Jean-Luc Nancy Nell`ultimo libro edito in Italia, “La dischiusura”, il

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Jean-Luc Nancy Nell`ultimo libro edito in Italia, “La dischiusura”, il
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Jean-Luc Nancy
DECOSTRUIRE IL CRISTIANESIMO PER GIUNGERE A UN ETHOS DEL
PENSIERO
Nell’ultimo libro edito in Italia, “La dischiusura”, il 66enne filosofo francese afferma
che la religione cristiana e l’ateismo sono le due facce della medesima medaglia del
Nichilismo. Su cui si fonda l’intero orizzonte di sapere dell’Occidente. Soltanto
riuscendo a ‘sbloccare’ la prigione nichilista e a liberare il pensare dallo schema
negativo del ‘teismo rovesciato’ si potrà approdare ad una moralità del logos capace
di identificare un nuovo comune senso dell’essere uomini.
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di Roberto Ciccarelli
L’ossessiva campagna denigratoria contro le libertà individuali e la politica delle relazioni allestita
dai massimi rappresentanti della Chiesa cattolica è basata su un assunto: oggi, non è possibile non
dirsi cristiani. La perentorietà di tale affermazione produce un irrigidimento delle posizioni che
produce reazioni altrettanto violente, e giustificate, ma spesso non consentono di capire se il
cristianesimo rappresenti realmente una necessità per il nostro tempo. A questo proposito, quanto
mai opportuna giunge la traduzione in italiano di uno degli ultimi volumi di Jean-Luc Nancy che ha
un titolo apparentemente provocatorio: La dischiusura. Decostruzione del cristianesimo I
(Cronopio, pp. 223, euro 20).
La dischiusura non è tuttavia un libro scritto da un Voltaire avvelenato da astio anti-clericale. La
«decostruzione» annunciata nel titolo è ispirata alla grande tradizione filosofica del Novecento che,
prima con Martin Heidegger, e successivamente con Jacques Derrida, ha rivelato il rapporto
costitutivo tra l’ateismo greco e il monoteismo ebraico nella formazione del pensiero occidentale. Il
cristianesimo è il punto d’unione in cui questi due elementi si rafforzano e si respingono allo stesso
tempo, trovando nella figura del Dio unico e nella razionalità del pensiero moderno, gli strumenti
per la sua affermazione universale. La «dischiusura» (questa la traduzione proposta da Rolando
Deval e da Antonella Moscati del termine francese Déclosion, un neo-logismo che significa
«togliere una chiusura») intende proseguire l’opera di questi predecessori (e amici, nel caso di
Derrida che poco prima di morire dedicò a Nancy il libro dal titolo Le Toucher).
Dischiudere dunque i confini tra filosofia e religione, rompere l’abbraccio mortale che li lega e
portare alla luce ciò che li accomuna. E’ un’avvertenza quasi obbligatoria dal momento che, nella
discussione di questi ultimi anni, non sembrano esserci spazi per chi rifiuta di fare suo
l’integralismo politico-religioso puramente reattivo o il laicismo militante di qualche causa anticlericale un po’ datata. È dal 1998 che Nancy, tra conferenze e saggi, lavora su questo tema. Da
allora non sembra essersi fatto tentare dall’improbabile bipolarismo morale tra laici e cattolici che
oggi sembra esaurire, in Italia, l’etica pubblica. Anzi, la sua tesi sembra andare in controtendenza.
Per Nancy, l’Occidente non è nato dalla liquidazione di un mondo di oscure credenze cristiane
dissolte dalla luce della razionalità. Al contrario, il cristianesimo è l’Occidente. Lo ha prima
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inventato, poi assorbito ed infine disconosciuto dopo l’affermazione della «modernità»
illuministica.
Ciò non toglie che, sin dalla sua origine, l’Occidente sia vissuto all’ombra del cristianesimo, un po’
come l’ombra di Buddha è rimasta mille anni a vegliare la caverna dov’era seppellito il suo
cadavere. Cristianesimo e Occidente tendono a ridimensionare ad una misura comune ciò che è
fuori dalla razionalità. Dio è per il cristianesimo ciò che il problema matematico
dell’incommensurabile è per il logos moderno. Così come la religione porta l’alterità assoluta al
centro della vita degli uomini, il pensiero moderno introduce lo smisurato nella ragione.
Il cristianesimo può essere riassunto nel precetto di vivere in questo mondo come fuori di esso.
Questo fuori non esiste, è la promessa di una salvezza che arriverà alla fine dei tempi e che nel
presente vale come apertura su un’alterità assoluta. Il pensiero moderno impone invece agli uomini
di vivere questa stessa alterità assoluta nei confini della «pura ragione», come diceva Kant. L’invito
di gran parte del pensiero del Novecento, da Freud a Wittgenstein sino a Heidegger, è stato quello
di pensare questa alterità e di restituirne la misura sfuggente del suo apparire.
Nancy precisa che il cristianesimo tende a «chiudere» il movimento di apertura su questa alterità
attribuendola ad un essere supremo, mentre il pensiero della Destruktion di Heidegger e della
«decostruzione» di Derrida la lascia libera da (quasi) tutte le paralisi teologiche. Ciò non toglie che
anche il razionalista intransigente eviti di spezzare il «tenue arco che ci lega all’inaccessibile», così
come il credente adulto e consapevole comprende che il suo Dio è il punto estremo della
rappresentabilità di un’alterità che non ha misura.
Non è superfluo ripetere qui tutte le accuse che è legittimo imputare al cristianesimo, come
l’asservimento del pensiero fino allo sfruttamento ignobile del dolore e del risentimento. Oggi più
che mai tornano utili le armi tradizionali che sono state utilizzate contro il dominio religioso (la
libertà, l’individuo, la ragione stessa), ma esse non bastano per spiegare perché «ragione» e «fede»
siano animate dallo stesso principio e, in un certo senso, si comportino come due gemelli siamesi.
È per questa condivisione di orizzonte che Nancy esclude che il cristianesimo possa essere attaccato
o difeso, rimosso o salvato da chiunque. Esso non è una grave malattia congenita dell’Occidente,
ma non è nemmeno un plusvalore morale che indica la strada della salvezza per le donne e gli
uomini. Progetti di questo tipo fanno torto all’essenza del problema: il cristianesimo e l’ateismo, ciò
che afferma l’esistenza di un Dio e ciò che lo nega, sono volti diversi dello stesso nichilismo.
Scrisse il filosofo Luigi Pareyson: «Può essere attuale solo un cristianesimo che contempli la
possibilità della sua negazione». Una forte presa di posizione che permette di vedere nel
cristianesimo la riflessione su un dubbio disperante (Dio è perché si nega), e non l’affermazione di
una verità valida per tutti. È cieco dichiarare un embargo permanente nei confronti del
cristianesimo, dato che l’ateismo condivide la stessa radice. «Può essere attuale solo un ateismo che
contempli la realtà della sua provenienza cristiana», commenta Nancy parafrasando Pareyson.
Se dunque il cristianesimo attribuisce a Dio la causa prima e il fine ultimo della vita, l’ateismo gli
nega questo privilegio attribuendo la causa e il fine alla razionalità. Entrambi sostengono che la vita
è rivelazione di un principio superiore, quello di Dio o quello della Ragione. Anche il papa teologo
Ratzinger rivendica la razionalità tra le principali caratteristiche che rendono universale, vero e
buono il Dio cristiano. Oscurando tuttavia ciò che il pensiero della decostruzione ha denunciato: la
coincidenza tra il cristianesimo e la razionalità è dovuta al fatto che entrambi sono espressione del
nichilismo occidentale.
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Nichilismo, spiega Nancy, in realtà vuol dire: fare principio del niente. Ma questo «niente» significa
disfare ogni principio, compreso lo stesso principio del niente. Laici e cattolici gravitano attorno
allo stesso sole nero: l’affermazione incondizionata di un principio corrisponde infatti allo
svuotamento del mondo, al suo impoverimento in nome di valori trascendenti (la Vita, il Bene) o
alla sua mortificazione in nome di certezze immanenti (la Storia, la Tecnica). In altre parole, laici e
cattolici soffrono della dissoluzione del principio in cui credono. Sul versante cristiano, il problema
è dolente: il Dio cristiano crea il mondo attraverso la negazione di se stesso. Il cristiano tende con
tutte le forze a ricongiungersi a quella negazione che l’ha posto in essere. Un paradosso senza
salvezza.
A questo tragico esito non è estraneo nemmeno il pensiero «laico». C’è la razionalità che rifiuta
ogni teleologia e, da Hegel in poi, esige di essere compresa come il primo pensiero che fa a meno di
Dio e si carica sulle spalle il mondo per dargli un senso. Ma una volta sospese le ambizioni
hegeliane, e dimostrato che il mondo non è retto da alcun principio trascendente, nemmeno quello
della storia, l’ateo realizza che alla «morte di Dio» non è seguita alcuna nuova comprensione del
mondo. È questa la tristezza che riassume l’ateismo. A differenza del cristiano, l’ateo non si dà
nemmeno la possibilità consolatrice di sentirsi abbandonato dal proprio Dio. È solo, e rifiuta la
gioia tragica di cui Nietzsche e il giovane Walter Benjamin furono testimoni.
Finché non avremo la misura esatta della nostra provenienza cristiana, resteremo prigionieri di
qualcosa che non è stato elaborato all’altezza del nostro tempo. Su questo punto, Nancy non fa
sconti nemmeno al proprio discorso e ammette: è lo stesso cristianesimo a decostruirsi. Il
cristianesimo ha passato gran parte della propria storia a correggere e ad auto-rettificare il contenuto
della verità annunciata. Esso è la forma più occidentalizzata delle religioni monoteiste, si distende
nella forma di un’auto-analisi in vista di un ritorno ad un’origine sempre più pura.
Questo processo comincia già nei Vangeli e in San Paolo, continua con il monachesimo e si
afferma, ovviamente, nelle diverse Riforme. Con il risultato che il cristianesimo ha certamente
sviluppato una volontà di potenza sconosciuta alle altre religioni, ma l’ha accompagnata con un
potente desiderio di spoliazione e di abbandono di sé spingendolo all’auto-dissoluzione. Esso ci ha
consegnato un mondo che è in attesa di una rivelazione, non solo quella di Dio, ma di un senso
generale che rimane sospeso tra gli uomini nei termini di una promessa o di un progetto (politico,
esistenziale).
La promessa annunciata dal cristianesimo è «una fine senza fine». È questo il nucleo «kerygmatico»
del Vangelo (dal greco euaggelion, «buon annuncio»): l’annuncio della fine dei tempi corrisponde
alla seconda venuta di Dio sulla terra. Ma questa venuta, se avverrà, avverrà alla fine dei tempi. Una
fine infinita che si protrae disperatamente per tutta la storia. Cosa si annuncia dunque nei Vangeli?
«Quasi niente», risponde Nancy. E’ su questo «niente» che l’auto-decostruzione del cristianesimo
mostra la sua ambiguità. Davanti all’annuncio non c’è infatti più storia, né ritorno all’origine. C’è la
fine del mondo e la morte di Dio.
Per Jean-Luc Nancy viviamo nel cuore di una trasformazione epocale paragonabile a quella che ha
portato dall’antichità al mondo moderno. Questa trasformazione appare talvolta come una perdita,
ma ha anche il sapore di un nuovo inizio. Il suo è un pensiero che resta aperto alla testimonianza di
un’incommensurabilità tra noi e ogni legge, umana o divina che sia. Ritornare alla nostra
provenienza cristiana, e ridiscuterla radicalmente, è essenziale per capire come questo
incommensurabile non sia più quello di un Dio trascendente. L’incommensurabile è invece la
scoperta di una comunità di uomini e donne ispirata ad un senso eccedente di cui il sacro ha cercato
di dare una definizione, senza tuttavia coglierne la potenza costitutiva.
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Pensare la «morte di Dio» non come il nichilismo, ma come l’uscita dal nichilismo, è il primo passo
per scoprire che è possibile liberarsi dal pesante fardello del teologico-politico sulla nostra cultura.
Non c’è alcuna ragione «di salvare la religione, e meno che mai di farvi ritorno», afferma Nancy. Si
tratta piuttosto di prendere coscienza che viviamo in un mondo che rifiuta in maniera
incommensurabile la sacralizzazione di ogni autorità, compresa quella della legge.
Per farlo, è necessario rinunciare alla politica che vorrebbe continuare a pensarsi nei termini di una
versione secolarizzata del cristianesimo. L’ateismo può essere una risorsa, anzi per Nancy è
l’«unico ethos possibile del nostro tempo» che permette di pensare ciò che c’è di comune tra gli
uomini, a condizione di liberarlo dallo schema di un teismo rovesciato. Questo ethos permette di
rivendicare un senso che nessuna religione, nessuna credenza e certamente nessuna Chiesa può
pretendere. Per quello che noi siamo non basta né il culto, né la preghiera, ma l’esercizio rigoroso e
severo, sobrio e gioioso, di ciò che si chiama il pensiero.
* Questo articolo è stato pubblicato su il manifesto, venerdì 16 marzo 2007