Le strade di Giuseppe

Transcript

Le strade di Giuseppe
SECONDO CLASSIFICATO
SEZIONE NARRATIVA
LE STRADE DI GIUSEPPE
di Avid Ghasen Pour, Francesca Bravin, Alessia Boliandi, Duna Viezzoli, Giorgia
Spreafico della classe III E Liceo Scientifico Oberdan – Trieste
Docente Referente: Paolo Banova
Era una bella giornata. La luce del sole attraversava le foglie degli alberi lungo la strada che
percorreva ogni giorno per andare al lavoro: si compiaceva all'idea di svolgere una mansione di
responsabilità, anche se spesso esposto alle intemperie o alla calura estiva. Le pietre roventi erano
diventate delle amiche e sapeva evitare gli inciampi.
In lontananza sentì il fischio di un vecchio treno, alzò lo sguardo e, oltre il campanile della chiesa,
vide sollevarsi una densa nuvola nera.
Abitando nei pressi di un tratto intermedio della linea ferroviaria che doveva controllare, decise,
come era solito fare, di iniziare da quel punto.
Arrivato ai binari, si diresse verso il solito masso, dietro al quale, la sera precedente, aveva nascosto
il suo martello. Il suo compito era quello di verificare l'integrità dei binari colpendoli ad intervalli
regolari, percorrendo due volte lo stesso tratto.
Quel gesto meccanico era ormai diventato un rito giornaliero.
Il familiare suono metallico scandiva il ritmo dei suoi pensieri. Poesie e racconti si facevano strada
nella sua mente. I colori del cielo, dei fiori, del mare in lontananza gli mozzavano il fiato,
permettendogli di viaggiare in un mondo più felice, nel quale si rifugiava nell'attesa di ritornare a
casa.
Sua moglie Anna, che aveva sposato all'età di diciotto anni, aveva appena dato alla luce Dino,
ultimo di quattro figli. Pensava a come il maggiore, Vittorio, era sempre disposto ad aiutarlo nel
terreno che condivideva con il suo amico Alfio.
Dopo lunghe ore di lavoro, la rauca risata del casellante ormai vicino gli riportò alla mente i dolci
momenti passati con le sue due figlie, Angela e Maria: la lunghezza delle ombre e l'atmosfera più
rosea gli ricordavano l'avvicinarsi di quel loro abbraccio tanto atteso.
Ritornato al punto di partenza, nascose nuovamente il pesante attrezzo e intraprese il cammino
verso casa.
Il sorriso dolce, solare e pieno d'affetto della donna lo accolse al suo arrivo a casa.
“Giuseppe!” esordì “i ragazzi ed io ti stavamo aspettando per la cena”.
Pur non essendo la prima volta che udiva quelle parole, notò una strana tensione nel volto di lei.
“Anna...” iniziò “mi stai nascondendo qualcosa?”
Lei si voltò e senza una parola gli porse una busta sigillata.
“È una lettera da parte del Dipartimento Ferroviario” un sorriso le si dipinse in volto “forse è
arrivato quel premio per il lavoro che tanto aspettavamo!”.
Giuseppe aprì tremante la busta e rapidamente lesse tutto d'un fiato il suo contenuto. Si fermò.
Rilesse ancora una volta e poi, lentamente, guardò la donna. Aprì la bocca per parlare, ma non ne
uscì alcun suono. Anna attese alcuni istanti prima di strappargli violentemente di mano il foglio. Un
singhiozzo ruppe il silenzio, il pianto della donna richiamò l'attenzione dei figli che si precipitarono
in cucina. Il loro volto interrogativo esigeva una risposta.
“Sono stato trasferito, a Barletta e...” lasciò la frase in sospeso.
Era l’agosto del 1939.
Gli occhi ancora lucidi di Anna incontrarono quelli rassicuranti di Giuseppe.
*
“Hai preso tutto?” domandò Anna “Scrivimi non appena arrivi”.
Giuseppe le sorrise, felice per essere riuscito a tranquillizzarla senza far trasparire ciò che realmente
lo tormentava.
“Tornerò presto, prima che tu te ne accorga saremo di nuovo uniti” e poi, rivolgendosi ai figli “mi
mancherete. Mi raccomando: aiutate vostra madre” si voltò verso Vittorio “Sei tu l'uomo di casa
ora”. E dopo un abbraccio troppo breve si ritrovò affacciato al finestrino del treno a salutare con un
malinconico sorriso i suoi cari e a tendere la mano verso la moglie, desiderando di poterla stringere
a sé ancora una volta.
Lo stesso scenario scorreva ormai da ore davanti ai suoi occhi senza nessun cambiamento. Come il
paesaggio, anche i suoi pensieri erano monotoni, sempre rivolti al sorriso della moglie,
all’affettuoso abbraccio delle figlie, all’innocente pianto di Dino. Improvvisamente qualcosa attirò
la sua attenzione interrompendo il flusso dei suoi pensieri: “Barletta”. Un cartello stradale
annunciava la vicinanza alla meta. Al di là di esso i suoi occhi intravidero le prima abitazioni del
paese che sarebbe stato la sua nuova casa. Disorientato dall’ambiente poco familiare, per la prima
volta Giuseppe si rendeva conto di ciò che lo attendeva. Per l’intera durata del viaggio, i suoi
pensieri erano stati rivolti a ciò che aveva lasciato a Trieste, senza soffermarsi a riflettere sul futuro.
Prese la valigia e, scendendo, entrò nella sua nuova vita.
La prima notte fu tormentata. Si rigirava continuamente fra le lenzuola. Ogni cosa era fuori posto; il
cuscino troppo morbido, il materasso troppo rigido e stretto, la temperatura troppo calda e umida…
il posto vuoto accanto a lui.
Solo così si rese conto che tutto ciò che un tempo aveva ritenuto scontato e monotono, era per lui
quel conforto che ora non aveva.
I mesi passavano ma si sentiva ancora un estraneo in quel paese dove la vita era scandita da ritmi
differenti da quelli a cui era abituato. Era visto con diffidenza dagli abitanti che lo chiamavano
bonariamente “l’austriaco”.
Avrebbe voluto che le lunghe ore come casellante gli riempissero oltre al tempo, anche la mente,
per impedirgli di pensare. Si rifugiava nel familiare fischio del treno, che sembrava essere l’unico
elemento rimasto invariato dalla sua vita precedente.
*
La familiare sagoma del casello ferroviario apparve dietro la curva. Come ogni giorno prese posto e
con gesti resi automatici dall’abitudine si preparò al passaggio del treno rapido sulla linea LecceBari.
Non appena ebbe calato la sbarra una macchina frenò bruscamente. Il finestrino e l’autista si sporse.
“ Sollevate la sbarra, Sua Eccellenza deve proseguire.”
“ Non si può proprio. Dovrete attendere il passaggio del rapido.” Rispose pacatamente Giuseppe.
L’autista sembrò voler replicare con maggior fervore ma fu interrotto dall’aprirsi della portiera
posteriore. La figura elegante ed imponente attirò l’attenzione di Giuseppe per l’autorità che
traspariva da ogni suo gesto.
Vedendo il gerarca avvicinarsi, Giuseppe non poté fare a meno di pensare che l’uomo volesse intimidirlo con la sua posizione sociale per trarne
vantaggio.
Egli voltò le spalle all’autista lasciando intendere la sua volontà di parlare in privato con il
casellante.
“ Potrei sapere tra quanto è previsto il passaggio del rapido?” esordì.
“ Una manciata di minuti; dovrete aspettarne cinque al massimo”.
Giuseppe rimase sorpreso dall’atteggiamento apparentemente disinteressato dell’altro.
Con un lieve cenno del capo il gerarca si dimostrò disposto all’attesa.
“ Voi non avete il nostro accento, da dove venite?”
“ Dalla zona di Trieste” rispose dopo un attimo d’esitazione colmo di diffidenza.
Non si fida di me, sfiderei chiunque ad atteggiarsi in modo differente. Con questa divisa è raro
trovare qualcuno che non ne sia intimidito. Ma di questi tempi bisogna essere un’unica entità,
superando le differenze sociali…Dobbiamo fidarci l’uno dell’altro, aiutarci a vicenda e sostenerci
nelle difficoltà.
“ Per quale motivo vi trovate così distante da casa?”
“ Mi è stato imposto” replicò freddo Giuseppe.
Che cosa sono tutte queste domande? È un interrogatorio? Dove vuole arrivare? Perché mai una
persona del suo rango dovrebbe interessarsi ad una del mio?
Mentre così meditava, notò il delinearsi di un’espressione di pura curiosità sul volto del gerarca,
probabilmente suscitata dalla sua riservatezza. Quest’ultimo, pur non volendo apparire invadente,
aggiunse: “E perché mai, se posso permettermi?”
A tale domanda fu investito da un flusso inarrestabile di ricordi. Trascinato dalla forza dei pensieri e
dimentico di chi avesse di fronte, iniziò a raccontare con trasporto: “Ho ricevuto una lettera…
diceva che ero stato trasferito a causa di un’infrazione sul lavoro… Non sapevo di non poterlo fare,
credevo non ci fosse niente di sbagliato… Il risultato finale era sempre lo stesso…” disse quasi
parlando a sé stesso.
Disorientato, ma sempre più incuriosito dalle vicende dell’uomo, il gerarca, riportò Giuseppe alla
realtà“ Di che cosa state parlando? Qual è stato il vostro errore?”
Giuseppe riportò l’attenzione sul suo interlocutore e, guardandolo per la prima volta negli occhi,
vide in essi il riflesso dell’uomo e non più quello del funzionario di Stato. Fugato ogni dubbio,
mutò atteggiamento e proseguì con maggior scioltezza: “A Trieste ero cantoniere. Anziché svolgere
il mio lavoro seguendo il percorso nell’ordine prestabilito, per comodità partivo dal punto più
vicino a casa mia. Non mi spiego come il Compartimento ne sia venuto a conoscenza, ma ormai
non fa alcuna differenza.”
Notando una velata amarezza nella sua voce, il gerarca, con un certo tatto, spostò il discorso e
chiese: “Sentite la mancanza della vostra famiglia?”
“In ogni istante. Andandomene ho abbandonato mia moglie con quattro figli da sfamare. Cerco di
trasmettere tutto il mio affetto in quelle poche parole che da quattro anni scrivo una volta al mese,
ma non mi sembra mai sufficiente.”
Il fischio del treno in avvicinamento interruppe i pensieri nostalgici di Giuseppe e troncò le parole
confortanti sulle labbra del gerarca, che gli lanciò uno sguardo che esprimeva tutta la sua
comprensione.
L’autista spense la sigaretta sotto la scarpa e salì in macchina. Il gerarca si voltò un’ultima volta:
“Non temete vi aiuterò io” disse.
Il casellante, senza parole, osservò la macchina allontanarsi velocemente ed immaginò la
conversazione tra i due: “Voi non siete un santo, perché vi interessate ad uno come lui? Quello è
un…criminale.”
“Io sono un uomo, quello è un uomo”.
Per la prima volta dal suo arrivo a Barletta qualcosa aveva sconvolto la sua giornata. Tornò a casa
con la mente affollata dai pensieri. Mi aiuterà veramente? Era combattuto: da una parte sapeva di
non potersi fidare, di questi tempi gli uomini pensano solo a sé stessi, come animali che combattono
tra loro per l’ultimo pezzo di carne, ma ciò che di ingenuo era rimasto in lui prese il sopravvento;
vedeva la possibilità che la nostalgia, che lo divorava ogni notte, potesse cedere il posto a qualcosa
di simile alla speranza. Se ciò si fosse avverato, allora avrebbe capito che la vita non è un film in
bianco e nero, ma che è anche ricca di sfumature di grigio, in grado di dimostrargli il lato positivo
del mondo, che fino a quel momento era oscurato dalle sofferenze, dalla fame, dalla guerra.
E il gerarca fu di parola; ben presto Giuseppe ricevette un telegramma che gli annunciava
l’imminente ritorno a Trieste. Profondamente toccato dall’umanità di una personalità così
importante, organizzò il suo ritorno. Aveva sentito parlare degli avvenimenti degli ultimi tempi,
qualcosa stava cambiando. Non era certo che fosse qualcosa di positivo, non aveva certezze, tranne
una: presto sarebbe tornato a casa. Non avrebbe più dovuto lavorare in quel piccolo casello
ferroviario sotto il cocente sole pugliese. Così prese le poche cose che aveva e, pagato l’ultimo
affitto, partì verso Trieste dove avrebbe finalmente rivisto i suoi cari. Da Bari prese un treno per
Roma poiché la linea Adriatica era interrotta. In questo modo potrò visitare la capitale d’Italia!
Spero solo di non incappare in qualche spiacevole inconveniente
Dopo qualche ora di viaggio il controllore confermò i suoi timori: il treno non poteva giungere a
destinazione a causa delle truppe tedesche che lo avevano requisito. Dovette accontentarsi di un
misero posto su un carro da fattore che si stava dirigendo verso la capitale.
A Roma vide i resti di alcuni edifici distrutti durante gli scontri; toccato dallo scenario di
desolazione che gli si poneva davanti, rimase anche affascinato dai grandi monumenti: il Colosseo
era qualcosa di incredibilmente maestoso. Si emozionò davanti alla bellezza della fontana di Trevi e
rimase stupito dall’approccio con cui gli artisti di piazza Navona vivevano gli avvenimenti degli
ultimi tempi: continuavano a dipingere le vedute di Trastevere e di piazza San Pietro estraniandosi
dalla realtà per rifugiarsi nel loro mondo di colori e di serenità. Provava una certa invidia nel notare
la libertà con cui potevano dar sfogo alla loro fantasia, trasmettendola al mondo. Lui invece, benché
avesse sempre avuto un’indole artistica, aveva dovuto reprimerla in un lavoro che non gli dava
modo di dimostrarla.
A causa di disordini dovuti alla guerra in corso non poté continuare il suo viaggio, così trovò riparo
nella zona agricola nei dintorni della capitale, alloggiò presso una famiglia di contadini e si adattò al
lavoro nei campi.
Visse come agricoltore per molti mesi, durante i quali la lontananza dai familiari diventava sempre
più insopportabile. Era il gennaio del 1945 quando finalmente ebbe la possibilità di ripartire: era
arrivato il momento di ritornare al nord. Il viaggio fu lungo e faticoso, le linee ferroviarie erano per
gran parte distrutte e molte zone del paese erano occupate da truppe tedesche o gruppi partigiani.
Arrivò a Trieste con i più svariati mezzi di trasporto, a volte prendendo strade secondarie e più di
una volta si ritrovò a pensare di non farcela. Quando finalmente arrivò nella sua città, ogni cosa gli
sembrava irreale tante erano state le volte in cui aveva sognato quel momento. In lontananza si
ergeva il colle di San Giusto, con il castello dove da bambino aveva immaginato di essere un re
potente e giusto; lo colpì quanto la città fosse cambiata: i frequenti bombardamenti e la costruzione
dei rifugi antibomba avevano costretto molti uomini ad abbandonare le proprie occupazioni.
Giuseppe notò sofferenza e tristezza nel volto delle persone che incontrava per strada. Si chiese
quanto dovevano essere stati faticosi quegli anni per la sua famiglia, quanto dovevano aver avuto
bisogno del suo aiuto. Lungo la via vide dei bambini giocare: dovevano avere più o meno sei anni,
ma i loro volti erano fortemente provati, i grandi occhi risaltavano nella magrezza dei visi. Pensò
che probabilmente gli zainetti appoggiati sul marciapiede contenessero i pochi beni in loro
possesso, bambole o macchinine, sempre pronti, nell’evenienza in cui suonasse l’allarme, a
prenderli e correre, correre verso il rifugio più sicuro. Quei bambini non avevano più paura; ora
erano abituati a scappare dagli aerei, quelli che sganciavano le bombe, distruggevano ogni cosa e
gettavano nel fumo il lavoro di intere generazioni.
Venne a sapere che molte famiglie si erano trasferite per paura di rimanere schiacciate tra i tedeschi
in fuga ed i partigiani di Tito in avanzata. Il veleno della giustizia privata si stava diffondendo in
una società che, a dispetto dell’emancipazione e del benessere, si trovava a sprofondare in una
barbarie primitiva. Gli giunsero alle orecchie notizie di gruppi di persone gettate nelle cavità sugli
altopiani dell’Istria e del Carso.
Almeno a Trieste la solidarietà, per quanto spesso interessata, aveva salvato più di qualcuno dalla
tragedia della deportazione di massa verso i lager.
Sua moglie e i suoi figli avevano trovato alloggio presso la Casa del Ferroviere e fu lì che Giuseppe
li trovò. Al primo sguardo Anna sembrava diversa, era invecchiata, sfinita dal tempo e dalla fame,
aveva dovuto sostenere il peso della guerra con quattro figli piccoli. Dopo averla osservata meglio,
però, Giuseppe si rese conto che la luce nei suoi occhi non era mutata: era sempre la stessa donna,
quella che lo aveva aspettato per tanto tempo. Quando ella si accorse che il marito la stava
guardando rimase immobile per qualche attimo; momenti che a Giuseppe sembrarono non finire
mai, poi attraversò correndo il giardino e con le lacrime che le solcavano il viso, si gettò al collo del
marito scoppiando in un pianto affettuoso e struggente. Nel vedere i figli, che gli corsero incontro,
Giuseppe si rese davvero conto di quanto tempo fosse passato: alcuni erano così cambiati che non
riuscì a riconoscerli. Quando era partito erano soltanto dei bambini, ancora troppo piccoli per
comprendere le circostanze del suo trasferimento; ora invece erano ragazzi forti, lanciati troppo
giovani in un mondo pieno di guerre e ingiustizie, dove però era semplice capire quali fossero le
cose importanti nella vita e le poche certezze che permettevano di non cadere.
Anna gli rivelò di aver saputo che era stato il signor Alfio Lanziani ad aver fatto la spia riguardo
alla sua trasgressione sul lavoro, con l’intento di riuscire a mettere le mani sulla sua piccola parte di
terreno boschivo, pieno di castagni e noci. Le era sembrato impossibile che per una piccola
infrazione fosse stato preso un provvedimento così drastico. Non si era data pace e nel recarsi
quotidianamente alle botteghe alimentari ci aveva messo una nuova attenzione e una certa cautela a
cogliere tutte le parole non dette e i pensieri malcelati. Qualche allusione sfuggita e qualche
congettura personale l’avevano indotta a sospettare dei tre vicini di fattoria: Alfio, Giorgio e
Donato. Qualche visita in più alle rispettive mogli, anche perché serviva sempre un aiuto per
lavorare i campi, la fecero convincere della veridicità dei suoi presentimenti. Lei, sempre la stessa,
fiera e buona, avvertiva crescerle dentro un’attenzione più acuta. Non aveva da nascondere nulla:
tutti sapevano che Giuseppe era stato trasferito e lei era sola. Gli altri invece potevano tradirsi; le tre
donne la compativano in egual modo, ma le parole della moglie di Alfio (“Eh, il mio Alfio si è dato
un gran da fare per ottenere quel terreno…”), furono più di un sospetto. Aveva così congetturato e
poi capito che Alfio sperava di appropriarsi di quel terreno comune su cui lavoravano
saltuariamente lui e Giuseppe. L’uomo aveva riferito ai responsabili delle Ferrovie che Giuseppe
aveva l’abitudine di non seguire il tragitto prestabilito dal Dipartimento Ferroviario, nello svolgere
il suo lavoro. Inserendo tale annotazione sul curriculum del ferroviere al Dipartimento avevano
notato che nel 1924 l’uomo aveva preso parte allo sciopero per la morte di Giacomo Matteotti. Per
dare un esempio di severità le Ferrovie italiane avevano aperto un fascicolo per trasferirlo in
un’altra regione.
“Quel vigliacco traditore!” proruppe Giuseppe, dovevo immaginare che Alfio avrebbe cercato di
impossessarsi della mia parte di terreno,…e così…ha scelto di giocare sporco, screditandomi! “Ma
la pagherà, stanne certa, Anna cara, non la passerà liscia dopo tutto ciò che ci ha fatto!”. Anna vide
dipingersi sul volto del marito un’espressione di ferocia mai vista prima, rimanendone
violentemente turbata; si chiese se dopo tanto tempo fosse ancora l’uomo che aveva sposato.
Qualche giorno dopo Giuseppe incontrò Alfio in un ricovero antibomba.
Vide un uomo distrutto, sconvolto dalla storia, dal susseguirsi degli eventi che gli avevano
sconvolto la vita.
Vide un uomo, solo un uomo.
In lontananza Anna vide Giuseppe avvicinarsi ad Alfio ed abbracciarlo.