Libia Egitto Siria Iraq

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Libia Egitto Siria Iraq
POLITICAL
AND
SECURITY
REVIEW
Libia
Egitto
Siria
Iraq
15 Dicembre
23 Dicembre
LIBIA
Sommario
Il processo di stabilizzazione della Libia potrebbe avere subito una svolta decisiva con la firma a Skhirat (17 dicembre) di
un accordo per la formazione di Governo
rapppresentativo di tutte le realtà del Paese.
L’iniziativa ha il pieno appoggio dei governi
occidentali, dell’ONU e di molti paesi della
regione, che si sono impegnati a interrompere
ogni rapporto con i due esecutivi attualmente
esistenti in Libia (a Tripoli e a Beida). Tuttavia,
gli ostacoli da superare sono ancora molti. Il
primo e più grave è costituito dall’opposizione
all’accordo da parte di importanti settori della
politica e delle istituzioni libiche, e delle milizie
ad essi collegate. In particolare, i presidenti del
parlamento di Tripoli e di quello di Tobruk,
superando le divergenze che sinora avervano
impedito loro di avviare qualsiasi trattativa, si
sono incontrati a Malta e hanno concordato di
rilanciare il dialogo inter-libico e trovare una
soluzione alla crisi senza imposizioni
dall’esterno. Inoltre, non sembrano ancora
esistere le condizioni per l’insediamento del
nuovo esecutivo a Tripoli, vista la situzione di
grave insicurezza nella capitale, ove sono presenti milizie di varia ispirazione, spesso in conflitto tra loro.
L’accordo di Skhirat
Anche se firmato con un giorno di ritardo sulla data annunciata (17 dicembre invece del 16), l’accordo di Skhirat
sulla formazione di un Governo di Accordo Nazionale (GAN) ha polarizzato l’attenzione interna ed
internazionale pur raccogliendo giudizi contrastanti sulla possibilità che esso rappresenti veramente l’inizio del
processo di stabilizzazione del Paese. Alla cerimonia erano presenti più di 200 personalità libiche (oltre a
parlamentari della Camera dei Rappresentanti - CdR e del Congresso Generale Nazionale - CGN, anche
dirigenti di vari partiti politici e di organi di potere locali) e numerosi rappresentanti di governi stranieri e
istituzioni internazionali.
L’accordo prevede la creazione di un Consiglio Presidenziale (CP), diretto da Fayez Serraj, che rappresenterà
tutte le tre principali regioni della Libia (Tripolitania, Cirenaica e Fezzan). Il CP dovrà nominare entro un mese
il GAN che diventerà l’unico esecutivo della Libia. La CdR rimarrà il principale organo legislativo del Paese ma
sarà creato anche un Consiglio di Stato, con funzioni prevalentemente consultive, formato principalmente dagli
attuali membri del CGN. Questo processo di ricomposizione radicale degli equilibri politici ed istituzionali del
Paese è partito tuttavia senza l’approvazione dei presidenti dei due attuali parlamenti. Ageela Salah (CdR) e
Nuri Abu Sahmain (CGN) si sono incontrati a La Valletta (Malta), il 16 dicembre, e hanno deciso di rilanciare il
dialogo inter-libico, senza la mediazione delle istituzioni internazionali. Sarà formata una commissione
congiunta per superare le divergenze attualmente esistenti sulla formazione di un governo di transizione che
sia rappresentativo di tutte le realtà del Paese. Nello stesso tempo, essi hanno ribadito la volontà di non accettare
soluzioni imposte dall’esterno, incluse quelle originate dal dialogo sviluppatosi a Skhirat. Tali posizioni, che
riprendono l’intesa raggiunta il 6 dicembre a Tunisi da esponenti dei due parlamenti e concretizzata con la firma
di una “dichiarazione di intenti”, sono state ribadite nei giorni successisi da autorevoli esponenti dei vari
schieramenti, in particolare da quello di Tripoli. Proteste si sono tenute il 18 dicembre nella capitale e a Misurata
contro la formazione di un governo (GAN) imposto dall’ONU e a favore del dialogo tra libici. Inoltre, anche un
partito considerato di orientamento liberale, Hizb al.Jabha al-Wataniyya (Partito del Fronte Nazionale), ha
respinto l’accordo. Nello stesso tempo, tuttavia, la Fratellanza Musulmana libica ha diffuso un comunicato di
sostegno all’accordo di Skhirat, definendolo un modello da seguire per porre fine alle divisioni nel Paese. Ha
anche aggiunto che, una volta ottenuto il riconoscimento internazionale, il nuovo governo dovrebbe essere in
grado di affrontare il declino del Paese nel settore economico, sociale e dell’istruzione e di lottare contro la
criminalità e l’estremismo.
Analisti e osservatori di vari
paesi hanno sottolineato il
rischio
che
le
pressioni
internazionali possano aver
prodotto un accordo privo di un
ampio consenso, soprattutto tra i
soggetti più influenti del Paese,
alcuni dei quali sono addirittura
impegnati a portare avanti
progetti alternativi.
Alcuni mass media hanno
rilevato che a Skhirat, secondo le
informazioni
diffuse
dai
promotori dell’accordo, erano
presenti 88 membri della CdR e
L’incontro a Malta dei Presidenti dei due Parlamenti libici
del CGN, che però hanno
rispettivamente 156 e 135
deputati. Appare a molti difficile conciliare le posizioni (e gli interessi) dei settori che sinora hanno sfruttato le
divisioni tra Tobruk e Tripoli per rafforzare il loro potere ed emarginare quanti proponevano un dialogo con
gli avversari per una soluzione unitaria e condivisa della crisi del Paese. Anche ammettendo la possibilità di
una collaborazione nella lotta contro lo Stato Islamico (Islamic State - IS) e gli altri gruppi jihadisti, tra gli
ambienti militari che fanno capo al Generale Haftar e i settori più moderati di Alba della Libia (la coalizione
islamica che controlla Tripoli e altre città della Libi), il problema dell’atteggiamento da tenere nei confronti delle
forze più radicali, ma non necessariamente di matrice terroristica, continuerà a rimanere. In particolare, sarà
difficile trovare un accordo sulla definizione di “terrorismo” e se questo termine possa essere riferito anche al
Consiglio della Shura dei Rivoluzionari di Bengazi o al Consiglio dei Mujaheddin di Derna.
Dopo la firma dell’accordo, il rappresentante del Segretario Generale dell’ONU per la Libia, Martin Kobler, ha
sottolineato che per dimostrare la sua capacità, il nuovo esecutivo deve cominciare subito ad affrontare la grave
situazione umanitaria del Paese, a promuovere un accordo di sicurezza nazionale che sia il più inclusivo
possibile, a organizzare la lotta contro il SI, a stabilizzare la situazione a Bengasi e nelle altre aree ad elevata
criticità.
In sostanza, sono le stesse sfide che dovevano affrontare (e non sono state in grado di fare) le istituzioni di
Tobruk e di Beida riconosciute dalla comunità internazionale. Senza forze di scurezza addestrate, motivate ed
affidabili, il nuovo governo non potrà insediarsi a Tripoli a meno che non chieda l’appoggio delle milizie che
già controllano settori della capitale ma questo significa perpetuare il loro ruolo e la loro influenza sulle vicende
politiche, in contrasto con gli obiettivi di lungo termine dell’accordo. Potrebbe di conseguenza concretizzarsi
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l’ipotesi avanzata da alcuni analisti sulla possibilità che la Libia si trovi ad avere tre governi e che l’ultimo di
essi sia costretto a riunirsi al di fuori della capitale, se non addirittura all’estero.
Sarà importante per il futuro della Libia la determinazione con cui i partecipanti alla Conferenza di Roma del
13 dicembre (in rappresentanza di 17 paesi e delle istituzioni internazionali interessate: Nazioni Unite, Unione
Europea, Lega Araba e Unione Africana) manterranno l’impegno apertamente assunto di sostenere il GAN e di
interrompere i rapporti con tutte le altre istituzioni libiche. E’ di buon auspicio, al riguardo, il voto unanime con
cui il Consiglio di Sicurezza dell’ONU ha ribadito questa linea, il 23 dicembre.
Nuovi rischi per la sicurezza ad Ajdabiya
La situazione della sicurezza ad Ajdabiya, da tempo seria a causa di una campagna di omicidi mirati condotta
dallo Stato Islamico contro esponenti religiosi moderati e avversari politici, si è ulteriormente aggravata a
seguito degli scontri scoppiati in città il 16 dicembre e durati anche nei giorni successivi tra elementi del
battaglione Tawhid al-Salaiya, alleato dell’Esercito Nazionale Libico (ENL) che appoggia il parlamento di
Tobruk, e i militanti del Consiglio della Shura dei Rivoluzionari della città. Secondo un bilancio ancora
provvisorio, nei combattimenti sarebbero state uccise almeno 15 persone e altre 25 sarebbero rimaste ferite. Non
è ancora chiaro se negli scontri siano stati coinvolti anche militanti dello Stato Islamico ma uno degli obiettivi
del battaglione citato era l’abitazione di Abrik al-Zawi al-Malqeb, uno dei leader del Consiglio della Shura e
considerato vicino al SI. Il sindaco di Ajdabiya, Salam Jadhran (fratello di Ibrahim, comandante delle Guardie
per la Protezione delle Infrastrutture Petrolifere) ha chiesto un cessate il fuoco; da parte loro, anche gli anziani
delle tribù locali stanno mediando una tregua.
Gli scontri sono iniziati due giorni dopo che l’ENL, temendo che la città potesse cadere nelle mani del SI, aveva
annunciato la creazione della Sala Operativa di Ajdabiya, comandata dal colonnello Bashir Buzifira, e l’impiego
di unità terrestri ed aeree per ripotare l’ordine in città. Tra il 15 e il 16 dicembre, era stato creato un cordone di
sicurezza intorno all’abitato ed erano stati attivati posti di blocco. Dalla fine di novembre, aerei ed elicotteri
dell’ENL hanno bombardato ripetutamente posizioni e depositi delle milizie islamiche nella periferia
meridionale di Ajdabiya.
Fonti utilizzate: Libya Herald, The Libya Observer, New York Times, Jeune Afrique, Libya security monitor,
International Crisis Group, Libya Analysis.
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EGITTO
Sommario
Il prossimo insediamento del nuovo parlamento
segna la fine di una fase di transizione che ha
visto il Paese per molti mesi privo di un organo
legislativo e governato con decreti presidenziali.
Tuttavia, la normalizzazione del quadro politico
sarà graduale, come confermato dai contrasti
emersi tra partiti e deputati sulla creazione di un
blocco parlamentare che sostenga l’agenda del
presidente El Sisi. Inoltre, le sfide che il nuovo
parlamento dovrà affrontare sono importanti e
riguardano
la
sua
stessa
legittimità
costituzionale, poiché gli attuali limiti delle
circoscrizioni elettorali non garantiscono una
ripartizione equa e bilanciata dei deputati in
proporzione al numero dei votanti, e l’eccessivo
carico di lavoro, almeno per le prime settimane
dall’inizio dei lavori. I deputati dovranno infatti
ratificare, entro due settimane, tutte le leggi
approvate con decreto presidenziale (ben 215),
per evitare un vuoto normativo.
In materia di sicurezza, è da rilevare la firma di un accordo tra il governo e una società internazionale per un esame della
sicurezza degli aeroporti del Paese, allo scopo di adottare le misure correttive necessarie. Le autorità mirano a creare le
condizioni per una ripresa dei collegamenti da e per i resort del Sinai, sospesi da molte compagnie internazionali dopo che
sono emersi riscontri sul coinvolgimento dello Stato Islamico nel disastro aereo verificatosi il 31 ottobre.
Accelerazione delle dinamiche politiche
In attesa dell’insediamento del nuovo parlamento, il dibattito politico si sta concentrando sul tentativo di dare
vita a un blocco di maggioranza formato da oltre 400 deputati (o i due terzi dei voti) e poter efficacemente
sostenere l’agenda del presidente El Sisi. L’iniziativa è stata promossa da un ex dirigente dei servizi segreti,
Sameh Seif El-Yazal, che attualmente è anche direttore del Centro Studi Strategici e Politici del giornale AlGombouria. Il blocco, denominato “A sostegno dello Stato egiziano” (Pro-Egyptian State), doveva comprendere
anche le tre principali formazioni politiche presenti in parlamento (il Partito dei Liberi Egiziani, con 65 seggi; il
Futuro della Patria, con 53 seggi: Al-Wafd, con 44 seggi), che facevano parte della coalizione “Per amore
dell’Egitto”. Tuttavia, cogliendo in parte di sorpresa gli osservatori, i loro dirigenti si sono dissociati dal
progetto e hanno minacciato di espellere i deputati, eletti nelle loro file, che aderiscono all’iniziativa. Le ragioni
del dissenso sono tuttavia diverse. Infatti, il segretario generale di Al-Wafd, Abu Skuda, annunciando in una
intervista ad Al-Ahram che sono in corso colloqui con altri partiti e con parlamentari indipendenti per la
formazione di un blocco alternativo, che dovrebbe essere chiamato “A favore di una coalizione per l’Egitto”
(Pro-Egypt Coalition), ha ribadito che quale partito più vecchio del Paese, Al-Wafd rivendica la guida di un
blocco e non può essere solo un membro. Ha tuttavia tenuto a precisare che il suo progetto non deve essere
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giudicato ostile al blocco “A sostegno dello
Stato egiziano”, per il quale ha detto di
mostrare profondo rispetto. Ha avuto senza
dubbio un peso maggiore, se non altro per il
numero dei seggi che controlla, la decisone del
Partito dei Liberi Egiziani, diretto dall’uomo
d’affari Naguib Sawiris. Il suo portavoce,
Shehab Wagih, ha dichiarato che il partito è
favorevole a una diversità di posizioni politiche
all’interno del parlamento, che pertanto non
può essere dominato da un blocco perché
diventerebbe un organo chiamato solo ad
avallare acriticamente decisioni prese da altri.
Egli ha anche accusato “A sostegno dello Stato
egiziano” di voler diventare un partito politico,
Naguib Sawiris
sul modello del Partito Nazional Democratico
di Hosni Mubarak (sciolto dopo la rivoluzione di gennaio 2011), senza averne la veste legale. Ha citato al
riguardo alcuni punti del documento programmatico che parlano di quote di iscrizione, uffici nei differenti
governatorati, campagne elettorali per le consultazioni municipali e stabiliscono che le decisioni approvate a
maggioranza devono essere rispettate da tutti i membri. Questa linea tuttavia non è condivisa da alcuni deputati
del partito, che hanno ribadito l’intenzione di appoggiare “A sostegno dello Stato egiziano”. Differenze si
registrano anche all’interno de “Il Futuro della Patria”: alcuni deputati non concordano sul rifiuto di partecipare
alla creazione del blocco guidato da Sameh Seif El-Yazal e sperano in un cambiamento della posizione del
partito. Nel frattempo, esponenti di “A sostegno dello Stato egiziano” hanno sottolineato che continuano i
colloqui con i parlamentari indipendenti per allargare gli aderenti al blocco, che in ogni caso sarebbero
attualmente più di 400. Wagih tuttavia contesta questo numero sottolineando che, in realtà, i deputati che hanno
partecipato all’ultima assemblea del blocco erano meno di 200 e che non tutti hanno firmato il documento
costitutivo. Il nuovo parlamento è composto da 596 membri: 448 indipendenti, 120 eletti nelle liste di partito e
28 nominati dal presidente. Essi appoggiano a larghissima maggioranza l’attuale corso politico anche se tra di
loro esistono differenze significative, non solo sul piano ideologico ma anche per quanto riguarda gli obiettivi
perseguiti.
Le tensioni e i contrasti emersi sul progetto di formazione di un blocco a sostegno del presidente El Sisi sono
indicativi delle difficoltà che il parlamento dovrà superare per affrontare i gravi problemi del Paese. La
mancanza di una opposizione organizzata alla politica del presidente non solo priva i deputati degli stimoli
necessari per trovare un accordo sulle principali questioni ma addirittura potrebbe alimentare le divisioni. AlAhram ha individuato alcune sfide che potrebbero rendere difficile il cammino del parlamento. Le principali
sono:
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dubbi di legittimità. Esiste infatti il rischio che la legge che definisce i limiti delle circoscrizioni elettorali sia
giudicata incostituzionale, perché non garantisce una ripartizione equa e bilanciata dei parlamentari, in
proporzione al numero dei votanti. Alcune circoscrizioni hanno eletto un solo deputato mentre altre due o
anche di più, senza un corrispondente aumento del numero degli elettori. Questo in violazione della
Costituzione del 2014, che stabilisce l’uguaglianza dei cittadini in materia di rappresentanza parlamentare.
E’ anche da rilevare che la legge elettorale, prevedendo le quote per le minoranze, ha considerato tra gli altri
i cristiani e le donne, ma ha ignorato gli ebrei anche se la Costituzione parla di tre religioni;
carico eccessivo di lavoro. Secondo la Costituzione, il parlamento deve convalidare, entro 15 giorni dal suo
insediamento, tutte le leggi approvate in assenza di un organo legislativo, con un decreto dell’ex presidente
Adly Mansour e di El Sisi. Tuttavia, questi atti legislativi sono ben 215 ed è di fatto impossibile esaminarli
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-
-
tutti in un tempo così breve. Alcuni hanno proposto una approvazione di principio, che sarà seguita
successivamente dalla discussione dei vari articoli. Questo esame ritarderà tuttavia la definizione e
l’approvazione di un nuovo corpo legislativo, specialmente per l’economia che ha bisogno di interventi
urgenti sul piano normativo;
voto di fiducia al governo. Entro un mese dall’inizio dei suoi lavori, il parlamento dovrà votare la fiducia
all’attuale governo; in caso contrario, la coalizione che ha la maggioranza deve nominare un nuovo primo
ministro. Se il gabinetto da questi presentato non ottiene l’approvazione entro 30 giorni, il parlamento sarà
sciolto. Anche se al momento è difficile ipotizzare un tale esito, le divisioni tra i deputati e la mancanza di
partiti forti e in grado di imporre ai propri rappresentanti il rispetto delle decisioni prese potrebbero rendere
la fiducia all’esecutivo meno facile di quanto immaginato;
nomina del presidente del parlamento. Secondo molti osservatori, questa carica sarà verosimilmente
assegnata a uno dei 28 deputati nominati da El Sisi (al riguardo sono stati fatti i nomi dello stesso Mansour
e di Amr Moussa, che ha presieduto la Commissione incaricata di preparare la bozza della Costituzione).
Tuttavia, affidare la seconda carica dello stato a una personalità di nomina presidenziale potrebbe sminuire
l’importanza del voto popolare e aumentare il distacco tra cittadini e istituzioni.
Iniziative per migliorare la sicurezza negli aeroporti.
E’ stata accolta con favore la decisione del governo de Il Cairo di firmare un accordo con la Compagnia Control
Risk per un esame della condizione di sicurezza negli aeroporti del Paese, anche allo scopo di indicare le misure
correttive eventualmente da adottare. Il Ministro del turismo Hisham Zaazou ha comunicato che l’esame
comincerà con gli aeroporti della capitale e di Sharm El-Sheikh. E’ evidente la preoccupazione delle autorità di
creare le condizioni per la ripresa dei collegamenti internazionali da e per i resort del Sinai, che le compagnie
occidentali hanno sospeso dopo che erano emersi fondati riscontri sul coinvolgimento dello Stato Islamico nel
disastro aereo verificatosi nel Sinai il 31 ottobre 2015. Secondo le autorità britanniche e russe, l’aereo diretto da
Sharm El-Sheikh a San Pietroburgo, con a bordo 224 passeggeri e membri dell’equipaggio, è precipitato per
l’esplosione di un ordigno portato a bordo aggirando i controlli o con la complicità dello staff aeroportuale. Il
capo della Federazione Egiziana delle Camere del Turismo ha quantificato in 30 milioni di dollari le perdite
subite sinora solo dagli hotel e dai tour operator di Sharm El-Sheikh a causa della sospensione dei voli dal
Regno Unito e dalla Russia.
Fonti utilizzate: Ahramonline, Daily News Egypt, Jeune Afrique
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SIRIA
Sommario
Il 18 dicembre, il Consiglio di Sicurezza
delle Nazioni Unite ha approvato,
all’unanimità, una risoluzione sulla Siria
(la prima da quando è scoppiato il conflitto
armato, nel marzo 2011). Il documento
contiene una road-map che prevede l’avvio
di negoziati già nel mese di gennaio, la
formazione di un governo transitorio di
unità nazionale entro la metà del 2016 ed
elezioni libere e trasparenti, entro 18 mesi.
Resta ancora da definire il ruolo che potrà
ricoprire il presidente Bashar al-Assad, ma
la sua presenza nel nuovo governo appare
sempre più probabile.
Un altro punto ancora da chiarire riguarda
i gruppi di opposizione che prenderanno
parte ai negoziati: uno studio pubblicato
dal Centre for Religion & Geopolitics ha
fatto luce sulla larga diffusione
dell’ideologia salafita (alla quale aderisce anche lo Stato Islamico) tra le formazioni che combattono il regime di Assad.
Il 17 dicembre, un nuovo presunto raid israeliano a Damasco ha provocato la morte di un esponente di spicco di Hezbollah.
L’ONU approva una risoluzione sul processo di pace in Siria
Il Consiglio di Sicurezza approva la risoluzione sulla Siria. Fonte: Nazioni Unite.
Il 18 dicembre, il Consiglio di
Sicurezza delle Nazioni Unite ha
approvato, all’unanimità, una
risoluzione sul processo di pace
siriano. L’accordo prevede che a
gennaio vengano formalmente
avviati negoziati tra il governo e
i gruppi di opposizione, e che
venga contestualmente siglata
una tregua tra le parti, che
escluderà, tuttavia, lo Stato
Islamico (Islamic State - IS) e gli
altri gruppi jihadisti come
Jabhat
al-Nusra
(JaN),
formazioni contro le quali si
concentrerà lo sforzo bellico di
Russia, Stati Uniti e degli altri
Stati impegnati militarmente nel
Paese. Entro la metà del 2016, è
prevista la creazione di un
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governo transitorio di unità nazionale, che assicuri una “governance inclusiva e unitaria” e che porti la Siria
alle elezioni entro la metà del 2017. Il 18 gennaio, il Segretario Generale delle Nazioni Unite Ban Ki-moon
esporrà in una relazione le possibili modalità di monitoraggio di un eventuale accordo per il cessate il fuoco. Al
momento, l’ipotesi dello schieramento di un contingente di terra in grado di garantire il rispetto di una tregua
nazionale appare di difficile realizzazione, considerata l’estrema precarietà del quadro di sicurezza siriano e le
notevoli capacità belliche dell’IS, di JaN e di altri gruppi radicali che potrebbero decidere di non aderire a un
eventuale cessate il fuoco.
La risoluzione non contiene alcuna indicazione circa il futuro del Presidente Bashar al-Assad, tra le principali
ragioni dei contrasti tra le parti coinvolte nei negoziati. A questo proposito, tuttavia, si registra una progressiva
convergenza di vedute tra Stati Uniti e Russia. Sebbene l’Amministrazione americana abbia ribadito
l’illegittimità della posizione di Assad, ritenuto incapace di unificare il Paese, il Segretario di Stato John Kerry
ha aggiunto che continuare a chiederne l’immediata uscita di scena serve solo a “prolungare la guerra”.
Pertanto, gli USA e i loro alleati appaiono oggi disposti ad accettare la partecipazione del capo di Stato siriano
al governo di transizione. Al contrario, sebbene Mosca continui a dichiarare pubblicamente il suo fermo
sostegno ad Assad, essa ha aperto alla possibilità di individuare una figura (interna al regime, ma la cui
immagine sia meno compromessa dalle violenze degli ultimi anni), in grado di succedergli al potere. Tale
posizione sarebbe stata adottata anche dall’Iran, in seguito all’incontro svoltosi, lo scorso 23 novembre, a
Teheran, tra Vladimir Putin e l’Ayatollah Khamenei.
La risoluzione del Consiglio di Sicurezza è stata accolta con scetticismo dalle forze di opposizione: la Coalizione
Nazionale, gruppo che ha i propri uffici a Istanbul, ha definito il piano siglato il 17 dicembre “irrealistico” e ha
chiesto l’interruzione delle operazioni militari russe come precondizione per qualsiasi accordo.
Analisi dei gruppi di opposizione
I gruppi armati salafiti presenti in Siria. Fonte: Centre on Religion & Geopolitics.
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Oltre al ruolo di Bashar al-Assad, tra i principali ostacoli per i negoziati vi è l’individuazione stessa dei gruppi
di opposizione che potranno prendervi parte.
A questo proposito, il 21 dicembre, il Centre on Religion & Geopolitics (CGR) ha pubblicato un documento di
analisi sull’appartenenza ideologica e gli obiettivi delle principali formazioni che combattono contro il governo
siriano. Secondo i risultati di tale studio, oltre all’IS (che potrebbe disporre di 31.000 militanti), circa una
quindicina di formazioni (per un totale di 65.000 militanti) aderirebbe all’ideologia salafita (che legittima l’uso
della forza armata per favorire il ritorno all’Islam delle origini, quello praticato da Maometto e dai suoi primi
seguaci). Per il 90% dei gruppi analizzati, il principale scopo della lotta armata è il rovesciamento del regime di
Bashar al-Assad, mentre solo il 38% si prepone come obiettivo la sconfitta dello Stato Islamico. Secondo tale
studio, l’inerzia della comunità internazionale ha contribuito in maniera significativa alla radicalizzazione delle
forze di opposizione (molte milizie sono state create in seguito alla mancata reazione degli Stati Uniti e dei loro
alleati al presunto utilizzo di armi chimiche da parte delle autorità siriane, nell’agosto 2013).
Ucciso un leader di Hezbollah in un presunto raid israeliano
Il 19 dicembre, Samir Qantar, esponente di spicco di Hezbollah, è stato ucciso in un presunto raid israeliano,
nell’area di Jaramana, a Damasco. Arrestato per aver preso parte a un attacco in Israele nel 1979, Qantar era
stato rilasciato nel 2008, in uno scambio di prigionieri con Hezbollah. Secondo quanto dichiarato dal Ministro
della Giustizia israeliano, Ayelet Shaked, Qantar aveva il ruolo di coordinatore delle attività clandestine del
gruppo libanese nelle Alture del Golan, altopiano prospiciente il nord-est di Israele. Sebbene le autorità
israeliane abbiano smentito il loro coinvolgimento (come avvenuto in occasione di altri raid compiuti in passato
contro membri, depositi di armi e munizioni e altre installazioni di Hezbollah), esse hanno dichiarato di
attendersi una “reazione limitata” da parte del gruppo libanese, considerato il suo impegno (in termini di risorse
umane e belliche) sul teatro siriano.
Fonti utilizzate: Syrian Arab News Agency; Syrian Observatory for Human Rights; Syria Deeply; al-Arabiya; alJazeera; Centre for Religion & Geopolitics; Reuters; New York Times; Nazioni Unite.
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IRAQ
Sommario
I combattenti curdi iracheni (Peshmerga) hanno respinto, grazie al supporto della coalizione militare a guida statunitense,
un’offensiva dello Stato Islamico nel nord del
Paese. Si è trattato della più importante
operazione condotta dalle milizie jihadiste negli
ultimi cinque mesi. Tuttavia, pur mettendo in
luce la resilienza dell’IS, essa non ha prodotto
risultati apprezzabili.
Il 17 dicembre, gli Stati Uniti hanno
annunciato nuovi aiuti militari per i Peshmerga
che parteciperanno alle operazioni per liberare
Mosul. Tale decisione evidenzia la volontà di
Washington di preservare la sua influenza nella
regione, ma potrebbe favorire un ulteriore
aumento delle tensioni tra le comunità araba e
curda.
Il 16 dicembre, il Consiglio dei Rappresentanti
ha approvato una nuova legge di bilancio per
2016, che prevede un aumento degli
stanziamenti per le milizie sciite, per la Regione
Autonoma del Kurdistan e per i governatori
meridionali (ove è concentrata la produzione di petrolio).
Offensiva dello Stato Islamico nel nord e nell’ovest dell’Iraq
Nel periodo compreso tra il 15 e il 21 dicembre, le milizie dello Stato Islamico (Islamic State - IS) hanno lanciato
una serie di attacchi nel nord e nell’ovest dell’Iraq. In particolare, il 16 dicembre, un’offensiva dell’IS nei pressi
di Mosul è riuscita ad aprire temporaneamente una breccia nelle linee dei Peshmerga, prima di essere respinta
dai raid aerei della coalizione militare a guida statunitense (le operazioni aeree sono durate 17 ore e hanno
provocato la morte di circa 180 militanti). Secondo quanto dichiarato da fonti del Pentagono, si sarebbe trattato
della più significativa operazione militare condotta dall’IS negli ultimi cinque mesi. Il giorno successivo, un
triplice attacco suicida ha preso di mira un postazione dei Peshmerga nei pressi di Tel Afar (nel governatorato
di Ninive), provocando almeno sei vittime. Tra il 15 e il 17 dicembre, due attacchi con autobomba e sei attentati
suicidi sarebbero stati sventati dai Peshmerga nei pressi di Sinjar, località sottratta al controllo dell’IS lo scorso
13 novembre. Altri attentati delle milizie jihadiste sono stati sventati dalle Unità sciite di Mobilitazione Popolare
(UMP) e dalle Forze di Sicurezza irachene nei governatorati di Salah ad-Din e in quello di al-Anbar, ove sono
in corso le operazioni per liberare la città di Ramadi, conquistata dall’IS a maggio 2015.
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Nuovi aiuti militari ai Peshmerga dagli Stati Uniti
Il 17 dicembre, il Segretario statunitense alla
Difesa, Ashton Carter, ha annunciato che gli USA
forniranno armi, veicoli ed attrezzature per due
brigate (in totale, circa 5.000 uomini) dei
Peshmerga
curdi
iracheni
(contano,
complessivamente, 35.000 combattenti), che
parteciperanno alle operazioni per liberare Mosul
dalle milizie dell’IS. L’equipaggiamento sarebbe
stato già trasferito in Kuwait alcuni mesi or sono,
ma il Pentagono avrebbe inizialmente posto come
condizione per la sua consegna l’integrazione
delle unità curde dei due principali gruppi
politici locali: il Partito Democratico del
Kurdistan (di cui fa parte il Presidente de facto
della Regione Autonoma del Kurdistan, Masoud
Barzani) e l’Unione Patriottica del Kurdistan.
Sebbene ciò non sia avvenuto, mezzi e materiali
verranno, in ogni caso, consegnati entro alcune
settimane. La maggiore flessibilità mostrata da
Washington potrebbe celare la volontà di
Stretta di mano tra Ashton Carter e Masoud Barzani. Fonte:
Rudaw.
contrastare la crescente influenza esercitata
sull’Iraq da Iran e Russia. Il 15 dicembre, Mosca
ha consegnato un centinaio di carri armati e veicoli corazzati alle Forze irachene; altri duecento verranno forniti
a Baghdad nei prossimi mesi. Grazie alle pressioni esercitate direttamente o indirettamente (attraverso le milizie
sciite) da Teheran sul governo iracheno, la Russia è divenuto un attore sempre più influente dal punto di vista
politico e militare, come evidenziato dalla creazione, a fine settembre, di un centro di coordinamento per lo
scambio di intelligence relativa alla lotta contro lo Stato Islamico, che ha sede proprio a Baghdad e di cui fanno
parte anche Iran e Siria. Al contrario, l’influenza di Washington appare indebolita: il 16 dicembre, il Primo
Ministro iracheno Haydar al-Abadi ha rifiutato la proposta americana di incrementare il supporto militare alle
truppe impegnate nelle operazioni per liberare Ramadi. L’annuncio della Turchia della creazione di una propria
base militare in Qatar e la formazione, da parte dell’Arabia Saudita, di una coalizione anti-Stato Islamico che
comprende 34 paesi potrebbero evidenziare il tentativo di alcuni degli alleati chiave degli USA di prepararsi al
forte ridimensionamento dell’influenza americana nella regione. In quest’ottica, pertanto, il rafforzamento
dell’alleanza con le autorità curde servirebbe agli USA proprio ad evitare tale scenario.
Anche l’annuncio del governo italiano del prossimo invio di un contingente di 450 soldati per difendere la diga
di Mosul da eventuali offensive dello Stato Islamico ha suscitato il disappunto di alcuni esponenti dell’esecutivo
iracheno, ma non quello degli attori più vicini a Teheran. Il contingente fornirà protezione al personale della
Società Trevi, che si è aggiudicata un appalto per i lavori del bacino sul fiume Tigri, ma non sarà inquadrato
nella missione ‘Inherent Resolve’.
Relativamente alla presenza di truppe straniere, occorre sottolineare il ritiro della maggior parte dei soldati e
dei mezzi corazzati turchi precedentemente schierati presso la base di Bashiqa (a poche decine di chilometri da
Mosul). La decisione è giunta in seguito alle insistenti pressioni della comunità internazionale e alle proteste
del governo iracheno e di alcuni settori della popolazione.
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Approvata una legge di bilancio per il 2016
Il 16 dicembre, il Consiglio dei Rappresentanti (parlamento) ha approvato una nuova legge di bilancio per il
2016, dopo le aspre critiche mosse alle disposizioni contenute nella precedente formulazione del budget. Essa è
il frutto di difficili compromessi tra il governo, costretto a far fronte alle difficoltà derivanti dal calo del prezzo
del petrolio, i partiti e le amministrazioni locali. Tra le principali novità della legge, vi sono: maggiori fondi per
le Unità di Mobilitazione Popolare; il ripristino del 17% come quota destinata al Governo Regionale del
Kurdistan in cambio della gestione centralizzata di tutte le esportazioni di risorse energetiche (essa era stata
ridotta al 12% nella precedente formulazione); l’assegnazione alle amministrazioni dei governatorati
meridionali di 5 dollari per ogni barile di petrolio estratto in loco (secondo le autorità di Bassora, veniva in
precedenza corrisposto solo un dollaro).
Fonti utilizzate: Iraqi News; Rudaw; Shafaq News; Reuters; Iraqi News; Hurriyet; Anadolu Agency; Iraq Trade Link
News Agency; Iraq-Business News; al-Jazeera; CNN.
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