Landmarks, enclaves Visione e struttura nella città contemporanea

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Landmarks, enclaves Visione e struttura nella città contemporanea
Landmarks, enclaves
Visione e struttura nella città contemporanea
in “Architettura-Intersezioni” n°3 - giugno 1996
L'arte di costruire la città si dibatte dalle origini in un dilemma teorico. La città vista e la città vissuta
hanno da sempre costituito i poli di questo dilemma. Da una parte la città come organismo, diagramma
funzionale, mappa di reti, la città degli ingegneri; dall'altra la città come "opera d'arte", la disposizione
nello spazio di scenografie urbane. Se L'apparato disciplinare dell'Ecole de Beaux-Arts conteneva al
suo interno questa feconda ambiguità, i manuali di urbanistica di questo secolo dividono imbarazzati i
capitoli "tecnici" da quelli "artistici": fogne da una parte, prospettive dall'altra.
Il punto di collasso di questa malconcia unità è sotto i nostri occhi nella forma della città moderna, forse
riconosciuto per prima dall'illuminato cinismo di Robert Venturi: la definitiva separazione tra segnale e
funzione, tra icona e spazio, rende il bello inabitabile e l'abitabile brutto. Come una scarpa, la città non
riesce più ad essere al contempo comoda e bella.
Le brevi note che seguono usano nomi esotici per evocare fenomeni noti. Le condizioni estreme
dell'apparire e del contenere sono regolate ancora dagli strumenti arcaici della pianta e dell'alzato. Ma
pianta e alzato generano due mondi, due estetiche, due ideologie. Essi non sono più strumenti, ma
visioni del mondo. Se la pianta aspira a divenire pura organizzazione, diagramma dei fluidi,
trasparenza del mezzo rispetto al fine, l'alzato pone l'opacità totale come condizione di esistenza
dell'architettura; quell'architettura autonoma -"da Ledoux a Le Corbusier"- intuita da Kauffmann come
vero paradigma moderno, figura di se stessa. In ambedue queste condizioni totali, il segno è altrove,
non più architettonico. Parole, scritte, istruzioni per l'uso, popolano le facciate mute dell'architettura
moderna, autoreferenze non più comprensibili.
Enclaves e Landmarks, recinti e "segna-terra", i nomi che potrebbero definire queste condizioni, questi
emisferi non più uniti dal corpo calloso.
Enclaves
“Il privilegio unico dell'architettura tra tutte le arti, ch'essa costruisca dimore, chiese o navigli, non è d'assumere un vuoto
comodo e di circondarlo di garanzie, ma costruire un mondo interno che misura lo spazio e la luce secondo le leggi d'una
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geometria, d'una meccanica e d'un'ottica che di necessità rimangono incluse nell'ordine naturale, ma su cui la natura non
ha presa”.
Hery Focillon, La vie des Formes
"La maggior parte delle città antiche devono la loro eccezionale bellezza al recinto di bastioni o di mura che le rinserra. (...)
Non c'è ragione per delimitare oggi le città nella stessa maniera; il farlo sarebbe un controsenso e aumenterebbe la
congestione urbana; tuttavia se le si lascia estendere liberamente, è importante il limitare in qualsivoglia maniera il loro
insediamento (...) Bisogna precisare i limiti delle città, delle periferie e delle nuove agglomerazioni in generale, e ciò può
essere fatto im svariate maniere."
Raymond Unwin, Town planning in practice, 1909
"Ci siamo proposti di osservare una piccola parte della forma urbana, e l'abbiamo analizzata abbastenza dettagliatamente
dal punto di vista dell'ambito pubblico e di quello privato. Questa ricerca ha messo in luce alcuni fattori che incidono a fondo
nel vivo del problema, e ha determinato una visione particolare di tutte le forme urbane. Le barriere e i diaframmi non sono
necessari soltanto nei gruppi di alloggi e nelle singole abitazioni. (...) L'integrità degli ambiti e l'efficenza della transizione tra
gli ambiti sono il fattore cruciale dell'organizzazione distributiva. (...) Ogni tipo di integrità può essere preservato soltanto
dalle sue particolari zone di barriera e diaframma. "
Serge Chermayeff, Crisopher Alexander, Community and Privacy, 1963
Per porre nuovi confini allo sprawl bisogna prima capirne le regole di produzione.
Progettare in un terreno aperto, rarefatto, ci obbliga ad indagare in che modo possa essere affrontato il
problema della “visibilità” e della delimitazione dell'architettura.
La contiguità fisica non è necessariamente una continuità funzionale.
Le figure non sono dappertutto. La teoria della Gestalt ci insegna che non c'è figura senza sfondo.
Nella città contemporanea le figure emergono solo quando due sistemi eterogenei si toccano, quando
sorge la necessità di comunicare, di rappresentare qualcosa. Il resto si configura come un paesaggio,
in una nuova dimensione figurativa, sospesa tra significazione e autonomia delle forme.
La relazione tra l'abitare come “arte dell'interno” e la città come “paesaggio che scorre” è ormai fragile,
problematica. Interno ed esterno di un edificio appaiono ormai due identità separate, fruite secondo
circostanze diverse.
La casa non è bella. Nè il bello è ormai abitabile.
Le figure dell'edilizia non sono più in grado di controllare il paesaggio, nè di rendere confortevoli gli
interni. Perdiamo sempre più il controllo sulla scala intermedia, sull'“urban design”.
Dobbiamo progettare le interfacce tra abitazione e paesaggio.
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Un'enclave è una porzione di territorio delimitata e regolata da specifiche leggi morfologiche, di uso o di
comportamento: “galatei” limitati e pur efficaci.
L'enclave introduce una discontinuità, bloccando la potenziale isotropia dell'espansione urbana.
La struttura dell'enclave si fonda sul controllo spaziale: essa svincola il funzionamento della parte da
quella del tutto. In un ambiente urbano caratterizzato dalla babele dei linguaggi, essa pone delle
convenzioni narrative limitate.
L'enclave può essere al contempo democratica o reazionaria; essa identifica separando. L'enclave è
l'architettura delle minoranze, sia che esse siano egemoni o sottomesse. Essa contiene al contempo
l'idea positiva della comunità e quella negativa della segregazione sociale.
L'abbazia di Fontfroide, il Tuscolano, Milano 2, ma anche il sistema autostradale sono ugualmente
enclaves. Entrare in esse vuole dire accettare regole più o meno implicite. L'enclave produce
discontinuità e quindi comprensibilità. Essa instaura dei codici parziali, dotati di congruenze interne;
genera estetiche e aspettative circoscritte, ragionevoli perchè sottoposte a consensi controllati. In
questo senso, l'enclave ci toglie dall'angoscia della "struttura totale". Le farfalle possono battere le ali in
Giappone mentre noi dormiamo sonni tranquilli.
I sistemi meccanici senza ridondanza, non possono che cambiare che per catastrofi. Ma come in una
rete di neuroni, un sistema equilibrato non può essere dotato di autocoscienza totale. Il tutto non deve
sapere cosa fanno le parti.
La città storica funzionava perchè aveva degli spazi non formalizzati, che accettavano di buon grado la
trasformazione e il disordine: i retri, gli interni degli isolati.
L'ideale della trasparenza, di un mondo panottico, è tanto angosciante quanto irrealizzabile. Negli
inferni di cristallo nessuno può cambiare marca di lampadine senza rovinare l'architettura, e quindi la
città.
L'ideale moderno del padiglione isolato e in continuità spaziale e visiva della natura, ha bisogno di
abitanti-dei. Il sublime, l'unica estetica concessa al moderno, è incompatibile con il domestico.
All'idea moderna della “casa di vetro” opponiamo interni senza faccia. Le case a patio di Mies Van der
Rohe negano ogni concetto di facciata e quindi ogni istanza rappresentativa. Esse assumono la totale
trasparenza e la totale opacità dei diaframmi come un lessico binario che interrompe la semiosi
architettonica.
Il cassetto, il ripostiglio, funziona impedendo la visione.
La reticenza è speranza di bellezza. Controllo dello spazio aperto; libertà negli edifici.
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Landmarks
"Dunque non è affare da poco disegnare la pianta di una città in modo che la magnificenza dell'insieme sia suddivisa in una
infinità di bellezze di dettaglio, tutte differenti; (...) che vi sia ordine, e tuttavia una sorta di confusione; (...) che infine una
pluralità di parti regolari diano luogo, nel complesso, ad una certa idea di irregolarità e di caos, che tanto si addice alle
grandi città. (...) Nessuna città più di Parigi offre all'immaginazione di un artista d'ingegno un campo d'azione così bello. E'
un'immensa foresta, con variazioni topografiche che alternano la pianura alla montagna, solcata nel mezzo da un grande
fiume che, dividendosi in più rami, forma isole di diversa grandezza."
Marc-Antoine Laugier, Saggio sull'Architettura 1753
"La vertigine sentita nelle grandi città è analoga alla vertigine che si prova in mezzo alla natura. - Delizie del caos e
dell'immensità."
Charles Baudelaire, Scritti sull'arte
"Non sapersi orientare nella città non vuol dir molto. Ma smarrirsi in essa, come ci si smarrisce in una foresta, è una cosa
tutta da imparare. Chè i nomi delle strade devono suonare all'orecchio dell'errabondo come lo scricchiolio di rami secchi, e
le viuzze interne gli devono rispecchiare nitidamente, come le gole montane, le ore del giorno."
Walter Benjamin, Infanzia Berlinese
"Fare diventare l'architettura superflua, lasciarla sparire dalla nostra coscienza, dirigere l'attenzione verso qualcos'altro: così
la città diviene simile alla natura. Non ha bisogno di altre invenzioni. Non può essere espansa. E' onnipresente. Non può
essere ancora copiata dal momento in cui ha copiato se stessa infinite volte. L'entropia dell'architettura."
Jacques Herzog e Pierre de Meuron, manifesto
L'analogia tra città e natura ha una lunga storia. Le metafore naturalistiche riferite alla città non hanno
niente a che fare con l'idea della natura in città, e con il problema del verde urbano. Esse si pongono
nei confronti della natura in un rapporto analogico piuttosto che mimetico. L'architettura, a differenza
della pittura e la scultura, non imita l'immagine della natura, ma la sostituisce. La città è concepita
come una geografia artificiale.
Questa analogia è profondamente radicata nella cultura anglosassone; essa è la base teorica della
cultura del pittoresco. In opposizione al razionalismo tipologico e costruttivo, dove la pianta è
l'elemento di controllo primario, questo atteggiamento concepisce il progetto come una disposizione di
masse e oggetti in base a un ordine percettivo, visivo. Il cono prospettico è sostituito dallo scorcio. Dal
libro di Vincent Scully The Earth, the Temple and the Gods fino a A View from the Road di Gordon
Cullen, da The Image of the City di Kevin Lynch fino al più "contenutistico" Learning from Las Vegas di
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Robert Venturi, la cultura anglosassone vede il soggetto progettante come un punto di vista in
movimento.
Il pittoresco simula l'informe, il caso, l'innocenza. La natura è percepita come qualcosa di "spontaneo",
imitata attraverso tecniche elaborate. Il giardino di Blenheim Palace è la riproduzione al vero di un
quadro di Constable.
Esiste tuttavia una versione "moralista" del Pittoresco. Essa non si accontenta della visione; cerca la
struttura. Paul Klee, nella sua Storia naturale infinita disegna scheletri di foglie, diagrammi di
accrescimento arboreo, spirali logaritmiche, circolazioni sanguigne.
Città come foreste, edifici come sassi.
La cultura architettonica del moderno ha sostituito all'idea di monumento quella di landmark.
Nel paesaggio, come nella città, l'unità del landmark
fonda e sostiene la casualità errabonda
dell'esperienza del mondo. Se il soggettivo coincide con l'estetica del pittoresco, dello scorcio, della
veduta accidentale, il landmark
riconduce alla stuttura della materia, al condiviso, e quindi
all'oggettività. Negli studi di Kevin Lynch, il landmark si identifica con il luogo comune, permanenza
oggettiva data dall'incrocio statistico di molte soggettività.
Fondamentale è del landmark è l'identità. Il landmark non "rappresenta" un significato eteronomo, per
esempio di tipo funzionale. Esso è al di fuori dal teorema funzionalista che vede il volume come
"espressione della funzione". Mentre il monumento ha qualcosa da celebrare, il contenuto del landmark
è la sua stessa presenza fisica.
Il landmark non ha scala. La visione lontana cancella la presenza dell'uomo. La massa diventa profilo.
Esso annulla ogni composizione. Massa e tessitura sono i suoi ordini formali.
L'identità del landmark non corrisponde alla sua finitezza formale. Esso si dà come unità ricomposta, a
sua volta erosa dagli eventi. Come un cristallo di pirite rivela la sua geometria profonda nell'incontro
con un ostacolo, così un edificio rivela il suo interno attraverso l'interruzione della sua massa.
L'interno è rosa, come la madreperla in una conchiglia. Se in un'estetica del paesaggio l'esterno è
sublime, l'interno deve essere consolatorio, dedicato all'abitabilità come nucleo ontologico
dell'architettura.
Così il dilemma tra architettura come arte della costruzione, come tettonica, e l'architettura come arte
dello spazio abitato, del comfort, non può essere risolto che attraverso una dicotomia. La casa e il
monumento tornano, come alle origini dell'urbanistica, ad essere separati. Talvolta essi si scambiano i
ruoli: nel moderno è l'alloggio a diventare landmark, mentre il monumento è ridotto a "servizio", ad
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attrezzatura senza forma. La doppia metafora albertiana della "casa come piccola città" e della "città
come piccola casa" non ha mai realmente convinto nessuno con il suo sospetto cannocchiale
aristotelico.
Se oggi la città è solo un'infrastruttura, essa è semplicemente una distanza misurabile del percorso tra
alloggio e alloggio, tra un interno e un altro. Enclaves e landmarks diventano così modi del sentire,
forme cangianti della nostra affezione verso i luoghi. Per alcuni l'enclave è l'obiettivo del viaggio, e il
landmark è solo una fuggevole vista dal finestrino. Ma l'interno del landmark abitato è a sua volta reso
enclave dal suo stesso isolamento, dalla sua incapacità comunicativa. Duro e tenero, ostile e
accogliente, sono condizioni ormai individuali, non più mediate da un patto sociale. La città delle
minoranze accende e spegne sensibilità diverse nei confronti dello spazio. Ogni edificio è di volta in
volta figura o sfondo, luogo abitato o semplice comparsa visiva, in un panorama cangiante tenuto
insieme da pochi consunti simulacri: ricordi di un sussidiario, festività di un calendario antico ancora
appeso al muro.
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