L`esodo degli italiani dall`Istria nel secondo dopoguerra

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L`esodo degli italiani dall`Istria nel secondo dopoguerra
L’esodo degli italiani dall’Istria nel 2° dopoguerra
da Partire dall’oggi, partire dalla letteratura:
un esempio di modulo sulla storia dell’ex Jugoslavia (1998)
di Alessandra Peretti
Pola 1947 – Partenza degli italiani
Premessa
Questo testo, presentato all’interno di un corso di aggiornamento per docenti nel 1998 e in parte
inevitabilmente invecchiato, è una sezione di un più ampio modulo di storia del ‘900, che aveva
come argomento la storia recente della ex Jugoslavia e della penisola balcanica, per la sua rilevanza
esemplare all’interno del tema dedicato a nazioni, etnie, nazionalismi e guerre in una prospettiva di
lunga durata. Si era rilevato come questo tema fosse stato riscoperto dagli storici solo negli ultimi
anni, dopo essere stato ritenuto a lungo una parentesi storica apertasi alla fine del ‘700 e conclusasi
con la decolonizzazione: durante la guerra fredda e fino alla guerra Cina-Vietnam del 1979 lo
scontro ideologico in atto e un ingenuo progressismo storiografico avevano fatto ritenere superate le
questioni nazionali e destinate a sparire le barriere politico-amministrative ereditate dal passato.
Negli anni ‘80 risorse invece l’interesse per le nazioni e negli anni ‘90 la crisi e dissoluzione della
Jugoslavia offrirono a tale tematica occasioni importanti di riflessione e conferma.
Quel seminario, che si può scaricare dal sito del Centro per la didattica della Storia della Provincia
di Pisa (http://osp.provincia.pisa.it/cds), cominciava con le seguenti osservazioni:
“ […] Dal punto di vista didattico, è spesso necessario partire dall’oggi, dal tema che si propone
all’attenzione nel presente e che si può prestare anche ad un uso pubblico della storia. Questo sia
per fornire agli studenti gli strumenti utili a selezionare, gestire e decodificare la massa di
informazioni che si riversa quotidianamente su di loro, sia per innestare la conoscenza storica e il
suo valore formativo su una base di interessi e curiosità dei giovani che, come dimostrano la
difficoltà in cui si dibatte l’insegnamento della disciplina nell’intero curriculum delle nostre scuole
e i numerosi e qualificati interventi sull’argomento, sono il presupposto indispensabile di ogni
conoscenza.
Per questo propongo di svolgere l’argomento isolando tre temi particolari di cui continuamente si
nutre anche l’attualità, e precisamente:
1. gli albanesi di cui spesso si parla per le "invasioni" succedutesi negli ultimi anni e per la loro
presenza significativa, nel male e nel bene, nell’immigrazione nel nostro paese: chi sono, da
dove vengono, qual è l’origine non meramente geografica del loro legame con l’Italia?
2. i profughi di guerra, intere famiglie, donne e bambini in fuga dal Kurdistan e dal Kossovo, dove
hanno lasciato tutto per affrontare pericoli, disagi e violenze, nel tentativo di raggiungere le
nostre coste: non è forse vero che anche gli italiani dell’Istria nel secondo dopoguerra hanno
conosciuto un’esperienza simile e subito in solitudine per motivi politici una cancellazione
storica durata decenni?
3. unità, federalismo e minacce di secessione nel nostro paese: che ne è stato della convivenza
interetnica che ha caratterizzato la storia della Jugoslavia per secoli, contrassegnata da
violenze e contrasti, ma anche dalla presenza di grandi imperi polietnici, poliglotti e
polireligiosi di origine medioevale?
Se quindi partire dall’oggi mi sembra importante, propongo però che a tale tipo di approccio se ne
colleghi un altro che può suscitare forse maggiori perplessità tra gli storici: quello di partire anche
dalla letteratura, cioè da testi letterari del ‘900 che siano in grado di stimolare ulteriormente la
curiosità storica dei giovani, pur non potendo essere considerati come fonti propriamente dette.
Questa proposta parte dalle seguenti convinzioni.
• Le testimonianze letterarie e i romanzi spesso presentano spunti o problemi ignorati dalla
storiografia (v. il ruolo della letteratura resistenziale, in particolare de Il sentiero dei nidi di
ragno di Calvino, nell’anticipare fin dagli anni immediatamente successivi alla guerra di
liberazione tematiche che sono comparse nella storiografia solo negli anni ‘90, penso
naturalmente a Una guerra civile di Pavone). Inoltre la letteratura può offrire, attraverso il
punto di vista espresso dall’autore, una spia della sensibilità storico-politica di un dato periodo
(come nel caso, che vedremo, di Ivo Andrič e della sua visione “jugoslava” del problema della
convivenza tra etnie diverse).
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• La letteratura valorizza per sua natura sentimenti ed emozioni che sono per l’alunno uno
straordinario stimolo formativo e rappresentano, come ho detto anche a proposito dei problemi
di attualità, un orizzonte entro cui collocare l’analisi delle fonti e mettere alla prova gli
strumenti critici. Il racconto, la storia del singolo, come la presenta la letteratura, ci
permettono di individuare, dare connotati umanamente riconoscibili ed emotivamente
coinvolgenti a problemi e concetti cui comunque la ricerca storica deve arrivare, ma in cui è
più difficile suscitare direttamente l’interesse del giovane e stimolare la sua sensibilità. In
particolare, il tema della nazione, con la sua essenza di carattere storico-culturale, ha a che
fare con sentimenti e valori, con scelte e progetti individuali che sono ben rappresentati nella
letteratura. […]“
Si presenta qui la seconda parte della relazione, dedicata al tema:
L’esodo degli italiani dall’Istria nel 2° dopoguerra
Per quanto riguarda la bibliografia usata, particolarmente ricca è la narrativa, soprattutto di tipo
memorialistico, dedicata da autori istriani alle vicende dell’esodo. Oltre ai libri di cui qui si parla, vanno
ricordati almeno di Fulvio Tomizza i romanzi Materada (ed. Bompiani) e La miglior vita (ed. Sansoni),
interessanti in particolare per la ricostruzione dell’ambiente contadino, e del dalmata Enzo Bettiza le
memorie di Esilio (ed. Mondadori).
Particolarmente emozionante e consigliabile è il libro Bora (ed. Frassinelli), scritto a due mani da Anna
Maria Mori e Nelida Milani intessendo insieme le loro storie uguali e diverse: la Mori profuga da Pola nel
1946 e stabilitasi definitivamente in Italia, dove fa la giornalista e la scrittrice (molto importante
sull’argomento la sua trasmissione televisiva del 1993 intitolata Istria: 50 anni di solitudine); la Milani
rimasta a Pola, dove insegna italiano ed è attiva nella comunità croata, pur avendo mantenuto fortissima
l’identità italiana.
L’esodo degli italiani dall’Istria nel 2° dopoguerra è un episodio largamente rimosso dalla
storiografia italiana, se si escludono gli studiosi della Venezia Giulia. Questo argomento andrà
affrontato a partire da due brevi testi in qualche modo complementari, la memoria-diario Verde
acqua di Marisa Madieri, edito da Einaudi, e il racconto in larga parte autobiografico di Nelida
Milani, Una valigia di cartone, ed. Sellerio. La Madieri, fuggita da Fiume nel ‘49 e vissuta poi
sempre a Trieste, dove è morta da poco, racconta nel suo libro delle sue origini familiari e
dell’intrico interetnico da cui proviene: il cognome di famiglia era originariamente Madiarič,
tedeschizzato in Madierich e italianizzato in Madieri. Descrive poi i disagi e le umiliazioni della
vita di profuga a Trieste, costretta a vivere in una desolante promiscuità e confusione all’interno
dell’edificio destinato agli sfollati dell’Istria, il Silos, le sue fatiche di scolara diligente, ma povera e
diversa, e alcuni indimenticabili personaggi, come la nonna materna con la sua prepotente
ambizione e il suo protervo istinto di sopravvivenza.
Della Milani ho già parlato: il racconto Una valigia di cartone descrive la vita di una povera
ragazza della campagna istriana a partire dal 1° dopoguerra, il suo trasferimento in città, a Pola, il
suo matrimonio col giovane socialista Berto, il duro lavoro in osteria durante il fascismo,
l’ostinazione e la tenacia con cui si sforza di tenere in piedi la baracca familiare senza occuparsi di
politica, di cui dichiara sempre di non capir nulla, fino alla fuga nel ‘47 e all’approdo nell’Italia
meridionale, in un ambiente tanto diverso, in cui pure riprende la sua vita povera e solitaria e il suo
lavoro accanito per assicurare almeno una modesta ma sicura esistenza all’unica figlia.
Ecco un brano di questo racconto che si riferisce alla partenza da Pola (Nelida Milani. Una valigia
di cartone. pp. 47-52):
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Anche mio marito aveva vita dura come chiunque si mettesse in vista prendendo partito,
tanto più che nel farsi e disfarsi di alleanze e fazioni, confini ambigui e verità scivolose,
umane derive e sentimenti brumosi, nel continuo avvicendarsi delle opposte ragioni di
opportunità o fede, non si andava più troppo per il sottile nel fare dell’amico il nemico,
dalla mattina alla sera. In città stavano cozzando due mentalità, due visioni del mondo, io
che ero venuta dalla campagna capivo tutti, capivo i cittadini italiani vissuti voltando le
spalle alla verità della campagna a due leghe da loro e capivo i contadini slavi che
arrivavano in città a carrettate con nel sangue la zappa nella zolla e con in testa la voglia
secolare di mettere a mollo i calli dei piedi nello specchio d’acqua antistante all’Arena.
Assomigliavano questi ultimi a mia madre che non era riuscita mai a diventare cittadina e
non se ne crucciava minimamente, le donne delle Baracche glielo facevano capire
chiamandola « Parensana » oppure « s’ciava » e schernendola per i suoi vestiti a fiori
sgargianti.
- Non hanno fiducia in noi della Guardia Popolare, ci trattano come se fossimo tanti
Colarich. Con tutto quello che abbiamo fatto per loro…
Berto mi metteva paura pronunciando il nome del più famoso delinquente dell’Istria, mi
disse la sua delusione quando lui e i suoi compagni furono disarmati dalle nuove autorità
slave entrate in città: un gesto che preannunciava il ruolo che ogni singolo polesano avrebbe
svolto nella dimensione pubblica della nuova società. Non più legato dal segreto di
cospirazione mi raccontava dei fili del telefono tagliati, dei manifestini lanciati nelle strade,
nei portoni di noti fascisti e nelle vicinanze delle caserme. Siccome lavorava al Genio e
poteva disporre di un Guzzi, era stato destinato dal capo del rione quattro al rifornimento
delle unità partigiane. Per attraversare il posto di blocco in via Medolino usava l’ausweiss
di servizio, lo esibiva dall’alto del motocarro ogni volta col cuore in gola e la Mauser a
portata di mano celata sotto la giacca a vento sul sedile accanto.
Berto cominciò a tentennare quando partì Silvio, uno studente che era andato in bosco con i
partigiani mosso da una sincera passione di miglioramento e dalla convinzione che in
questa nostra terra fosse possibile una convivenza civile, si erano conosciuti quando mio
marito gli aveva dato nottetempo un passaggio fino alla casa cantoniera dei collegamenti.
Era figlio di una croata e di un doganiere italiano. La sera prima dell’imbarco sulla Toscana
venne a casa nostra per regalare a Berto dei libri.
- Povera Istria, sotto a chi tocca: ora slavi, ora italiani. I due mondi di questa terra hanno
una storia intrecciata. A non cogliere l’intreccio della nostra vita si rischia di finire nelle
righe di quel racconto in cui il narratore che sta descrivendo un incontro di boxe si attacca
tanto a seguire uno solo dei due pugili che alla fine, quando il suo uomo vien buttato giù,
non riesce a raccontare il K.O. perché l’avversario vittorioso non lo ha né mai seguito né
mai visto in faccia.
- E cosa succede con quello che vien buttato giù?
- «L’altrui voglia era legge per lui; il suo fato, un segreto d’altrui; la sua parte, servire e
tacer».
Io capii con tutto il mio cuore quello che Silvio diceva e recitava, anche senza afferrare
parola per parola, afferravo il senso.
Poi fu la volta di Bepi, partì con tutta la famiglia, era un comunista fedele a Mosca; lui era
proprio un capo, un po’ imbroglione, un po’ prestigiatore, quando stava per arrivare qualche
can grande da Zagabria si andava a leggere nel giornale gli ultimi discorsi e lo accoglieva
con una citazione pavoneggiandosi e chicchirichendo ai microfoni. Poi partirono
progressisti confusionari, anche rissosi ma sinceri, partì la signora Balde, una gran bella
voce, aveva messo insieme un complesso straordinario fatto di soli operai dopolavoristi e un
bel repertorio.
Io intanto che di politica capivo poco o niente dovevo per forza, avvisata e aspramente
rimproverata dalla Rossa, chiudere sul più bello l’osteria e andar a manifestare a Port’Aurea
a favore dell’Unione antifascista italo-slava. Mi seccava prestarmi a queste faccende
indecifrabili, gridare viva l’UAIS, essere costretta a fare ciò che non mi sentivo di fare
perché non me ne intendevo e non ne avevo voglia. Restavo un poco in piazza a
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cincischiarmi, mi mettevo in vista e quando ero sicura che la Rossa mi avesse avvistata,
correvo a casa per le sconte. A chi mi incontrava per strada mi giustificavo.
- Devo corer casa, devo darghe de magnar ai porchi, rispeto parlando, e serar le galine, le
bestie no pol spetar che finissi l’UAIS per magnar.
Era come se i nuovi venuti avessero deciso di cambiar il mondo, come se tutti dovessimo
cambiar testa, adattarla alle loro idee. Il risultato era quest’infezione, questa scarlattina di
partenze, quest’influenza di asiatica che lasciava vuota la città ed i tavoli dell’osteria. Il
futuro che il mio Berto solo alcuni mesi prima baldanzosamente proiettava, tutto un olio e
un burro per la classe operaia in marcia, ultimamente prendeva una piega più imprecisa,
svaporava come una bolla di sapone, tutti andati via, non c’era più nessuno ad applaudire
sollevando l’ottavo, tutti già legati a quella parte del mondo prepotentemente avviata ad
essere diversa. Tutte le sorti erano ormai decise.
A far decidere Berto a chiudere il suo libro dei sogni fu tutta una serie di fatti e fatterelli che
facevano pensare ad un’occupazione bella e buona, non certo alla liberazione: buttavano giù
gli stemmi dei Comuni istriani e le statue, cadde Francesco Giuseppe, andò in frantumi il
legionario nell’atrio del tribunale, furono scalpellate via le due teste di antichi guerrieri, con
l’elmo e il cimiero, rivolte l’una a levante e l’altra a ponente, come se volessero significare
che stavano lì per vigilare la città dalla parte del mare e dalla parte della campagna,
sistematicamente venivano cambiati i nomi delle vie e delle piazze e i cognomi delle
famiglie.
- Ah! - sospirava Berto - nella logica del nazionalismo si fa presto a regredire a una brutalità
preistorica. Ciò che non si può creare, si può distruggere, la tensione, la condizione
psicologica rimangono le stesse. Abbattono i monumenti, potevano risparmiare i piedistalli.
Quelli almeno servono per tutti i busti.
Dopo venti giorni una disperata coscienza dell’immodificabile ci portò a bordo della
Toscana a Molo Carbon, sempre popolato di una folla luttuosa dove tutti si abbracciavano
disperati all’idea della separazione. Paradossalmente in quella maniera Pola si legava
all’Italia come mai prima, con un doppio filo di sangue, spaccandosi le famiglie destinate a
tessere nuove parentele sull’una e sull’altra sponda.
Da Genova ci spedirono a Brindisi dove mio marito doveva trovar collocamento al Genio
Marina. La nostra roba, le poche masserizie insieme alla camera da letto buona, era finita in
un magazzino a Taranto. Buona gente, a Brindisi, se Dio vuole, buona ma chiusa. Le donne
stavano serrate in casa con sette sigilli e andavano a dormire con le galline. Gente di cuore,
comprensiva, povera come noi, e fra poveri ci si capisce subito. Nel Forte, dove ci avevano
sistemati temporaneamente, eravamo una decina di famiglie di Pola, alcune famiglie di
Dignano e di Gallesano. Stavamo sempre insieme, naufraghi sopravvissuti ad un naufragio,
tristi e pensosi a meditare il segreto della storia e il senso misterioso di quel confine,
sentivamo il desiderio di riunirci, di stare vicini, di star seduti dietro lo stesso tavolo, di
tenerci a contatto di gomito come a sentirci consolati e protetti dal numero, non dalla
nostalgia che non ci abbandonava né di giorno né di notte.
Questi tre brevi brani, che si svolgono a Trieste, sono invece della Madieri (Marisa Madieri. Verde
acqua. pp. 67-69, 113, 116-117)
Alla fine dell’anno scolastico potei finalmente riabbracciare mia madre e mia sorella. […]
Feci così la mia prima conoscenza del Silos, dove vivevano accampati migliaia di profughi
istriani, dalmati o fiumani come noi. Era un edificio immenso di tre piani, costruito sotto
l’impero absburgico come deposito di granaglie, con un’ampia facciata ornata da un rosone
e due lunghe ali che racchiudevano una specie di cortile interno, dove i bambini andavano a
giocare a frotte e le donne stendevano i panni. L’esterno di questo edificio è ancor oggi
visibile vicino alla stazione ferroviaria.
Il pianterreno, il primo e il secondo piano erano quasi completamente immersi nel buio. Il
terzo era invece rischiarato da grandi lucernai posti sul tetto, che però non potevano essere
aperti. In ogni singolo piano lo spazio era suddiviso da pareti di legno in tanti piccoli
scomparti detti «box», che si susseguivano senza intervalli come celle di un alveare. Si
aprivano tra essi strade maestre e stradine secondarie di collegamento. I box erano tutti
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numerati e qualcuno aveva anche un nome, proprio come una villa. Anche le strade avevano
nomi di riconoscimento: la strada della dalmata, quella dei polesani, la via della cappella o
quella dei lavandini. Naturalmente i box più ambiti erano quelli vicino a una delle rare
finestre che si aprivano sull’esterno o quelli del terzo piano che almeno ricevevano dal tetto
la luce del giorno.
Entrare al Silos era come entrare in un paesaggio vagamente dantesco, in un notturno e
fumoso purgatorio. Dai box si levavano vapori di cottura e odori disparati, che si univano a
formarne uno intenso, tipico, indescrivibile, un misto dolciastro e stantio di minestre, di
cavolo, di fritto, di sudore e di ospedale. Di giorno, dall’intensa luce esterna non era facile
abituarsi subito alla debole luce artificiale dell’interno. Solo dopo un poco si riuscivano a
distinguere i contorni dei singoli box e ci si rendeva conto della disposizione complessa e
articolata del tenebroso villaggio stratificato e dell’andirivieni incessante di persone che si
muovevano nelle sue strade e nei suoi crocevia. Anche i rumori erano molteplici e
formavano un brusio uniforme dal quale si levavano ogni tanto le note acute di qualche
radio, una voce irata, colpi di tosse o il pianto di un bambino.
[…]
Desideravo l’ombra, il nascondiglio. Uscivo poco e soffrivo quando mi trovavo in
compagnia di coetanei. Mi era penoso il mattino l’ingresso a scuola quand’ero costretta a
passare attraverso uno schieramento di compagni che si raccoglievano sotto i portici del
Dante prima del suono del campanello. Cercavo di sgusciare furtiva, quasi strisciando lungo
il muro fino all’ingresso, dopo aver inspirato vigorosamente all’angolo dell’edificio.
Non mi era facile conciliare la realtà della mia vita al Silos con quella esterna, in cui gli
studi mi portavano. I miei professori e le mie compagne di classe, con cui pure familiarizzai
verso la fine del ginnasio, non sapevano quasi nulla di me, della fatica che mi costava
studiare nel freddo e nella confusione, non immaginavano il mio disagio d’essere vestita
sempre con la stessa gonna, fortunatamente nascosta dal grembiule nero d’obbligo. Provavo
vergogna della mia condizione. Del Silos non parlavo mai con nessuno e speravo
ardentemente di riuscire a mantenere il segreto della mia abitazione il più a lungo possibile.
Così non invitavo mai amiche a casa mia, neppure quelle che mi ospitavano qualche volta
nella loro, e, se mi chiedevano dove stavo, arrossivo e facevo un vago cenno con la mano,
indicando approssimativamente una zona compresa tra la stazione, Barcola e Miramare.
[…]
La nonna seguì con passione tutte le complesse vicende della città in quegli anni. «Me
trema la vita», ripeteva massaggiandosi il cuore, quando ascoltava alla radio le dichiarazioni
del presidente del consiglio Pella, le omelie del vescovo Santin, le notizie delle affollate
dimostrazioni cittadine e delle sanguinose repressioni del generale Winterton. Accorreva a
tutte le manifestazioni per l’italianità di Trieste, munita di grandi coccarde tricolori,
facendosi perlopiù accompagnare dalla mamma, che aveva tirato fuori da un baule una
vecchia bandiera, portata di nascosto da Fiume assieme alle cose più care.
Anch’io presi parte agli scioperi studenteschi e, nell’entusiasmo patriottico, per la prima
volta mi sentii membro non marginale di una comunità.
Il 5 ottobre 1954 fu firmato a Londra il «Memorandum d’intesa», che affidava, a titolo
provvisorio, la zona A del Territorio Libero di Trieste all’Italia e la zona B alla Jugoslavia.
L’ingresso delle truppe italiane a Trieste segnò l’ultima rossa fiammata nella vita della
nonna e un grande motivo di felicità per i miei genitori. Io pure mi emozionai, ma forse più
di riflesso e senza percepire completamente la portata storica dell’avvenimento, che mi
pareva scontato. Non riuscivo ad immaginare una soluzione diversa, poiché altrimenti
l’odissea della mia famiglia e di tante altre persone non avrebbe avuto alcun senso.
Ma al Silos le cose non cambiarono. La vita del villaggio proseguì, ancora per parecchi
anni, con i ritmi della desolazione. I profughi continuarono ad essere guardati con sospetto,
considerati spesso incomodi ed estranei concorrenti ai pochi posti di lavoro che offriva la
città. Il freddo rimase un flagello, i santini che la gente teneva attaccati alle pareti
domestiche diventarono sempre più sbiaditi, le coperture in carta oleata dei box
cominciarono a mostrare rattoppi fatti con pezzi di cartone. Solo il tetto dell’edificio, dopo
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esser stato scoperchiato un inverno dalla bora, una volta riparato, non fece più acqua. Nella
comunità si susseguirono matrimoni, nascite e funerali, poiché la vita e la morte erano più
forti delle avversità, ma non mancarono anche molti straziati addii di famiglie che partivano
per l’Australia come emigranti, in un secondo ancor più radicale esilio.
La vicenda storica a cui queste pagine fanno riferimento rappresenta un tipico episodio di memoria
divisa e di uso pubblico della storia, nel senso che questi due concetti hanno assunto nel dibattito
storiografico recente. Anche se negli ultimi anni, in particolare in seguito ai terribili conflitti etnici e
ai nazionalismi risvegliatisi in Jugoslavia negli anni ‘90, sono usciti molti interessanti studi su varie
riviste (v. in particolare gli articoli di R. Pupo su I viaggi di Erodoto e Passato e presente), per anni
solo pochi studiosi, spesso legati ad interessi locali, si sono occupati dell’esodo di 300.000 italiani
dall’Istria. La stessa parola esodo è contestata dagli storici jugoslavi; e il silenzio e le mistificazioni
che hanno accompagnato anche in Italia questa storia, tendendo a presentare come fascista la
popolazione istriana profuga, hanno la loro radice nella politica estera italiana prima e dopo la
guerra fredda e nella necessità di mantenere rapporti di buon vicinato con la Jugoslavia di Tito,
diventato un valido alleato contro la Russia di Stalin prima e un importante mercato per l’export
italiano dopo.
Ricostruendo la storia di violenze ed errori che hanno provocato l’esodo, bisogna ricordare
innanzitutto il vero e proprio genocidio culturale provocato dal fascismo in quelle terre: chiuse le
scuole slovene e croate dell’impero asburgico, soppresse le associazioni culturali, proibito l’uso
della lingua, circa 100.000 sloveni e croati emigrarono nel ventennio. Ara e Magris, nel libro
Trieste. Un’identità di frontiera, così ricordano un episodio esemplare di ordinaria violenza:
Uno scrittore istriano, Guido Miglia, con straordinaria finezza e con una sensibilità maturata
anche attraverso la tragedia dell’esodo italiano dall’Istria dopo la seconda guerra mondiale,
ha rappresentato attraverso la sua personale vicenda di giovane maestro il rapporto con
l’Italia così come lo sentivano le popolazioni slave dell’Istria interna, le più colpite in un
certo senso dal fascismo, perché più lontane dalla lingua e dalla cultura italiane e prive delle
limitate possibilità di difesa nazionale che conservavano i gruppi cittadini. Miglia rievoca in
questi termini il suo primo incontro con i bambini della sua prima scuola: «Poveri bambini,
io parlo nell’unica lingua che conosco, e comprendo che i più piccoli non mi capiscono;
durante la ricreazione li sento parlare piano tra loro, nel dialetto croato, e credo che il mio
dovere sia quello di rimproverarli e di farli parlare in italiano. Solo a mie spese, da adulto,
fatto pensoso dalle sciagure vissute nella mia terra, capirò l’aberrazione di volere impedire
all’altro gruppo etnico di manifestarsi liberamente nella lingua materna». Il maestro
«straniero» prosegue, ricordando in particolare «un bambino della prima elementare, che
aveva sempre i pomelli rossi sulle guance morbide come un fiore, ed era spesso assente. Io
lo rimproveravo, e intanto gli accarezzavo il bel viso: lui allora alzava gli occhi da terra, era
già pieno di lacrime, e mi diceva, sforzandosi di parlare nella mia lingua, che papà lo aveva
mandato a pasculàt...»
Il volto di questo bambino piangente, dicono più avanti gli autori, è
il volto del giudizio storico che, di lì a poco, strapperà all’Italia tutta l’Istria, anche quella
italiana; la strapperà non solo al fascismo, ma all’Italia che l’ha misconosciuta, ignorata e
perduta senza dolersi e senza accorgersi del suo dramma.
In effetti l’odio e il desiderio di vendetta provocati dalla politica fascista ruppero quel fragile
equilibrio tra nazionalità diverse che aveva permesso in precedenza a sloveni, italiani e croati di
convivere pacificamente, pur senza desiderare di conoscersi veramente nelle loro diversità, e
provocarono reazioni sanguinose e la martellante propaganda per l’annessione alla Jugoslavia, a
partire dagli ultimi anni di guerra. Anche se bisogna riconoscere negli episodi più tragici, come
quelli delle foibe, anche la presenza di una precisa volontà politica e del mostro del nazionalismo.
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D’altra parte l’esodo istriano rappresenta anche un elemento di un più vasto fenomeno storico: i
giganteschi trasferimenti di popolazioni (25 milioni circa) avvenuti nell’Europa orientale dal 1939
in poi, che hanno cancellato la struttura polietnica della regione e consolidato gli stati nazionali dal
punto di vista dell’omogeneità etnica. Se lo stesso sterminio degli ebrei eliminò uno degli elementi
dell’originaria mescolanza di nazionalità dell’Est europeo, dopo la guerra ci fu la fuga dei tedeschi
dai paesi occupati dall’Armata rossa e lo spostamento verso occidente dei polacchi che vivevano
fuori dei nuovi confini loro assegnati. Un paese rimasto binazionale come la Cecoslovacchia ha
finito per separarsi in epoca recente. Sembrava far eccezione la Jugoslavia, che è rimasto fino al
1990 uno stato plurietnico, ma che ha comunque deviato nel dopoguerra verso l’esterno, per
esempio contro l’Italia, le pulsioni nazionaliste interne, che pure hanno continuato a covare.
A questi due elementi, fenomeno storico più vasto di fine delle società multietniche e desiderio di
vendetta e rivalsa seminato dal fascismo tra gli slavi dell’Istria, si deve aggiungere, come causa
dell’esodo, un sentimento diffuso tra gli italiani di paura, alimentato da concreti e terribili episodi di
persecuzioni, espropri e violenze, e il rifiuto del comunismo di guerra jugoslavo da parte di una
società fortemente ancorata ai valori tradizionali contadini e cattolici e orgogliosa della propria
identità. Raoul Pupo riporta la seguente testimonianza di un popolano di Isola:
[I partigiani] sono stati accolti benissimo, perché la gente era stufa della guerra […] si è
accolta questa gente come liberatori, ma io le devo dire questo: per noi della costa
principalmente, non intendo dire italiani e slavi, ma noi della costa, quei che xe venudi a
liberarne iera zinquanta ani più indrio de noi come progreso. Lori no poteva insegnarne
gnente a noi […] Lei si rende conto […] di quanto avanti eravamo noi della costa nei
confronti di quelli dell’interno, e noi dovevimo star ziti fin che quel che sa meno de noi
vegni a insegnarne.
L’esodo durò, con momenti di maggiore e minore intensità, dal ‘43 al ‘56 ed ebbe alcuni episodi
fondamentali: nel ‘43 le cosiddette foibe istriane, con circa 700 morti; poi la fuga da Zara
bombardata dagli alleati; nel 1945-47 Fiume fu quasi completamente abbandonata dalla comunità
italiana; tra la fine del 1946 e l’inizio del 1947 Pola perse il 90 % della sua popolazione; negli anni
successivi fino al 1956 gli italiani, fatti oggetto di continue vessazioni e ostacoli nei loro rapporti
con Trieste, lasciarono la Zona B. Importanti documenti audiovisivi d’epoca su questi fatti si
possono vedere nella trasmissione già citata Istria: 50 anni di solitudine, in particolare nella 1a
puntata. La conseguenza di questo imponente fenomeno fu la quasi totale scomparsa della presenza
italiana in una terra in cui essa aveva vissuto con continuità fin dalla romanizzazione.
Una vicenda che vale ricordare come esemplare all’interno di questo vasto fenomeno, perché
racchiude in sé i molti nodi storici che vi sono sottesi, riguarda gli operai di Fiume e di Monfalcone,
appartenenti all’aristocrazia operaia dei cantieri navali, con una forte tradizione comunista e
internazionalista. Gli operai di Fiume, che avevano salutato con favore l’annessione alla Jugoslavia
nel 1945, nel giro di due anni si sentirono così emarginati e oppressi dai compagni croati da
partecipare anche loro alla fuga che spopolò la città. Furono sostituiti dagli operai dei cantieri di
Monfalcone, che decisero dopo il trattato di pace di andare in Jugoslavia a costruire il socialismo. In
tutto emigrarono a Fiume, Pola ed altri paesi dell’interno circa 3.000 persone, spesso intere
famiglie, lasciando casa, lavoro e consolidati rapporti di vita. Ma nel 1948, dopo la condanna di
Tito da parte del Cominform, questi operai si schierarono a fianco di Stalin, anche per aver
conosciuto personalmente il nazionalismo e la mancanza di democrazia nel partito che il
Cominform imputava al comunismo jugoslavo; si scatenò allora una persecuzione poliziesca nei
loro confronti che costrinse molti a ritornare in fretta in Italia, dove furono isolati e derisi e si
trovarono senza lavoro e privi di mezzi. Ancora più tragica la sorte di altri, ridotti a vivere per anni
o a morire di stenti e di malattie in campi di rieducazione che poco avevano da invidiare
all’universo concentrazionario di altri paesi. Tristemente famosa tra le isole-lager fu l’Isola Calva,
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in slavo Goli Otok, nel golfo del Quarnaro. Solo dopo il 1956, per il tardivo intervento del PCI, gli
ultimi sopravvissuti riuscirono a ottenere la libertà.
Appendici
Bibliografia
Marisa Madieri.
Verde acqua. Einaudi 1987
Nelida Milani.
Una valigia di cartone. Sellerio 1991
Ara e Magris
Trieste. Un’identità di frontiera. Einaudi 1987
Jean Marie Le Breton
Una storia infausta. L’Europa centrale e orientale dal 1917 al 1990. Il Mulino 1997
Raoul Pupo
L’esodo degli italiani da Zara, da Fiume e dall’Istria (1943-1956), in Passato e
presente n. 40, 1997
Aleksa Djilas
1914-1948. La questione nazionale jugoslava, in I viaggi di Erodoto n. 26, 1995
Guido Franzinetti
Il nazionalismo esteuropeo nel dopoguerra, in I viaggi di Erodoto n. 26,1995
Franco Cecotti e Raoul Pupo (a cura di)
Il confine orientale, in I viaggi di Erodoto n. 34,1998
Marina Rossi, Franco Salimbeni, Raoul Pupo
L’Istria sotto tre bandiere, in Storia e Dossier n. 88, 1994
Galliano Fogar
Il tradimento della nuova patria, in Storia e Dossier n. 94, 1995
Aggiornamento (2007)
Raoul Pupo, Roberto Spazzali
Foibe
Bruno Mondadori 2003
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Raoul Pupo
Il lungo esodo. Istria: le persecuzioni, le foibe, l'esilio
Rizzoli 2006
Guido Crainz
Il dolore e l'esilio. L'Istria e le memorie divise d'Europa
Donzelli 2005
Gianni Oliva
Profughi. Dalle foibe all'esodo: la tragedia degli italiani d'Istria, Fiume e Dalmazia
Mondadori 2006
Pierluigi Pallante
La tragedia delle «foibe»
Editori Riuniti 2006
Enrico Miletto
Istria allo specchio. Storia e voci di una terra di confine
Franco Angeli 2007
Anna M. Mori
Nata in Istria
Rizzoli 2007
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L’esodo dall’Istria: cronologia
6 aprile 1941
8-12 settembre 1943
20 settembre 1943
settembre 1943
1 ottobre 1943
1 maggio 1945
3-30 maggio 1945
24 maggio 1945
9 giugno 1945
31 luglio 1945
11 settembre 1945
18 ottobre 1945
Germania e Italia dichiarano guerra alla Jugoslavia: spartizione della Slovenia, in
Croazia si forma lo Stato indipendente croato di Ante Pavelič. Nel territorio occupato
dagli italiani (provincia di Lubiana, parte della Croazia, Dalmazia) si sviluppa un forte
movimento di resistenza egemonizzato dai comunisti. I comandi militari italiani
rispondono con le condanne a morte, la deportazione delle popolazioni civili, gli eccidi
nei villaggi sloveni e croati, l’internamento in campi di concentramento come quello
famigerato nell’isola di Rab (Arbe) che fu definito “campo della morte”.
Armistizio tra Italia e Alleati. La Venezia Giulia viene occupata dalle truppe tedesche.
Il Consiglio antifascista di liberazione nazionale della Croazia (ZAVNOH) proclama
l’annessione dell’Istria, di Zara, di Fiume e di tutte le isole dell’Adriatico alla Croazia.
Nell’interno dell’Istria, durante l’insurrezione promossa e guidata dai quadri clandestini
del movimento di liberazione croato, fortemente nazionalista, vengono «infoibate» dalle
600 alle 700 persone: funzionari fascisti, ma anche in generale le figure più
rappresentative delle comunità italiane e i loro familiari. Tristemente famosa diviene la
foiba di Vines, in provincia di Pola.
Viene istituito l’Adriatische Künstenland, la Zona d’operazione del Litorale adriatico
(province di Udine, Gorizia, Trieste, Lubiana, Pola e Fiume). L’occupazione tedesca
attua una politica di feroce repressione e una vera e propria guerra di sterminio, con la
creazione di numerosi luoghi di detenzione e di tortura e del lager della Risiera di San
Sabba (dove si calcolano 3/4.000 vittime).
Con la resa tedesca, a Trieste entrano in città le prime truppe dell’esercito jugoslavo; vi
rimarranno 43 giorni, quando verranno allontanate dalle forze alleate.
Nella zona di Trieste e Gorizia si verifica il secondo momento di quegli episodi di
violenze di massa contro la popolazione italiana, entrati nella memoria storica e
collettiva con il termine «foibe». Secondo le stime più attendibili, comunque difficili,
scomparvero 4/7.000 persone. Si trattò in questo caso di una repressione dall’alto,
promossa dal movimento di liberazione di Tito, con lo scopo di eliminare tutti i possibili
oppositori del progetto di annessione della Venezia Giulia alla Jugoslavia. Altri italiani
morirono nei campi di concentramento jugoslavi, in cui furono internati civili e militari.
A Fiume e Pola i partigiani croati proclamano l’annessione delle due città alla
Jugoslavia. Inizia l’instaurazione del nuovo «potere popolare»: misure repressive di
carattere economico, arresti, tribunali del popolo, sequestri, epurazioni ne costituiranno i
tratti salienti in tutta l’Istria.
A Fiume, la Voce del Popolo rende note le condizioni imposte a quanti hanno chiesto il
rilascio del lasciapassare per il rimpatrio in Italia. È il primo esodo di massa dalla
Venezia Giulia.
L’accordo di Belgrado, concluso tra gli jugoslavi e gli angloamericaní, delimita le
rispettive zone di occupazione nella Venezia Giulia, lungo una linea di demarcazione,
detta linea Morgan. La parte orientale, detta zona B, rimane sotto l’amministrazione
militare jugoslava, che la considererà di fatto annessa alla Jugoslavia, mentre quella a
ovest della linea, più la città di Pola, detta zona A, è posta sotto il controllo alleato.
L’accordo è provvisorio, la sistemazione dei problemi territoriali rinviata alla definizione
del Trattato di pace.
A Basovizza, vicino a Trieste, gli Inglesi recuperano circa 600 salme dalla foiba.
A Londra inizia la prima conferenza dei ministri degli Esteri. Si decide di inviare nelle
zone contese una commissione interalleata di esperti, per accertare sul posto i dati etnici
ed economici delle regioni.
Nella zona B, viene adottata un’unità monetaria autonoma, la lira istriana (jugolira),
creando una barriera economica con la zona A. Per gli abitanti della zona B, Trieste e la
zona A erano da sempre il principale luogo di lavoro e degli scambi economici e
commerciali.
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22 marzo 1946
29 luglio 1946
18 agosto 1946
22 settembre 1946
16 ottobre 1946
23-24 dicembre
1946
3 febbraio 1947
10 febbraio 1947
20 marzo 1948
28 giugno 1948
16 aprile 1950
8 ottobre 1953
5 ottobre 1954
26 ottobre 1954
10 ottobre 1975
1 aprile 1979
A Pola, grande e massiccia partecipazione della cittadinanza a una manifestazione nata
spontaneamente durante la visita della Commissione interalleata. La manifestazione
assume un importante significato: il rifiuto totale delle tesi annessionistiche jugoslave da
parte dei polesi.
A Parigi si apre la Conferenza della Pace a cui partecipano ventuno paesi. Alle sedute
della Conferenza è presente anche la delegazione giuliana.
A Pola, ai bagni di Vergarola, durante lo svolgimento delle manifestazioni sportive per
l’anniversario della fondazione della società per le attività marinare Pietas Julias,
scoppiano alcune mine, provocando la morte di più di cento persone. In città, prende
corpo l’ipotesi di un attentato di parte jugoslava ai danni della popolazione italiana.
Il Cnl di Fiume diffonde un appello all’esodo di massa. Nel gennaio del 1946, oltre
ventimila persone avevano già abbandonato la città.
A Parigi, si chiude la Conferenza della pace con la definitiva approvazione della linea
francese che sancisce il passaggio alla Jugoslavia di Pola e dell’Istria centro-meridionale.
A Pola, il Cln dichiara aperto l’esodo. Quotidianamente, nel corso di tutto il mese di
gennaio, due motonavi navigano fra Pola e Trieste, trasportando masserizie ed esuli. In
città arrivano continuamente abitanti della zona B che hanno scelto l’esodo; alla fine di
gennaio ammontano a cinquemila.
A Pola, il piroscafo Toscana, messo a disposizione del Comitato esodo dal Governo
italiano, parte con a bordo 917 persone. Il piroscafo compirà 12 viaggi tra Pola e Venezia
e tra Pola e Ancona.
A Parigi, viene firmato il Trattato di pace tra l’Italia e le Potenze alleate. Viene istituito il
Territorio libero di Trieste (TLT), diviso in zona A e zona B.
In una dichiarazione tripartita, Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia si dichiarano
favorevoli alla restituzione all’Italia di tutto il TLT.
Con una risoluzione, la Jugoslavia viene espulsa dal Cominform essendo accusata di
deviazionismo ideologico, nazionalismo e ostilità nei confronti dell’Urss.
Nella zona B si svolgono le elezioni amministrative, in un clima di pesante tensione:
vengono chiuse le comunicazioni terrestri e marittime con Trieste, allontanati i non
residenti, imposte limitazioni ai giornalisti. Si verificano aggressioni violente contro la
popolazione italiana che, sia per indicazione del Cln, sia spontaneamente, si asteneva
massicciamente dalle votazioni.
Nota bipartita di Stati Uniti e Gran Bretagna, con la quale i due Paesi annunciano ai
governi italiano e jugoslavo di voler ritirare le loro truppe dalla zona A e di volerne
affidare l’amministrazione al Governo italiano.
Nella zona B scoppiano forti tensioni segnate dal moltiplicarsi di episodi di violenza, di
espulsioni, di pressioni combinate, esplicitamente rivolte a sollecitare l’allontanamento
degli italiani.
A Londra viene firmato il Memorandum d’intesa tra i governi di Stati Uniti, Gran
Bretagna, Italia e Jugoslavia, che pone fine al governo militare nelle due zone del Tlt, e
che predispone il ritiro delle forze armate, successivamente alla ratifica della linea di
demarcazione. La linea viene di poco modificata, rispetto alla linea Morgan, a favore
della Jugoslavia, cui è concessa parte del territorio dell’ex zona A nel comune di Muggia.
Inizia il «grande esodo della zona B», vale a dire la partenza compatta delle comunità
italiane, che si conclude alla fine dell’aprile 1956. Dalla fine della guerra, la zona B
perde i due terzi della popolazione residente, circa quarantamila persone.
La zona A del TLT passa all’amministrazione civile dell’Italia, la zona B a quella della
Jugoslavia.
A Osimo, presso Ancona, Italia e Jugoslavia firmano il trattato che pone fine alla
controversia sui confini, riconoscendo l’appartenenza della ex zona A del TLT all’Italia,
e della ex zona B alla Jugoslavia.
In seguito al trattato di Osimo, entra in vigore il confine tra Italia e Jugoslavia.
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I confini orientali dal 1945 al 1991
da Franco Cecotti e Raoul Pupo, Il confine orientale, in I viaggi di Erodoto n. 34, 1998.