“Ah, voi signore! Sempre presenti quando c`è qualcosa di nuovo!” La

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“Ah, voi signore! Sempre presenti quando c`è qualcosa di nuovo!” La
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Estratto da
Barbara Pym, Donne eccellenti
Titolo dell’opera originale
Excellent Women
Traduzione dall’inglese
di Bruna Mora
© Barbara Pym 1952
© 2012 astoria srl
via Aristide De Togni 7 – 20123 Milano
Prima edizione: ottobre 2012
ISBN 978-88-96919-38-5
Progetto grafico: zevilhéritier
www.astoriaedizioni.it
“Ah, voi signore! Sempre presenti quando c’è qualcosa di
nuovo!” La voce apparteneva al signor Mallett, uno dei nostri
consiglieri parrocchiali, e il suo tono malizioso mi fece trasalire
colpevolmente, quasi non avessi il diritto di essere scoperta sulla
porta di casa mia.
“Nuova gente in arrivo? La presenza di un furgone dei traslochi sembrerebbe suggerirlo,” continuò in modo pomposo. “Immagino lei ne sappia qualcosa.”
“Beh, sì, di solito succede così,” risposi, un po’ seccata dalla
sua arroganza. “È difficile ignorare certi avvenimenti.”
Suppongo che una donna non sposata, appena oltre la trentina, che vive sola e senza apparenti legami, debba aspettarsi di
essere coinvolta o tirata in mezzo negli affari degli altri, e se è
pure la figlia di un pastore, allora si può davvero dire che non ha
speranza.
“Beh, beh, tempus fugit, come dice il poeta,” esclamò il signor
Mallett allontanandosi in fretta.
Non potevo che concordare, ma indugiai ancora un po’, giusto per veder scaricare un paio di sedie, e mentre salivo le scale
verso il mio appartamento, udii risuonare i passi di una persona
nelle stanze vuote sotto di me, che andava avanti e indietro sulle
tavole nude, decidendo dove mettere le varie cose.
La signora Napier, pensai, perché avevo notato una lettera con
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quel nome, e la scritta destinatario in arrivo. Ma ora che si
era materializzata, mi resi conto, in modo contraddittorio, che
non avevo voglia di incontrarla, così mi affrettai dentro casa e
presi a riordinare la cucina.
La incontrai per la prima volta vicino ai bidoni della spazzatura, più tardi nel pomeriggio. I bidoni erano nel seminterrato ed
erano condivisi da tutti. Al pianterreno c’erano degli uffici, e sopra i due appartamenti, non completamente indipendenti e privi
di alcune comodità. “Devo condividere il bagno,” avevo brontolato tante volte, quasi con vergogna, come se io personalmente fossi
stata ritenuta indegna di un bagno tutto mio.
Mi chinai sul bidone e grattai alcune foglie di tè e bucce di
patate rimaste sul fondo del mio secchio. Mi imbarazzava che
dovessimo incontrarci proprio in quel modo. Avevo avuto l’intenzione di invitare una sera la signora Napier a prendere il caffè.
Avrebbe dovuto essere un’occasione cortese e raffinata con le mie
tazzine da caffè migliori e i biscotti su piattini d’argento. E invece
eccomi qui, impacciata nei miei abiti più vecchi, con in mano
pattumiera e cestino della carta straccia.
La signora Napier parlò per prima.
“Lei deve essere la signorina Lathbury,” disse di punto in
bianco. “Ho visto il suo nome sopra uno dei campanelli.”
“Sì, abito nell’appartamento sopra il suo. Spero si stia sistemando bene qui. Traslocare è un affare così impegnativo, non è
vero? Sembra che ci voglia così tanto per mettere tutto a posto.
Qualcosa di assolutamente necessario, tipo una teiera o una padella, sparisce sempre…” Me la cavavo bene con quei luoghi comuni, forse perché con la mia esperienza di vita parrocchiale so
di essere in grado di far fronte alla maggior parte delle situazioni
banali o anche ai grandi momenti della vita – nascita, matrimonio, morte, la festa di beneficenza ben riuscita, la festa all’aperto
rovinata dal maltempo… “Mildred è veramente di grande aiuto
a suo padre,” dicevano tutti dopo la morte di mia madre.
“Sarà piacevole avere qualcun altro in casa,” azzardai, perché durante l’ultimo anno di guerra io e la mia amica Dora
Caldicote eravamo state le uniche abitanti e poi, da quando un
mese prima Dora si era trasferita a insegnare in campagna, ero
rimasta sola.
“Beh, non credo che starò molto in casa,” disse svelta la signora Napier.
“Oh, no,” dissi tirandomi indietro, “neanch’io.” A dire il vero
stavo spesso in casa, ma capii la sua riluttanza a impegnarsi in
qualunque cosa potesse costituire una seccatura o un legame. La
prima, superficiale impressione fu che eravamo troppo diverse
per diventare amiche. Lei era bionda e graziosa, vivace nei suoi
pantaloni di velluto a coste e maglietta colorata, mentre io, timida e comunque piuttosto scialba, con quel grembiule sformato e
quella vecchia gonna giallognola accentuavo queste mie caratteristiche. Mi affretto a dire che non assomiglio affatto a Jane Eyre,
che deve aver regalato speranza a uno stuolo di donne insignificanti che vorrebbero raccontare la loro storia in prima persona,
né ho mai pensato di assomigliarle.
“Mio marito rientrerà presto dal suo servizio in marina,” disse
la signora Napier in tono quasi di avvertimento. “Sto appunto
mettendo a posto la casa.”
“Oh, capisco.” Mi stavo chiedendo che cosa potesse aver
spinto un ufficiale di marina e la moglie a traslocare in quella
squallida zona di Londra, davvero la parte “sbagliata” di Victoria Station – così chiaramente non Belgravia –, una zona per la
quale io provavo affetto ma che di solito non attraeva le persone
come la signora Napier. “Immagino che sia molto difficile trovar
casa,” continuai, spinta dalla curiosità. “Io abito qui da due anni,
e allora era più facile.”
“Sì, è stato terribile, e questa casa non è precisamente quel
che volevamo. Detesto l’idea di condividere il bagno,” confessò
con schiettezza, “e non so che cosa ne dirà Rockingham.”
Rockingham! Cercai di afferrare quel nome come se fosse stato un gioiello prezioso finito nella spazzatura. Il signor Napier si
chiamava Rockingham! Una persona con quel nome avrebbe detestato avere il bagno in comune. Mi affrettai a scusarmi. “Faccio
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sempre molto in fretta la mattina, e la domenica di solito mi alzo
presto per andare in chiesa,” dissi.
A queste parole sorrise, e poi sembrò sentirsi obbligata ad
aggiungere che naturalmente lei non era praticante.
Salimmo le scale in silenzio con le nostre pattumiere e i cestini della carta. L’occasione di “dire una parola”, come sempre
ci esortava a fare il nostro parroco, era passata. Arrivate al suo
appartamento, con mia grande sorpresa, mi invitò a prendere
una tazza di tè.
Non so se le nubili siano davvero più curiose delle sposate,
per quanto io creda che siano considerate così per la vuotezza
della loro vita, ma sarei stata in ogni caso molto imbarazzata
se avessi dovuto confessare alla signora Napier che a un certo
punto quel pomeriggio avevo fatto in modo di trovarmi a pulire
la mia rampa di scale, per poter sbirciare, attraverso la ringhiera,
i mobili che venivano scaricati. Avevo notato alcuni bei pezzi –
uno scrittoio in noce, un cassettone in rovere intarsiato e alcune
sedie in stile Chippendale – e ora, mentre la seguivo in salotto,
mi accorsi che possedeva anche alcuni piccoli oggetti interessanti – dei fermacarte vittoriani e delle bocce di vetro con effetto a
neve – molto simili a quelli che tenevo sul caminetto, su da me.
“Quelli sono di Rockingham,” disse quando li ammirai. “Colleziona cose vittoriane.”
“Io non ho avuto bisogno di collezionarle,” dissi. “Casa mia
era una canonica ed era piena di oggetti simili. Fu difficile decidere quali vendere e quali conservare.”
“Immagino che fosse una di quelle grandi e scomode canoniche di campagna con corridoi di pietra, lampade a olio e un
numero eccessivo di stanze,” disse inaspettatamente. “Qualche
volta si ha nostalgia di quei luoghi. Ma io detesterei viverci.”
“Sì, era proprio così,” dissi “ma era molto piacevole. A volte
qui mi sento un po’ stretta.”
“Ma lei ha certamente più stanze di noi.”
“Sì, ho anche una soffitta, ma le stanze sono piuttosto piccole.”
“E poi c’è il bagno in comune,” borbottò.
“I primi cristiani avevano tutto in comune,” le ricordai. “Ringrazi il Cielo di non dover dividere anche la cucina.”
“Oh, Dio, certo! Detesterebbe condividere la cucina con me.
Sono una tale sciattona,” disse quasi con orgoglio.
Mentre preparava il tè, per passare il tempo mi misi a guardare i libri, che giacevano accatastati sul pavimento. Molti sembravano di un’oscura natura scientifica e c’era una pila di riviste
con la copertina verde, che portavano il sorprendente e un po’
perentorio titolo di “Uomo”. Mi chiesi di che cosa trattassero.
“Spero non le dispiaccia bere il tè nei boccali,” disse, avvicinandosi con un vassoio. “Gliel’ho detto, che sono una sciattona.”
“No, certo che no,” risposi come si fa in questi casi, pensando
che a Rockingham probabilmente sarebbe seccato molto.
“È Rockingham che cucina quando siamo insieme,” disse. “Io
sono troppo occupata, in realtà.”
Ma è giusto che le mogli debbano essere così occupate da non
poter cucinare per i propri mariti? pensai sconcertata, prendendo
uno spesso pezzo di pane e marmellata dal vassoio che mi porgeva. Ma forse Rockingham, con il suo amore per gli oggetti vittoriani, amava anche cucinare, perché avevo notato che gli uomini
fanno qualcosa solo se provano piacere a farlo. “Immagino che
la marina gli abbia insegnato a cucinare,” suggerii.
“Oh, no, è sempre stato un bravo cuoco. La marina non gli
ha proprio insegnato niente.” Sospirò. “Era aiutante di campo di
un ammiraglio in Italia e, in questi ultimi diciotto mesi, mentre
io vagolavo sulle piste africane, lui viveva in una lussuosa villa sul
Mediterraneo.”
“Africa?” ripetei sorpresa. Che fosse una missionaria, allora?
Sembrava molto improbabile, tanto più che, ricordai, aveva detto
di non andare mai in chiesa.
“Sì, sono un’antropologa,” spiegò.
“Oh.” Rimasi in silenzio per lo stupore e anche perché non
sapevo esattamente cosa fosse un antropologo e non mi veniva in
mente nessun commento intelligente.
“Da quel che ne so, Rockingham non doveva far altro che
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essere carino con quelle tediose ausiliarie infagottate in quelle
divise bianche mal tagliate.”
“Ma, sicuramente…” stavo per ribattere, ma poi decisi che
si trattava, dopotutto, di un’opera buona. Gli ecclesiastici erano
spesso molto bravi nell’assolvere lo stesso compito; anzi, la maggior parte dei loro parrocchiani era così mal vestita e infagottata,
che svolgere quel compito era diventato per loro una seconda
natura. Non avevo immaginato, però, che ciò potesse rientrare
anche nei doveri degli ufficiali di marina.
“Ho una serie di appunti presi sul campo da trascrivere,” continuò la signora Napier.
“Oh, sì, certo. Com’è interessante…”
“Bene…” si alzò e appoggiò la tazzona sul vassoio. Capii che
mi stava congedando.
“Grazie per il tè,” dissi. “Venga a trovarmi non appena avrà
finito di sistemarsi. E mi faccia sapere se c’è qualcosa in cui posso
aiutarla.”
“Per il momento no, grazie,” rispose, “forse più in là.”
Lì per lì non riflettei sulle sue parole. Non sembrava, allora,
che le nostre esistenze potessero avere dei punti di contatto al di
là di qualche occasionale incontro per le scale e, naturalmente,
del bagno.
Quest’ultimo pensiero venne probabilmente anche a lei, perché ero già a metà scala, quando la sentii gridare: “Credo di aver
usato la sua carta igienica. Cercherò di ricordarmi di comprarla,
quando sarà finita”.
“Oh, per carità, non si preoccupi,” le risposi piuttosto imbarazzata. Vengo da un ambiente dove cose del genere non si
urlano ai quattro venti, ma mi augurai che se ne ricordasse davvero. L’onere di provvedere alla carta igienica per tre persone
sembrava veramente troppo gravoso.
Entrata in salotto, mi accorsi con sorpresa che erano quasi
le sei. Avevamo chiacchierato per più di un’ora. Decisi che la
signora Napier non mi piaceva molto, e subito dopo cominciai
a rimproverarmi per l’assenza di carità cristiana. Ma dobbiamo
farci piacere sempre tutti, mi chiesi? Forse no, ma non dobbiamo
giudicarli fino a quando non li conosciamo almeno da un po’ più
che da un’ora. Anzi, non è proprio affar nostro giudicare. Potevo
sentire la voce di padre Malory dire qualcosa del genere in una
delle sue prediche, e in quel momento l’orologio di St Mary batté
le sei.
Riuscivo a vedere la guglia della chiesa tra gli alberi della
piazza. Ora che questi erano senza foglie, svettava in tutta la sua
bellezza tra le case dalle facciate di stucco cadente, appuntita nel
suo gotico vittoriano, orribile dentro, forse, ma a me molto cara.
Nel quartiere c’erano due chiese, ma io avevo preferito
St Mary a All Souls, non solo perché più vicina, ma perché apparteneva alla Chiesa Alta. Temo che i miei non avrebbero affatto approvato la mia scelta, e riuscivo a immaginare mia madre,
con le labbra strette, scuotere la testa e mormorare spaventata
“Incenso”. Ma forse era del tutto normale ribellarsi all’educazione
ricevuta, anche se solo in questo modo del tutto inoffensivo. Avevo provato ad andare a All Souls per due domeniche, ma quando
ritornai a St Mary, padre Malory mi fermò una mattina dopo la
funzione dicendomi quanto fosse contento di rivedermi. Lui e
sua sorella si erano preoccupati, pensavano che fossi malata. Da
quel giorno non avevo più lasciato St Mary, e Julian Malory e sua
sorella Winifred erano diventati miei cari amici.
Talvolta penso quanto sia strano che sia riuscita a costruirmi una vita a Londra così simile alla vita che avevo vissuto in
una parrocchia di campagna quando i miei genitori erano vivi.
Ma d’altra parte molte zone di Londra hanno una particolare
atmosfera di villaggio, o di parrocchia, per cui forse si tratta semplicemente di scegliersi la propria e adattarvisi. Quando i miei
genitori morirono, a due anni l’uno dall’altro, mi trovai con una
piccola rendita, molti mobili, ma senza casa. Fu allora che mi
alleai con la mia vecchia compagna di scuola Dora Caldicote, e
mentre lei insegnava, io avevo trovato un posto all’Ufficio Censura, per il quale, fortunatamente, non erano richieste qualifiche
specifiche, se non pazienza, discrezione e una certa tendenza
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all’eccentricità. Ora che Dora se ne era andata, ero contenta di
essere di nuovo sola e di condurre una vita più civile con una
stanza da letto, un salotto e una camera per gli ospiti. Io non ho il
carattere di Dora, che ama dormire su una brandina da campeggio e mangiare sbrigativamente in piatti di plastica. Mi sentivo
ormai abbastanza vecchia da poter diventare, nel caso lo volessi,
pignola e zitellesca. Lavoravo a mezza giornata in un’organizzazione che aiutava vecchie signore decadute, una causa che mi
stava molto a cuore, visto che sentivo che ero proprio quel tipo di
persona che un giorno avrebbe potuto diventare una di loro. La
signora Napier, con i suoi pantaloni vivaci e la sua antropologia,
ovviamente non lo sarebbe mai diventata.
Pensavo a lei, mentre mi preparavo per andare a cena alla
canonica, e incontrandola per le scale insieme a un bell’uomo
alto, fui contenta di aver indosso abiti decenti.
“Dovrai bere il gin in un boccale,” la sentii dire. “I bicchieri
sono ancora imballati.”
“Non fa niente,” rispose lui in tono un po’ forzato, come se gli
importasse parecchio. “Immagino ti ci voglia ancora del tempo
prima di sistemarti per bene.”
Non era Rockingham, pensai; difficilmente avrebbe potuto
essere lui visto che era in Italia ad affascinare le ausiliarie della
marina. Forse un collega antropologo? La campana di St Mary
incominciò a suonare il Vespro, e capii che non era affar mio
sapere chi fosse. Era troppo presto per andare in canonica, allora
mi affrettai in chiesa, dove presi posto insieme a un gruppo di
donne di mezza età e anche più anziane, che costituivano la congregazione nelle sere dei giorni feriali. Winifred Malory, in ritardo come sempre, si sedette vicino a me e sussurrò che qualcuno
aveva fatto una donazione piuttosto cospicua, come contributo
per riparare la finestra occidentale che era stata distrutta da una
bomba. Una donazione anonima – non era eccitante? Julian me
ne avrebbe parlato a cena.
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