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ANNO XV NUMERO 166 - PAG 3 EDITORIALI Cricche e imputati senza diritti La deriva giustizialista evidente nella carcerazione di De Santis e Balducci D opo cinque mesi di detenzione preventiva sono usciti dal carcere Fabio De Santis e Angelo Balducci, non in libertà ma obbligati agli arresti domiciliari. Le esigenze di custodia cautelare sostenute dalle procure e accettate dai giudici erano del tutto aleatorie. Dopo le dimissioni dalle cariche che rivestivano, sia la possibilità di inquinare le prove sia quella di reiterare il reato erano inesistenti, mentre per scongiurare la possibilità di fuga, del tutto ipotetica, bastava il ritiro dei passaporti. Il fatto è che si è instaurata una prassi perversa, secondo la quale chi non confessa deve restare in galera. Naturalmente non sarebbe così facile per le procure far accettare questa interpretazione assai stiracchiata della legge se i giudicanti fossero davvero terzi, invece di essere legati agli inquirenti dal sistema delle carriere e delle nomine congiunte. Chi, pur da posizioni garantiste, si oppone alla separazione delle carriere, come Andrea Orlando, responsabile per la Giustizia del Partito democratico, dovrebbe fornire una proposta alternativa che consenta di restaurare il principio dell’inviolabilità della libertà personale in assenza di effettive esigenze cautelari. Ma nel convegno sulla giustizia indetto ieri dal Pd questi temi cruciali non hanno trovato spazio, ed è un peccato. Sarebbe necessario far capire che la questione dei diritti degli imputati, in pratica il fondamento dell’habeas corpus, non è interesse solo di una parte, che poi viene accusata di sostenerlo per ragioni inconfessabili. In questo caso il problema non consiste nella legge, che se fosse applicata secondo la sua lettera e il suo spirito, sarebbe del tutto adeguata. Il fatto che si sia instaurata una prassi contra legem e che questa venga oramai considerata una prassi consolidata è invece assai preoccupante. Se le esigenze cautelari si trasformano nel diritto dell’accusa a tenere in carcere gli indagati che si dichiarano innocenti, si introduce una forma di pressione inaccettabile secondo tutti gli standard italiani e internazionali, una specie di tortura. Le organizzazioni dei diritti umani, che sono tanto sollecite a fare la lezione all’Italia, non hanno mai alzato un dito contro questa palese violazione, forse perché è perpetrata dai magistrati e non dal potere politico. La deriva giustizialista trae alimento da questi silenzi ideologici, ai quali sarebbe necessario che i garantisti reagissero in modo compatto, senza calcoli politici di parte che poi si rivelano sempre miopi e sbagliati. L’ingombrante silenzio del Pd su Ganzer Partito indeciso tra la linea delle procure e necessario senso delle istituzioni I vertici del Pd non hanno detto assolutamente nulla sul caso Ganzer. Un silenzio che inquieta, a fronte dello scontro frontale tra il comando dei carabinieri e il tribunale di Milano. Un partito che pretende di candidarsi al governo del paese, e che un giorno sì e l’altro pure s’impanca a insegnare il valore e il senso delle istituzioni, tace imbarazzato a fronte della clamorosa decisione del vertice dell’Arma, esplicitamente condivisa da parte del governo, di mantenere il generale Ganzer nel suo delicato incarico a capo dei Ros, nonostante una condanna a 14 anni per reati gravissimi: uno schiaffo, in guanti bianchi, alla procura e al tribunale di Milano che l’hanno condannato. Il Pd in realtà tace perché è diviso tra chi vuole assumere la parte di Di Pietro (che però, furbamente, tace anche lui) e schierarsi a fianco della magistratura ambrosiana e chi invece ritiene che la condanna a Ganzer sia un vulnus al nostro sistema di sicurezza nazionale, ingiustificabile sotto ogni profilo, a partire da quello del diritto. Un silenzio che testimonia un allarmante sta- to confusionale dei vertici del Pd. Ed è la seconda volta in pochi giorni che quel aprtito manca di prendere posizione su scabrosissimi snodi istituzionali nel settore della sicurezza. Poteva infatti essere comprensibile l’imbarazzo dei democratici sulla condanna di Gianni De Gennaro per i fatti del G8 di Genova, ma è scandaloso il silenzio del giorno dopo, quando il governo ha respinto le sue dimissioni. De Gennaro è direttore del Dis, il servizio che coordina Aisi e Aise, un ruolo chiave nei servizi segreti e quindi era non solo opportuno, ma indispensabile che i vertici massimi del Pd approvassero, o criticassero, il respingimento delle sue dimissioni, nonostante la condanna, per di più per quel reato. Nulla. Il segretario Bersani ha taciuto, il vicesegretario Letta ha taciuto e così Veltroni, Franceschini e lo stesso D’Alema, che almeno ha l’attenuante di presiedere il Copasir, l’organo parlamentare di controllo sull’operato (anche) di De Gennaro, e di essere tenuto a un minimo di riservatezza. Ganzer o De Gennaro, l’impressione è che siano indecisi a tutto. Ripresa: noi + 0,9, Germania + 2,9 Però c’è bassa inflazione: evitato per ora il rischio della stagflation L’ inflazione a giugno è scesa all’1,3 per cento annuo, rallentando rispetto all’1,4 per cento di maggio. Non solo, secondo l’Istat l’indice dei prezzi al consumo a giugno è rimasto invariato rispetto a maggio. Si poteva pensare che, con la ripresa economica in corso, il tasso di inflazione tendesse a salire, invece esso è sceso. E ciò nonostante il deprezzamento dell’euro potesse generare un aumento dei prezzi dell’import. Nell’andamento delle diverse voci di spesa, emerge, fra maggio e giugno, una diminuzione di 0,3 punti per i trasporti, che controbilancia il lieve aumento (di 0,1) del prezzo degli alimentari. Questo comunque risulta ancora dello 0,3 per cento inferiore a quello del giugno del 2009. Se ne desume che il costo della vita per le persone con minore potere d’acquisto, nell’ultimo anno, è rimasto stazionario. Dunque la ripresa sta percorrendo un sentiero virtuoso, perché non si accompagna a prezzi crescenti, ma stabili o in discesa. Certo la ripresa in Italia potrebbe essere più vigorosa. Infatti a maggio la nostra produzione industriale è aumentata dell’1 per cento rispetto al mese precedente. Meglio dell’area euro (ferma a più 0,9) ma non troppo. In Germania l’aumento è stato del 2,9 per cento e in Francia dell’1,9. Le manovre fiscali correttive non sembrano aver ridotto la ripresa dell’Eurozona. Lo mostrano i dati della Germania, ma anche della Grecia che ha subito una stretta fiscale aspra e ciò nonostante in maggio ha avuto una crescita industriale dello 0,9 per cento. Nei paesi senza crisi bancaria, le manovre correttive, riducendo la pressione del debito pubblico sul mercato finanziario, hanno consentito una maggiore disponibilità di credito alle imprese; e la riduzione della spesa pubblica, riducendo la domanda, ha contribuito alla stabilizzazione dei prezzi. Lo scenario della stagflazione è dunque lontano, e non a caso la Bce mantiene invariato il tasso d’interesse, stimolando la ripresa in modo non keynesiano. Ma ora urge uno choc pro crescita. IL FOGLIO QUOTIDIANO GIOVEDÌ 15 LUGLIO 2010 • Il generale comincia con tre richieste alla Casa Bianca, a Karzai e ai pachistani. Al Qaida nomina il suo AntiPetraeus Lunedì spie, martedì guerriglia. Ecco l’agenda di Petraeus Lunedì, il generale Petraeus è atterrato in Pakistan. Il nuovo comandante della guerra in Afghanistan sa come gira il mondo e come primo atto del suo mandato si è presentato a Rawalpindi, la capitale militare del paese, gemella della capitale politica, Islamabad, a pochi chilometri. Se vuoi battere i talebani, sa bene, prima devi andare a parlare con i generali pachistani. Petraeus ha incontrato il capo delle Forze armate, Ashfaq Pervez Kayani, e in pubblico ha speso le consuete parole di lode e incoraggiamento per gli sforzi contro il terrorismo intrapresi dal Pakistan. Ma con Kayani, faccia triste, decine di sigarette e le occhiaie di chi nel lavoro deve mediare e tenere conto di pressioni di segno completamente opposto, c’è un rapporto particolare di fiducia. Il pachistano ha ricevuto negli stessi momenti anche una telefonata di Anne Patterson, la donna messa dal dipartimento di stato a guidare l’ambasciata americana in Pakistan. Non si sa che cosa i due americani abbiano chiesto al generale, ma con tutta probabilità si tratta della solita richiesta: levateci di mezzo i gruppi di terroristi e guerriglieri pachistani che attraversano il confine e vengono a combattere in Afghanistan, perché conviene anche a voi. Ieri otto soldati Nato sono morti in attacchi in tutto il paese. Ieri, il generale Petraeus è arrivato a Kabul, dove ha incontrato il presidente afghano Hamid Karzai. I due sono impegnati in uno scontro clamoroso sulla questione delle milizie locali. Petraeus vorrebbe una, cento, mille milizie locali nei villaggi più remoti del paese, dove la polizia e l’esercito afghani non arrivano, in modo che la popolazione combatta armi in pugno i talebani. Karzai teme la proliferazione di signori e signorotti della guerra, che poi contesteranno il potere centrale del suo governo (che già adesso è parecchio debole e spesso irriso: il soprannome del presidente è “il sindaco di Kabul”). Lo scontro frontale potrebbe risolversi mettendo le milizie sotto l’autorità della capitale, ma entrambi sanno che se in Afghanistan fosse veramente così semplice la guerra sarebbe finita da otto anni. Ieri Karzai ha ceduto al generale (per ora). Lunedì un infiltrato afghano ha ucciso nel sonno il comandante di una base inglese e altri due soldati prima di riunirsi ai talebani. Al Qaida ha nominato il controPetraeus. Negli stessi giorni in cui l’Amministrazione Obama ha sostituito il generale ribelle McChrystal con Petraeus, anche al Qaida ha nominato un nuovo capo delle operazioni in Afghanistan, al posto di Mustafà Yazid al Masri, ucciso da un dro- ne americano nell’area tribale pachistana del Waziristan del nord. Il nuovo leader è Sheikh Fateh al Masri, come indica il nome di guerra al Masri è anche lui egiziano e secondo fonti dell’intelligence americana non faceva parte di al Qaida, anche se ha una lunga esperienza di combattimento in Afghanistan e in Pakistan. Al Masri, anche se arabo, è stato a lungo embedded nelle unità talebane e ha buoni contatti con i guerriglieri afghani. Non è scemo: sembra abbia già detto ai suoi che il grosso delle operazioni sarà condotto a sud del confine, contro il Pakistan, ventre molle della guerra. Il generale Petraeus chiede alla Casa Bianca di inserire gli uomini dell’Haqqani network nella lista nera del terrorismo. La rete Haqqani è il gruppo più violento della guerriglia afghana e anche il più legato agli arabi di al Qaida. La mossa di Petraeus taglia la strada a Karzai, che si dice abbia incontrato gli emissari di Haqqani per trattare una spartizione di poteri, ed è uno schiaffo in faccia all’esercito pachistano, nonostante le lodi pubbliche pronunciate lunedì. Il clan Haqqani lavora a stretto contatto con l’intelligence militare pachistana, e aprirgli la caccia contro è un colpo d’avvertimento alle spie che manovrano i talebani e i terroristi come al teatro dei burattini. • Da Genova a Istanbul alla Svizzera la rete degli amici di Hamas si mobilita per violare il blocco navale della Striscia Ecco i preparativi (italiani) per la seconda flottiglia verso Gaza Roma. Gli amici di Hamas stanno organizzando una seconda flottiglia per forzare l’embargo di Gaza. E’ ben più possente della prima spedizione, che il 31 maggio ha provocato l’intervento dei corpi speciali israeliani ed è finita con la morte di nove persone: sette navi europee – tra cui una italiana e una svizzera – sono già pronte, anche se bisogna ancora pagare parte dei costi. L’obiettivo è totalizzare venti imbarcazioni e, secondo gli organizzatori della campagna, gli attivisti pronti a imbarcarsi sono già novemila. Nel frattempo il figlio del colonnello Gheddafi, Seif al Islam, ha spedito verso Gaza l’Amalthea, un cargo battente bandiera moldava. Unità della marina israeliana l’hanno seguita a distanza intimandole di cambiare rotta. Ieri il capitano cubano, nonostante l’opposizione degli attivisti a bordo, ha diretto il timone sul porto egiziano di el Arisch. Ma non è escluso che si tratti di un diversivo per cercare di proseguire verso Gaza dalle acque egiziane. I promotori della “Campagna europea contro l’assedio” si sono mobilitati subito dopo l’epilogo sanguinoso della missione della prima flottiglia. In Italia, il 7 giugno scorso, Semih Lütfü Turgut ha aperto le porte dell’ambasciata turca a Mohammad Hannoun dell’Associazione palestinesi in Italia, al presidente dell’Unione delle comunità islamiche italiane e a Manolo Luppichini e Angela Lano, giornalisti militanti che erano a bordo della prima flotta. Nell’occasione Hannoun ha ringraziato il governo turco per il sostegno e ha annunciato “l’allestimento della Freedom flotilla 2, che si comporrà di circa venti navi e 5.000 passeggeri”. Attraverso l’Associazione benefica di solidarietà con il popolo palestinese (Ab- spp) – fondata da Hannoun con sede a Genova – si raccolgono fondi per la nuova spedizione, da depositare presso la Banca popolare etica. La nave italiana è stata noleggiata, ma la onlus avvisa che bisogna “pagare la prima rata del 15 per cento e tra due settimane il resto”. In passato i soldi raccolti dall’Abspp sono finiti alle famiglie degli attentatori suicidi. Il 7 luglio scorso la raccolta fondi ha portato Hannoun anche in Brasile, a capo di una delegazione europea di attivisti anti israeliani, dove il vicepresidente del Senato brasiliano l’ha incitato a “lottare insieme perché si rompa l’ingiusto embargo contro la Striscia di Gaza”. Ma gli amici di Hamas sono molto attivi anche in Svizzera. Per la nave elvetica sono già stati racimolati 250 mila franchi, la metà della somma necessaria. Il promotore è Anouar Gharbi, 45 anni, svizzero d’o- rigine tunisina, che a Ginevra guida l’ong “Diritti per tutti”. Amico del controverso Tariq Ramadan, nei primi anni duemila Gharbi faceva parte di un’associazione amica di Hamas che è stata messa al bando da Stati Uniti e Israele. Può contare sull’appoggio di Ueli Leuenberger, presidente dei Verdi, di Josef Zisyadis – politico svizzero nato a Istanbul– e del socialista Carlo Sommaruga. La seconda “flottiglia della libertà”, che all’inizio del mese si diceva pronta a partire, dovrebbe salpare in agosto, ma è probabile che arrivi di fronte alle coste della Striscia di Gaza a settembre. Sembrerebbe invece pronta al varo la missione della nave Mary, noleggiata dalle “Donne per Gaza”, un’organizzazione europea filo palestinese al femminile. Vorrebbero farla salpare da Beirut, con a bordo personalità cristiane, musulmane e donne non arabe. • Una montagna di soldi e l’icona di “mamma grizzly” che difende la vera America segnano la bella strada verso il 2012 Così Palin esce dalla casa nella prateria verso la Casa Bianca Milano. Dei fattori innovativi della sua candidatura alla nomination democratica 2008, Hillary Clinton ne sottovalutò uno: quello di essere “anche” una mamma. Ecco: la rincorsa di Sarah Palin alla nomination repubblicana per DI STEFANO PISTOLINI il 2012 parte esattamente da lì. Una mamma particolare, come vedremo, almeno nell’immaginetta digitale sotto la quale ha messo la firma, per dare impulso alle proprie ambizioni politiche. Ci sono cose che Sarah sa già fare bene: trovare soldi, ad esempio, per foraggiare le campagne. Palin esce da un eccellente periodo di fundraising e le sue casse ora sono ben fornite per muovere all’azione. Altrettanto bene le riesce il gioco del punzecchiamento con i media, verso i quali un tempo appariva troppo sospettosa. Adesso ha selezionato strumenti adatti al suo lessico – Twitter innanzitutto – e li usa per incarnare la battagliera paladina della maggioranza silenziosa, quella “real America” che condivide la sua negatività verso l’establishment. Efficacemente Sarah si sta muovendo anche nel progetto di connessione online con gli elettori, ormai indispensabile a una seria piattaforma elettorale. E proprio via Internet è ora in diffusione il suo video-manifesto delle “Mama grizzly”, che modifica l’icona della Palin con ef- fetti ragguardevoli: in sostanza, dando per scontato che la politica americana abbia bisogno del decisionismo delle sue giovani candidate in gonnella. Con l’idea della “Mama Grizzly”, Palin si è aggiornata su quel piano dell’immaginario televisivo dove attingerà la mole principale dei suoi favori elettorali. Ecco, presa di peso da un telefilm sulla casa nella prateria, l’idea della “mamma orsa” che, quando vede i cuccioli minacciati dal pericolo, si erge sulle zampe posteriori e ruggisce prima della battaglia. Sarah non abbaia più come il pitbull che non molla la presa, piuttosto si erge a ultima trincea della casa, contro le stoltezze dei governanti incapaci. Nei due minuti Palin appare alla testa delle truppe del Tea Party, attenta a mantenere le distanze dalle insegne ufficiali del partito. Invece, è proprio il dato femminile a essere sospinto con convinzione, l’immagine della madre consapevole e preoccupata, perfino quella del branco di elefanti rosa che al voto di medio termine travolgerà le arzigogolate architetture del governo obamiano. Il video ha impeto, efficacia, una sua naturale rudezza che ricorda l’approccio naturale delle prime mosse nazionali di Reagan. La retorica del messaggio acquisisce lo status di “buonsenso della gente comune”, proprio grazie al minimalismo ammiccante e allo slancio con cui Sarah comunica. Così, quando in autunno Sarah scioglierà la riserva sulla candidatura per la Casa Bianca, il filmetto di mamma orsa sarà già un piccolo classico e la chiamata all’attivismo delle donne americane in difesa del patrimonio nazionale un’idea in circolo. Sempre che lei sappia dotarsi di qualcosa che Obama e Hillary approntarono meticolosamente: le truppe di terra, l’esercito degli attivisti che dovranno arare il terreno per le battaglie che dovrà affrontare nelle primarie. Ma per contare su questa moltitudine a tempo quasi pieno, la credibilità del personaggio deve andare oltre gli slogan. Ed è qui, nell’effettiva “sostanza” che provoca la mobilitazione, che i veterani repubblicani dubitano che Palin ce la faccia. Convinti che quella competenza che dev’essere materia prima d’un candidato a guidare un paese inguaiato sia una chimera per lei. I prossimi mesi sono decisivi per le aspirazioni di Sarah: mamma orsa deve dimostrare di sapere come si fa. Deve far capire d’essere pronta a mettersi al servizio di tutti, da buon candidato centrista che vuole avere chance di vittoria. Le donne preoccupate e in cerca di rivendicazioni vanno bene come rampa di lancio. Poi Sarah dovrà parlare a tutti. Ovvero a quel novanta per cento di americani che non hanno idea di cosa diavolo sia un Tea Party (e perché vada citato parlando di politica). • Le borse asiatiche (e in parte quelle europee) festeggiano il trimestre sopra le attese della società di microprocessori I superconti di Intel suonano la sveglia all’economia dei chip Roma. La resurrezione, finalmente, è arrivata: l’ex seminarista Paul S. Otellini, l’italoamericano che guida Intel, il leader mondiale dei microprocessori, ha potuto annunciare ieri il miglior trimestre degli ultimi 42 anni, cioè dell’intera storia del gruppo che da sempre produce l’anima dei computer. Non solo. Lo stesso Otellini si è spinto a scommettere che di qui a fine anno le cose continueranno a migliorare. Di fronte a questi numeri (ricavi trimestrali che sfiorano gli 11 miliardi di dollari, contro gli 8,2 di un anno fa) Wall Street e le borse asiatiche hanno fatto festa mentre l’Europa ha chiuso in sostanziale parità, dopo che lo sprint d’inizio giornata è stato frenato dai soliti timori sullo stato del debito pubblico e delle grandi banche. Anche negli Stati Uniti l’entusiasmo rischia di essere smorzato dai problemi dell’occupazione. E non saranno le mille as- C’ è un monumento a Berna dedicato all’Orco delle favole, quello che divora i bambini. E’ disgustoso, sta lì in cima a una fontana che inghiotte un piccolino, mentre gli altri sbucano da un sacco e urlano e sgambettano atterriti. Le autorità elvetiche l’avranno messo come spauracchio per i bambini disubbidienti, chissà. Jean Calmet, il protagonista del nostro romanzo, fa una scoperta atroce: l’Orco assomiglia a suo padre. Lo rivede, enorme, sudato, seduto a capotavola con quel suo appetito vorace, tutta la famiglia intorno che non fiata, la mamma come un topolino tremante che lo serve, lui e i fratelli con gli occhi bassi sulla minestra. Jean Calmet si dimentica dei suoi allievi che ha portato in gita scolastica a Berna, loro intanto ridono e comprano cartoline della fontana del cannibale. Lui resta impietrito: il padre l’aveva terrorizzato, brutalizzato, reso debole, impotente per conservare la sua potenza. Adesso è morto, ma per Jean Calmet non c’è possibilità di riscatto. Era e resta impotente, incapace sunzioni promesse da Intel a cambiare la situazione del mercato del lavoro. Ma un fatto è certo: la resurrezione di Intel, dopo 18 mesi di penitenza, non indica solo il rilancio di una delle grandi corporation della Silicon Valley; è anche il primo segnale tangibile che l’economia accelera per davvero perché nel mondo d’oggi, i chip, materia prima base per la società digitale, hanno preso il posto dell’acciaio come metro di valutazione per tastare il polso dell’economia. L’industria dei semiconduttori, infatti, è stata la prima a entrare in recessione diciotto mesi fa. Per la prima volta dal crac di Lehman Brothers, le aziende hanno deciso di abbandonare la vecchia regola di rinnovare ogni due anni la dotazione in tecnologie, rinviando gli acquisti in computer e sistemi informatici con il risultato che un’intera generazione di nuovi prodotti è rimasta LIBRI Jacques Chessex L’ORCO 217 pp., Fazi, euro 17,50 di vivere. Jacques Chessex, l’autore, prende continuamente, ossessivamente le distanze da Jean Calmet, il protagonista del suo romanzo. Lo chiama sempre per nome e cognome, lo viviseziona, lo uccide. Il tema scabroso del rapporto col padre ha segnato la vita di grandi scrittori, pensiamo a Kafka, a Svevo. Leggere la loro opera in chiave autobiografica è riduttivo e non ne spiega la grandezza. Così anche per Chessex. Ma è quasi impossibile, ci verrebbe da dire irresistibile, se non suonasse beffardo nel caso di vicende tanto in magazzino mentre Intel conosceva l’onta dei conti in rosso. Ora, però, si volta pagina, grazie alle famiglie e, soprattutto, alle aziende. Già, Intel, così come Apple o i big dell’elettronica, hanno superato il momento più difficile grazie alle spese domestiche, su spinta dei consumi dei ragazzi. “Quando do la buonanotte a mio figlio – spiegava tre mesi fa agli analisti Stacy Smith, direttore finanziario di Intel – spengo il suo pc, mica la televisione”. Ora, però, i dati migliori arrivano dalle aziende. “Il fatto più importante – ha commentato a San Francisco lo stesso Otellini – riguarda le vendite ai grandi data center, dove si immagazzinano a distanza le informazioni aziendali: più 177 per cento in tre mesi”. Insomma, come è sempre accaduto, anche stavolta la crisi ha accelerato la trasformazione dell’organizzazione del lavoro: le attività di ricerca e amministrazione tragiche, non considerare le coincidenze “fatali” della sua esistenza. Cominciamo dalla fine, dalla sua morte. Sembra la scena di uno dei suoi romanzi. Il 9 ottobre 2009 stava tenendo una conferenza, quando si alza un uomo dal pubblico e lo insulta per aver preso posizione a favore di Roman Polanski sul caso di violenza sessuale. Chessex vorrebbe ribattere, ma l’uomo se n’è già andato. Concitato, comincia a spiegare le sue ragioni. Si accascia e muore. E’ il fantasma del padre, morto suicida, che si vendica. Il figlio non aveva saputo, non aveva voluto assisterlo nei lunghi mesi della depressione. I ruoli si accavallano e si confondono. Come quando era piccolo. Jean Calmet, il suo alter ego, odiava l’Orco che lo picchiava e insieme voleva rifugiarsi nelle sue braccia per essere consolato. Dal padre, grande studioso di linguistica, Jacques Chessex, ha ereditato la sua splendida, adamantina, chirurgica, prosa, con cui mette in scena, come nelle tragedie greche, i nodi cruciali della nostra esistenza. vengono spostate sulla rete per abbassare i costi e aumentare l’efficienza. Ciò si traduce in ottimi affari per Intel, così come per i produttori di notebook e di altri pc da viaggio. Non a caso alla grande festa dei listini hanno partecipato ieri i primi clienti di Intel, dal colosso cinese Lenovo alla Acer di Taiwan, diretta dalla squadra italiana che fa capo al torinese Gianfranco Lanci. Anche Stm, il gruppo italo-francese dei semiconduttori – non destinati però ai pc – è stato tra i titoli migliori in Europa. La fame di chip, infatti, non tocca solo i computer e l’hardware per le grandi organizzazioni. Secondo le stime del centro studi Gartner Group, nel 2010 la domanda di chip salirà del 27,4 per cento, investendo tutti i campi di applicazione: gli smartphone, i sensori di energia piuttosto che il mercato dell’auto, uno dei maggiori consumatori di elettronica. IL FOGLIO quotidiano ORGANO DELLA CONVENZIONE PER LA GIUSTIZIA Direttore Responsabile: Giuliano Ferrara Vicedirettore Esecutivo: Maurizio Crippa Vicedirettore: Alessandro Giuli Coordinamento: Claudio Cerasa Redazione: Michele Arnese, Annalena Benini, Stefano Di Michele, Mattia Ferraresi, Giulio Meotti, Salvatore Merlo, Paola Peduzzi, Daniele Raineri, Marianna Rizzini, Paolo Rodari, Nicoletta Tiliacos, Piero Vietti, Vincino. Giuseppe Sottile (responsabile dell’inserto del sabato) Editore: Il Foglio Quotidiano società cooperativa Via Carroccio 12 - 20123 Milano Tel. 02/771295.1 La testata beneficia di contributi diretti di cui alla legge n. 250/90 Presidente: Giuseppe Spinelli Direttore Generale: Michele Buracchio Redazione Roma: Lungotevere Raffaello Sanzio 8/c 00153 Roma - Tel. 06.589090.1 - Fax 06.58335499 Registrazione Tribunale di Milano n. 611 del 7/12/1995 Telestampa Centro Italia srl - Loc. Colle Marcangeli - Oricola (Aq) STEM Editoriale spa - Via Brescia, 22 - Cernusco sul Naviglio (Mi) S.T.S. spa V Strada 35 - Loc. Piano D’Arci - Catania Centro Stampa L’Unione Sarda - Via Omodeo - Elmas (Ca) Distribuzione: PRESS-DI S.r.l. Via Cassanese 224 - 20090 Segrate (Mi) Pubblicità: Mondadori Pubblicità S.p.A. 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