Il valore del monologo di Paolini e la metafora della disabilità

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Il valore del monologo di Paolini e la metafora della disabilità
31/01/2011
Il valore del monologo di Paolini e la metafora della disabilità
(di Matteo Schianchi*)
Ha emozionato, fatto riflettere e coinvolto la diretta televisiva su La7 di "Ausmerzen.
Vite indegne di essere vissute", serata condotta da Gad Lerner e centrata sul
monologo del noto attore Marco Paolini, dedicato allo sterminio delle persone
con disabilità durante il nazismo. Ad assistere in anteprima per noi alla prova
generale dello spettacolo, a Milano, vi erano anche il nostro direttore responsabile
Franco Bomprezzi e Matteo Schianchi, storico, autore del libro "La terza nazione
del mondo. I disabili tra pregiudizio e realtà", che tanto fece parlare al momento
della sua uscita. E le riflessioni di quest'ultimo mettono davvero tanta "carne al
fuoco", per un dibattito culturale che ci auguriamo possa essere sempre più ricco
affinché un giorno «quando si parla di altri e di altro, si parli anche di noi e quando
si parla di noi, si parli anche di altri e di altro»
Marco Paolini
Giusto, bravo, bello, ammazza che forte! Erano questi i commenti che ci
scambiavamo con gli occhi a qualche metro di distanza Franco Bomprezzi e io
nella platea del piccolo teatro milanese che ospitava le prove generali dello
spettacolo di Marco Paolini sullo sterminio delle persone con disabilità, la sera
prima della sua diretta televisiva. In effetti, l’interpretazione e le argomentazioni
sono straordinarie, quanto la ricerca e l'accuratezza su cui si basa il copione.
Va riconosciuta, inoltre, l'onestà di un Autore che si pone una serie di questioni e di
problemi (certamente sicuro del fatto suo, l’essere bravo e apprezzato), che va a
scandagliare eventi sconosciuti ai più, e attorno ci costruisce uno spettacolo
teatrale fatto di ricerca, temi e argomentazioni, non un prodotto commerciale,
non qualcosa di studiato a tavolino per fare soldi, suscitare facili emozioni e
strappare applausi (che, per altro, faticano ad arrivare terminato lo spettacolo,
tanto il pubblico è ancora scosso nella riflessione). In più, se l’onestà intellettuale
unita a una competenza sono già merce pregiata e rara in sé, ciò vale a maggior
ragione per le questioni della disabilità, che vengono spesso trattate in modo
superficiale o strumentale dai "non addetti ai lavori" o da chi non vive più o meno
direttamente l’esperienza.
Quello, però, era uno spettacolo teatrale e non televisivo e alla fine l'Autore ha
voluto discutere con il centinaio di persone del pubblico. «Non volevo parlare solo
di quegli eventi», dice Paolini e in effetti lo spettacolo non parla solo della
Germania nazista. Molti temi ci portano oltre, su questioni, cioè, che riguardano
anche noi e non per costruire facili e veloci parallelismi tra ieri e oggi, ma come
spunti di riflessione. Chi vedrà lo spettacolo se ne accorgerà facilmente.
Mi restano impressi, nella loro capacità di evocare altro: la nascita dell'eugenetica
all’interno di un certo clima culturale; le questioni economiche come motore di
diffusi sentimenti di rancore verso gli assistiti, quelli che sono considerati come chi
"mangia a sbaffo"; la forza di chi si oppone, rispetto al silenzio di chi sa ma non
dice, non s’indigna, minimizza, fa finta di nulla; la costruzione di una macchina di
funzionari medici, paramedici, per sterminare migliaia di persone. Tutti temi che
aprono scenari anche sul presente, non solo immediato e non solo sulla disabilità,
ma capaci di evocare alcuni nodi della nostra società.
Non sono invece riuscito a non legare a un presente tutto italiano una frase riferita
ai giovani funzionari della cancelleria di Hitler: «Trentenni che non sanno fare un
cazzo e hanno solo la fortuna di trovarsi al momento giusto nel partito giusto».
Paolini chiede di commentare questo andare oltre dello spettacolo e, secondo
me, non rimane granché soddisfatto dagli interventi. Mi sembra di intuire che lui,
rispetto a quanto dice la platea, abbia in mente dell’altro ancora, che forse il
pubblico non coglie (o non ha ancora colto sotto la forza emotiva dello
spettacolo, specie per chi non conosce il tema), o non riesce ad esprimere sulla
sua stessa lunghezza d'onda.
Ho una sensazione di incomprensione anche tra il suo sentire e le cose dette da
Bomprezzi e da me sulla disabilità. Bomprezzi rompe il ghiaccio sostenendo
l'importanza di questo lavoro teatrale che "sdogana" al grande pubblico la
questione dello sterminio dei disabili di cui le associazioni e alcune pubblicazioni
parlano già da tempo (e la diretta televisiva raggiungerà in una sola serata più
gente di quanto non abbiano fatto quelle iniziative in anni) e in questo senso
diventa un ottimo strumento per fare informazione e costruire consapevolezza.
In animo, Franco e io, abbiamo un sentimento ambivalente: per fortuna qualcuno
oltre a noi ne parla, però sono anni che diciamo queste cose! Continuo io,
dicendo che il tema dei disabili come "costo per la società", "gente che mangia a
sbaffo", "soggetti improduttivi", non sono argomentazioni poi così lontane nel senso
comune e sono state recentemente usate e rinvigorite anche dal ministro
dell'Economia Tremonti.
Paolini annuisce. Che ai suoi occhi sembriamo forse come "i soliti disabili" che
parlano solo di se stessi, delle proprie miserie, fatiche, degli sforzi che fanno per
superare limiti e pregiudizi? Con la sua perplessità sul nostro dire - che sembra non
cogliere il suo voler andare oltre lo sterminio nazista - lui sembra, almeno a me,
voler fare della disabilità una metafora, un pretesto, che non riescono a tenere in
considerazione il vissuto dei soggetti che ne sono coinvolti.
Restano completamente l'importanza, la forza dello spettacolo e la capacità
dell’aAutore di trasmettere l’essenza di quel tragico passato, ma questo nostro
dialogo finale mi rimanda all'uso metaforico della disabilità, alla difficoltà di capirsi
fino in fondo, anche quando si affronta uno stesso tema al quale si arriva da punti
di vista ed esperienze diverse.
Un conto è raccontare o ascoltare cose, anche con passione, partecipazione,
viscerale indignazione e sgomento, ma con quella distanza analitica, emotiva e
dell'esperienza che si ha inevitabilmente su cose che sono capitate ad altri (e
capiterebbero ad altri se accadessero oggi). Un altro conto è raccontare o
ascoltare quelle stesse cose, con tutti quegli stessi sentimenti e analisi e, con in più,
l’inevitabile consapevolezza di esserci dentro fino al collo. Chi ha una disabilità
oggi sente che la sua condizione, nella Germania nazista, lo avrebbe facilmente
portato in una camera a gas. Oggi non è più così. E ci mancherebbe. Le persone
con disabilità e i loro familiari, tuttavia, sentono troppo spesso, nella quotidianità,
nel senso comune, in dispositivi di legge male o poco applicati, nel bonario
pietismo, nelle discriminazioni, nelle stigmatizzazioni, nell'incompetenza, non - forse
- che la propria vita è apertamente giudicata come "non degna di essere vissuta",
ma che essa è tangibilmente considerata valere meno di quella dei cosiddetti
"normali".
Nello scarto tra modi di sentire diversi, che vengono da esperienze umane ed
esistenziali completamente differenti, anche quando si affronta uno stesso tema, si
riesce a non essere profondamente in sintonia. Dobbiamo dunque continuare a
cercare di colmare questo vuoto con modalità e linguaggi capaci di trovare un
terreno in cui i punti di vista si incontrino realmente affinché quando si parla di altri
e di altro, si parli anche di noi e quando si parla di noi, si parli anche di altri e di
altro.
*Storico. Autore del libro La terza nazione del mondo. I disabili tra pregiudizio e
realtà (Milano, Feltrinelli, 2009).