L`Arte non è cosa nostra

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L`Arte non è cosa nostra
Arte non è cosa nostra.
Esposizione Internazionale d’arte della Biennale di Venezia
Week and a Venezia: Padiglione Italia
Opera emblema della mostra : Gaetano Pesce, Italia in croce (in
assenza di isole).
Di Giovanna Livreri
Questa volta proprio non se ne poteva fare a meno. Dopo l’annuncio
che la Biennale di Venezia avrebbe ospitato la performance italiana
L’Arte non è cosa nostra abbiamo pensato che era opportuno andare
a rendersi conto di persona. Abbiamo quindi visitato il padiglione
Italiano il cui tema L’Arte non è cosa nostra campeggia ripetuto nelle
insegne al neon nelle grandi sale dell’Arsenale. Ci ha accompagnato
virtualmente uno dei nostri più grandi artisti contemporanei italiano
(per l’esattezza siciliano) Emilio Isgrò, padre della cancellatura. Il
motivo conduttore del Padiglione Italia all’Esposizione Internazionale
d’Arte della Biennale di Venezia vuole essere un doppio senso che
non impressiona per
sottigliezza.
Quest’anno l’allestimento del
Padiglione italiano, per altro, coincide con le celebrazioni del cento
cinquantenario dell’unità nazionale. Ghiotta occasione per un bilancio,
un check-up, un rendiconto, una qualche riflessione sulle esperienze
artistiche italiane del nuovo millennio. Con qualche ambizione e
coraggio intellettuale, la curatela del padiglione nazionale potrebbe
stimolare una proposta di sintesi, individuare delle linee di indirizzo,
suggerire percorsi, avvicinare il futuro in soldoni, definire un’estetica
attuale tra individuo e società, tra pratica dell’arte e realtà. E
contribuire così all’interpretazione dell’elusiva identità nazionale. Bene,
cioè male, perché nulla di tutto questo si offre tra le sale e il giardino
del Padiglione Italia. Il vero tema sussurrato tra le sale dell’Arsenale è
pero’ un altro , anch’esso tutto italiano è la performance del curatore
Vittorio Sgarbi. Nel gennaio 2010 il Ministro per i Beni e le Attività
Culturali Sandro Bondi scuote il mondo dell’arte contemporanea
nominando Vittorio Sgarbi curatore del Padiglione Italia. Molti
interrogativi si sollevano sulla scelta del ministro e più in particolare
sulla particolare personalità dello stesso nominato, che, notoriamente,
non ha mancato occasione per esprimere il suo disinteresse per una
grossa parte dell’arte contemporanea italiana. Seguono mesi di
polemiche, accuse, capricci, ripicche, minacce di dimissioni per
mancata nomina a sovrintendente del polo museale di Venezia da
parte del nuovo ministro Galan, minacce poi rientrate, secondo buona
tradizione italiana. Nel frattempo, si narra tra gli addetti ai lavori che
visitano le Sale dell’arsenale come il curatore abbia lavorato
mobilitando la sua rete di relazioni, vagliando progetti, assumendo
collaboratori (molti, troppi), richiede spazi e altri spazi ancora,
coinvolgere l’Accademie di Belle Arti, attivare la rete degli Istituti
Italiani di Cultura all’estero, organizzare insomma l’Evento Culturale
dell’Anno, quello che lascerà un Segno, finalmente il più deciso
«tentativo di sviluppare una politica culturale che non vada a
rimorchio della sinistra», queste le parole di Bonito Oliva (grande
presenza del Padiglione). O se si preferisce, «il risarcimento del
rapporto fra letteratura, pensiero, intelligenza del mondo e arte»,
secondo il curatore stesso Vittorio Sgarbi. E allora rompere con le
consolidate convenzioni, i compromessi, le consorterie dei critici, delle
riviste, con gli addetti ai lavori, il maneggio dei mercanti d’arte, l’élite
del collezionismo. La missione del curatore è stata : L’Arte va liberata
dalla tutela soffocante del Sistema (identificato in modo scoperto con
la sinistra storica e radical-chic). Insomma, come il curatore, nella
capacità di sindaco di Salemi, si vanta di una sua battaglia contro la
mafia e cosa nostra siciliana, così questa battaglia secondo lo Sgarbi
pensiero si deve estendere alle cosche che tengono in ostaggio l’arte
italiana. Molto interessante. L’arte non è cosa nostra: non è mafia,
anzi è resistenza alla mafia; non è di nessuno, perché è di tutti.
Questo il semplicistico, demagogico messaggio, ad uso esclusivo tutto
italiano di recriminazioni di politica interna e di carattere personale di
alcuni personaggi tra l’altro; messaggio per lo più incomprensibile nel
resto del mondo (dove mai si è immaginato di avvicinare l’Arte e il
mondo dell’Arte a concetti di mafia e cosa nostra), e la cosa è un
paradosso
tutto
italiano
in
questo
contesto
di
esposizione
internazionale. Gli stranieri avranno mai capito? Oppure avranno
immaginato che è vero che l’Italia è pasta, mafia e mandolino?. Il
risultato di un anno e mezzo di lavoro si è inaugurato di fronte al
mondo il 3 giugno. E siamo giunti al paradosso. Cosa nostra (intesa
come organizzazione criminale) è il tema della grande istallazione del
Museo della Mafia (uno spazio dedicato nelle Tese dei Soppalchi,
Padiglione Italia), portato da Salemi a Venezia dal suo creatore, lo
scenografo Cesare Inzerillo. Lungo un percorso di corridoi stretti e
scuri, tappezzati dalle prime pagine dei giornali dall’unità d’Italia
all’oggi su fatti di sangue e di crimine mafioso, si accede a uno
spazio buio in cui dieci cabine elettorali dipinte di nero offrono a chi si
chiude la porta alle spalle un sunto dell’esperienza di mafia: il
sangue, gli spari, il rapporto con la società, la chiesa, gli appalti,
sanità, acqua, informazione, carcere, politica, i morti. Altri spazi
ospitano i tableux con mummie con cui Inzerillo si è fatto un nome. Il
museo di Inzerillo (nato da un’idea di Sgarbi, viene continuamente
ricordato alla Biennale) ha perlomeno un focus preciso, fermandosi
sugli aspetti “esteriori”, di impatto emotivo, di cronaca nera della
mafia, facendone un fenomeno caratteristicamente siciliano. Per i
giornalisti esteri gli italiano sono con evidenza soggetti traumatizzati
dalla mafia e dal sistema mafioso e non riescono piu’ ad
affrancarsene. Comunque e per fortuna la Cosa Nostra del museo
della Mafia di salemi è un innesto estemporaneo sulla gran massa del
materiale del Padiglione italiano. Gran Massa di materiale perché a
detta dei cronisti si trova lì immagazzinato perché il curatore ha
deferito – di fatto -
il suo lavoro a ben duecento «persone che
ammiro, che sono diversamente ammirate» che hanno indicato
ciascuna un artista, un pittore, fotografo, ceramista, designer, video
artista, grafico, ritenuto «il più interessante in questa apertura del
nuovo millennio». «I 200 “segnalatori” sono testimoni di una realtà
che non può essere esiliata in un ghetto avvalorando le tendenza
delle gallerie d’arte. Insomma, 200 punti di vista, per una
rappresentazione caleidoscopica e libera dal pregiudizio di un critico
che abbia la sua squadra, le sue predilezioni, i suoi protetti». Perché
e cosa sottende l’operazione di scaricare su altri la responsabilità
personale
delle
scelte?
Un
gesto
pilatesco?
Una
volontà
di
condivisione diversamente collocata a livello sociale ? I giornali
specializzati pongono domande su domande. Ad ogni buon conto,
ogni opera è così esposta abbinando l’artista al suo mallevadore, a
perpetuo
tramandare
dall’approvazione
la
dipendenza
dell’auctoritas
privata
della
creatività
(
collezionisti
individuale
,
privati
estimatori, compratori), quella sì riconosciuta e riverita. Il risultato di
tale operazione sono oltre 260 opere, che coprono ogni parete, ogni
superficie calpestabile e no, ogni angolo, che non hanno alcun
denominatore comune di gusto, di tema, di tendenza, di valore
soprattutto. Obiettivamente l’impressione è di entrare in un magazzino
e su questo le critiche si sono sprecate. Secondo alcuni l’ansia da
horror vacui si è estesa fino ai punti più elevati dei muri, col risultato
che è impossibile osservare molte opere che le stratificazioni
dell’allestimento hanno collocato in alto. Il risultato ai comuni mortali,
come agli appassionati d’arte è che appare difficile concentrarsi su
qualsiasi pezzo dell’esposizione, ogni cosa pare buttata lì dal caso.
Dal suolo i commenti dei visitatori stranieri si fanno sentire e si
sprecano. I piu’ diffusi? : “this is terrible!”. La responsabile
dell’allestimento, Benedetta Tagliabue Miralles, ne fa tuttavia un
merito: «Il Padiglione Italia simile all’atelier degli artisti che qui
espongono, dove le opere sono in uno stato vivo… Ogni spazio si
utilizza, le quadrerie si affastellano sulle strutture, sulle pareti, sui
soffitti…». La responsabile dell’allestimento spiega: Non è una mostra!
(ci
eravamo
sbagliati)
ma
è
una
concezione
puramente
“di
arredamento” dell’esposizione delle opere, lo spazio è un contenitore
da riempire. Insomma non si sbaglia allora ad assimilarlo ad un
grande magazzino. La lista di artisti e mallevadori è molto lunga e
interessante. Ci spiegano che le Opere si aggiungono e si tolgono
ogni giorno, è impossibile sapere che cosa ci sia effettivamente
permanente nel Padiglione Italia. La conferenza stampa sotto
l’inquietante L’Italia in croce (in assenza di isole) di Gaetano Pesce e
l’azienda Cassina (opera che rappresenta un paese di macerie
sanguinolenti) è un tripudio di telecamere e vipperia. Le parole di
Paolo Baratta, Presidente della Fondazione Biennale sono riferite al
fatto che la mostra è un occasione di coraggio e speranza. L’Arte non
è cosa nostra è affermazione, vocazione, speranza (aggiunge anche :
non aspettatevi una mostra d’arte). Test sullo stato attuale della
società italiana. Esperimento che tutti i paesi dovrebbero fare
(purtroppo ci distinguiamo anche qui anche perché tale esperienza
presuppone il rapporto con cosa nostra). Il rapporto tra classe
dirigente e artisti (ogni mq. qui è lottizzato, lo spazio è consumato
come il territorio della nazione). Quello che negli anni passati poteva
essere ordinario diventà la curiosità : Nel Padiglione Italia è esposto
un bellissimo Piero della Francesca. Tra le opere si apprezzano Le
vedute del fotografo Bruno Cattani (sponsorizzate da Italo Zannier),
grigi di solitudine e sospensione del tempo; I bronzei cavalieri
dell’Apocalisse di Federico Severino, figlio dell’Eleate; La rivisitazione
del futurismo nelle sculture di Marcello Pietrantoni (sponsor Stefano
Zecchi); Il lavoro di scultura monumentale, l’amore per la pietra del
quarantenne Filippo Dobrilla; Giuseppe Bergomi (sponsor Mario
Botta); Le ginnastiche pornosadomasochistiche del fumettista e
disegnatore Riccardo Mannelli (segnalato da Ascanio Celestini); I
bronzi epici dell’Esercito di anime di Franco Politano (sponsor Lucio
Dalla); Giuseppe Bartolini con il suo Maggiolino VW (sponsor Antonio
Moresco); L’esercizio di discrezione sulla bandiera italiana di Giosetta
Fioroni, intenso e commovente. Il collage di Mimmo Paladino; Una
parete di cento televisori accesi in un’estremità del salone sono
collegati in diretta con tutti gli Istituti Italiani di Cultura nel mondo e
uno studio televisivo è stato approntato per l’inaugurazione del
padiglione: filmati, presentazioni, brevi interviste di artisti, altre mostre,
attività. Questa parte, molto seguita, è stata organizzata direttamente
dal Ministero degli Affari Esteri grazie allo sforzo della Dr.ssa
Francesca Valente, già direttrice degli Istituti di Cultura di Toronto,
Chicago e Los Angeles. Per finire, Gaetano Pesce (nominato da Alain
Elkann),
ha
portato
l’opera
emblema
dell’esposizione,
la
drammatica Italia in croce ( in assenza di isole), progetto in realtà
risalente al 1976 e mai realizzato fino a oggi. Il veterano Pesce
tuttavia sembra essere stato contagiato dalla confusione, dei fatti con
le rappresentazioni caricaturali, del curatore che ha approntato la
mostra come una sorta di format televisivo di prima serata: più roba
c’è, più si fa audience. Allora, non pago di avere l’Italia in croce, oltre
il dramma Pesce a Venezia ha portato la farsa: due “poltrone in
poliuretano estruso a caldo multicolore”, in pratica due troni/sculture
psichedelici di concrezioni plastiche e tubi, piazzati ai lati del
passaggio tra sale e giardini, e ha assiso su di essi Adamo e Eva. In
ogni caso la performance va vista di persona. È il padiglione italiano,
non poteva mancare un po’ di haut couture, un modello di maschio
(?)
oggetto
evanescente
e
una
scollacciata
starletta
del
porno, entrambi au naturel . Diremmo che l’uomo nudo riscuote
attenzione minore rispetto alla straletta : ma che ci possiamo fare:
siamo italiani!. Hard culture? No, fenomeni da baraccone, a cui
nessuno è indifferente, e se non lo si riconosce si è ipocriti.
D’altronde Il trash (da cui deriva l’azzeccato
termine siciliano
Tascio!) è sempre trendy, la fatica e il tormento dell’artista roba per
malinconici acculturati depressi da mettere in un angolo, sperando che
si noti poco. Ebbene si , ammettiamolo, lo spessore culturale di oggi
è questo e l’antimafia di sciasciana memoria docet. In Italia, sei vuoi
essere preso sul serio,
devi parlare di mafia e soprattutto di
antimafia. L’imperativo, d’altronde è sempre comparire e stupire per
esistere.