Stampa A. Dovio - Società Italiana di Medicina Interna

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Stampa A. Dovio - Società Italiana di Medicina Interna
Medicina e causalità
Giovanni Federspil
(Ann Ital Med Int 2004; 19: 238-239)
Uno dei temi fondamentali dell’intera medicina è rappresentato dal rapporto di causa/effetto. Per quanto esistano
diversi tipi di spiegazione non vi è dubbio che la spiegazione più soddisfacente di un fenomeno, fisiologico o
patologico, sia quella causale. Infatti, come aveva già
ben compreso Aristotele*, noi riteniamo di aver veramente spiegato un evento quando di quell’evento abbiamo trovato e descritto la causa.
Tuttavia, nonostante l’apparente ovvietà di queste osservazioni, la cosa si presenta subito molto complessa
non appena si cerchi di approfondire un poco che cosa si
intenda per causa di un fenomeno. Quello di causa è infatti uno dei concetti più tormentati dell’intera storia del
pensiero umano.
Giovan Battista Morgagni ha intitolato la sua opera
maggiore “De sedibus et causis morborum per anatomen
indagatis” ed ha ritenuto di aver realmente riconosciuto,
registrando le alterazioni che si presentavano nei cadaveri,
le cause delle malattie umane. All’opposto, oggi appare
evidente che le lesioni anatomiche che egli ha descritto,
lungo tutto l’arco della sua vita, non erano affatto le cause delle malattie, ma soltanto le cause dei sintomi che egli
poteva osservare quando esaminava i pazienti. Quelle
che Morgagni ha registrato erano quelle che noi oggi riteniamo essere le malattie in sé stesse: un cancro allo
stomaco, un ascesso epatico, una gomma sifilitica e così
via. Questa considerazione dovrebbe renderci più cauti ed
avvertiti quando oggi riteniamo di aver identificato la
causa di una malattia in un’alterazione della struttura del
DNA o nella modificazione di un’attività enzimatica.
Ma allora – possiamo chiederci – cos’è veramente la
causa di una malattia? Ovvero, in termini più rigorosi, che
cosa intendiamo quando parliamo di causa di una malattia? “Il fisico e il fisiologo (...) – ha scritto Claude Bernard
– hanno in comune lo stesso scopo. L’uno e l’altro mirano alla conoscenza della causa prossima dei fenomeni studiati. Ora quello che chiamiamo causa prossima di un fenomeno altro non è che la condizione fisica materiale
della sua esistenza o della sua manifestazione. Lo scopo
del metodo sperimentale, il termine ultimo di ogni ricerca scientifica (...) consiste nel trovare le relazioni che legano un fenomeno qualunque alla sua causa prossima o,
in altre parole, a determinare le condizioni necessarie alla sua manifestazione”.
Apparentemente, quindi, si potrebbe pensare che poiché
la causa di un fenomeno è la condizione necessaria per la
sua manifestazione, l’associazione costante fra due fenomeni dovrebbe costituire la prova del fatto che essi sono
legati da un rapporto causale. In altre parole, se “A precede sempre B”, si dovrebbe poter affermare che “A causa B”. Le cose non sono invece così semplici: “l’immediata successione di due fenomeni – ha scritto Augusto
Murri – non ha di per sé valore logico, perché due fenomeni possono anche succedersi immediatamente e regolarmente senza che uno generi l’altro”. E Claude Bernard
ha avvertito: “per poter concludere con certezza che una
data condizione è la causa prossima di un fenomeno non
basta aver dimostrato che questa precede o accompagna
sempre quel fenomeno, ma bisogna dimostrare ancora
che sopprimendo quella condizione il fenomeno scompare.
Se ci si limita alla prima dimostrazione si può cadere in
errore ad ogni momento credendo nell’esistenza di un
rapporto di causa e di effetto quando si tratta invece di una
semplice coincidenza (...). È il “post hoc ergo propter hoc”
dei medici dal quale è facile lasciarsi trascinare soprattutto
quando il risultato dell’esperimento o dell’osservazione
sembra confermare l’idea preconcetta.
La controprova diventa così il fattore essenziale e necessario per la conclusione di un ragionamento sperimentale (...). Per far questo essa sopprime la causa supposta e vede se l’effetto persiste basandosi su quel proverbio antico, ma vero, che dice: “sublata causa, tollitur
effectus”. È quello che si chiama “experimentum crucis”
Cattedra di Medicina Interna, Clinica Medica 3 (Direttore: Prof.
Giovanni Federspil), Università degli Studi di Padova
* “Non si conosce il vero se non si conosce la causa” (Metafisica.
II). Torino: SEI, 1968; 1-4: 76.
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Giovanni Federspil
(...). La dimostrazione migliore che un fenomeno è la
causa di un altro è che, sopprimendo il primo, scompare
il secondo”.
Nello stesso periodo in cui Bernard poneva le basi teoriche della metodologia sperimentale della medicina,
Louis Pasteur identificava la causa di un gran numero di
malattie nella presenza dei germi nei soggetti colpiti da
quelle malattie. E non a caso sono stati i microbiologi che
hanno formulato i primi criteri precisi, atti ad attribuire ad
un germe specifico un ruolo causale nell’insorgenza delle malattie. I criteri di Henle, Klebs e Koch furono esposti per la prima volta nel 1884 in un Editoriale anonimo
comparso sul British Medical Journal, che riportava la cronaca di una conferenza tenuta da Robert Koch sull’eziologia del colera.
Per un certo periodo i criteri di Henle, Klebs e Koch sembrarono aver risolto il problema della causalità in medicina. Come ha scritto Bernardino Fantini “una malattia infettiva, che prima veniva identificata grazie ai suoi sintomi, diviene ora un’affezione la cui specificità è legata ad
un agente patogeno che non può essere identificato che in
laboratorio: la presenza di un microrganismo specifico diviene la causa della malattia. È la base dei postulati di
Koch”.
In realtà, invece, il problema era destinato a riproporsi
e ad andare incontro a sempre maggiori difficoltà. Da un
lato, infatti, gli studi dei costituzionalisti e degli immunologi andarono presto dimostrando che la causalità delle stesse malattie infettive era molto più complessa di
quella riassunta dal motto “un germe, una malattia”,
dall’altro divenne sempre più evidente che gli stessi criteri di Henle, Klebs e Koch non avevano quel valore assoluto che inizialmente era stato loro attribuito: vi erano
malattie infettive o condizioni morbose che sembravano
violare o violavano realmente ora l’uno ora l’altro dei criteri stabiliti dai microbiologi.
Da allora ad oggi, con il complicarsi sempre maggiore
delle situazioni morbose che venivano descritte, il problema della causalità medica è andato sempre più aggrovigliandosi. Accanto alla causalità lineare, che voleva
che A fosse sempre antecedente a B, è comparsa la causalità circolare, determinata dalle regolazioni omeostatiche dell’organismo: così, mentre prima il criterio causa-
le voleva che C fosse sempre antecedente ad E, ora si deve ammettere che C causa E, ma che E, a sua volta, può
retroreagire ed essere causa di C. Inoltre l’antica distinzione fra causa come condizione necessaria e causa come
condizione sufficiente, si è riproposta in tutta la sua importanza: così si è notato che mentre in alcune discipline
mediche, come la patologia, i ricercatori mirano ad identificare la condizione necessaria per il verificarsi dei fenomeni, in altre, come la farmacologia, essi cercano soprattutto la condizione sufficiente.
Infine, è divenuto sempre più chiaro che il problema della causa si pone in modo diverso per il ricercatore e per
il clinico. Mentre il primo cerca una causa generale del fenomeno che sta studiando, il secondo vuole identificare
l’evento singolare, o meglio, la catena di eventi singolari che ha provocato il fenomeno morboso nel suo malato.
Ed è proprio in questo risalire nella catena delle cause che
la medicina clinica incontra le sue maggiori difficoltà; “nulla è più comune – scriveva Augusto Murri nel 1908 – del
trascurare quest’elementare considerazione della complicazione delle cause. Bisogna non dimenticare che in tutte le scienze questo stabilire le relazioni che corrono tra
certe condizioni antecedenti e certi fatti successivi, costituisce il più arduo dei problemi. E il nostro, credetelo,
è arduissimo: noi in Clinica non abbiamo nemmeno la risorsa che ha il patologo di mettere la domanda al cimento sperimentale: noi spesso poniamo la domanda a noi stessi e dobbiamo rassegnarci a confessare che non sappiamo
rispondervi”.
Bibliografia
- Bernard C. Introduzione allo studio della medicina sperimentale. Padova: Piccin, 1994.
- Evans AS. The Henle-Koch postulates revisited. Yale J Biol
Med 1976; 49: 175-95.
- Fantini B. La constitution historique du savoir médical moderne
et le caractère spécifique des maladies. Cahiers Médico-Sociaux
1995; 39: 15-23.
- Federspil G, Vettor R. La causalità in medicina. Un’introduzione. MEDIC 1999; 7: 15-24.
- Federspil G, Vettor R. Il problema della causalità in medicina clinica e sperimentale. In: “Giornate galileiane. I. Il principio di causalità”. Padova, 2003. Firenze: Leo S. Olschki Editore, 2003.
- Murri A. Cure e ricette. In: Lezioni di clinica medica. Milano:
Società Editrice Libraria, 1908.
- Murri A. Pensieri e precetti. Bologna: Zanichelli, 1924.
- Murri A. Dizionario di metodologia clinica. A cura di: Baldini M,
Malavasi A. Roma: Antonio Delfino Editore, 2004.
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