9 1. C`è una mosca gigante che m`insegue, il

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9 1. C`è una mosca gigante che m`insegue, il
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C’è una mosca gigante che m’insegue, il corpo nero blu
grande quanto una testa d’uomo. Sbatte le ali con frenesia
ritmica, lanciata in picchiata, fa capolino tra i cornicioni dei
palazzi. L’avvisto; mi avvista. Adrenalinica infilo via dell’Indipendenza, imbocco il viale, supero la stazione ferroviaria,
sterzo all’altezza del semaforo, scendo giù per via Amendola. Corro a centoquaranta chilometri all’ora, come avessi un
motore collegato ai piedi. Io, devo essere appena nata: ho
un corpo da bebè, un pannolone che mi fascia il culo, sono
scalza e nuda. Io sono io, eppure a tratti sono la mosca;
i miei occhi due fessure che penetrano l’asfalto. Planando
in volo perfetto perforo l’aria. Poi sono Mika. Ho il cuore
piantato in gola, la paura di essere morsicata. Doppio file di
pali della luce, aiuole spoglie, cartelli d’indicazione stradale,
insegne di negozi. Sono Mika, in una fuga pazza e dissennata per il mondo: c’è una mosca gigante che m’insegue.
«Max», dissi al risveglio.
Era il ventisei dicembre. Le sei del pomeriggio, c’era la
nebbia. Quest’anno, pensai. Mi sentivo soffocare, una mano
gelida intorno al collo.
«Max», dissi senza staccare la bocca dal cuscino, «tu mi
devi fare un favore».
Era sdraiato su un fianco, vicino a me, la testa sostenuta
nel palmo della mano, posizione che assume per non addormentarsi.
«Devi andare in cucina, estrarre dal ceppo il secondo col9
tello da destra», dissi. «Quello con la lama liscia e appuntita
per trinciare la carne, che mai abbiamo usato in quanto non
mangiamo le bistecche. Poi tornare qui, impugnarlo e uccidermi».
Lui lanciò uno sbadiglio. Sollevò il volume di Le anime
morte e lo guardò in sezione.
«… è necessario che la faccia finita. Ma sono troppo codarda per colpire il mio corpo, e il sangue mi terrorizza. è
tuttavia evidente che non posso continuare ad agire così.
Per pura fisiologia, sistematico adattamento a un sistema
nel quale neppure credo».
Vidi che si alzava. Lo sbirciai mentre scendeva le scale
che separano la camera dal soggiorno.
«… Io ti chiedo questo gesto d’amore. Sarà l’ultima cosa
che farai per me. Non prima però d’avermi procurato penna e carta. Bianca, senza righe né quadretti. Una superficie
vergine sulla quale possa dire la ragione di questa mia scelta
estrema. E voglio che sia chiaro, che il mio gesto è stato a
lungo meditato. Che in ciò che ho deciso, non c’è nulla di
casuale».
«… E poi voglio una roller nera. Non sopporterei di dover calcare sul foglio con una Bic, dalla punta grossa e il
tratto scolorito. Vedere le mie ultime parole sprofondare
nella pagina, bucarla».
«… Tu», dissi, ricacciando fuori la testa dal piumone.
«Scriverò che non c’entri niente con quanto è accaduto.
Che non intendevi assassinarmi. Che con tutte le tue forze, hai cercato di opporti e convincermi a cambiare idea,
e sono stata io a costringerti. Che non devi pagare per un
gesto criminale che ti ho imposto e tu hai eseguito solo per
amore».
«… E dopo che avrò scritto il mio ultimatum e te l’avrò
consegnato, agirò nel seguente modo. Mi sdraierò di schiena e mi denuderò, così che la lama non incontri ostacoli
nel percorso. Il coltello deve affondare giù, puntare dritto
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al cuore», dissi, e a queste parole feci seguire una dimostrazione esemplare.
Mi liberai dalla maglia del pigiama. Sollevai il lembo del
piumone e mi misi supina, con la faccia premuta al cuscino
e i capelli raccolti sulla nuca. Abbassai i pantaloni, così che
tutta la schiena fosse sgombra. Rimasi con le narici contratte nello sforzo di respirare.
«Questi cazzo di giornalisti gastronomici. Turisti di merda».
«Lo so», fece Max. «Lo so».
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è da anni che mi sembra di vivere su un precipizio.
Che significa non sapere se ci si resterà per sempre o un
giorno finalmente si precipiterà. Questa incertezza è il sentimento più brillante nella miriade di quelli che si maturano
vivendo lassù. Ma le vertigini di uno sguardo gettato sotto
procurano una strana euforia.
Eppure lo so, che la gastronomia è importante. La gente
s’interessa al cibo di qualità; ci scrive sopra perfino dei libri,
con golosa passione. Vuole mangiare. E l’amore per il cibo,
non ci si vergogna a svelarlo. Fa sentire tutti più solidali e
buoni.
Il pianeta ci divorerà, forse, un giorno. Ma prima d’allora,
oggi, domani, dopodomani, saranno gli insaccati a darmi
da vivere.
Faccio la guida turistica, riciclata in gastronomica, della
città. Come sia arrivata a questa professione, non lo so dire.
è un mestiere al quale mai avrei pensato.
Un giorno vidi un gruppo di americani fermi davanti
alla fontana del Nettuno. La guida associava il tridente alla
marca automobilistica Maserati. Gli stranieri sembravano
divertirsi un mondo. Con le proprie conoscenze, mettere di
buon umore il prossimo non dev’essere male, pensai, mentre gli americani rumorosamente invadevano la piazza.
In quel periodo, avevo un contratto con l’Università. Il
mio compito era quello di inserire tra le pagine dei volumi
della biblioteca del dipartimento di Archeologia la striscia
magnetica antitaccheggio. Prima avevo lavorato alla reception di un hotel. Non cercavo un mestiere definitivo, solo
qualcosa di più piacevole.
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Così decisi di tentare. Superai l’esame di abilitazione per
l’esercizio della professione di guida turistica, poi mi presentai a Clizia, capo delle SGC, Sgambate Guide Combattenti Associate.
«Mi sono laureata con una tesi intitolata Annibale Carracci
e il paesaggio ideale», dissi.
«Il Carracci?» fece lei. «E chi se lo fuma? Lasagne, tortellini, ciccioli di montagna. Questo vogliono da noi».
Mi disse che le consulenze gastronomiche andavano nella
città per la maggiore. Gli puoi chiedere qualsiasi cifra, disse
Clizia, e loro scuciono con la bocca piena e un bel sorriso.
E soprattutto, disse, ritornano.
«Non come quando li porti in Pinacoteca», aggiunse, «che
per quell’euro di differenza, mettono giù il muso e non li
rivedi mai più».
Disse che tali servizi erano numerosi, ma che nessuno li
voleva fare.
«Perché?» domandai.
«Sono poco prestigiosi», disse Clizia.
«Per te», indagò poi, «tra il guadagnare ottanta euro faccia
a faccia con Guido Reni oppure al cospetto di un budello di
mortadella c’è una qualche differenza?».
«Nessuna», dissi.
Le dissi che lasciavo volentieri il Seicento bolognese alle
colleghe che ne avevano bisogno, per orgoglio e vanità intellettuale.
«Bene», disse Clizia. «Mi piacciono le persone decise».
Ci salutammo.
Quel pomeriggio, andai in biblioteca. Poi tornai all’ufficio delle SGC. Misi sulla scrivania i volumi che avevo scelto
per approfondire l’argomento. Alimentazione e cultura nel Medioevo. Campagne bolognesi, le radici agrarie di una metropoli. Pasta:
storia di un cibo universale.
«Oltre all’Opera di Bartolomeo Scappi», aggiunsi estraendo dalla borsa il tomo.
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«Bartolomeo… chi?» esclamò Clizia.
«Scappi», dissi, «il famoso cuoco del Rinascimento». Avevo trovato il suo nome su un Bignami dedicato alla cucina
del bel paese.
«Mika, carissima», fece lei, «forse non mi sono spiegata. Il ricettario Barilla. In cucina con suor Germana. Il talismano
della felicità. Questi, i testi di riferimento adatti. Ci capiamo,
bambina?».
Disse che per esperienza poteva garantirmi che mai mi
sarei trovata a dover trattare con campioni di cultura gastronomica.
«E se dovesse capitare il personaggio più esigente», disse, «sono certa che, con qualche piccola bugia, te la caverai
egregiamente».
«Egregiamente», ripetei.
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