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1. Gli atti legislativi nel libro I. Il CIC 1983 non ha presentato la
Corso Norme generali 20104 / 2011-2012 Dispense parte III Prof. Valdrini/Andrea Ripa
GLI ATTI DELLA POTESTÀ LEGISLATIVA
1. Gli atti legislativi nel libro I. Il CIC 1983 non ha presentato la
legislazione sulle leggi e, più generalmente, gli atti di governo con
un criterio formale. Se avesse usato un criterio formale, avrebbe
presentato gli atti della potestà legislativa, cioè tutti gli atti che può
portare un titolare della potestà legislativa, poi gli atti della potestà
esecutiva, cioè gli atti portati da un titolare della potestà esecutiva.
Ora il can. 31 dà la possibilità a un titolare della potestà esecutiva,
con concessione dal legislatore, di emanare un decreto generale
che è proprio una legge.
Can. 29 - I decreti generali, con i quali dal legislatore competente
vengono date disposizioni comuni per una comunità capace di ricevere
una legge, sono propriamente leggi e sono retti dalle disposizioni dei
canoni sulle leggi.
Can. 30 - Chi gode soltanto della potestà esecutiva non può validamente
emanare il decreto generale, di cui al can. 29, a meno che in casi
particolari a norma del diritto ciò non gli sia stato espressamente
concesso dal legislatore competente, e adempiute le condizioni stabilite
nell’atto della concessione
Il legislatore ha quindi presentato gli atti delle due potestà,
legislativa ed esecutiva, con un criterio materiale (il contenuto
dell’atto). Quindi vengono presentate successivamente: le leggi, la
consuetudine, i decreti generali e istruzioni e gli atti amministrativi
singolari, cioè gli atti a contenuto e carattere generali e gli atti a
contenuto e carattere singolari. Questo è possibile perché non vige
in diritto canonico il principio della divisione delle potestà.
2. Indice. Il corso sugli atti della potestà legislativa commenterà i
canoni in tre parti:
1) Quid o quali sono le fonti, diritto scritto e non scritto, del diritto?
2) Quis o chi sono gli autori delle leggi ecclesiastiche (i legislatori)?
3) Quomodo o come si applicano le leggi ecclesiastiche (sudditi e
problemi d’applicazione)?
3. Le leggi ecclesiastiche (diritto scritto) (cc. 7-22). Il can. 7
riprende un brano del Decreto di Graziano : “leges instituuntur cum
promulgantur”, ma senza la seconda parte “et firmantur cum
moribus utentium approbantur”. Il CIC 1983 (e prima il CIC 1917
che conteneva lo stesso canone) insiste solo sul carattere
gerarchico della legge, il fatto che sia promulgata da un legislatore,
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senza dare un’importanza alla ricezione della legge dai destinatari.
Dal Decreto di Graziano ad oggi, un dibattito dottrinale si è svolto
sulla questione della ricezione riferendosi a due definizioni
classiche della legge: 1) la prima di san Tommaso: “Quaedam
rationis ordinatio ad bonum commune, ab eo qui curam
communitatis habet, promulgata”. La seconda di Suarez: “Lex est
comune praeceptum, justum ac stabile sufficienter promulgatum”. La
prima, senza dimenticare di dire che la legge è promulgata da un
legislatore, sottolinea il carattere razionale del contenuto della
legge (ragionevolezza della legge) onde promuovere il bene comune
della Chiesa. La seconda, senza dimenticare di dichiarare che la
legge dev’essere giusta, dice ch’essa è opera d’un legislatore e che
trova la sua forza nell’atto di promulgazione (carattere di atto
gerarchico della legge). Il dibattito è formalmente chiuso ma, di
fatto, esiste quando è trattata la questione della ricezione della
legge, il ricorso contro le leggi ecclesiastiche e la partecipazione
all’attività legislativa. Si può notare una distinzione tra gli autori
secondo importanza data a questa proposizione: la legge deve
acquisire o avere un carattere ragionevole (vedere art. prof.
Valdrini).
Per quanto riguarda gli elementi principali e costitutivi della legge
ecclesiastica che consentono di distinguere legge e atto
amministrativo singolare, cioè gli atti presentati dal libro sulle
norme generali, i caratteri sono: 1) L’astrattezza: la legge è
generale, impersonale per tutti i casi che riguardano la materia. 2)
La permanenza: la legge si applica senza che sia data un
indicazione di tempo per l’applicazione. 3) L’obbligatorietà o
imperatività: la legge impone atti che possono essere esterni o
interni (spesso sono misti). 4) Una forma e delle regole di
applicazione specifiche alle leggi presentate dal CIC. I canoni sulla
forma della legge e sull’applicazione delle leggi saranno commentati
più avanti.
Per approfondire: P.VALDRINI, La ricezione della legge nel diritto
canonico. Pertinenza e significato, in Diritto e religioni, V, 2010, p.
141-159; P.VALDRINI, Le contrôle de la conformité des lois en droit
canonique, in L'Année canonique 35 (1992), pp. 115-126;
E.ZANETTI, Commento al can. 11: "Chi deve osservare le leggi della
Chiesa?", in Quaderni di diritto ecclesiale 1 (1988), pp. 187-190;
P.PELLEGRINO, La promulgazione quale struttura esterna della legge
nell'ordinamento canonico, in Il Diritto ecclesiastico e Rassegna di
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diritto matrimoniale 94 (1983), I, pp. 147-205; P.PELLEGRINO, La
pubblicazione della legge nel Diritto canonico, Milano, 1984.
4. La consuetudine (diritto non scritto) (ccan. 23-28). Nella
tradizione canonica, la consuetudine è stata una fonte del diritto
molto importante perché è stata (è ancora ma meno presente) un
luogo d’espressione della comunità cristiana. Come dice il can. 27
(vedere sopra il brano di Graziano che dimostra che la
consuetudine era un modo di ricevere la legge): la consuetudine è
ottima interprete delle leggi. Il CIC non definisce la consuetudine.
Solo ne definisce gli elementi essenziali:
Can. 23 - Ha forza di legge soltanto quella consuetudine, introdotta dalla
comunità dei fedeli, che sia stata approvata dal legislatore, a norma dei
canoni che seguono.
Tre elementi sono essenziali perché la consuetudine abbia “forza di
legge”:
1) L’elemento comunitario: l’origine della consuetudine non è il
legislatore ma la comunità (can. 23) “capace di ricevere una legge”
(can. 25). Si tratta delle comunità che agiscono in nome della
Chiesa a capo della quale c’è un ufficio con potestà di governo
(unità istituzionale).
2) L’elemento intenzionale: con una prassi osservata (permanenza),
la comunità dimostra la sua intenzione d’introdurre un diritto (gli
autori dicono che si valuta l’intenzione quando è discussa la
soppressione della consuetudine). Ma non può essere contraria al
diritto divino (can. 24 §1). Se è contraria al diritto vigente o fuori
del diritto (can. 24 § 2), la consuetudine deve essere razionale
(vedere l’interesse della parola razionale che riprende il dibattito
sulla legge → la consuetudine non è una pratica contro il
legislatore ma una pratica che oggettivamente ha forza di legge a
causa della sua ragionevolezza). Non deve essere nemmeno
riprovata dal diritto (in questo caso non è razionale perché è
contraria alla volontà del legislatore che ha determinato in modo
più preciso la ragionevolezza della legge).
3) L’elemento formale: l’autorità deve approvare la pratica (can. 23)
“a norma dei canoni” (can. 24 § 2). Tre casi sono presentati dal
can. 26: a) l’approvazione in modo speciale: il legislatore conosce
l’esistenza della pratica contraria o fuori dal diritto e l’approva.
L’atto di approvazione non cambia la natura della consuetudine
(l’origine è sempre la comunità) però una parte dell’imperatività
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viene dall’approvazione (vedere il senso dell’approvazione e il
dibattito tra canonisti su questo punto). b) L’approvazione legale: la
consuetudine contraria o fuori dal diritto è stata osservata
legittimamente (vedere il can. 24 già commentato che dà qualche
regola di legittimità) per trent’anni continui e completi, conosciuta
o meno dall’autorità. Quest’ultima non si esprime. È un assenso. c)
Il caso specifico delle consuetudini contrarie o fuori dal diritto
centenarie o immemorabili è un eccezione alla proibizione
d’introdurre una consuetudine (nel futuro) chiesta dal CIC. Vedere
ciò che è stato detto nel commento del c. 5: Le consuetudini
sempre contrarie al CIC 1983 (contra legem) centenarie o
immemorabili sono soppresse, ma il CIC accetta che siano tollerate
se l’autorità competente lo giudichi “a causa di circostanze di
luoghi o di persone” (es. can. 1263; can. 1279, § 1).
Per approfondire: P.A.BONNET, Annotazioni sulla consuetudine
canonica, Torino, 2003; P.LOMBARDÍA, Legge, consuetudine ed atti
amministrativi nel nuovo Codice di diritto canonico, in AA.VV., Il
nuovo Codice di Diritto Canonico. Aspetti fondamentali della
codificazione, Bologna, 1983, pp. 69-101.
5. Alcune regole di applicazione della legge.
1) Dubbio di diritto e dubbi di fatto: Il CIC 14 non riguarda solo
l’interpretazione delle leggi ma più ampiamente la loro
applicazione:
Can. 14 - Le leggi, anche irritanti o inabilitanti, nel dubbio di diritto non
urgono; nel dubbio di fatto invece gli Ordinari possono dispensare da
esse, purché, se si tratta di dispensa riservata, venga solitamente
concessa dall’autorità cui è riservata.
Il canone affronta il problema delle leggi che suscitano un dubbio.
Questo può essere di diritto o di fatto. Il dubbio di diritto concerne
il testo della legge. La situazione di una persona o più persone alla
quale riferisce la legge è chiara. Ma la fattispecie normativa non è
chiara quando si tratta di conoscere il senso della legge, la sua
estensione e la sua applicazione. Nel dubbio di fatto, invece, la
legge è chiara ma le circostanze sono difficili da collegare con la
legge. Il canone decide che, nel dubbio di diritto, le leggi (senza
escludere le leggi irritanti o inabilitanti) non urgono. Nel dubbio di
fatto, gli ordinari ricevono competenza per dispensare “purché, se
si tratta di dispensa riservata, venga solitamente concessa
dall’autorità cui è riservata”.
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b) Ignoranza e errore circa la legge. Il posto dato alla persona
nell’ordinamento canonico fa si che il diritto riconosca effetti
all’ignoranza o ad un errore circa la legge da parte di un fedele.
Non sarebbe in grado di rispettare la legge e di obbedire. Però il
can. 15 distingue gli effetti a seconda della natura della legge.
Can. 15 - § 1. L’ignoranza o l’errore circa le leggi irritanti e inabilitanti
non impediscono l’effetto delle medesime, a meno che non sia stabilito
espressamente altro.
§ 2. L’ignoranza o l’errore circa la legge o la pena oppure su un fatto
personale o intorno a un fatto notorio di altri non si presumono; circa un
fatto non notorio di altri si presumono, finché non si provi il contrario.
In caso di leggi irritanti o inabilitanti (vedere la distinzione più
avanti), l’ignoranza o l’errore non impediscono la legge di produrre i
suoi effetti, a meno che il legislatore abbia menzionato
espressamente il contrario. In caso di legge, pena o, riguardante
l’applicazione della legge, un fatto personale o un fatto notorio
d’altri, l’ignoranza o l’errore devono essere provate (non si
presumono). La fine del can. 15 § 2 distingue il caso di un fatto
non notorio di altri non conosciuto o sul quale si è sbagliato,
ignoranza e errore non hanno effetti sulla legittimità
dell’applicazione della legge (presunzione) a meno sia provato il
contrario.
6. L’interpretazione della legge (can. 16). In caso di legge
dubbia (can. 14) cioè di difficoltà di capire o di applicare la legge, il
diritto canonico ha previsto un modo di modificarla mediante
un’interpretazione. Interpretare è ragionare sul testo della legge per
darne il significato, sia in modo generale (interpretazione autentica
per modum legis) sia in modo particolare (interpretazione per
modum sententiae iudicialis au atctus administrativi). Il can. 16
presenta i due modi. Ma si deve aggiungere l’interpretazione
dottrinale (che non è mai autentica ma può essere una fonte
suppletiva – can. 19 - vedere più avanti) e l’interpretazione
consuetudinaria (can. 27, vedere sopra).
1) L’interpretazione per modum legis viene: 1) dal legislatore stesso
(si tratta del titolare dell’ufficio di legislatore non della persona che
ha promulgato la legge, ad esempio il Romano pontefice o il vescovo
diocesano); 2) da colui al quale egli abbia concesso la potestà di
interpretare. Il Pontificio consiglio per i testi legislativi ha ricevuto la
potestà di interpretare le leggi universali autenticamente: l’art. 155
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della Pastor bonus (1988) descrive la sua competenza: Art. 155:
“Spetta al Consiglio di proporre l’interpretazione autentica,
confermata dall'autorità pontificia, delle leggi universali della
Chiesa, dopo aver sentito nelle questioni di maggiore importanza i
dicasteri competenti circa la materia presa in esame”. Il Pontificio
consiglio è un organismo stabile, riceve le domande da presidenti
di dicasteri della Curia romana, dai patriarchi (diritto orientale) o
da vescovi. Quando è stato promulgato il CIC 1917, è stata eretta
la Commissione d’interpretazione del CIC (M.P. Cum iuris canonici
del 15 sett. 1917). Dopo il Concilio Vaticano II, Paolo VI ha creato
la Pontificia Commissione per l’interpretazione dei decreti del
Concilio Vaticano II, poi Giovanni Paolo II, nel 1984, ha creato il
Pontificio consiglio per l’interpretazione autentica del CIC,
diventato, nel 1988, il Pontificio Consiglio per l’interpretazione dei
testi legislativi e, infine, nel 2001, ha ricevuto il nome di Pontificio
Consiglio per i testi legislativi.
2) Gli effetti dell’interpretazione autentica sono descritti dal can. 16
§ 2: l’interpretazione autentica ha “la medesima forza della legge”.
Quindi “è presentata a modo di legge” cioè promulgata dal
legislatore, sia emanata da lui stesso, sia dal pontificio Consiglio
con
approvazione
specifica
dal
Romano
pontefice.
1)
L’interpretazione può essere “spiegativa” (esplicativa), nel senso che
risolve un dubbio restringendo (interpretazione restrittiva) o
estendo (interpretazione estensiva) la legge. In quel caso, la legge è
modificata e si applica il principio della non retroattività delle leggi
(vedere più avanti, l’applicazione della legge nel tempo). 2)
L’interpretazione può essere “dichiarativa” se la risposta non
modifica le parole “di per sé certe della legge”. La legge è
confermata. Ha valore retroattivo (saranno studiate – a lezione –
delle
risposte
autentiche
per
illustrare
le
categorie
d’interpretazione). Il can. 18 aggiunge un principio canonico
d’interpretazione: in applicazione i due principi – odiosa sunt
restringenda, favorabilia sunt amplianda e odiosa restringi convenit
(Regulae iuris, n° 15) – le leggi penali e quelli che restringono il
libero esercizio dei diritti dei fedeli devono essere interpretate in
modo ristretto cioè le parole sono da intendersi nello loro senso
proprio (ad. ccan. 1381, 1388, 1385, 278 § 3 …).
3) I modi per interpretare le leggi (can. 17). Il can. 17 è dedicato ai
modi secondo i quali s’interpretano le leggi.
Can. 17 - Le leggi ecclesiastiche sono da intendersi secondo il significato
proprio delle parole considerato nel testo e nel contesto; che se
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rimanessero dubbie e oscure, si deve ricorrere ai luoghi paralleli, se ce ne
sono, al fine e alle circostanze della legge e all’intendimento del
legislatore.
Il canone non si applica solo in caso d’interpretazione autentica ma
anche in caso d’interpretazione fatta da un titolare della potestà di
governo (giudice, amministratore) o da altre persone che vogliono
applicare la legge. Il canone presenta quattro modi che sono da
usare successivamente come lo fa capire il testo del can. 17 - dopo
avere presentato il primo modo, dice di proseguire con gli atri modi
se le leggi “rimanessero dubbie e oscure:
a) L’interpretazione letterale o “secondo il significato proprio delle
parole considerato nel testo e nel contesto (ad esempio, il libro nel
quale si trova o, se un canone parla di ufficio ecclesiastico o usa la
parola potestà, le due parole sono da intendere nel senso usato nel
CIC cioè il can. 145 e il can. 129). Qualche principio da conoscere:
verba singularia singulariter sunt intelligenda e verba generalia
generaliter sunt intelligenda o ancora ubi lex non distinguit nec nos
distinguere debemus.
2) L’interpretazione sistematica o ricorrendo ai luoghi paralleli, cioè
quando le leggi reggono casi simili a quelli che regge la legge
dubbia. Con questo modo, l’interprete può riferirsi alla sistematica
generale dei canoni sia singoli sia in modo generale – la sistematica
del CIC e dei diversi libri – o a leggi antiche soppresse ma che
possono essere studiate per valutare la legislazione vigente (can. 6
§ 2: la tradizione canonica): ad esempio, in caso di revocazione di
un incarico che non è un ufficio o quando si tratta di interpretare
casi che riguardano un sacramento o dei ricorsi o, come l’abbiamo
visto dopo 1967 per correggere la competenza della II sezione della
Segnatura apostolica.
c) L’interpretazione storica o ricerca della propria storia della legge
quando l’interprete cerca perché la legge è stata varata e ciò che ha
voluto il legislatore. La legge, l’abbiamo detto sopra, ha una ratio –
la ragionevolezza o ratio legis – ma anche è un effetto della volontà
del legislatore. Per quanto riguarda la ratio della legge, non
dimentichiamo che la forma normale della legge comporta una
parte introduttiva o preambolo prima che siano determinati gli
elementi da applicare o parte decisoria. Dal testo della legge, sono
scaturite la fine – è stata promulgata per uno scopo – e le
circostanze – la legge è stata voluta in un momento storico della
Chiesa. Ancora un principio da conoscere: ratio legis non facit ius o
ratio legis non est lex, ubi deficit ratio, deficit lex. Per quanto
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riguarda la volontà del legislatore che il can. 17 presenta in un
modo più ampio – intendimento – si tratta di risalire alla mens
legislatoris. Al riguardo, l’interprete può usare le discussioni che si
sono svolte al momento della redazione degli schema dei CIC
(Rivista Comunicationes, rivista Nuntiae, delle discussione del CIC
1917 o dell’archivio) tenendo presente che una distinzione va fatta
tra l’intendimento dei consultori e l’intendimento del legislatore.
Infine è proprio significativo che il can. 17 parli successivamente
della ratio (fine e circostanze della legge) poi della volontà del
legislatore (intendimento). L’interprete dovrà seguire la successione
proposta.
Per approfondire: CAN.M.POLVANI, Evoluzione dell'interpretazione
autentica nel diritto canonico, in Periodica de re canonica, 89
(2000),
pp.
3-43;
J.L.GUTIÉRREZ,
Alcune
questioni
sull'interpretazione della legge, in Apollinaris, 60 (1987), pp. 507525; CAN.J.ERRAZURIZ, Circa l'equiparazione quale uso dell'analogia
in diritto canonico, in Ius Ecclesiae 4 (1992), pp. 215-224;
R.J.CASTILLO LARA, De Iuris Canonici autentica interpretatione in
actuositate
Pontificiae
Commissionis
adimplenda,
in
Communicationes 20 (1988), pp. 288-310.
7. La canonizzazione delle leggi civili (can. 22). Può darsi che il
CIC rimandi alle leggi civili in qualche materia per organizzare
un’attività o dare uno statuto giuridico (doveri e diritti) a delle
persone fisiche o giuridiche per tre motivi: 1) Non è idoneo emanare
un diritto universale su delle materie che dipendono da culture
giuridiche diverse. 2) Non è neanche idoneo emanare un diritto su
una materia che è già regolata dal diritto civile e che il diritto
canonico può ricevere senza che la sua autonomia sia messa in
pericolo (distinguere ius nativum e spazio per il diritto civile). 3) Il
rinvio al diritto civile dà una sicurezza giuridica allo statuto e alle
attività delle persone. Esempi: can. 231 § 1, can. 1062, can. 1274 §
5, 1286, 1°, can. 1290. Con la canonizzazione, il diritto canonico
decide che il diritto civile individuato diventi una fonte del diritto
nell’ordinamento canonico (vedere i problemi dell’interpretazione
delle leggi canonizzate e dell’evoluzione della loro applicazione). La
canonizzazione è sottomessa a due principi: 1) il diritto civile
canonizzato non deve essere contrario al diritto divino. 2) Il diritto
canonico non deve contenere una disposizione altra (non solo
contraria).
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Per approfondire: J.MIÑAMBRÉS, Análisis de la técnica de la remisión
a otros ordenamientos jurídicos en el Código de 1983, in Ius
Canonicum 32 (1992), pp. 713-749; G.BONI, La rilevanza del Diritto
dello Stato nell'ordinamento canonico: in particolare la canonizatio
legum civilium, Milano, 1998.
8. Le fonte suppletive (can. 19) Nel caso dell’interpretazione della
legge, l’interprete deve riflettere su un testo di legge. Il can. 19
tratta di un caso diverso: un titolare della potestà di governo
giudiziale o esecutiva deve conoscere di una situazione particolare
(portare una sentenza o emanare una decisione amministrativa)
senza che esista una norma legislativa universale o particolare
legislativo o consuetudinaria da applicare. La legge è generale come
la consuetudine, riguarda tutti i casi nel futuro (e qualche volta nel
passato in caso di retroattività), però si trovano di fronte ad una
lacuna del diritto. Sia il giudice, sia il titolare della potestà
esecutiva di governo possono creare una fonte di diritto seguendo i
modi presentati dal can. 19, tenendo presente che non potrebbero
creare una fonte suppletiva in una causa penale (nullum crimen,
nulla poena sine lege) e che la fonte elaborata, tramite un
ragionamento, si applicherebbe solo per il caso particolare.
Can. 19 - Se una determinata materia manca una espressa disposizione
di legge sia universale sia particolare o una consuetudine, la causa, se
non è penale, è da dirimersi tenute presenti le leggi date per casi simili, i
principi generali del diritto applicati con equità canonica, la
giurisprudenza e la prassi della Curia Romana, il modo di sentire
comune e costante dei giuristi.
Il can. 19 presenta 4 modi di creazione del diritto (comunque
possono
essere anche
usati
per l’interpretazione
però
l’interpretazione mira a capire la legge in se –tranne
l’interpretazione per modum sententiae iudicialis -, invece la
creazione del diritto in caso di lacuna riguarda una caso
particolare).
1) “Tenute presenti le leggi date per casi simili”. È il metodo detto
dell’analogia spesso paragonato all’uso dei luoghi paralleli nel caso
d’interpretazione, però, nel canone, è espresso in modo più preciso
perché esso parla di leggi (e non di luoghi) e di casi simili (in
similibus). Daremo esempi.
2) “I principi generali del diritto applicati con equità canonica”. Il
diritto canonico ha sempre elaborato sulla scia del diritto romano
dei principi generali. Nel Corpus iuris canonici antico sono stati
raggruppati due volte, alla fine delle Decretali di Gregorio IX (11
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regole) e alla fine del “libro VI” di Bonifacio VIII (88 regole). Inoltre
esistono altri principi che fanno parte del patrimonio giuridico
comune e usati da giuristi (principi di diritto romano e dei diritti
moderni). Il canone menziona una condizione della loro
applicazione: il rispetto dell’equità. L’equità è un concetto molto
importante per l’ordinamento canonico. Hostiensis la definiva come
“iustitia dulcore misericordiae temperata” cioè la giustizia temperata
dalla carità. Quindi l’autorità creatrice della fonte suppletiva dovrà
tener conto di “ciò che la carità suggerisce e consente per evitare la
rigore del diritto, la rigidità della sua espressione tecnica … terrà
conto della persona umana, delle esigenze della situazione (Paolo
VI, discorso alla Rota, 8 febbraio 1978).
3) La giurisprudenza e la prassi della Curia romana. Il can. 19 dà
alla giurisprudenza dei tribunali della Curia romana e alla prassi
dei dicasteri il ruolo di fonte normativa Questo l’aveva affermato
Giovanni Paolo II dicendo che “la giurisprudenza della Rota romana
come degli altri tribunali apostolici e come la prassi dei dicasteri
della Curia romana sono considerati come una referenza e una
orientazione per l’interpretazione di leggi in certi casi … “ (Discorso
alla Rota romana in AAS, 75, 1983, p. 559).
- La giurisprudenza. Ancora Giovanni Paolo II ai giudici della Rota
ricordava che il giudice ha un ruolo importante nell’interpretare la
legge. La sentenza rappresenta per le parte un’interpretazione
(autentica diceva) della legge. Ma afferma più avanti che la forza
interpretativa deve essere posta sopratutto nella formazione della
giurisprudenza, cioè nell’insieme delle sentenze concordanti che ha
un ruolo importante quando è necessario colmare le lacune delle
leggi (Discorso alla Rota, nell’Osservatore romano del 27 gennaio
1984). È il ruolo che l’art. 126 della Pastor bonus dà alla Rota:
“Questo tribunale funge ordinariamente da istanza superiore del
grado di appello presso la Sede apostolica per tutelare i diritti nella
Chiesa, provvede all'unità della giurisprudenza e, attraverso le
proprie sentenze, è di aiuto ai tribunali di grado inferiore”,
giurisprudenza alla quale i tribunali inferiori devono riferirsi
(vedere il corso sui processi del prof. Arroba). Al riguardo, il card.
Pompedda aveva parlato della “forza nomopoietica” della
giurisprudenza della Rota (ma l’attuale giurisprudenza è
soprattutto nel campo matrimoniale). Per quanto riguarda la
giurisprudenza delle Segnatura apostolica, è noto che manchi una
pubblicazione regolare della giurisprudenza.
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- La prassi della Curia romana. Si parla anche di stylus curiae.
Secondo la dottrina canonica, si può parlare di prassi della Curia
romana quando i dicasteri dimostrano un modo costante di
applicare il diritto in casi simili. È un una specie di pendant della
giurisprudenza nell’applicazione della legge nei giudizi. È anche
noto che è difficile conoscere la prassi dei dicasteri che non
pubblicano le loro decisioni.
4) Il modo di sentire comune e costante dei giuristi. Interessante è
notare che il can. 19 dà un ruolo alla cosiddetta dottrina canonica
quando gli autori, che devono essere riconosciuti per la loro
scienza, competenza e prestigio (vedere il can. 212 § 3), tengono
opinioni convergenti su una questione. Tramite un giudice o un
titolare della potestà esecutivo di governo, potrebbe essere una
fonte del diritto. Il can. 20 del CIC 1917 e il can. 19 del CIC 1983
parlano di “doctores”. La traduzione italiana del CIC 1983 parla di
“giuristi”, riduzione del senso del termine perché, anche nell’ambito
canonico, le opinioni costanti dei dottori in altre discipline
(teologia, sacramentaria, storia etcan.) potrebbero essere utili.
Per approfondire: CAN.J.ERRAZURIZ, Circa l'equiparazione quale uso
dell'analogia in diritto canonico, in Ius Ecclesiae 4 (1992), pp. 215224; J.I.ARRIETA, Il profilo sostanziale dell'interpretazione canonica
delle norme, in Ius Ecclesiae 12 (2000), pp. 887-892.
9. Le categorie di legge. Prima di trattare dell’autorità legislativa,
dobbiamo elencare le diverse categorie di legge:
a) Leggi sono universali (per tutta la Chiesa) e sono leggi particolari
(per una parte della Chiesa) che possono essere generali o speciali
(cc. 12-13).
b) Le leggi possono essere irritanti e inabilitanti (can. 14) .
c) Esistono leggi ecclesiastiche e decreti generali (can. 29 e 30).
d) Le leggi sono sia territoriali sia personali (can. 13 § 2, 1°, vedere
giù). (Vedere l’espressione diritto proprio).
10. L’autorità legislativa. 1) I legislatori al livello supremo sono: a)
Il Romano Pontefice che esercita la sua potestà sull’intera Chiesa o
un insieme di Chiese particolari o su una Chiesa particolare. b) Il
Collegio episcopale (sempre insieme al Papa, una cum et nunquam
sine), i dicasteri della Curia romana con concessione del Romano
Pontefice (can. 30 e art. 18 della Pastor bonus). 2) I legislatori a
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livelli particolari sono: a) nelle Chiese particolari (can. 368), il
vescovo diocesano personalmente o in sinodo diocesano (vedere le
comunità assimilate); b) Nei raggruppamenti di chiese particolari:
per una provincia, il concilio provinciale, per il territorio di una
conferenza di vescovi, il concilio plenario, tutti e due con previa
recognitio delle leggi dalla Santa Sede. Anche la conferenza dei
vescovi, secondo le disposizioni del can. 455. c) Negli istituti
religiosi e le società di vita apostoliche clericali di diritto pontificio: i
superiori maggiori e i capitoli hanno la potestà legislativa di
governo.
9. La forma delle leggi. Per quanto riguarda l’autorità legislativa
suprema esistono:
a) le costituzioni apostoliche sia generali quando emanano norme
estratte (per esempio: Pastor bonus, Spirituali militum curae…), sia
particolari quando portano solennemente una decisione particolare
(erezione di una diocesi, nomina di un vescovo, attribuzione di un
titolo a un cardinale …); Ricordiamo che i due codici della Chiesa
(del 1983 e del 1990) sono stati promulgati da una costituzione
apostolica.
b) I Motu proprio usati generalmente per emanare norme con uno
scopo particolare (per esempio: M.P. ad tuendam fidem, M.P.
Omnium in mentem per promulgare la modifica di canoni, o ancora
Apostolos suos sull’argomento delle conferenze episcopali …).
c) le norme o decreti generali emanati da dicasteri che hanno
ricevuto la concessione di portali con approvazione specifica del
Romano pontefice.
d) tre altre forme: litterae decretales (per le canonizzazioni), litterae
apostolicae (per le beatificazioni), chirografi (lettere scritte a mano
proprio dal papa).
Tutte quelle forme sono scritte (bolle cioè in forma più solenne con
sigillo o brevi in forma ordinaria). Esiste anche una forma orale,
l’oraculum vivae vocis o approvazione orale data dal papa dopo
l’istanza presentata da un prefetto di un dicastero o il Cardinale
Segretario di Stato che redige un rescritto ex audientia Ssmi, prova
della decisione del papa (il regolamento della Curia romana è stato
pubblicato dal Segretario di Stato il 30 aprile 1999 con un rescritto
ex audientia).
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Per quanto riguarda l’autorità legislativa altra (inferiore): il CIC usa
la parola decreti per le leggi emanate dai concili particolari (can.
446) e dalla conferenze episcopali (can. 455), decreti sinodali per le
leggi emanate nel sinodo diocesano. Non c’è una parola per
qualificare le leggi emanate da un vescovo diocesano. Spesso, ma
nei testi di diritto particolare, parlano di ordinanze episcopali.