Ontologia ed epistemologia in Lev Šestov Tra la fine dell`Ottocento e

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Ontologia ed epistemologia in Lev Šestov Tra la fine dell`Ottocento e
GIOVAMBATTISTA VACCARO
Ontologia ed epistemologia in Lev Šestov
Tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento un potente vento di crisi
e di rinnovamento scuote le fondamenta del sapere scientifico europeo quale
si era formato a partire dall’età del Rinascimento e attraverso l’epoca dei
Lumi: la nascita delle geometrie non euclidee, l’assiomatizzazione della matematica, il teorema di Gödel, il principio di indeterminazione di Heisenberg, la teoria della relatività di Einstein, lo stesso secondo principio della
termodinamica sembrano restituire l’immagine di un mondo mobile, incerto, dinamico, alla quale non si adatta più il modello statico, matematicamente ricostruibile della fisica ma piuttosto quello trasformativo e imprevedibile della biologia, e che sembra confermare la previsione nietzscheana
di un cosmo andato in pezzi e di una verità che viene sostituita dalla prospettiva entro cui il fenomeno viene non più spiegato, ma interpretato e così fornito di senso e di valore. Cominciano a nascere epistemologie convenzionaliste in cui il soggetto del sapere scientifico cessa di essere una superficie
passiva su cui si inscrive il dato dell’esperienza per diventare soggetto attivo
del fenomeno stesso che egli osserva, e che in questa osservazione modifica,
imponendo così un chiarimento preliminare dello stesso linguaggio della
scienza e spingendosi fino a mettere in dubbio la stessa nozione di metodo.
Questa evoluzione scientifica si ripercuote in campo filosofico producendo ontologie vitaliste, la più celebre delle quali è senz’altro quella di
Bergson, nella quale la «realtà è mobilità» in cui «non esistono cose fatte,
ma cose che si fanno; non esistono stati che si conservano, ma solo stati che
cangiano»1, di fronte a cui invece «il nostro spirito, che cerca solo dei solidi punti d’appoggio, ha come sua funzione principale, nel corso ordinario
della vita, di rappresentarsi cose e solidi», non «per giungere ad una concezione interiore e metafisica della realtà», la quale invece nella sua essenza
richiede «concetti fluidi, capaci di aderire alle mille sfumature e sinuosità
del reale, e di adottare il movimento stesso della vita interiore delle
cose»2; quindi non l’analisi, che “opera sull’immobile”, ma l’intuizione,
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H. BERGSON, Introduzione alla metafisica, Sansoni, Firenze 19582, pp. 101-102.
Ivi, p. 104.
Bollettino Filosofico 26 (2010): 372-389
ISBN 978-88-548-4673-9
ISSN 1593-7178-00026
DOI 10.4399/978885484673925
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che «ci inserisce nella mobilità»3. Questa ontologia si era rapidamente diffusa anche fuori della Francia, come in Germania, dove aveva permeato la
riflessione di Simmel e di Spengler, e, attraverso la Germania, era giunta
in un paese che era stato sempre piuttosto sensibile alla filosofia tedesca, la
Russia, dove si era sovrapposta ad un sostrato ivi presente già dai primi
decenni del XIX secolo, costituto dalla metafisica di Schelling, la cui dottrina delle potenze e degli strati dell’essere è citata già dal principe Odoevskij4 e permea tutta la metafisica di colui che si può considerare il padre
della filosofia contemporanea non razionalista russa, Vladimir Solovëv5.
Su questo sfondo si forma quello che il giovane filosofo francese di origine russa Vladimir Jankélévitch, presentando nel 1924 la filosofia russa
contemporanea al pubblico francese, aveva chiamato un «pensiero bergsonizzante»6: quello di Lev Šestov. Benché infatti Šestov mantenga sempre le
distanze dal filosofo francese7, le sue opere danno l’impressione di uno
sfondo bergsoniano in cui la critica dell’epistemologia razionalistica della
filosofia classica si alimenta di uno scetticismo metodologico di dichiarata
ispirazione humeana, basato su un’ontologia vitalista che l’influenza di quel
Nietzsche letto da Šestov durante la sua lunga permanenza in Europa
Occidentale negli anni che precedono l’inizio della prima guerra mondiale,
al quale egli doveva il suo distacco dal suo iniziale ottimismo che ispira il
3 Ivi, p. 91. In L’évolution créatrice Bergson si spinge a dire che «l’ordine matematico
non ha niente di positivo, […] è solo la forma a cui tende, da se stessa, una certa interruzione» (Alcan, Paris 1925, p. 239) che produce l’inerte e l’automatico come dominio
della generalità e delle leggi (p. 247), e a cui egli contrappone invece l’ordine vitale come
dominio dei generi che impone alla teoria della conoscenza di partire dalla nozione di disordine (p. 240).
4 Cf. V.F. ODOEVSKIJ, Russkie Noči, in Sočinenija v dvuch tomach, Moskva, Chudožestvennaja literatura, 1981, t. I, p. 41, dove si dice che «all’inizio del XIX secolo Schelling fu
lo stesso di Cristoforo Colombo nel XV: egli ha aperto all’uomo […] la sua anima!».
5 Cf. ad es. V.S. SOLOVËV, La conoscenza integrale, La Casa di Matriona, Milano 1998.
6 V. JANKELEVITCH, Les thèmes mystiques dans la pensée russe contemptraine, ora in Premières
et dernières pages, a cura di F. Schwab, Paris, Du Seuil, 1994, p. 115.
7 Cf. ad es. L.I. ŠESTOV, Sulla bilancia di Giobbe, Adelphi, Milano 1991, in cui Bergson è
riconosciuto come «uno dei filosofi contemporanei più ragguardevoli» (p. 332) per aver
compiuto ogni sforzo per emanciparsi dalle idee generali della ragione, ma gli viene anche
rimproverato di aver poi restaurato quest’ultima attraverso l’intuizione, che della ragione
è figlia perché punta a ricostituire un nuovo ordine, per aver avuto, come altri filosofi,
paura della verità che aveva intravisto (pp. 160 sgg.). È proprio intorno all’idea di ordine
che si accentrano le critiche di Šestov al filosofo francese. Si ricordi comunque che questo
libro è del 1929, cioè posteriore al giudizio di Jankélévitch.
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suo primo volume, il saggio su Shakespeare e il suo critico Brandes8, ed al quale tra il 1900 e il 1903 aveva dedicato due volumi, ricolloca all’interno di
un orizzonte di riflessione esistenziale in cui essa veniva caricata di una valenza tragica sconosciuta a Bergson e che negli ultimi anni della vita di Šestov giungerà, sotto l’influenza della lettura di Kierkegaard, ad un approdo
religioso peraltro lungamente meditato e lentamente maturato.
In Nietzsche Šestov trova infatti l’esperienza di un uomo piagato dalla
vita e indotto dalla sofferenza ad indagare, che rifiuta di rifugiarsi in un
mondo di forme, in «quella ‘stabilità’ che era considerata come il più alto
ed ultimo scopo delle costruzioni filosofiche e alla quale pretendevano
apertamente tutti i fondatori di scuole»9, per sfuggire all’orrore del caos, e
per il quale anzi «pensare significa tormentarsi, affliggersi, contrarsi in convulsioni»10, fare «di continuo esperimenti, prove su se stesso»11, nelle quali
la vita lacera tutti gli ideali e tutte le verità depositate nelle cosiddette leggi
di natura e presenta esigenze che noi neanche sospettavamo. In questo consiste secondo Šestov la lezione contenuta nella nozione di volontà di potenza ed il nucleo di quella che egli chiama filosofia della tragedia, una filosofia
che «si batte contro […] i giudizi degli uomini […] in quanto con la loro
esistenza confermano l’eternità e immutabilità delle leggi»12, che «si trova
in ostilità di principio con la filosofia della quotidianità»13, e che insegna
non l’umiltà e la sottomissione, ma l’audacia. Questa filosofia consiste appunto in una ontologia che Šestov gioca contro l’epistemologia razionalistica della metafisica classica e la concezione generale del mondo che la
sorregge.
Perché, infatti, questa filosofia si configura innanzitutto come un rifiuto
delle leggi di natura? Šestov risponde, conformemente alla lezione che egli
trova in Nietzsche, partendo da un dato di fatto esistenziale: la paura che
l’uomo prova di fronte alla sofferenza, soprattutto di fronte alle sofferenze
per le quali non si riescono a trovare giustificazioni, di fronte alla morte e
8 Ora in L.I. ŠESTOV, Shakespeare e Turgenev, a cura di G. Tiengo e E. Macchetti,
Bompiani, Milano 2010.
9 L.I. ŠESTOV, La filosofia della tragedia, ESI, Napoli 1950, p. 183.
10 Ivi, p. 188.
11 Ivi, p. 197. «Davanti a lui – precisa Šestov nella stessa pagina – è perciò una continua alternativa tragica: da una parte la realtà positiva, ma devastata, priva di contenuto,
dall’altra la nuova vita, attraente, promettente ma capace di impaurire come una visione
spettrale».
12 Ivi, p. 224.
13 Ivi, p. 227.
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in generale di fronte all’assenza di senso della vita che Šestov sente riecheggiare nei personaggi di Shakespeare. A questa paura l’uomo reagisce ipotizzando che la vita sia invece dotata di senso e cercando sostegno a questa
ipotesi nella scienza, che, attraverso la riconduzione dei fenomeni naturali
a leggi, deve garantire all’uomo stesso certezze. Ma, secondo Šestov, «è
salda solo la certezza di cui nessuno ha memoria, di cui nessuno è in grado
di dire quando e donde sia scaturita»14, che ci arriva già pronta e che vive di
una vita propria indipendente dagli uomini. Questa certezza è propria delle
idee «tratte dalla scienza ‘regale’, la matematica»15: «se le formule della
matematica ci seducono per la loro precisione e solidità, legate come sono
al carattere costrittivo e generale dei loro giudizi, lo si deve al fatto che essa ha rinunciato a tutto ciò che è umano, e non vuole né ridere, né lugere, né
detestari, ma solo intelligere, secondo l’espressione di Spinoza»16. Perciò fin
dall’antichità, come insegnano proprio i Greci, gli uomini si sono rivolti alla matematica.
La matematica, con l’evidenza delle sue formulazioni, fornisce quindi il
metodo delle scienze moderne, la cui impresa a questo punto consiste nell’attrarre gli uomini col ricorso «ai procedimenti che agiscono su un uomo
ordinario, un uomo che ignora lo straordinario: detto altrimenti, […] alle
prove, ai riferimenti a fenomeni visibili e tangibili che si possano misurare,
pesare e contare. Nel perseguire prove convincenti e accessibili, fu necessario sacrificare il più importante, l’essenziale, e valorizzare ciò che può conciliarsi con la ragione, cioè ciò che è già più o meno conosciuto, e perciò
meno interessante, meno importante»17. Spiegare un fenomeno, comprenderlo, significa allora dividerlo in un numero infinito di piccole modificazioni
per renderlo familiare, negando così che ci sia nel mondo qualcosa di realmente nuovo. Questo metodo è reso possibile secondo Šestov grazie all’apparenza di una continuità e di una progressione continua del reale che l’uomo assume come realtà alla luce di un duplice interesse: «da un lato, per dominare il mondo esterno, abbiamo bisogno di dividerlo in parti; dall’altro,
abbiamo bisogno di collegare le une alle altre queste parti il più strettamente
possibile, per evitare che sopraggiunga qualche imprevisto»18. In questo consiste in fondo la legge per eccellenza della fisica, la legge di causalità, che noi
L.I. ŠESTOV, Sulla bilancia di Giobbe, cit., p. 16.
Ivi, p. 241.
16 Ivi, p. 19.
17 L.I. ŠESTOV, Les grandes veilles, L’Age d’Homme, Lausanne 1985, p. 30.
18 L.I. ŠESTOV, Sulla bilancia di Giobbe, cit., pp. 248-249.
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in fondo diamo per scontata senza più interrogarci sull’uniformità della sequenza dei fenomeni, perché in fondo «noi siamo molto più preoccupati di
chiarire ciò di cui abbiamo bisogno, ciò che ci è direttamente utile, che di ricercare la verità»19, e l’ipotesi della regolarità dei fenomeni ha prodotto appunto «splendidi risultati pratici» e «vantaggi materiali»20, perché «grazie ad
essa risultò possibile la previsione, savoir pour pouvoir, e nel contempo il dominio sulla natura»21 che si esprimono nel lavoro, nell’equilibrio e nell’appagamento che esso produce. Il senso ultimo dell’operazione della scienza
allora consiste nella messa al bando dell’ignoto con finalità eminentemente
pratiche, e su questo interviene appunto la filosofia.
A questo proposito Šestov osserva in via preliminare che «la filosofia ha
sempre amato mettersi a servizio. Nel medioevo era l’ancilla teologiae, nella nostra epoca è la serva della scienza. Tuttavia definisce se stessa la scienza delle scienze»22. Se infatti non obbedisse alle scienze la filosofia diventerebbe inutile e verrebbe spazzata via dalla faccia della terra, e per farlo essa
«ha rinunciato alla sua missione sublime», cioè a quella conoscenza «che,
per sua essenza stessa, non può essere comunicata agli altri; cioè non può
essere trasformata in verità controllate, dimostrabili», e che sa che «i grandi misteri dell’universo non si presentano a noi con la chiarezza e la distinzione con cui si scopre a noi il mondo visibile e tangibile»23 e per mezzo di
cui la filosofia fornisce alle affermazioni delle scienze la sanzione di verità
eterne. Con questa mossa la filosofia assume a proprio oggetto le idee
astratte con le quali sostituisce gli oggetti reali, poiché «ciò che è reale deve essere permanente. Quindi le idee degli oggetti sono reali, mentre sono
fittizi gli oggetti stessi», né la filosofia si rende conto di mettere a nudo in
questo modo «l’insufficienza fondamentale del pensiero umano: […] il filosofo fatica a star dietro a una vita ondeggiante e capricciosa, così stabilisce che non è vita, bensì finzione»24.
L.I. ŠESTOV, Les grandes veilles, cit., p. 19.
L.I. ŠESTOV, Apoteosi della precarietà, Trauben, Torino 2003, p. 57.
21 Ivi, p. 68.
22 Ivi, p. 107.
23 L.I. ŠESTOV, Les grandes veilles, cit., pp. 25-26.
24 L.I. ŠESTOV, Apoteosi della precarietà, cit., p. 83. Negli aforismi posti sotto il titolo
Sulle radici delle cose, poi ripubblicati in Potestas clavium, Bompiani, Milano 2009, Šestov ribadisce che la filosofia si basa sul luogo comune per cui è vero ciò che non ha inizio e non è
soggetto a distruzione, ma in realtà noi non sappiamo cosa non è soggetto a cambiamento e
a distruzione, perché conosciamo solo cose che cambiano e scompaiono. Grazie a questo
fraintendimento la filosofia considera l’ideale eterno e immutabile, ma esso esiste solo finché esistono le cose reali che esso designa.
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Questa condizione di sudditanza della filosofia è espressa secondo Šestov dal positivismo e dall’utilitarismo, e le sue verità eterne sono verità di
ragione, poiché è nella struttura di quest’ultima e non nella realtà che noi
cerchiamo la radice della conformità dei fenomeni naturali alle leggi. La
ragione infatti formula i giudizi universali e necessari nella cui ricerca
Šestov vede un passo ulteriore dell’umanità dal possesso della verità al consensus omnium, cercato attraverso la finzione di una verità ricevuta da qualcosa che non conosce mutamento e che in quanto tale la rende valida per
tutti, appunto la ragione: «la nostra storia e, soprattutto, la storia della filosofia si interessano soltanto del ‘generale’ […] nella convinzione ispirata
dai filosofi greci che soltanto il ‘generale’ sia vero e reale, mentre tutto ciò
che è particolare è, per la sua stessa origine, criminale, empio e illusorio»25. Così, «il sapere è sempre stato una conoscenza di ciò che è generico, superficiale, dell’involucro esterno che ricopre la realtà», e «per sapere
[…] non è necessario vedere, ma solo giudicare, ossia pronunciare sentenze secondo certi parametri del tutto esteriori»26. E formulare giudizi
sulla base di verità universali e necessarie è appunto quello che fa la ragione, che in questo modo si erge a giudice del reale, poiché «la ragione, e
soltanto la ragione, sa ciò che è possibile e ciò che è impossibile. E sa anche
che bisogna volere il possibile, e non aspirare all’impossibile»27. Per questo
«quanto più la ragione prende il sopravvento tanto meno spazio rimane per
il reale, anzi la vittoria completa del principio ideale significa la rovina
dell’universo e della vita. Cosicché […] assolutizzare l’ideale significa relativizzare, anzi distruggere qualsiasi realtà»28. E Šestov mette in guardia anche dai travestimenti che la ragione può assumere per ristabilire il suo dominio sull’uomo, come accade nel caso del criterio: «che accettiate il suo
aiuto sotto il titolo altisonante di teoria della conoscenza o sotto il modesto
nome di criterio, alla fin fine imboccherete inevitabilmente il cammino del
positivismo»29 sul quale il lavoro di uno studioso viene bloccato.
Ma se la ragione opera formulando giudizi il suo strumento è la logica,
nella quale Šestov vede «un procedere senza preoccupazioni nella direzione
L.I. ŠESTOV, Sulla bilancia di Giobbe, cit., p. 323.
Ivi, p. 260.
27 Ivi, p. 427.
28 L.I. ŠESTOV, Memento mori. A proposito della dottrina della conoscenza di Edmondo Husserl, in Contra Husserl. Tre saggi filosofici, a cura di F. Déchet, Guerini & Associati, Milano
1994, p. 70. Il saggio fa parte anche di Potestas clavium.
29 L.I. ŠESTOV, Apoteosi della precarietà, cit., pp. 167-168.
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presa una volta per tutte», cioè un’espressione del «principio d’inerzia»30,
l’abitudine al quale «uccide la fantasia», poiché «l’uomo si convince che
esiste una sola via per giungere alla verità, quella attraverso la logica, e che
allontanarsene significa di sicuro cadere nel non senso», per cui «al di fuori
della logica c’è solo smarrimento»31. Anche in questo tuttavia Šestov vede
intervenire un criterio di opportunità economica: infatti «gli uomini sono
esseri tremendamente avidi e parsimoniosi. Vogliono conoscere quanto più
è possibile, ma anche acquistare la propria conoscenza al prezzo più basso
possibile. Di conseguenza, hanno immaginato che ogni verità raggiunta attraverso l’esperienza, cioè con un certo dispendio di energie, dia il diritto
di ricavarne altre di nuove, e questa volta gratis, o, nel linguaggio della filosofia, fornite a priori dalla ragione […] Invece di guardare, ascoltare, tastare, in breve, invece di cercare, essi vogliono dedurre!»32. La deduzione
è infatti per Šestov la forma della logica e il metodo della ragione, che con
essa produce i sistemi.
Tuttavia a Šestov sembra che la storia della filosofia, con la sua sequenza
di critiche di ogni filosofo ai filosofi che lo hanno preceduto, «non solo
[…] non sveglia in noi il pensiero dell’evoluzione ereditaria di un’idea, ma
ci prova il contrario: i filosofi non hanno mai teso e non tenderanno mai all’unità. È probabile che essi non troveranno neppure in futuro una verità
libera da contraddizioni», perché il segreto del genio filosofico sta nel fatto
che «egli commette grandi, i più grandi errori, e impunemente», e che essi
«sono considerati come un merito, perché non si tratta delle sue verità né
dei suoi giudizi, ma di sé stesso»33, poiché «chi elabora grandi idee tratta
con molta noncuranza le proprie creazioni e si preoccupa ben poco della
loro sorte nel mondo»34. Perciò «nella filosofia non c’è né errore né verità,
[...] gli errori e le verità non esistono che per colui al di sopra del quale c’è
un potere superiore»35, e questi sono i discepoli, che si sforzano di conciliare le contraddizioni dei maestri e di trovare in loro quello che non c’è,
e, non riuscendovi, ripiegano su quello studio sistematico del loro pensiero
che costituisce quella storia della filosofia che Šestov accusa di aver sostituito la filosofia, la vera e propria produzione di conoscenze e di idee.
Ivi, p. 64.
Ivi, p. 80.
32 Ivi, p. 190.
33 L.I. ŠESTOV, Les grandes veilles, cit., p. 35.
34 L.I. ŠESTOV, Apoteosi della precarietà, cit., p. 93.
35 L.I. ŠESTOV, Les grandes veilles, cit., p. 35.
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Šestov si è più volte confrontato criticamente nelle sue opere con la
storia della filosofia, soprattutto come storia del problema della conoscenza, individuando in essa una lunga battaglia in difesa dell’impresa dei greci
di fare della filosofia una scienza rigorosa basata su verità universali, perenni e immutabili che si è prolungata fino a Husserl36. Il culmine di questa
battaglia egli lo individua in Cartesio con la sua teoria dell’evidenza e nell’approfondimento del suo pensiero compiuto da Spinoza, che è uno degli
obiettivi costanti della polemica antirazionalistica di Šestov, in quanto ha
sostituito la vera filosofia con l’ottima filosofia, con un pensiero strutturato
more geometrico che da un lato realizzava la tensione verso la matematica già
presente nei Greci, dall’altro esaltava il modello matematico dell’evidenza
cartesiana. Dopo di lui il pensiero occidentale non ha fatto altro che ripercorrere la sua strada e elaborare una teoria della conoscenza che è stata una
semplice apologetica della scienza, tradendo lo stesso compito che si era
posto il padre della moderna teoria della conoscenza, cioè Kant, non tanto
di giustificare la scienza, quanto di esplorare la possibilità della sua esistenza. Ma del resto anche Kant secondo Šestov è rimasto al di sotto delle sue
possibilità, poiché si è posto come scopo di ridurre al minimo l’effetto distruttivo dello scetticismo di Hume riconoscendo ancora validità alla matematica invece di spezzare i limiti entro cui era dovuto rimanere lo stesso
Hume riconoscendo che «la verità si trova al di là dei giudizi sintetici a
priori e che non deve assomigliare a un giudizio a priori, né in generale ad
alcun giudizio»37.
Oltre lo stesso criticismo kantiano, Šestov vede confermato questo modello di pensiero perfino da Schopenhauer, che, nonostante la sua teoria
del velo di Maya e la sua interrogazione sul valore della vita, «parte dalla
supposizione che, per avere il diritto di chiamarsi verità, la sua valutazione
della vita, della gioia e della sofferenza deve contenere qualcosa di obbligatorio per tutti, e, di conseguenza, coincidere alla fine con la valutazione
di tutti gli altri uomini […] Abituato a porre e a risolvere i problemi
scientificamente, applicò al problema che lo occupava metodi di indagine
che, per ammissione generale, ci conducono di solito alla verità»38. Anche
le sue premesse dunque erano ingiustificate, e quindi devono essere considerate degli errori. Da questo Šestov trae la conclusione che non si può daCosì ivi, in Sulle radici delle cose, e nel saggio Scienza e libero esame, posto come introduzione a Sulla bilancia di Giobbe.
37 L.I. ŠESTOV, Les grandes veilles, cit., p. 37.
38 Ivi, p. 39.
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re una sola risposta universalmente valida al problema del valore della vita,
come non la si può dare a nessuna importante questione filosofica. Le dottrine filosofiche allora ci mostrano che per ogni problema non c’è una sola
e onnipotente verità, ma una pluralità di verità perfettamente indipendenti, e per questo alla convinzione diffusa che lo studio della storia della
filosofia dimostri come il genere umano abbia dominato le sue delusioni e
sia sulla strada maestra verso la verità ultima, Šestov obietta che, al contrario, «la storia della filosofia deve portare ogni uomo imparziale, non
contaminato dai pregiudizi contemporanei, a conclusioni diametralmente
opposte. Non può esserci dubbio che esista tutta una serie di problemi che,
come il problema del valore della vita, non ammettono, per la loro stessa
essenza, una soluzione uniforme», e allora «o bisogna abbandonare la filosofia in generale, o ciò che Natorp chiama [la sua] ewige Unfähigkeit non è
un vizio né una debolezza ma al contrario una grande virtù»39.
Questa incapacità misura quello che Šestov chiama il fiasco della metafisica40: egli respinge infatti le certezze stabili, punta il dito contro i danni
prodotti dagli apriori, denuncia l’erroneità delle deduzioni, che possono essere al massimo dei calcoli di probabilità, mostra l’insufficienza della morale razionale di fronte alle offese profonde e indimenticabili inferte proprio dalle leggi di natura, e conclude che in fondo la ragione non fa altro
che accettare e giustificare il fatto compiuto, come del resto traspare nella
formula hegeliana per cui il reale è razionale, che la logica può essere accettata come mezzo, ma deve essere senza dubbio respinta come fine in sé,
e che la comprensione a cui la ragione aspira mettendo in relazione un nuovo fenomeno con quelli già noti è in realtà l’opposto della conoscenza. Del
resto, nonostante siamo abituati a credere vero ciò che può essere provato
e quindi espresso in giudizi, Šestov nega che siamo in possesso di un metodo oggettivo che ci permette di verificare le verità filosofiche senza formulare giudizi arbitrari. Da questo Šestov può concludere che «la verità non
esiste: non ci resta che ipotizzare che proprio nei gusti sempre mutevoli
degli uomini stia il vero. Giacché lo esigono le convenzioni (sociali) su cui
si regge attualmente la convivenza, cerchiamo di trovare un’intesa»41.
Dunque la verità è solo un’opinione personale, che si cambia come un paio
di guanti o di scarpe, ma a cui ci sentiamo tenuti con coerenza per rimanere nel consesso sociale, in quella che Šestov con un termine preso in preIvi, p. 41.
Cf. L.I. ŠESTOV, Apoteosi della precarietà, cit., p. 142.
41 Ivi, p. 124.
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stito dal Dostoevskij delle Memorie dal sottosuolo, chiama l’«omnitudine».
La vicenda della ragione in Occidente si conclude dunque in una fondamentale sterilità teoretica sulle grandi questioni della filosofia. Ma se nonostante questo gli uomini trovano difficile rinunciare ad essa, il motivo
per Šestov va cercato non solo nei risultati pratici da essa prodotti, dei quali si parlava in precedenza, ma soprattutto nel bisogno dell’uomo di sicurezza e di punti di orientamento certi, poiché, appunto, «la ragione ci dà
certezza, sicurezza, fermezza, giudizi chiari e distinti, solidi e ben definiti
[…] Niente sulla terra è più apprezzato di questa sicurezza, di questa fiducia, come la ragione ha insegnato agli uomini, procurando loro quelle assicurazioni, quelle certezze grazie alle quali possono vivere tranquilli»42.
Tutta la filosofia è una ricerca di una vita tranquilla, di quella imperturbabilità nella quale non a caso la filosofia antica aveva indicato il bene supremo, evitando le esperienze pericolose e soprattutto distogliendo lo sguardo
da quello che Šestov chiama «l’inferno dell’esistenza terrestre che […] non
deve aver fine»43: «noi ci fermiamo pieni di spavento davanti alla deformità,
alle malattie, a follia, miseria e vecchiaia, davanti alla morte. Tutto ciò che
hanno potuto fare fino ad oggi i saggi è stato problematizzare gli orrori terreni»44. All’origine della filosofia dunque Šestov non vede la meraviglia, lo
stupore di fronte all’essere, ma piuttosto lo smarrimento di fronte alle
questioni ultime dell’essere, alle questioni maledette, da cui la ragione è
una fuga.
Eppure il prezzo di questa fuga appare a Šestov troppo alto: è il sacrificio della corporeità già postulato dai greci, e con esso degli individui: «gli
‘io’ umani sono infinitamente numerosi; ognuno si considera il centro dell’universo […] Evidentemente non vi è nessuna possibilità di conciliare e
soddisfare tutte queste esigenze. Finché l’‘io’ non sarà soppresso, non vi
sarà né unità né armonia, ma soltanto caos»45. La formula cartesiana del
cogito ergo sum contiene la rivelazione dell’esistenza reale proprio nella formulazione del sum, ma Cartesio, che aspirava ad una scienza rigorosa, non
la sviluppò per paura di cadere fuori dell’universo comune a tutti, e la fece
morire inchiodandola ad una deduzione logica, all’ergo, perché «l’idea di
caos spaventa gli uomini, perché viene ammesso, e non si sa per quale motivo, che sia impossibile vivere nel caos, in mezzo al disordine. In altre paL.I. ŠESTOV, Sulla bilancia di Giobbe, cit., p. 353.
L.I. ŠESTOV, Les grandes veilles, cit., p. 25.
44 L.I. ŠESTOV, Apoteosi della precarietà, cit., p. 98.
45 L.I. ŠESTOV, Sulla bilancia di Giobbe, cit., p. 374.
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role, noi sostituiamo al caos un cosmo abortito, non del tutto riuscito dal
nostro punto di vista – ma comunque un ordine – che esclude la possibilità
di vita. Il caos non significa affatto una possibilità limitata di vita, ma precisamente il contrario: una possibilità illimitata»46. Il caos dunque per Šestov
non va temuto, perché è quella vita esuberante alla quale, come si diceva,
la ragione, che deve guidare l’uomo nella sua esistenza terrena e proteggerlo contro i mali che in essa lo minacciano, non riesce e non vuole stare
dietro ed alla quale anzi reagisce imponendo come vere delle leggi scientifiche fittizie.
Ma per Šestov questo cosmo della ragione è destinato a rivelare il suo
carattere mendace e a crollare di fronte ad alcune esperienze decisive dell’esistenza che ci toccano personalmente e ci restituiscono alla nostra realtà
di individui concreti, e quindi alla nostra paura. Tale è l’esperienza del dolore, legata alle disgrazie, alla malattia, alla vecchiaia; o quella della disperazione, che Šestov definisce «il momento più grande e più solenne della
nostra esistenza», a partire dal quale «dobbiamo cavarcela da soli» e «siamo
di fronte all’eternità e all’assenza di qualunque legge»47; o, infine, l’esperienza della morte, la cui «deformità mostruosa» e le cui sofferenze «ci
costringono a dimenticare ogni cosa, comprese le nostre ‘verità evidenti’,
e a partire alla ricerca di una verità nuova»48. Queste esperienze infatti ci
aprono gli occhi su un universo di disarmonie, di assurdità, di caos e così
erodono i legami con la nostra precedente esistenza e ci inducono a pensare49. È il momento di compiere il salto ad un’altra metafisica, o, in altri
termini, ad un’altra ontologia.
Al centro di questa ontologia Šestov pone una concezione del reale come vita che ha diversi punti di contatto con quella dell’essere problematico
di Deleuze come virtualità che si attualizza nella forma dell’evento e che
quindi si sottrae ad ogni logica concettuale50. La vita, di cui già prima è
Ivi, pp. 286-287.
L.I. ŠESTOV, Apoteosi della precarietà, cit., p. 105.
48 L.I. ŠESTOV, Sulla bilancia di Giobbe, cit., p. 305.
49 «A pensare – dice Šestov – a pensare veramente, un essere umano comincia soltanto
quando si convince di non poter fare proprio nulla, di avere le mani legate. Per questo
probabilmente ogni pensiero profondo deve nascere dalla disperazione» (Apoteosi della precarietà, cit., p. 138).
50 Cf. G. DELEUZE, Differenza e ripetizione, il Mulino, Bologna 1968, p. 176, dove Šestov è citato proprio a proposito di una dimensione ontologica in cui le domande restano
senza risposta. Si ricordi che l’ontologia di Deleuze condivide con quella di Šestov anche la
genesi, poiché si forma in rapporto da un lato con Bergson (cf. G. DELEUZE, Il bergsonismo,
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emerso il carattere di caos come possibilità infinita, è definita infatti da Šestov arbitrio, attività creatrice che produce eventi improvvisi, inattesi, immotivati e infondati che ci sconcertano e che per questo cerchiamo di sostituire con la teoria dello sviluppo progressivo51, capriccio che «per la sua
stessa natura non può pretendere né di dare né di ricevere garanzie di sorta»52, e nel quale consiste in fondo la libertà del reale53 che ce lo fa apparire come «circondato da un profondo mistero che genera infiniti e del
tutto imprevisti mutamenti. In questa misteriosa mutabilità del reale è tutto il valore, tutto l’incanto e il fascino della vita. Ma nessuna scienza è capace di venire a capo dell’individualità capricciosa e mutevole»54. Sullo
sfondo di questa mutevolezza evidentemente non possono esserci leggi valide, ma anzi «il mondo potrebbe essere organizzato in maniera tale da ammettere le più fantastiche metamorfosi […] Che in tale congettura non ci
sia nulla di incredibile è dimostrato dall’esistenza della teoria evoluzionistica. Soltanto che quella al posto dei secondi mette i millenni», per cui
«ogni cosa può derivare da qualunque altra»55, e cioè tutte le cose sono
possibili, e la logica deve la sua validità ad una invariabilità degli oggetti
esterni solo relativa, mentre, al contrario, il «due più due fa quattro è un
principio di morte»56.
Questa ontologia richiede evidentemente una specifica epistemologia
tutt’altro che razionale ma anzi tale da avere il suo principale requisito nell’audacia di un soggetto che non ha più paura del capriccio della vita ma
anzi se ne fa carico con una mossa che si può senz’altro definire nietzscheFeltrinelli, Milano 1983) e dall’altro con Nietzsche (cf. G. DELEUZE, Nietzsche e la filosofia,
Colportage, Firenze 1978, dove Šestov è citato a p. 137). Sul rapporto di Deleuze con Šestov cf. P. JANET, “Pensée du dehors et dehors de la pensée”, Šestov Journal 1 (1977), pp.
99-110. In generale M. WILLEKE, Lev Šestov: Unterwegs vom Nichts durch das Sein zur Fülle, Lit
Verlag, Berlin 2006, p. 16 n., lamenta che «la recezione di Šestov in Deleuze finora è stata
a stento presa in considerazione».
51 Cf. L.I. ŠESTOV, Sulla bilancia di Giobbe, cit., pp. 208-209, dove peraltro Šestov dice
che «il carattere essenziale della vita è l’audacia: tólma. La vita è una tólma creatrice e, di conseguenza, mistero eterno che non può ridursi al finito e al comprensibile» (pp. 209-210).
52 Ivi, p. 75.
53 Cf. ivi, p. 481: «Ciò che esiste realmente non è affatto determinato dalle evidenze
della ragione, […] nulla lo determina, ma determina tutto esso stesso. Il campo della vera
realtà è quello della libertà illimitata, non della libertà ‘razionale’ […], ma di quella piena
e assoluta, fatta di quei temerari ‘all’improvviso’».
54 L.I. ŠESTOV, Memento mori, cit., p. 75.
55 L.I. ŠESTOV, Apoteosi della precarietà, cit., p. 133.
56 L.I. ŠESTOV, Sulla bilancia di Giobbe, cit., p. 75.
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ana, e che «ha sentito con tutto il suo essere che la vita va oltre i limiti di
quelle verità che possono essere espresse con giudizi obbligatori per tutti e
fondate mediante procedimenti metodologici tradizionali»57, e che quindi
nell’indagine di essa non si può attenere alla legge di causalità ma piuttosto
al principio contrario, per cui «per causam scire est nescire»58. Da questo nasce allora una nuova conoscenza che non è più la comprensione tradizionale, poiché trova la verità «là dove la scienza non vede che il ‘nulla’»,
cioè, appunto, «nell’unico, nell’irripetibile, nell’incomprensibile, nel ‘contingente’ ostile a ogni comprensione – nel ‘fortuito»59, in definitiva in tutto
ciò che contraddice gli attributi della verità scientifica di ragione e il cui
«postulato principale […] è precisamente ciò che gli uomini temono ed
evitano di più: il cambiamento, con l’inquietudine che esso implica»60.
Questa verità infatti «non solo esiste ma anzi […] vive. E, come per
ogni essere vivente, avviene che essa non è mai eguale a se stessa, ma non è
neppure simile a se stessa»61, dunque «non sopporta i vincoli della conoscenza scientifica» perché «soffre fra le braccia formidabili delle ‘evidenze’
che conferiscono veridicità al nostro sapere»62, perciò è disgiunta dalla certezza63, per cui Šestov può concludere che «nell’ambito della metafisica
non possono e non devono esserci certezze stabili. La parola ‘stabilità’ vi
perde ogni significato. È più appropriato parlare di eterne esitazioni e titubanze del pensiero»64. È inoltre una verità a posteriori, basata sull’esperienza individuale diretta e su giudizi non universali e necessari, ma piuttosto del tipo di quelli che «sono ora più negletti» perché «non possono essere dimostrati e in forza di ciò diventare universali e necessari», ma in
compenso inducono «a vedere là dove nessuno ha visto, e a sostituire le riflessioni con formule magiche, a chiamare in vita con parole a tutti sconosciute una bellezza inaudita e straordinarie energie»65. È una verità inutile, che si trasforma in errore non appena si cerca di renderla utile per
L.I. ŠESTOV, Memento mori, cit., p. 57.
L.I. ŠESTOV, Apoteosi della precarietà, cit., p. 65.
59 L.I. ŠESTOV, Sulla bilancia di Giobbe, cit., p. 250.
60 Ivi, p. 416.
61 L.I. ŠESTOV, Memento mori, cit., p.35.
62 L.I. ŠESTOV, Sulla bilancia di Giobbe, cit., p. 107.
63 Cf. ivi, p. 40.
64 L.I. ŠESTOV, Apoteosi della precarietà, cit., p. 130. Il giudizio è ripreso in Memento mori
cit., p. 34: «La verità ultima, veramente autentica, sulla quale presto o tardi gli uomini si
troveranno d’accordo, è racchiusa in questo: che nell’ambito metafisico non vi sono verità
certe».
65 L.I. ŠESTOV, Apoteosi della precarietà, cit., pp. 198-199.
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tutti, cioè universale e necessaria66. È incomunicabile e indimostrabile67,
rapsodica, poiché arriva da sola come «qualcosa di nuovo che non assomiglia affatto alle nostre idee, alle nostre visioni ordinarie. Ma è solo un lampo, e la nuova visione svanisce. Impossibile richiamarla, trattenerla, non ne
hai né la forza né la capacità. E rimane solo la consapevolezza che tutto ciò
che ti hanno insegnato e ti insegnano non sia vero»68. Non è cumulativa né
progressiva, «non è il risultato di una riflessione metodica, ma ci viene dall’esterno, all’improvviso, […] è impossibile ‘apprenderla’»69 e ogni volta si
presenta come una visione totale sempre nuova e sempre diversa dalle precedenti. È essa stessa un evento.
Da questa concezione della verità Šestov deduce che «pensare vuol dire
[…] farsene un baffo della logica; pensare vuol dire vivere una nuova esistenza, trasformarsi, sacrificare le abitudini, i gusti, gli affetti più cari e più
radicati; tra l’altro, senza avere neppure la certezza che tutti questi sacrifici
possano venire in qualche modo ripagati […] L’uomo pensante è prima di
tutto un uomo che ha perduto l’equilibrio»70 e per il quale piuttosto «bisogna che il dubbio diventi costante principio creativo, che nutra di sé l’essenza stessa della nostra vita»71: «il filosofo non può appellarsi ai diritti dell’uomo comune. Il filosofo è tenuto a dubitare, dubitare sempre, e a interrogarsi anche quando nessuno si interroga, rischiando di diventare lo zimbello della folla»72 e mettendo in conto lo stesso fallimento della propria
indagine, poiché «l’audacia è tale proprio perché non ha in sé alcuna garanzia di successo. L’uomo temerario va avanti non perché sappia quello
che l’aspetta, ma perché è temerario o […] perché mosso da sola fide.
Qualche volta, anzi la maggior parte delle volte, egli non conta affatto sul
successo, sente di non averne alcun diritto. Anzi, prevede piuttosto l’insuccesso»73. La metabasis eis allo genos che Šestov vede indotta dalle esperienze tragiche dell’esistenza comporta dunque il passaggio da un’ontologia
dell’ordine cosmico a un’ontologia del caos a cui corrisponde il passaggio
da un’epistemologia della sottomissione alle leggi di ragione ad un’epistemologia dell’audacia.
Cf. L.I. ŠESTOV, Sulla bilancia di Giobbe, cit., p. 122.
Cf. L.I. ŠESTOV, Les grandes veilles, cit., p. 31.
68 L.I. ŠESTOV, Sulla bilancia di Giobbe, cit., p. 189.
69 Ivi, p. 413.
70 L.I. ŠESTOV, Apoteosi della precarietà, cit., p. 139.
71 Ivi, p. 111.
72 Ivi, p. 195.
73 L.I. ŠESTOV, Sulla bilancia di Giobbe, cit., p. 228.
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In questo passaggio cambia il ruolo della filosofia, e non tanto perché da
garante delle evidenze diventa propagatrice di dubbi, né perché «non vuole e
non può più essere una scienza rigorosa che accumula verità le quali, in forza
della loro evidenza, debbono diventare presto o tardi convincenti per tutti
gli uomini», ma piuttosto «aspira […] a verità che non vogliono essere ‘verità per tutti’»74, ma perché è una filosofia vivente, una filosofia che, contro
la prescrizione di Spinoza vista sopra e ripetutamente criticata da Šestov,
«deve vivere di sarcasmi, di ironie, di inquietudini, di lotte, di perplessità, di
disperazione e di grandi speranze, e non può permettersi la contemplazione
e il riposo che di tanto in tanto»75. Dovrebbe essere il pensiero di un uomo
tutt’altro che ideale, che mangia, dorme e si stiracchia, e soprattutto che si
prepara a morire e muore. Il suo compito allora «è quello di insegnare all’uomo a vivere nell’ignoto, a lui che più di tutto teme l’ignoto e lo evita rifugiandosi dietro ai vari dogmi. In breve, il compito della filosofia non è
tranquillizzare la gente, ma sconcertarla»76: essa «è un’arte che tende ad
aprirsi un varco attraverso il logico concatenarsi dei sillogismi e spinge l’uomo in mare aperto, nel mare sconfinato dell’immaginazione, del fantastico,
dove tutto è ugualmente possibile e impossibile»77.
Il tema del fantastico ha un ruolo centrale nel pensiero di Šestov come
attributo fondamentale dell’essere in quanto libertà creativa. Esso impone
l’immaginazione come unica facoltà che possa seguire, mimandola, la creatività del reale e che riesce ad incarnare l’unico atteggiamento che Šestov
ritiene valido nei confronti della perenne mutevolezza di esso: l’abbandono
ad essa, un abbandono fiducioso che in essa tutto diventi possibile. Essa
permette di acquisire quella sapienza divina che Socrate attribuiva agli oracoli e che disprezzava in quanto non provata e che è stata rifiutata dall’uomo nel settimo giorno della creazione, quando egli rinunciò ad una verità già fatta per indagarla con mezzi propri, e così «diventò collaboratore
di Dio. Diventò creatore egli stesso»78. È la sapienza tipica dei pazzi, che
«conoscono forse cose di cui gli uomini normali non hanno il minimo presentimento», ma a cui «non è concesso di comunicare la loro conoscenza
agli altri, né di provarla»79. Oppure è la sapienza dei poeti, che «attingeL.I. ŠESTOV, Memento mori, cit., p. 81.
L.I. ŠESTOV, Les grandes veilles, cit., p. 28.
76 L.I. ŠESTOV, Apoteosi della precarietà, cit., p. 72.
77 Ivi, p. 80.
78 L.I. ŠESTOV, Les grandes veilles, cit., p. 33.
79 Ivi, p. 26.
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vano da qualche sorgente misteriosa verità spesso grandi e profonde ma
non potevano né spiegarle né provarle», «non potevano né provare né
spiegare le ragioni e i fondamenti dei loro pensieri, in altre parole, farne
deduzioni per legarle a una certa filosofia»80. O infine è la sapienza dei
bambini, che non hanno un sapere assoluto.
Eppure la stessa critica di Socrate lasciava intendere che questa altra sapienza, benché egli la ritenesse inferiore a quella che sarà la grande filosofia
basata sulla logica, è tuttavia possibile. Un esempio di essa è indicato da Šestov in quelle verità in prossimità delle quali conducono quei metodi di indagine non scientifici di quei saperi rinascimentali come l’astrologia, l’alchimia e la magia, che l’età moderna ha sempre denigrato per la loro inutilità e che invece cercavano di apparire utili per essere tollerati, ma in realtà
erano un affare privato di chi li praticava. Ma qui emerge anche la condizione peculiare di questa filosofia. Anzitutto essa è socialmente inutile, come la verità di cui si fa portatrice, e non a caso nasce quando l’uomo si
mette in libertà con se stesso e con gli altri ed accetta tutto senza preclusioni dando libero corso alle proprie passioni anche in metafisica. In secondo luogo essa condivide la sofferenza che accompagna ogni creazione
artistica, che ha a che fare con un materiale informe che resiste alla trasformazione, che non si sa come trasformare perché le idee nuove vengono
subito sostituite da altre che sembrano più affascinanti, per cui «l’atto creativo è un continuo passaggio da una sconfitta all’altra. La condizione comune di chi crea è l’indeterminatezza, il senso dell’ignoto, l’incertezza riguardo al domani, una tremenda spossatezza»81. Infine, da queste premesse
Šestov conclude che «l’ultima parola della filosofia è la solitudine»82 alla
quale è condannato l’uomo che ha scoperto questa nuova verità che, modificando, come si è detto, tutta la sua vita, recide i legami sociali che lo legano alle convenzioni generali e lo fa scivolare fuori dell’omnitudine ai cui
occhi egli ormai appare come un pazzo, e che spesso lo tratta come tale.
Non è un caso, osserva a questo proposito Šestov, che la letteratura russa,
che è giunta più vicino a questa verità, è piena di pazzi.
Questa solitudine caratterizza appunto i filosofi in cui Šestov vede incorporarsi questa sapienza, spesso in forma reattiva alla metafisica ufficiale,
e di cui egli fornisce un sommario elenco che va da Protagora, col relativismo della sua formula dell’uomo come misura di tutte le cose, attraverso
Ivi, p. 32.
L.I. ŠESTOV, Apoteosi della precarietà, cit., p. 94.
82 Ivi, p. 98.
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Plotino, Tertulliano, nel suo contrapporsi a Filone d’Alessandria che ellenizzò, cioè razionalizzò, il Dio biblico, a Lutero, che si ribellò al razionalismo della filosofia medievale83, a Pascal, che si contrappose al razionalismo cartesiano e spinoziano, a Nietzsche, infine a Kierkegaard: ogni secolo
ha avuto la sua voce che grida nel deserto, o come anche dice Šestov, il suo
diseredato della storia, pensatori che hanno contemplato gli orrori della
vita e che non hanno esitato ad ammettere che essi colpiscono egualmente i
malvagi ed i buoni, cioè coloro che si attengono alle prescrizioni etiche
della ragione, ma che non hanno avuto seguito né scuola, al massimo hanno
risuonato l’uno nell’altro senza esercitare una reale influenza l’uno sull’altro, perché in ognuno di loro la sapienza si ripresentava sempre di nuovo.
Né poteva in realtà accadere diversamente, perché la condizione del tragico, di un mondo senza ordine e senza logica, di una vita senza senso, è la
più difficile da sopportare, e allora a questi momenti tragici segue quello
che Šestov chiama il vaudeville, quando l’ultima parola torna nuovamente al
buon senso e anche filosofi che hanno gettato lo sguardo nell’abisso, in
quella bespočvennost’ con cui Šestov traduce l’Abgrund nietzscheano, la mancanza, o il ritrarsi del fondamento, se ne sono ritratti per riportare il pensiero sulla terraferma.
Ma tra le pieghe di questo pensiero emerge un’altra prospettiva: quella
nella quale lo scontro tra le due concezioni dell’essere, e tra le due concezioni del sapere, si configura come antitesi tra Atene e Gerusalemme,
nella quale il secondo termine allude ad un Dio onnipotente capriccioso
che non è, come in Cartesio, garante dell’evidenza e quindi subordinato
alla ragione dell’uomo, la stella del dubbio diventa «quella stella di Betlemme che guida l’uomo verso la verità suprema»84, e l’abbandono all’essere
diventa l’abbandono alla volontà di Dio il cui strumento non è più evidentemente la fantasia, ma la fede, e il cui eroe non è più il poeta ma Giobbe,
che continua a confidare in quel Dio che lo perseguita e che gli renderà
tutto quello che gli ha tolto, poiché ora se tutte le cose sono possibili
dipende per Šestov non più dalla creatività della natura ma dalla volontà di
un Dio che «si cura di ogni uomo», poiché «alla fine dei tempi non sarà la
83 Con quest’ultima Šestov si confrontò nel saggio Concupiscientia irresistibilis. Della filosofia medievale, che, insieme ad un saggio su Lutero, faceva parte del volume Sola fide,
scritto tra il 1910 e il 1914, rimasto incompiuto e pubblicato postumo a Parigi, presso
Ymca Press, 1964. Il saggio sulla filosofia medievale fu poi inserito da Šestov nella sua ultima opera, Atene e Gerusalemme, Bompiani, Milano 2005.
84 L.I. ŠESTOV, Memento mori, cit., p. 78.
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realtà con la sua iniquità e implacabilità a trionfare, ma Dio che ‘conta i
capelli sulla testa degli uomini’, Dio che è amore, che promette di asciugare ogni lacrima»85, e di fronte al quale le vecchie verità della scienza vengono sostituite da «una verità che annuncia che la strada che guida ai principi, alle radici, alle sorgenti della vita, passa attraverso le lacrime che hanno invocato il Creatore, non attraverso la ragione che interroga il ‘dato’»86. È una prospettiva che, come è stato rilevato dagli interpreti anglosassoni di Šestov87, si fa progressivamente strada nel suo pensiero, e determina una ricollocazione del suo nesso di ontologia ed epistemologia su un
terreno religioso. Ma quando questa evoluzione si compie il pensiero di Šestov, sotto la suggestione di Kierkegaard88, si ridefinisce a partire da un
orizzonte esistenziale al cui interno l’interesse del filosofo russo per il problema della conoscenza diventa secondario e il suo nichilismo di matrice
nietzscheana, la sua filosofia della tragedia, si evolve verso una filosofia della speranza89.
85
L.I. ŠESTOV, Alla memoria di un grande filosofo: E. Husserl, in Contra Husserl, cit., p.
165.
Ivi, p. 169.
Cf. ad es. B. MARTIN, Introduction a L.I. ŠESTOV, All things are possible and Penultimate
words and other essays, a cura di B. Martin, Ohio University Press, Cleveland 1977, per il
quale la critica antirazionalistica del primo Šestov, nella quale è assente ogni richiamo a temi religiosi, è l’ovvio preliminare all’approdo religioso che comincerà a diventare palese in
lui a partire da Potestas clavium, del 1923, ed è incomprensibile se non è riferita a questo approdo, poiché lo scientismo e il razionalismo sono il principale ostacolo ad una riappropriazione della fede nel Dio biblico.
88 Cf. L.I. ŠESTOV, Kierkegaard e la filosofia esistenziale, Bompiani, Milano 2009.
89 Così il pensiero di Šestov è interpretato suggestivamente da M. WILLEKE, op. cit., p.
142 o pp. 162-163.
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