Giuseppe Dessì | Viaggio per mare pdf 21 KB

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Giuseppe Dessì | Viaggio per mare pdf 21 KB
“Viaggio per mare”
Racconto di Giuseppe Dessì.
Tratto dalla rivista aziendale “Il gatto selvatico” (marzo 1959).
« Quanto ne abbiamo, a oggi? » mi chiese don Paolicco fermandosi in mezzo alla
piazza. Io guardai l'orologio della torre come se mi avessero chiesto l'ora, non il
giorno del mese. « Dunque vi siete deciso » dissi io. « Se il tempo non cambia »
disse, e alzò la faccia al cielo grigio.
Che il tempo potesse cambiare entro la settimana non lo credevo possibile:
cambiare in bello. Invece cambiò e don Paolicco prese con me il treno di Golfo
Aranci, perchè a quel tempo il piroscafo per il continente partiva da quel porto.
Non era la prima volta che don Paolicco andava a Roma, e nemmeno una delle
prime, ma così gli piaceva di far credere a noi giovani, e noi per compiacerlo
stavamo al gioco e gli facevamo perfino da guida, benché fosse chiaro che avesse
potuto cavarsela benissimo da solo.
Il bestiame era già stato caricato e si sentiva il muglio dei vitelli dai boccaporti.
Dovevano essere una trentina, stipati, tutte bestie da macello. Don Paolicco aveva
ancora in mano lo sverzicco d'olivastro che s'era tagliato il giorno prima al Molino a
Vento, quando li aveva contati.
« Sai », mi disse indicandomi le brune colline sulle quali scendevano le ombre
della sera, « aranci qui non ce ne sono mai stati». «Che aranci?» dissi io. « Sì »,
continuò lui sporgendosi a guardare dalla murata, « aranci ». Gli aranci vengono
bene nei posti riparati dal vento, non qui. A Milis, vengono. Qui, più che lentischi e
scope!... E' un posto disgraziato, questo ». « Ma di che cosa state parlando, don
Paolicco? » dissi io che non capivo. Lui mi guardò con gli occhietti di topo. « Eh, il
nome. Lo chiamano il Golfo degli Aranci, questo posto! Che aranci! Qui ci venivano i
ladroni di mare a fare gli arrangi. Arrangi, non aranci... Qui si dividevano quello che
avevano rubato, si arrangiavano tra loro ».
Non chiesi chi glielo aveva detto, perchè conoscevo la sua risposta: mi avrebbe
detto che bastava pensarci su un poco, per capirlo. E del resto la sua fortuna
l'aveva fatta così, don Paolicco, pensandoci su un poco. Aveva cominciato
comprando e rivendendo bestiame nei mercati dell'isola. Lavorava sul sicuro. E
così pian piano aveva messo su un capitale. Ora possedeva vasti terreni da pascolo,
dove allevava il bestiame brado, e da qualche tempo aveva allargato il suo
commercio fino al continente. Ma quanto possedesse in terre e bestiame, nessuno
lo avrebbe potuto dire con precisione.
Il mare era liscio e lucente, e noi andavamo incontro alla luna. Scendemmo in
cabina preceduti dal cameriere, che ci portava i bagagli, e quando il giovanotto se
ne fu andato, don Paolicco mi chiese se soffrivo di mal di mare. Gli dissi di no e lui
mi pregò di prendere la cuccetta superiore. « lo soffro », disse. E mi confidò, come
un grande segreto, che aveva già fatto altri viaggi. Io, scherzando, mi dolsi di
essere stato ingannato, ma lui si scusò dicendo che si metteva in mare solo quando
non ne poteva fare a meno, e che era sempre come se fosse al suo primo viaggio.
« Ma il primo » dissi io, sporgendomi dalla cuccetta, « quando lo avete fatto? »
« Eh! » rise lui agitando la mano fuori dalla sua.
Contro ogni previsione quella sera si ballò forte. Lunghe ondate ci portarono su e
giù tutta la notte per la rotta faticosa, e arrivammo con un paio d'ore di ritardo a
Civitavecchia.
Don Paolicco aveva mangiato pane e formaggio in cabina, rifiutandosi di venire
con me in sala, poi si era steso nella sua cuccetta, ed era rimasto immobile e zitto
come un tronco fino a che non suonò il segnale dell'arrivo. Io non avevo chiuso
occhio tutta la notte, preso in quel su e giù della nave dal pensiero della donna che
mi aspettava e per la quale io facevo quel viaggio. Sarei rimasto con lei un giorno e
una notte e poi sarei ripartito e non l'avrei rivista per alcuni mesi. Nessuno
conosceva il mio segreto.
Ogni tanto mi sporgevo dalla cuccetta e davo un'occhiata a don Paolicco.
Sembrava un santo di sughero. Si udiva distintamente il ticchettio del grosso
orologio che aveva appeso all'apposito gancio accanto alla caraffa dell'acqua, e
tutto intorno era una foresta di rumori gravi o sottili, i tonfi ritmici delle macchine,
gli scricchiolii e i gemiti del fasciame, lo sciabordio delle lunghe ondate.
Con meraviglia m'avvidi che non aveva levato il grosso portafoglio di pelle di
capretto pirografata dalla tasca della giacca ai piedi della cuccetta.
« E' andata bene, stanotte » dissi io al mattino, quando mi raggiunse sul ponte
tra gli spruzzi delle ondate. « Sfido! » disse lui aggrappandosi a una fune per non
cadere. « Il mare sembrava un olio! ».
Due giorni dopo, fu puntuale all'imbarco. Mi chiese se gli affari erano andati bene.
« Bene! » dissi io « molto bene! ». Lui mi guardò con un'aria maliziosa.
Ci misero nella stessa cabina, come all'andata; una cabina di prima classe con
due sole cuccette, e, come l'altra volta, don Paolicco tirò fuori dalla valigetta la sua
cena: pane sardo e formaggio pecorino. Siccome non avevo voglia di veder gente,
accettai il suo invito e mangiai anch'io pane e formaggio; poi lui tirò fuori dalla
valigetta una bottiglia d'acquavite, e me la passò. Era una bottiglia da mezzo litro,
così in poche sorsate la vuotammo.
« E quando ti sposi? » mi chiese come riprendendo un discorso già cominciato. Mi
ricordo il suo sorriso malizioso. « Non so » dissi io, « non ci ho ancora pensato ».
« Sposati » disse. « Se è una brava ragazza, la devi sposare; e se non è, smettila
di buttare danari in viaggi. Non ce n'è di ragazze in Sardegna? Ci sono più ragazze
che pecore! ».
Appena fuori del porto il mare cominciò a farsi sentire peggio dell'altra volta. Io
presi posto nella mia cuccetta e guardando nello specchio, capii perchè don
Paolicco lasciava il portafoglio in vista nella tasca della giacca. I denari li metteva in
un fazzoletto che teneva sotto il cuscino. Ma non voleva far misteri con me:
sapeva che lo vedevo; anzi dallo specchio si voltò e con un'occhiata, mi disse: « Se
muoio questi li dai a mia moglie ». « E perchè pensate a morire? » dissi io ridendo.
Quella notte don Paolicco soffrì, e gridava, tanto che io dovetti chiamare il
cameriere per fargli portare un calmante. Ma prima che il giovane entrasse, mi
diede il pacco delle banconote e mi disse di nasconderlo sotto il materasso. Però,
non appena il cameriere fu uscito, lo rivolle indietro, e gemendo vi si rannicchiò con
la faccia contro la parete stringendosi al petto il malloppo. Poi, quando passammo
davanti alle Bocche di Bonifacio e il mare si fece ancora più grosso, mi porse
ancora il pacchetto raccomandandomi di nasconderlo e di darlo a sua moglie, se
mai fossi tornato a Sassari. Era un bel pacco di soldi e non capisco perchè non
avesse fatto un assegno o non li avesse spediti per mezzo di una banca. Forse, per
l'antica diffidenza che i sardi hanno per le banche, cercava di averci a che fare il
meno possibile. Comunque fosse, c'era quel pacchetto, tre o quattrocento biglietti
da mille, che a quel tempo erano un patrimonio. E non so più quante volte me lo
diede, e se lo riprese, sporgendo dall'orlo del tettuccio la mano grinzosa,
combattuto tra la paura di morire e quella di perdere il pacchetto. Se mi assopivo,
lo sentivo battere con nocche alla sponda. Tra veglia e sonno, il giochetto durò
tutta la notte.
La mattina seguente, come se niente fosse, tirò fuori un'altra bottiglia di
acquavite e me la porse. Bevemmo. Era di quell’acquavite fabbricata in casa
clandestinamente che noi chiamiamo fìldiferro, perchè scende in corpo come un filo
di ferro rovente.
«Sposala, se è una brava ragazza», mi disse scuotendomi per la spalla. « Ma
questi viaggi... », e fece di no col dito.
Ma non era un consiglio. Più che altro voleva dirmi che aveva capito tutto, che
sapeva il mio segreto. E c'era dunque un'intesa, tra noi: che non avremmo fatto
chiacchiere inutili, su quel viaggio.
Giuseppe Dessì