Senato brasiliano l’ha incitato a “lottare insieme perché si rompa l’ingiusto embargo
contro la Striscia di Gaza”.
Ma gli amici di Hamas sono molto attivi
anche in Svizzera. Per la nave elvetica sono già stati racimolati 250 mila franchi, la
metà della somma necessaria. Il promotore è Anouar Gharbi, 45 anni, svizzero d’o-
rigine tunisina, che a Ginevra guida l’ong
“Diritti per tutti”. Amico del controverso
Tariq Ramadan, nei primi anni duemila
Gharbi faceva parte di un’associazione
amica di Hamas che è stata messa al bando da Stati Uniti e Israele. Può contare
sull’appoggio di Ueli Leuenberger, presidente dei Verdi, di Josef Zisyadis – politico svizzero nato a Istanbul– e del socialista Carlo Sommaruga.
La seconda “flottiglia della libertà”, che
all’inizio del mese si diceva pronta a partire, dovrebbe salpare in agosto, ma è probabile che arrivi di fronte alle coste della
Striscia di Gaza a settembre. Sembrerebbe invece pronta al varo la missione della
nave Mary, noleggiata dalle “Donne per
Gaza”, un’organizzazione europea filo palestinese al femminile. Vorrebbero farla
salpare da Beirut, con a bordo personalità
cristiane, musulmane e donne non arabe.
• Una montagna di soldi e l’icona di “mamma grizzly” che difende la vera America segnano la bella strada verso il 2012
Così Palin esce dalla casa nella prateria verso la Casa Bianca
Milano. Dei fattori innovativi della sua candidatura alla nomination democratica 2008, Hillary Clinton ne sottovalutò uno: quello di essere “anche” una mamma. Ecco: la
rincorsa di Sarah Palin alla nomination repubblicana per
DI
STEFANO PISTOLINI
il 2012 parte esattamente da lì. Una mamma particolare,
come vedremo, almeno nell’immaginetta digitale sotto la
quale ha messo la firma, per dare impulso alle proprie
ambizioni politiche. Ci sono cose che Sarah sa già fare bene: trovare soldi, ad esempio, per foraggiare le campagne.
Palin esce da un eccellente periodo di fundraising e le
sue casse ora sono ben fornite per muovere all’azione. Altrettanto bene le riesce il gioco del punzecchiamento con
i media, verso i quali un tempo appariva troppo sospettosa. Adesso ha selezionato strumenti adatti al suo lessico –
Twitter innanzitutto – e li usa per incarnare la battagliera
paladina della maggioranza silenziosa, quella “real America” che condivide la sua negatività verso l’establishment. Efficacemente Sarah si sta muovendo anche nel
progetto di connessione online con gli elettori, ormai indispensabile a una seria piattaforma elettorale. E proprio
via Internet è ora in diffusione il suo video-manifesto delle “Mama grizzly”, che modifica l’icona della Palin con ef-
fetti ragguardevoli: in sostanza, dando per scontato che la
politica americana abbia bisogno del decisionismo delle
sue giovani candidate in gonnella. Con l’idea della “Mama
Grizzly”, Palin si è aggiornata su quel piano dell’immaginario televisivo dove attingerà la mole principale dei suoi
favori elettorali. Ecco, presa di peso da un telefilm sulla
casa nella prateria, l’idea della “mamma orsa” che, quando vede i cuccioli minacciati dal pericolo, si erge sulle
zampe posteriori e ruggisce prima della battaglia. Sarah
non abbaia più come il pitbull che non molla la presa,
piuttosto si erge a ultima trincea della casa, contro le stoltezze dei governanti incapaci. Nei due minuti Palin appare alla testa delle truppe del Tea Party, attenta a mantenere le distanze dalle insegne ufficiali del partito. Invece,
è proprio il dato femminile a essere sospinto con convinzione, l’immagine della madre consapevole e preoccupata, perfino quella del branco di elefanti rosa che al voto di
medio termine travolgerà le arzigogolate architetture del
governo obamiano.
Il video ha impeto, efficacia, una sua naturale rudezza
che ricorda l’approccio naturale delle prime mosse nazionali di Reagan. La retorica del messaggio acquisisce lo
status di “buonsenso della gente comune”, proprio grazie
al minimalismo ammiccante e allo slancio con cui Sarah
comunica. Così, quando in autunno Sarah scioglierà la riserva sulla candidatura per la Casa Bianca, il filmetto di
mamma orsa sarà già un piccolo classico e la chiamata all’attivismo delle donne americane in difesa del patrimonio nazionale un’idea in circolo. Sempre che lei sappia
dotarsi di qualcosa che Obama e Hillary approntarono
meticolosamente: le truppe di terra, l’esercito degli attivisti che dovranno arare il terreno per le battaglie che dovrà affrontare nelle primarie. Ma per contare su questa
moltitudine a tempo quasi pieno, la credibilità del personaggio deve andare oltre gli slogan. Ed è qui, nell’effettiva “sostanza” che provoca la mobilitazione, che i veterani
repubblicani dubitano che Palin ce la faccia. Convinti che
quella competenza che dev’essere materia prima d’un
candidato a guidare un paese inguaiato sia una chimera
per lei. I prossimi mesi sono decisivi per le aspirazioni di
Sarah: mamma orsa deve dimostrare di sapere come si fa.
Deve far capire d’essere pronta a mettersi al servizio di
tutti, da buon candidato centrista che vuole avere chance
di vittoria. Le donne preoccupate e in cerca di rivendicazioni vanno bene come rampa di lancio. Poi Sarah dovrà
parlare a tutti. Ovvero a quel novanta per cento di americani che non hanno idea di cosa diavolo sia un Tea Party
(e perché vada citato parlando di politica).
• Le borse asiatiche (e in parte quelle europee) festeggiano il trimestre sopra le attese della società di microprocessori
I superconti di Intel suonano la sveglia all’economia dei chip
Roma. La resurrezione, finalmente, è
arrivata: l’ex seminarista Paul S. Otellini,
l’italoamericano che guida Intel, il leader
mondiale dei microprocessori, ha potuto
annunciare ieri il miglior trimestre degli
ultimi 42 anni, cioè dell’intera storia del
gruppo che da sempre produce l’anima
dei computer. Non solo. Lo stesso Otellini
si è spinto a scommettere che di qui a fine
anno le cose continueranno a migliorare.
Di fronte a questi numeri (ricavi trimestrali che sfiorano gli 11 miliardi di dollari, contro gli 8,2 di un anno fa) Wall Street
e le borse asiatiche hanno fatto festa mentre l’Europa ha chiuso in sostanziale parità, dopo che lo sprint d’inizio giornata è
stato frenato dai soliti timori sullo stato
del debito pubblico e delle grandi banche.
Anche negli Stati Uniti l’entusiasmo rischia di essere smorzato dai problemi dell’occupazione. E non saranno le mille as-
C’
è un monumento a Berna dedicato
all’Orco delle favole, quello che divora i bambini. E’ disgustoso, sta lì in cima a una fontana che inghiotte un piccolino, mentre gli altri sbucano da un sacco
e urlano e sgambettano atterriti. Le autorità elvetiche l’avranno messo come spauracchio per i bambini disubbidienti, chissà. Jean Calmet, il protagonista del nostro
romanzo, fa una scoperta atroce: l’Orco
assomiglia a suo padre. Lo rivede, enorme, sudato, seduto a capotavola con quel
suo appetito vorace, tutta la famiglia intorno che non fiata, la mamma come un
topolino tremante che lo serve, lui e i fratelli con gli occhi bassi sulla minestra.
Jean Calmet si dimentica dei suoi allievi
che ha portato in gita scolastica a Berna,
loro intanto ridono e comprano cartoline
della fontana del cannibale. Lui resta impietrito: il padre l’aveva terrorizzato, brutalizzato, reso debole, impotente per conservare la sua potenza. Adesso è morto,
ma per Jean Calmet non c’è possibilità di
riscatto. Era e resta impotente, incapace
sunzioni promesse da Intel a cambiare la
situazione del mercato del lavoro.
Ma un fatto è certo: la resurrezione di
Intel, dopo 18 mesi di penitenza, non indica solo il rilancio di una delle grandi corporation della Silicon Valley; è anche il
primo segnale tangibile che l’economia accelera per davvero perché nel mondo d’oggi, i chip, materia prima base per la società digitale, hanno preso il posto dell’acciaio come metro di valutazione per tastare il polso dell’economia. L’industria
dei semiconduttori, infatti, è stata la prima
a entrare in recessione diciotto mesi fa.
Per la prima volta dal crac di Lehman
Brothers, le aziende hanno deciso di abbandonare la vecchia regola di rinnovare
ogni due anni la dotazione in tecnologie,
rinviando gli acquisti in computer e sistemi informatici con il risultato che un’intera generazione di nuovi prodotti è rimasta
LIBRI
Jacques Chessex
L’ORCO
217 pp., Fazi, euro 17,50
di vivere. Jacques Chessex, l’autore, prende continuamente, ossessivamente le distanze da Jean Calmet, il protagonista del
suo romanzo. Lo chiama sempre per nome e cognome, lo viviseziona, lo uccide. Il
tema scabroso del rapporto col padre ha
segnato la vita di grandi scrittori, pensiamo a Kafka, a Svevo. Leggere la loro opera in chiave autobiografica è riduttivo e
non ne spiega la grandezza. Così anche
per Chessex. Ma è quasi impossibile, ci
verrebbe da dire irresistibile, se non suonasse beffardo nel caso di vicende tanto
in magazzino mentre Intel conosceva l’onta dei conti in rosso. Ora, però, si volta pagina, grazie alle famiglie e, soprattutto, alle aziende. Già, Intel, così come Apple o i
big dell’elettronica, hanno superato il momento più difficile grazie alle spese domestiche, su spinta dei consumi dei ragazzi. “Quando do la buonanotte a mio figlio –
spiegava tre mesi fa agli analisti Stacy
Smith, direttore finanziario di Intel – spengo il suo pc, mica la televisione”. Ora,
però, i dati migliori arrivano dalle aziende. “Il fatto più importante – ha commentato a San Francisco lo stesso Otellini – riguarda le vendite ai grandi data center,
dove si immagazzinano a distanza le informazioni aziendali: più 177 per cento in tre
mesi”. Insomma, come è sempre accaduto,
anche stavolta la crisi ha accelerato la trasformazione dell’organizzazione del lavoro: le attività di ricerca e amministrazione
tragiche, non considerare le coincidenze
“fatali” della sua esistenza. Cominciamo
dalla fine, dalla sua morte. Sembra la
scena di uno dei suoi romanzi. Il 9 ottobre 2009 stava tenendo una conferenza,
quando si alza un uomo dal pubblico e lo
insulta per aver preso posizione a favore
di Roman Polanski sul caso di violenza
sessuale. Chessex vorrebbe ribattere, ma
l’uomo se n’è già andato. Concitato, comincia a spiegare le sue ragioni. Si accascia e muore. E’ il fantasma del padre,
morto suicida, che si vendica. Il figlio non
aveva saputo, non aveva voluto assisterlo
nei lunghi mesi della depressione. I ruoli si accavallano e si confondono. Come
quando era piccolo. Jean Calmet, il suo
alter ego, odiava l’Orco che lo picchiava e
insieme voleva rifugiarsi nelle sue braccia per essere consolato. Dal padre, grande studioso di linguistica, Jacques Chessex, ha ereditato la sua splendida, adamantina, chirurgica, prosa, con cui mette
in scena, come nelle tragedie greche, i
nodi cruciali della nostra esistenza.
vengono spostate sulla rete per abbassare
i costi e aumentare l’efficienza. Ciò si traduce in ottimi affari per Intel, così come
per i produttori di notebook e di altri pc
da viaggio. Non a caso alla grande festa
dei listini hanno partecipato ieri i primi
clienti di Intel, dal colosso cinese Lenovo
alla Acer di Taiwan, diretta dalla squadra
italiana che fa capo al torinese Gianfranco Lanci. Anche Stm, il gruppo italo-francese dei semiconduttori – non destinati
però ai pc – è stato tra i titoli migliori in
Europa. La fame di chip, infatti, non tocca
solo i computer e l’hardware per le grandi
organizzazioni. Secondo le stime del centro studi Gartner Group, nel 2010 la domanda di chip salirà del 27,4 per cento, investendo tutti i campi di applicazione: gli
smartphone, i sensori di energia piuttosto
che il mercato dell’auto, uno dei maggiori
consumatori di elettronica.
IL FOGLIO
quotidiano
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