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INTRODUZIONE……………………………………………………….……. p. 6
I.
IL PROBLEMA DEI POTERI MAGICI……………………………………. p. 11
• La storia di Quesalid
• La Cerimonia del fuoco
• La decadenza dell’arte dello stregone
• Il viaggio iniziatico dello sciamano
• Un Cristo magico
• Il dramma magico
II.
LA REALTA’ INVISIBILE………………………..……………………..…. p. 28
• La realtà
• L’invisibile
• Il piano del ngwel
• Il mana
• Da categoria incosciente delle mente a categoria del pensiero collettivo
III.
4
LA PERDITA DELL’ANIMA……………………………………….………. p. 43
• La teoria frazeriana della magia
• La perdita dell’anima
• Orrore sacro
• Tanatomania: rapporti tra la psicologia e la sociologia
• Fenomeni di suggestione nel sonno e nella veglia
• Vedere se stessi come uno scheletro
IV.
IL DOPPIO INVISIBILE……..………………………………………..……..p. 60
• Lo spirito auditore
• L’efficacia terapeutica: contributi di etnopsichiatria
• L’efficacia simbolica
• La teoria cuna delle anime
• Nia Ikala (il Canto del demone)
CONCLUSIONI…………………………………………………….…….….p. 78
BIBLIOGRAFIA……………………………………………………….…..…p. 81
Los pueblo del camino de la locura.
Canto chamanistico de la traditión cuna…….………………….…….…..p. 85
5
INTRODUZIONE
L’argomento di questa dissertazione è emerso dagli incontri, fortuiti e
felici, con amici che in qualche modo e per motivi diversi hanno sentito il
bisogno, nel corso della loro vita, di avvicinarsi ad un luogo lontano e di
approfondire la loro conoscenza sulle popolazioni e sulle culture che ne
fanno parte.
Dal racconto appassionato ed emozionante delle loro esperienze, in
Africa e in Amazzonia, ho potuto raccogliere i frutti che mi hanno permesso
di individuare le differenze e le analogie che intercorrono tra i popoli
indigeni e me stessa, sia da un punto di vista personale ed interiore, sia in
riferimento alle mie pratiche relative all’arte performativa e interattiva.
Vorrei precisare questo punto, in quanto le mie sensazioni intime e le
mie pulsioni, derivanti dall’immaginario che si è a poco a poco delineato
nella mia mente nei confronti di quei luoghi e di quelle culture, sono
molecolarmente interconnesse con le mie idee creative e con la volontà di
esprimerle sul piano astratto dell’arte multimediale.
Sono perfettamente d’accordo con il giudizio secondo cui un artista
debba ritenere necessario il motivo delle proprie produzioni e dei propri
progetti, che devono essere realizzati partendo dalla dimensione
propriamente etica, quale condizione fondamentale dello scaturirsi
dell’idea che li feconda e da cui essi prendono forma.
Prima di poter dare una opinione che indichi la direzione di un nuovo
sguardo sul mondo, l’artista deve porsi una domanda essenziale: quali
sono i desideri della gente e per quale via l’arte può rispondere a tali
6
aspettative? Non solo, l’artista deve essere, in questo senso, prima che un
creatore di bellezza, un sociologo, uno psicologo ma, soprattutto, un mago.
In questi due anni si è cercato di dare corpo ad un aspetto del reale che,
in una certa misura, prescinde dallo stesso concetto di realtà: si tratta
dell’invisibile.
Questo
termine
fa
riferimento
alla
definizione
che
l’archeologia comparata dà di “archeologia della bellezza”, la quale si situa
nella trama di una verità poetica che vuole distinguersi dalla verità
scientifica dell’archeologia tradizionale e naturalistica.
Al di là della stratigrafia geologica esiste infatti una stratigrafia poetica,
cristallizzata nei gesti che l’uomo compie da milioni di anni in relazione al
territorio e che sono entrati a far parte dell’immaginario collettivo.
L’invisibile è definito come la rappresentazione di un’idea, un’astrazione
di antica bellezza che custodiamo dentro di noi e che ci permette di
sognare.
L’invisibile è, in definitiva, un dato latente di realtà che non ha mai
raggiunto la superficie del linguaggio e che è rimasto allo stato di
sensazione e di percezione extrasensoriale; esso non risponde allo
schema
comunicativo
emittente–ricevente
poiché,
nell’ambito
dell’esperienza, non tutto può essere comunicabile attraverso un
messaggio con “ricevuta di ritorno”, e non tutto può avere un segno
corrispettivo del proprio significato.
Quest’ultimo aspetto apre gli orizzonti dell’efficacia simbolica, della
manipolazione dei segni, dell’evocazione della formula, “giacché solo la
storia della funzione simbolica potrebbe permettere di render conto di
quella condizione intellettuale dell’uomo, che è che l’universo non significa
mai abbastanza e che il pensiero dispone sempre di troppi significati per la
quantità di oggetti a cui può applicarli ”1.
Sulle orme dell’invisibile, quale categoria di realtà sommersa e
stratificata, si sono dipanate le due tematiche fondanti di questo percorso
biennale: il Jet-lag e il Deja vu.
1
C. Lévi-Strauss, Antropologia strutturale , 2002, Net, Milano, p. 207.
7
Entrambe si inquadrano nella ricerca di un’alterità spazio-temporale e di
una sfaldatura tra queste due forme dell’intuizione sensibile, che possano
mettere in luce una componente drammatica del vissuto e dare vita,
attraverso la poesia, a nuovi sistemi di riferimento.
In questa prospettiva, si compie l’abbandono del “punto di vista” a
favore del “punto di vita”: poiché l’uomo non è più al centro del mondo
come dominatore, ma si trova immerso in una condizione fortemente
destabilizzata dall’accelerazione storica e mediatica, egli non è più in
grado di capire e di plasmare la realtà che lo circonda in base alle sue
necessità, bensì ha il compito di cercare una logica che gli permetta di
comprendere e di comprendersi, per ritrovare la propria intimità territoriale
e per orientarsi.
In questo stato di continua ricerca del vero, il perdersi nel caos diviene
la condizione fondamentale dell’esistenza nella società contemporanea, e
la piena e consapevole accettazione di questa sfida da parte dell’uomo nei
confronti del mondo è l’unica via possibile per ritrovarsi.
Il progetto di tesi che verrà svolto, sia nell’aspetto teorico che in quello
pratico, si congiunge inevitabilmente con le linee di questa ricerca e con i
lavori che l’hanno preceduto, in particolar modo con White noise, in cui
sono già state gettate le basi del parallelismo tra antropologia e psicologia,
mettendo in sincronia il rituale terapeutico degli sciamani cuna e l’affezione
psicopatologica del deja vu.
Questo lavoro sarà nel complesso incentrato sul rapporto tra corpo e
linguaggio, in riferimento alle connessioni che si innescano fra lo
sciamanismo e le pratiche rituali di guarigione, e i meccanismi che entrano
in gioco con i dispositivi di interfaccia dell’arte performativa-interattiva.
8
Nello specifico di questo scritto, si cercherà di analizzare la figura dello
sciamano nel contesto della realtà magica in cui è integrato, la quale
sopravvive in certi luoghi e presiede alle tradizioni di certi gruppi indigeni,
ponendo speciale attenzione alle società sciamaniche amerindie di cui i
Cuna fanno parte.
In primo luogo, verrà presentato il problema della veridicità dei poteri
magici, sia dal punto di vista dell’osservatore occidentale, nel caso
concreto della Cerimonia del fuoco, sia come giudizio critico intrinseco allo
sciamanismo stesso. Si andrà dunque ad analizzare il ruolo dello
sciamano all’interno dell’universo magico, mettendo in evidenza il dramma
storico del magismo come rischio della non presenza al mondo e il
conseguente riscatto, ad opera dello sciamano, dal pericolo della perdita
del sé e del mondo.
In secondo luogo, partendo dal concetto di “realtà invisibile”, si
definiranno i lineamenti della nozione di mana, sia nei suoi molteplici
significati, a seconda del nome e del potere che gli viene attribuito dai
gruppi indigeni di diverse zone, sia come «categoria del pensiero
collettivo». Si cercherà dunque di svelare quegli aspetti subcoscienti del
reale che entrano in vibrazione con la poetica dell’invisibile, e che
costituiscono lo sfondo sul quale si proiettano le multiformi sfaccettature
dell’immaginario.
In terzo luogo, verrà preso in considerazione il fenomeno, in verità non
poco frequente nelle culture magiche, della perdita dell’anima; tale sarà il
punto di partenza per approfondire i nessi tra psicopatologia, con specifico
riferimento agli studi sull’isteria, e vocazione sciamanica, analizzando, in
quest’ultimo caso, la capacità propria di alcuni sciamani di vedere se stessi
come uno scheletro.
Infine, verrà approfondito il tema della cura e, in particolare, verrà
ripercorso il contenuto del canto rituale della tradizione cuna praticato
proprio nei casi in cui si manifesta la perdita dell’anima, con il successivo
rischio di rimanere vittime della follia. Sarà stabilita la figura dello sciamano
come psicoterapeuta, per cui si cercherà di individuare quegli aspetti della
9
cura con i quali la psicologia e in particolare la psicanalisi hanno, secondo
le concezioni fondamentali dell’etnopsichiatria, un forte debito, non solo a
livello storiografico ma anche sul piano scientifico.
Il progetto pratico consiste nella messa in scena di una performance
interattiva, Alter ego, nella quale sperimenterò in prima persona la ricerca
del mio doppio spirituale.
L’azione performativa della pittura corporale rinvia a due significati: dal
punto di vista visivo, si vuole mettere in luce la capacità che hanno gli
sciamani di trasformarsi per connettersi con il mondo degli spiriti e,
precisamente, con i loro auditori personali; dal punto di vista teorico, il
secondo
significato
si
connette
a
quello
dell’efficacia
simbolica,
dell’evocazione del rito, un orizzonte che scinde la nozione di significante
da quella di significato.
Nell’installazione, verranno utilizzate tre webcam, le quali interagiranno
tra di loro mediante il software Max/msp; lo scopo sarà quello di ottenere
sullo schermo uno sdoppiamento d’immagine.
Inoltre, le webcam saranno disposte a triangolo, una di fronte e due ai
lati opposti rispetto al corpo in movimento, in modo da ottenere che
l’immagine e il suo doppio siano rispettivamente frontale e di profilo.
La mia performance sarà sostanzialmente una danza, ispirata alle
descrizioni del comportamento che lo sciamano assume specialmente
quando imita in modo compulsivo il movimento degli animali: infatti, è
proprio attraverso l’imitazione di questo linguaggio corporeo che lo
sciamano può connettersi con il mondo degli spiriti e fare esperienza con
l’invisibile.
10
IL PROBLEMA DEI POTERI MAGICI
“Devo sapere la verità dietro la magia”.
“Non vi è alcuna verità, dietro la magia”, disse il re.
Il principe era in preda alla tristezza. Disse: “Mi ucciderò”.
Il re, per magia, fece comparire la morte.
Dalla porta, la morte fece un cenno al principe.
Il principe rabbrividì. “Va bene” disse “riesco a sopportarlo”.
“Vedi, figlio mio” disse il re “ adesso anche tu stai diventando un mago”
2
.
La storia di Quesalid
Claude Lévi-Strauss, nel capitolo Lo stregone e la sua magia3, riporta
un documento raccolto da Franz Boas4, un frammento di autobiografia
indigena della regione di Vancouver, in Canada. Si tratta del racconto della
storia di Quesalid, divenuto stregone poiché non credeva alla realtà dei
poteri magici.
Quest’uomo dotato di straordinaria intelligenza e spirito critico, come ci
è dato dedurre dalla sua vicenda, decide di approcciarsi allo sciamanismo
2
J. Fowles, The Magus, cit. in A. Simonicca, Il Ramo d’oro come viaggio dell’identificazione, p. 9,
in “La ricerca folklorica” n° 10.
3
C. Lévi-Strauss, Antropologia strutturale, p. 189.
4
F. Boas, The religion of the Kawkiult, Columbia University Contributions to Anthropology, v. X,
II, New York, 1930, pp. 1-41, cit. in C. Lévi-Strauss, op. cit., p. 197.
11
allo scopo di smascherare il presunto inganno di certi rituali di guarigione
e, in particolare, la tecnica messa a punto da una scuola sciamanistica
della costa occidentale del Pacifico: essa prevede l’uso di un batuffolo che
il praticante nasconde in un angolo della bocca per estrarselo
insanguinato, dopo essersi morso la lingua, al momento della cura e
mostrarlo al malato e agli astanti in guisa di oggetto patologico e causa
della malattia.
Dopo quattro anni di tirocinio presso la scuola sciamanica, Quesalid
viene chiamato dal suo primo cliente e, durante la cura, adotta lo stesso
espediente ottenendo un esito positivo, che però egli attribuisce alle
suggestioni psicologiche scaturite dai sogni del malato.
I suoi dubbi non si risolvono e la convinzione nella falsità insita nella sua
tecnica non vacilla fino a quando egli assiste all’applicazione di un metodo
che si rivela, ai suoi occhi, ancora più fasullo, poiché ad essere sputato
quale oggetto patogeno non è più un batuffolo insanguinato ma una
sostanza invisibile.
La maggiore falsità di una tecnica sciamanica rispetto a un’altra implica
necessariamente una maggiore veridicità dell’una rispetto all’altra, una
sorta di “valore differenziale”5: questa è la conclusione che noi, come del
resto lo stesso Quesalid, traiamo di fronte a questo genere di problema.
Chiamato dai suoi colleghi rivali a partecipare ad una conferenza
segreta, essi gli espongono la loro teoria, secondo la quale “ogni malattia è
un uomo: foruncoli e gonfiori, pruriti e croste, tosse e consunzione…non
appena siamo riusciti a catturare l’anima della malattia, che è un uomo,
muore la malattia, che è un uomo; il suo corpo scompare dentro di noi”6.
Quesalid medesimo afferma inoltre di aver visto solo una volta un vero
sciamano curare i propri malati con “suzione”, poiché la sua tecnica era
poco ingannevole ed egli non si faceva pagare.
La suzione è concepita come un’operazione di carattere magicoreligioso
5
6
e
l’oggetto
patogeno
che
viene
estratto
è
di
ordine
C. Lévi-Strauss, op. cit., p. 199.
Ibidem, pp. 199-200.
12
sovrannaturale, proiettato invisibilmente nel corpo del malato da un
demone o dallo spirito di un morto; esso non è che la manifestazione
sensibile di un “male” che non è di questo mondo7.
Ecco dunque che anche colui che ha provato, con successo, ad
insinuarsi nelle viscere dello sciamanismo, per minarlo dal suo interno e
farlo saltare, non è riuscito a scardinare fino in fondo le radici di una
credenza le cui origini si perdono nella notte dei tempi.
Uno sciamano possiede sovente buone conoscenze in ambito medico e
scientifico, ad esempio dei principi delle sostanze contenute in certe piante
o nei minerali, per cui può curare un malato applicando anche questo tipo
di tecniche sperimentali. Gli stregoni, come gli alchimisti, sono stati infatti i
primi avvelenatori, i primi chirurghi ed è noto che i maghi hanno fatto
anche delle vere e proprie scoperte nel campo della metallurgia8.
Ma questo aspetto legato alla conoscenza sperimentale è valido e ha
successo solo quando la malattia ha una caratteristica specifica e una
precisa causa, quando, cioè, essa può essere tranquillamente curata
senza che venga richiesto l’intervento di una qualche forza sovrannaturale.
Quando la patologia è invece di carattere psicosomatico e non si riesce
ad accertarne la diagnosi, lo sciamano deve compiere l’atto per mezzo del
quale entri in convegno con qualche spirito auditore e vada, grazie all’aiuto
di quest’ultimo, a ricercare la radice del malessere che affligge il paziente.
È in quest’ordine di eventi, che riguarda la sfera del sovrannaturale e
dello spirituale, che si deposita la credenza da parte del gruppo
nell’efficacia terapeutica della cura sciamanistica.
Si narra che i primi sciamani della storia volassero realmente sulle
nuvole con i loro cavalli e operassero ogni sorta di miracolo. Secondo
testimonianze raccolte da varie tradizioni sciamaniche9, nei tempi antichi
gli sciamani traevano il loro utcha (diritto divino sciamanico) direttamente
7
M. Eliade, Lo sciamanismo e le tecniche dell’estasi, 2005, Edizioni Mediterranee, Roma, p. 357
M. Mauss, Teoria generale della magia, 2000, Einaudi, Torino, p. 76.
9
L. Sternberg, Divine Election in primitive religions, “Congresso internazionale degli
Americanisti, resoconto della XXI sessione, seconda parte, tenuta a Goteborg nel 1924, Goteborg,
1925, p. 472-512, p. 474 sgg., cit. in M. Eliade, op. cit , p. 89.
8
13
dagli spiriti celesti e la maggioranza dei miti sull’origine degli sciamani fa
intervenire
direttamente
l’Essere
Supremo,
incarnato
nella
figura
dell’Aquila, simbolo dell’uccello solare.
In particolare, la tradizione dei popoli siberiani mette in relazione l’Aquila
con gli Alberi Sacri, tra cui la betulla e, secondo Mircea Eliade, è probabile
che questa immagine mitica riproduca un prototipo paleo-orientale10.
È certo che, ancora oggi, il carattere ornitomorfo del tipico costume
sciamanico e le penne d’aquila usate come copricapo sia in certe zone
dell’Asia settentrionale che, come è noto, tra gli Indiani d’America, rinviino
al complesso simbolismo, facente parte di un tempo mitico, cristallizzato
intorno ad un essere divino e all’idea di un Volo magico verso il Centro del
mondo.
La Cerimonia del fuoco
Ernesto De Martino, nel capitolo Il problema dei poteri magici11, trascrive
numerose testimonianze di viaggiatori, etnologi e missionari, per lo più
occidentali, che hanno assistito con i loro occhi alle pratiche sciamaniche
di popolazioni sparse per il globo. Egli afferma che “i documenti etnologici
non si limitano a fatti relativi a presunti poteri paragnomici, ma accennano
più di una volta a strani poteri fisici che sembrano cioè esercitarsi sulla
materia o sospendere le leggi naturali conosciute”12.
Nell’ambito dei poteri paragnomici, o paranormali, rientrano i fenomeni
della
telepatia
e
della
chiaroveggenza,
che
gli sciamani usano
abitualmente e che considerano una cosa ordinaria.
In uno stato di particolare concentrazione, lo sciamano può infatti
comunicare a distanza con altri sciamani o persone comuni, soprattutto
10
M. Eliade, op. cit , p. 92.
E. De Martino, Il mondo magico. Prolegomeni a una storia del magismo, 1973, Bollati
Boringhieri, Torino, p. 9.
12
E. De Martino, op. cit , p. 16.
11
14
quando si tratta di inviare un messaggio urgente o quando la persona che
deve riceverlo è molto lontana. Per lo Shirokogoroff “lo sciamano adopera
metodi speciali per intensificare le sue capacità percettive e il suo pensiero
rappresentativo, o anche per intensificare l’intuizione. Questi metodi sono:
lettura del pensiero, comunicazione a distanza, direzione autosuggestiva
dei sogni ed estasi”13.
Diventa interessante, a questo punto, aprire una breve parentesi sulle
cause e gli effetti che derivano da questo tipo di attività, in relazione alle
capacità energetiche dell’uomo al tempo dei grandi sciamani e a quelle
tecnologiche dell’uomo contemporaneo. Non mi è possibile infatti non
ricollegare queste pratiche telepatiche con le esperienze di comunicazione
a distanza sviluppate nell’ambito della Realtà Virtuale, soprattutto in quelle
di tipo immersivo: basti confrontare il significato della definizione di RV
come “realtà oggettivamente condivisibile, disponibile per l’umanità dopo il
mondo fisico”14 con quella di telepatia (nel caso dei Tungusi) quale
“elemento che si esteriorizza in forma di sostanza immateriale – anima – e
che comunica con l’anima delle altre persone15, per rendersi conto di come
l’uomo abbia da sempre cercato di trasgredire i limiti del reale allo scopo di
estendere le proprie facoltà cognitive.
Tornando alla citazione di De Martino in riferimento ai poteri “fisici”,
vengono
riportate
diverse
descrizioni
inerenti
alla
Cerimonia
dell’attraversamento del fuoco.
Questo rito prevede che venga scavata una fossa, di dimensioni e
profondità variabili a seconda del grado di difficoltà dell’esibizione, la quale
viene pavimentata e recintata con delle pietre raccolte dagli indigeni. Essa
viene poi cosparsa di rami e foglie secche e accesa fino a raggiungere una
certa temperatura.
13
S. M. Shirokogoroff, The Psychomental Complex of the Tungus, 1935, Shangai – London, p. 117
sgg., cit in E. De Martino, op. cit , p. 11.
14
J. Lanier, citato da S. Ditela, Inside Artificial Reality, PC Computing, novembre 1989, p. 97, cit.
in D. De Kerckhove, Realtà virtuale e processi cognitivi collettivi, in P. L. Capucci (1993), p. 172.
15
S. M. Shirokogoroff, The psychomental Complex, cit in E. De Martino, op. cit , p. 11.
15
T. M. Ocken, nella sua relazione tratta dalla propria osservazione
diretta, sostiene che “il braciere era circolare, con un diametro di
venticinque o trenta piedi; la sua maggiore profondità era di circa otto
piedi, la sua forma complessiva quella di una sottocoppa con i lati obliqui e
il fondo piatto, quest’ultimo essendo riempito di pietre roventi. Presso i
margini del braciere e dal lato in direzione dove spirava il vento, il
termometro segnò 114°”16.
Dopo questi preparativi, che possono durare anche alcuni giorni, gli
eletti compiono l’attraversamento. Essi sono adornati da foglie e fiori di
ibisco, pennacchi e fibre vegetali; anche intorno alle loro caviglie vengono
legate ghirlande composte da foglie di vario genere.
Procedono dunque verso l’interno della fornace, camminando con
sicurezza e senza fretta, secondo il parere dell’Ocken, percorrendo lo
spazio trasversalmente e poi circolarmente seguendone il perimetro e,
infine, uscendo dallo stesso punto da cui sono entrati.
Al termine della cerimonia, lo studioso ha chiesto di poter esaminare i
partecipanti e ha potuto così constatare che sia i loro piedi che le varie
corone di fronde erano completamente intatti, freschi e senza bruciature.
Solo un numero limitato di persone ha, secondo gli indigeni, il potere di
padroneggiare il fuoco e di uscire indenni dalla fornace autonomamente;
gli altri partecipanti devono necessariamente essere tenuti per mano da
una delle guide e mai voltarsi indietro durante il percorso.
W. E. Gudegon, nel suo resoconto su questo tipo di cerimonia, afferma:
“Io effettuai indenne il passaggio e solo uno della comitiva fu gravemente
scottato; tuttavia, fu accertato che egli si era voltato a guardare indietro,
una cosa contro tutte le regole” 17.
In generale, si ritiene che le caratteristiche di pratiche magico-religiose
che sono comunemente riscontrabili in tradizioni più lontane tra loro siano
per questo le più arcaiche e le più vicine a quel tempo mitico di cui si è
16
T. M. Ocken, An Account of the Fiji Fire-Ceremony, in “Transaction of the New Zealand
Institute”, XXXI, 1898, cit. in E. De Martino, op. cit , p. 19.
17
W. E. Gudegon, The Umi-Ti, or Fire-Walking Ceremony, in “The Journal of the Polynesian
Society”, VIII, 1899, cit. in E. De Martino, op. cit , p. 20.
16
accennato, mentre altre tecniche siano state aggiunte in seguito a contatti
e scambi tra le diverse culture.
Il nostro esempio riportato riguardo alla Cerimonia del fuoco delle Isole
Fiji si verifica in molti altri luoghi (Asia, Africa, America del Sud) e, in
complesso, il simbolismo legato al Calore mistico, insito negli strati più
arcaici della magia, avvalla l’ipotesi secondo cui lo sciamano abbia, un
tempo, superato la condizione umana trascendendo in quella di spirito.
La decadenza dell’arte dello stregone
Come ha sostenuto il Gusinde a proposito dei Selk’nam, l’arte dello
stregone mostra profonde tracce di decadenza: “i miei informatori mi
hanno espresso nel modo più netto la loro convinzione che gli stregoni di
un tempo sarebbero stati in generale più abili e capaci nelle manifestazioni
della loro arte”18.
I maghi stessi di diverse popolazioni indigene sostengono che i loro
antenati erano molto più potenti e potenzialmente pericolosi di quelli attuali
e che le loro pratiche miracolose e stupefacenti sono oggi giudicate
impossibili da riprodurre.
Nel caso della Cerimonia del fuoco, secondo i vecchi capi maori, se un
tempo la cerimonia poteva essere eseguita dai loro antenati, attualmente
essa rappresenta solo un motivo di esibizionismo da parte degli indigeni
nei confronti dei turisti, un simulacro spettacolare del rituale, senza nessun
valore sacro e senza nessun pericolo per i partecipanti.
Anche tra i Tungusi delle renne della Transbaicalia l’arte dello stregone
è ormai in declino e gli sciamani hanno un potere molto inferiore rispetto
18
M. Gusinde, Die Feuerland Indianer, I: Die Selk’nam, 1931, Modling bei Wien, p. 726 sgg., cit.
in E. De Martino, op. cit., p. 148.
17
agli antenati poiché, loro stessi sostengono, se prima erano pochi e
potenti, ora sono molti ma scarsi19.
Questo eclissarsi del potere sciamanico si verifica perché, mentre gli
antichi sciamani ebbero contatti diretti col Sovrannaturale e ricevettero le
loro capacità paragnomiche senza intermediari, gli sciamani “moderni”
hanno derivato il loro potere dagli antenati sciamani e sono stati proprio
questi ultimi ad effettuare l’elezione dei successori e a trasmettere il
messaggio mistico ereditato dall’Essere supremo. Il fatto poi che questo
messaggio venga tramandato attraverso una lunga catena di antenati
comporta inevitabilmente una certa distorsione del significato originale e
anche la sua potenza diviene, di volta in volta, sempre più effimera.
Tale decadimento sia della forza che dell’originalità delle pratiche
sciamaniche (come, ad esempio, la telepatia, la capacità di trasformarsi in
un animale, l’autoscopia, e tutte le altre tecniche che conducono ai diversi
tipi di viaggio estatico) investe non solo il contesto ambientale di queste
popolazioni primitive, ormai irreversibilmente intaccate dall’europeismo e
dagli effetti del cristianesimo, ma anche un aspetto più interiore, legato alla
condizione mentale e psichica dei praticanti così come degli astanti del
rituale.
Se infatti sembra non essere più possibile rinvenire una certa originalità
delle pratiche nelle società sciamaniche, non lo è altresì e in misura
maggiore in tradizioni che hanno caratterizzato società molto più vicine alla
nostra, sia temporalmente che geograficamente.
Mi riferisco in particolare al problema sollevato a tal riguardo nel corso di
un ciclo di conferenze sul tarantismo, tenutosi a Perugia lo scorso agosto,
al quale hanno partecipato, tra gli altri, Gianfranco Mingozzi e Luigi Di
Gianni, autori di straordinari documentari sulla Taranta e su altre antiche
forme folkloriche del Sud Italia.
Loro stessi hanno sostenuto che, se all’epoca in cui fecero le riprese,
nei primi anni Sessanta, era ancora possibile assistere a rituali magico19
S. M. Shirocogoroff, The Psychomental Complex, p. 391 sg., cit. in E. De Martino, op. cit , p.
148.
18
religiosi “autentici”, ora certe feste popolari derivanti da quella tradizione,
come la Pizzica, non sono, secondo il parere del Mingozzi, che un
“fenomeno esploso”, cioè un simulacro spettacolare per i turisti che
assistono a quel genere di feste e che esorcizza il significato originario
della Taranta.
Credo sia opportuno tenere in considerazione i molteplici aspetti del
mondo magico per costruire il discorso anche da un punto di vista
trasculturale, e per rendersi conto della vastità e dell’importanza storica
che il Rituale come categoria sottende.
Il viaggio iniziatico dello sciamano
Se maghi e fenomeni paragnomici si incontrano un po’ ovunque nel
mondo, il fenomeno proprio dello sciamanismo implica caratteri specifici
che ben si distinguono dalle altre forme della magia: lo sciamanismo
corrisponde, in sostanza, al viaggio estatico dello sciamano e alle tecniche
esercitate per realizzarlo.
L’acquisto dei poteri magici da parte dello sciamano inizia con un vero e
proprio viaggio iniziatico. Esso può palesarsi sotto tre diversi aspetti:
1) quello di una rivelazione, cioè può manifestarsi in sogno, durante una
malattia, oppure ancora attraverso un accidente insolito;
2) quello di un atto volontario, in cui il neofita si crea una situazione di
totale isolamento e persegue, attraverso lunghi digiuni o sostanze
allucinogene, il proprio percorso fino al raggiungimento dell’estasi;
3) quello di un carattere ereditario, per cui il mestiere dello sciamano si
tramanda di padre in figlio.
Mircea Eliade, prendendo in esame i metodi di reclutamento degli
sciamani delle tribù siberiane e centro-asiatiche, conclude sostenendo la
coesistenza
dello
sciamanismo
ereditario
con
uno
sciamanismo
determinato direttamente dagli spiriti, e la frequenza di fenomeni patologici
19
che accompagnano la manifestazione spontanea o la trasmissione
ereditaria della vocazione sciamanica20.
Riportiamo
qui
alcuni
esempi,
tratti
dalle
esperienze
raccolte
direttamente dalla parola degli indigeni, che ritraggono rispettivamente le
tre diverse forme di iniziazione.
Rasmussen riferisce la storia di Uvavnuk, la quale era diventata
sciamana nel modo seguente: “in una sera particolarmente buia, illune,
Uvavnuk era uscita dalla capanna per soddisfare un bisogno. D’improvviso
apparve nel cielo una palla incandescente di fuoco e, prima che ella
potesse fuggire, la colpì ed entrò in lei. Nello stesso momento sentì che
tutto in lei si illuminava e perse la conoscenza. Ma, da quel momento, ella
diventò una grande sciamana. Lo spirito della meteora era entrato in lei,
trasformandola in una grande sciamana. Questo spirito lo aveva visto
appena prima di perdere i sensi. Aveva due specie di corpi che fendevano
fiammeggiando lo spazio: da un lato era un orso, dall’altro un essere simile
all’uomo: la testa era quella di un uomo con i denti di un orso(…). Nulla vi
era di nascosto in lei ora, ed ella prese a svelare tutte le colpe che erano
state commesse da quelli della casa. Poi li purificò tutti” 21.
Nel viaggio celeste dello sciamano caribe22, vediamo invece come i
neofiti si ritirino in isolamento e seguano un durissimo periodo di tirocinio,
durante il quale praticano un digiuno quasi assoluto e prendono a
masticare continuamente foglie di tabacco, a fumarle e a farcirsi il corpo
con infusi e clisteri. Di notte, compiono canti e danze estenuanti che, uniti
alla fame e all’intossicazione, provocano la perdita della conoscenza.
Métraux descrive così la loro prima esperienza estatica: essi incontrano
un indiano che è uno spirito benigno. “Vieni discepolo, tu andrai in cielo per
mezzo della scala del Grande Padre Avvoltoio. Non è lontano –. Il
discepolo si arrampica su una specie di scala girevole e raggiunge il primo
piano del cielo ove attraversa villaggi di indiani e città abitate da bianchi.
20
M. Eliade, op. cit , p. 39.
K. Rasmussen, Intellectual culture of Iglulik Eskimos, “Report of the 5th Thule Expedition 192124”, VII, n° I, Kopenhagen 1929, p. 122-123, cit. in E. De Martino, op. cit , p. 56.
22
M. Eliade, op. cit , p. 150.
21
20
Poi il discepolo incontra lo Spirito delle Acque, che è una donna di grande
bellezza, la quale lo induce ad immergersi insieme a lei nel fiume e là essa
gli comunica incantesimi e formule magiche. L’allievo e la sua guida
raggiungono l’altra sponda del fiume e il Bivio della Vita e della Morte. Il
futuro sciamano può scegliere di andare nel Paese-senza-sera o nel
Paese-senza-alba. Lo spirito che lo accompagna gli rivela allora il destino
delle anime dopo la morte. Il candidato viene bruscamente ricondotto in
terra da una viva sensazione di dolore; il maestro ha applicato sulla sua
pelle il maraqué, una specie di stuoia negli interstizi della quale sono state
messe delle grosse formiche velenose”23.
Anche gli sciamani dukun del Minangkabau di Sumatra si istruiscono in
solitudine in cima a una montagna: qui apprendono il modo di rendersi
invisibili e imparano a vedere le anime dei morti24.
Passando a considerare il potere sciamanico trasmesso per via
ereditaria, prendiamo in considerazione il popolo degli Anula, in cui è stata
riscontrata la presenza di un vero e proprio clan totemico: il Clan delle
Stelle filanti25, legato in particolar modo agli spiriti malevoli che vivono in
cielo.
Ora, è da considerare che probabilmente a venire tramandato non sia il
potere puro, il mana, di cui si è parlato a proposito della rivelazione, ma le
misteriose tecniche sciamaniche che sono state sperimentate in quella
determinata tradizione. Alcuni sciamani credono che l’acquisto dei poteri
che si ha attraverso la rivelazione, onirica o accidentale, sia appannaggio
di sciamani molto più potenti che non quello ottenuto per eredità.
Inoltre, l’acquisto della virtù magica da parte degli appartenenti allo
stesso clan è una condizione necessaria ma non sufficiente: anche in
23
A. Métraux, Religioni e miti magici degli Indiani d’America meridionale, 1971, Il Saggiatore,
Milano, p. 208-209.
24
E. M. Loeb, Sumatra: Its History and People (in R. von Heinegeldern, The Archaeology and Art
of Sumatra, Wien 1935, p. 125, cit. in M Eliade, op. cit , p. 108.
25
H. Hubert, M. Mauss, Le origini dei poteri magici, p. 137 sgg., in E. Durkheim, H. Hubert, M.
Mauss, L’origine dei poteri magici, 1977 e 1991, Bollati Boringhieri, Torino.
21
questo caso, solo certe anime particolarmente dotate, dei temperamenti di
sognatori, dei visionari a tendenza isterica, possono essere scelti26.
Come sostengono Mauss e Hubert, “è probabile che, oltre alla nascita,
ci sia una rivelazione necessaria, ma che questa rivelazione non possa
essere fatta che a degli individui, uomini o donne, del clan Yuntamarra, i
soli capaci di avere relazioni con gli spiriti”27.
Molti altri sono gli esempi riportati in tutti questi testi di straordinaria
intensità e importanza storica; questi esempi, come li vogliamo chiamare,
costituiscono documenti di enorme valore, e non solo dal punto di vista
etnografico e antropologico.
Al di là della grandiosa suggestione che possono trasmetterci per il loro
carattere
fascinatorio,
trattandosi
di
argomenti
che
riguardano
il
Sovrannaturale in una prospettiva, come dire, esotica e ricca di particolari
che ci rimandano ai miti di origine e a un tempo arcano, questi racconti ci
possono aprire un varco verso un allargamento della consapevolezza di
ciò che siamo, sia da un punto di vista storiografico, sia individuale.
Un Cristo magico
Le società primitive di tradizione sciamanica attribuiscono a una élite di
uomini una sorta di potere misterioso, a cui si dà generalmente il nome di
mana.
Quello del mana è un concetto molto importante e di una certa
complessità, perciò verrà, per questa ragione, approfondito nel capitolo
seguente. Per ora ci basterà definirlo secondo una doppia nozione, la
quale viene riportata da Mauss e Hubert nel loro saggio Sull’origine dei
poteri magici: da un lato quella di potere magico puro – la vita
26
W. Thalbitzer, Les Magiciens esquimaux, leurs conceptions du monde, de l’âme et de la vie, in
« Journal de la Société des Amérianistes », N.S., v. 22, 1930, pp. 77, cit. in M. Eliade, op. cit., p.
79-80.
27
H. Hubert, M. Mauss, op. cit., p. 175.
22
particolarmente intensa del mago – e dall’altro quella delle sostanze
magiche – le pietre in cui si concentrano le forze dell’arcobaleno28 .
Questo
potere,
è
bene
chiarirlo
ulteriormente,
non
consiste
semplicemente in una qualità superiore di un dato individuo con capacità
cognitive o intellettive più sviluppate rispetto a un altro; d’altra parte, non si
può nemmeno ripiombare nell’ottusità di certi studi etnologici che, in tempi
ormai remoti, si limitavano a valutare i fenomeni paranormali come
fenomeno di “ignoranza” e di superstizione, attribuibile ai popoli “primitivi” e
quindi privi di cultura.
Va da sé che non si può spiegare la possibilità di un potere
sovrannaturale con le leggi della scienza sperimentale. Ciò sarebbe
riduttivo per il fatto che ci troveremmo su due piani differenti, se non
contraddittori; poiché da un lato abbiamo il nostro concetto di realtà,
basato su un universo dato e assolutamente governabile in modo razionale
dall’uomo che si trova al suo centro, dall’altro siamo nella sfera degli affetti
e delle intenzioni umane, di una realtà in divenire, sospesa e fluttuante,
ancora sul punto di darsi.
In questa realtà magica, lo sciamano si configura, rubando la bellissima
definizione di De Martino, come un “Cristo magico”29: una sorta di eroe che
ha saputo portarsi alle soglie del caos ed entrare in rapporto col rischio
della propria angosciosa labilità, per plasmare il disordine psichico
insorgente e per trovare, in questa rischiosa avventura, se stesso in
rapporto con gli spiriti. In questo modo, egli non solo salva la propria vita e,
soprattutto, la propria anima ma, con lui, tutta la comunità viene riscattata
dal comune rischio della non presenza al mondo.
Lo sciamano non è dunque semplicemente un malato, uno psicopatico,
un isterico; è colui che ha compiuto un viaggio verso il centro della follia e
ha saputo sovvertirla dall’interno, facendosi carico della responsabilità del
suo dramma e ritornando con un messaggio, divino, da trasmettere a tutta
la comunità. Egli è, si può dire, uno psicopompo, ed è per questo che può,
28
29
H. Hubert, M. Mauss, op. cit., p. 173.
E. De Martino, op. cit., p. 98.
23
effettivamente, curare e guarire un altro individuo dal suo proprio dramma
personale.
Il dramma magico
Il fatto che lo sciamano si trovi in una posizione di labilità psichica,
poiché nel suo viaggio si spinge verso un “oltre” che lo fa decadere dal
proprio piano storico, dalla realtà quotidiana e “normale”, è altresì la
condizione necessaria che gli permette di raggiungere lo stato di trance e
di entrare in rapporto con gli spiriti.
Il canto, il tambureggiamento e, in generale, la monotonia acustica e
ottica di certe tecniche che consentono la concentrazione dello sciamano e
lo mettono in condizione di entrare in trance sono il corrispettivo di un
affievolirsi della sua presenza nel mondo reale, a favore di una situazione
autoipnotica, simile a quella onirica.
Al fine di dissociare la propria presenza dal mondo circostante, non solo
lo sciamano, ma anche il mondo stesso può andare in dissoluzione e
oscurarsi; è per questo che lo egli sente spesso il bisogno di mettersi alla
ricerca delle tenebre, scovando luoghi lugubri, come le caverne, e di
praticare i propri riti di notte, assecondando in questo modo anche il
commercio con gli spiriti.
La dissoluzione della coscienza come presenza si attua nella
maggioranza dei casi mediante l’attività onirica: qui non solo lo sciamano,
ma ogni individuo entra in un altro stato rispetto al reale e, soprattutto nel
mondo dove sopravvive il magismo, il confine tra sogno e realtà si fa
sempre più labile.
Ad esempio, quando un indigeno sogna che un tale di un villaggio vicino
ha commesso un’infrazione a suo danno, il giorno dopo si recherà nella
sua abitazione e lo accuserà fino a farlo confessare; oppure, se in sogno
24
gli appare un suo parente lontano, egli lo aspetterà e si preparerà ad
accoglierlo per il suo imminente arrivo.
Accade anche spesso che si richieda l’aiuto di uno sciamano per un
fatto avvenuto in sogno, come nel caso di una malattia o di una catastrofe
ambientale; oppure, come vedremo analizzando il rituale terapeutico,
quando si sogna di essere posseduti da uno spirito malvagio o dallo spirito
di un morto.
La figura dello sciamano è dunque di fondamentale importanza per le
società indigene, in quanto egli è il solo capace di ricostituire la giusta
armonia tra l’uomo e il mondo, e di entrare in contatto con quelle stesse
forze che minacciano l’esistenza, allo scopo di creare un rapporto di muto
scambio tra lui e loro e tra loro e il gruppo.
Si vedrà nei canti che andremo ad analizzare come lo sciamano usi
chiamare per nome ogni singolo spirito che incontra lungo il suo percorso
estatico, in modo da identificarlo e dunque poterlo padroneggiare. È nota
infatti la credenza di molte società orali che il nome di un essere (naturale
o sovrannaturale) esprima la sua identità più intima, ed è per questo che
esso va il più possibile mantenuto segreto o nascosto, per evitare di
cadere sotto l’influenza di chi lo conosce e, pronunciandolo, può
soggiogarlo.
L’esperienza che lo sciamano fa con l’ignoto corrisponde dunque
all’altro polo del dramma magico, quello del riscatto della presenza –
propria e di tutto il gruppo – dal rischio della dissoluzione e
dell’annientamento.
È chiaro come da sempre l’uomo nutra un sentimento di angoscia e di
paura nei confronti di quello che non riesce a comprendere e a decifrare; in
generale, è in situazioni di crisi, o quando cominciano ad apparire
accadimenti insoliti, che si manifesta il pericolo della messa in discussione
della presenza e si sente il bisogno di ristabilire un certo ordine degli
eventi: questo è ciò che accade nel mondo magico e che ne costituisce
l’essenza del dramma.
25
Ma il pericolo che l’orizzonte entri in crisi è un fatto che può verificarsi in
ogni esistenza poiché, in situazioni particolari di forte sofferenza e
privazione, anche un esserci pienamente affermato e radicato nella sfera
del reale può non resistere a tale tensione e cedere all’instabilità.
Il ciclo panico-depressione, per dirla con Franco Berardi, ciclo a cui
siamo continuamente indotti dal vortice della nostra società occidentale
contemporanea, è il segno palese di destabilizzazione dell’io che viene
risucchiato dal magma dell’infosfera. Tutto, ad un certo punto, può
rimescolarsi ed essere messo in causa, anche quando ogni cosa
sembrava essere garantita, poiché la nostra presenza al mondo è un bene
storico e, in quanto tale, perfettamente revocabile.
Tornando al mondo magico, l’esperienza mistica di Uvavnuk, la presa di
coscienza di Quesalid, il viaggio psichico dello sciamano caribe, sono tutte
storie che incarnano la possibilità di un cangiamento organico del nostro
proprio essere, anzi, del nostro esserci. Queste vicende umane ci
inducono
a
riconoscere
un
certo
grado
di
imprevedibilità,
di
incommensurabilità nelle nostre esistenze, sciogliendo, forse, le catene di
quel senso di destino e di predeterminazione a cui siamo ancora
culturalmente troppo legati.
Concludo inevitabilmente con le stesse parole di Ernesto De Martino,
uno dei primi che ha avuto il coraggio di scoprire il velo e di mostrare, nella
comprensione del dramma storico del mondo magico, il nostro stesso
dramma esistenziale: “noi siamo prigionieri di una limitazione culturale per
cui la presenza circoscritta è avvertita come peccato: ma nel mondo
magico proprio, una presenza circoscritta è la salvezza e il peccato
magico, la malignità, consiste nella rischiosa caduta dei limiti… l’esserci si
configura allora per quello che è effettivamente, come bene culturale che si
è fatto attraverso lotte e pericoli, sconfitte, compromessi, vittorie e, infine,
come decisione e come scelta che ancor oggi vivono in ogni nostra
decisione e in ogni nostra scelta”30.
30
E. De Martino, op. cit., p. 161.
26
LA REALTA’ INVISIBILE
Abbiamo accennato nel capitolo precedente alla nozione di mana,
individuandone in poche frasi il significato, quale “potere misterioso” che gli
indigeni attribuiscono a un gruppo di pochi eletti.
Di questo concetto si è occupato in modo esaustivo Marcel Mauss nel
saggio Teoria Generale della magia, prendendo in considerazione i popoli
della Melanesia, in riferimento agli studi del missionario Codrington inerenti
a questa civiltà.
Per Codrington, dice Mauss, il mana è un’idea che si estende
“all’insieme dei riti magici e religiosi, all’insieme degli spiriti magici e
religiosi, alla totalità delle persone e delle cose che intervengono nella
totalità dei riti”31.
Essendo parte di una realtà magica arcaica, il mana ha un equivalente
in altri luoghi e in altre tradizioni, dove viene chiamato in modo diverso ma
che serve a designare lo stesso contenuto semantico, che noi possiamo
cercare di definire con il nome di “realtà invisibile”.
31
R. H. Codrington , The Melanesians, 1871, cit. in M. Mauss, Teoria generale della magia, 2000,
Einaudi, Torino, p. 110.
27
La realtà
Ancora una volta ci troviamo di fronte al concetto di “realtà”, e risulta
chiaro come l’aggettivo “invisibile”, posto a fianco di questo termine, possa
costituire un ossimoro.
Preoccupiamoci per adesso di dare una definizione del concetto di
realtà, provando a riconsiderare quelle che sono le basi fondanti del
pensiero moderno, cioè ripercorrendo, sommariamente, il giudizio di coloro
che hanno applicato il loro acuto intelletto nel tentativo di dare un senso
all’uomo in rapporto con l’Universo e con Dio: Leibniz, Hume e Kant.
Ho scelto questi tre filosofi in particolare, oltre al fatto che sono senza
dubbio i mostri sacri della filosofia moderna, anche perché essi si
inseriscono rispettivamente in tre correnti che incarnano ad hoc lo spirito
razionalistico che anima la vita dell’uomo occidentale, cioè il Razionalismo,
per l’appunto, l’Empirismo e l’Illuminismo: quest’ultimo in particolare è stato
un puntuale contraltare alla mentalità romantica, visionaria e poetica, di
coloro che hanno osato tradire la Ragione con il Sublime.
Il pensiero di Leibniz si concentra essenzialmente intorno al concetto di
monade: le monadi sono sostanze semplici, centri di forza viva e di energia
pura, che non posseggono parti materiali e che sono dunque indissolubili e
inalterabili nella loro sostanza.
Esse sono manifestazioni del molteplice nell’unità e differiscono le une
dalle altre in base al loro grado di chiarezza; essendo, dal loro particolare
punto di vista, rappresentazioni dell’intero universo, intrattengono tra di
loro un rapporto di perfetta armonia, dettato dal calcolo perfetto di Dio, che
ne ricava necessariamente il migliore dei mondi possibili.
Lo scopo arduo a cui si sforza di giungere Liebniz è, in definitiva, quello
di conciliare scienza e religione; tuttavia, è palese che se l’uomo non è mai
riuscito a dare una dimostrazione del perché della sua esistenza, forse
questi due monoliti concettuali non si possono porre sullo stesso piano
della ragione.
28
Per Hume, il cui pensiero costituisce il naturale “finale di partita” tra
Hobbes e Locke, nonché la conclusione dell’Empirismo classico in
generale, tutto è invece riconducibile all’esperienza umana: tutte le scienze
rinviano all’uomo, ai suoi sentimenti, ai suoi istinti, alle sue capacità
conoscitive e alle sue facoltà. Queste esperienze, che Hume chiama
percezioni (impressioni o idee), cioè tutto ciò che si presenta al nostro
spirito sottoforma di sentimenti o conoscenze, permettono all’uomo di
riferirsi alla natura e a Dio, il quale non è che un prodotto della mente
umana.
Le conclusioni cui perviene Hume sono dunque sostanzialmente
scettiche: poiché tutte le nostre idee si basano solo sulle impressioni,
l’uomo deve smettere di pretendere di aspirare al sapere assoluto e
indiscutibile, e deve anzi prendere coscienza del fatto che i suoi sono
soltanto pregiudizi. Ciò lo induce a considerare la metafisica e la teologia
come idee oscure, fuorvianti, prive di quella veridicità che esse pretendono
di imporre, in quanto si basano unicamente sulle passioni umane.
Questo ragionamento scettico sussume una messa in discussione dei
due principi del giudizio, quello sintetico dell’Empirismo e quello analitico
del Razionalismo, attraverso la critica al concetto di causa. I due giudizi,
per Hume, non funzionano, poiché l’uno non permette di condurre
all’universale partendo dal particolare; viceversa, se pongo l’universo come
causa, non sono in grado di conoscerne gli effetti.
In altre parole, nulla vi è di ragionevole nella religione, così come non si
può risalire dal sentimento religioso a una qualche dimostrazione
dell’esistenza di dio.
Il radicalismo del pensiero di Hume pone le basi dell’Illuminismo, di cui
Kant è forse l’esponente più illustre. È proprio Hume che rappresenta per
lui il risveglio dai sogni dogmatici della metafisica, anche se Kant non
intraprese mai la via dello scetticismo con la stessa intransigenza.
Se la filosofia ha sempre preteso di modellare la conoscenza sugli
oggetti, secondo Kant devono invece essere gli oggetti a modellarsi sulla
conoscenza. È su questo principio fondamentale che si basa il suo
29
discorso sulla Critica della ragione, poiché la filosofia, a differenza della
matematica, procede in modo analitico e non sintetico, risolvendo
progressivamente problemi comuni a tutti gli uomini.
Essendo gli oggetti a plasmarsi sul nostro modo di conoscerli, la
conoscenza del soggetto risulta indipendente dall’oggetto conosciuto, per
cui essa si qualifica come a priori o trascendentale, ma non psicologica,
poiché appartenente comunemente a tutti gli uomini.
Quest’unità trascendentale Kant la individua precisamente nella
concreta attività sintetica del pensiero, che egli definisce “io penso”: l’ “io
penso”, o “appercezione trascendentale”, riunisce in sé tutti i fenomeni
dell’esperienza, secondo le forme dell’intuizione sensibile (spazio e tempo)
e del giudizio o intelletto (categorie e concetti puri). Sono dunque i
fenomeni a garantire l’universalità della conoscenza.
Per Kant la metafisica non è una scienza, poiché anima, mondo e Dio
non sono che delle idee della ragione, cose in sé, che lui definisce
noumeni. Questi ultimi sono il prodotto delle nostre supposizioni mentali ed
esprimono l’insopprimibile esigenza dell’uomo di unificare e di regolare,
sempre secondo un fine, tutti i fenomeni dell’esperienza.
Le dimostrazioni dell’esistenza di Dio non sono quindi che idee illusorie,
e l’anima e la sua immortalità possono configurarsi, di conseguenza, solo
come postulati del giudizio morale. Quest’ultimo si costituisce come un
imperativo categorico, secondo il quale l’uomo, poiché non è un fenomeno
come lo sono gli animali, deve agire solo secondo la sua legge morale, che
è dettata unicamente dal suo senso del dovere. Per questo verso, la
religione non è che un fatto privato, un sentimento interiore soggettivo, che
non aggiunge nulla alla certezza, del tutto autonoma, dell’imperativo
categorico.
30
Dal rapido ed epidermico excursus di questi tre sistemi di pensiero, si
possono trarre alcune conclusioni in riferimento al nostro concetto di
“realtà”: in primo luogo, tutti sostengono l’impossibilità di dimostrare
l’esistenza di un qualche essere divino, in quanto metafisica e teologia non
sono scienze e non dimostrano nulla di ciò che si sforzano di sostenere; in
secondo luogo, l’uomo è il frutto delle sue proprie esperienze, e sente il
bisogno incessante di imporre alle sue impressioni e alle sue pulsioni un
ordine e un giudizio morale, dettati dalle categorie dell’intelletto; in terzo
luogo, l’universo è un sistema assemblato da forze pure, centri di energia
in armonia tra di loro e governate dal calcolo perfetto di dio, l’esistenza del
quale non si può dimostrare, ma che in qualche modo ne fa da garante.
Come ho sostenuto poco sopra, religione e scienza non sono forse mai
riuscite ad accordarsi in modo armonico per il fatto che esse si collocano,
metaforicamente, su due altipiani della mente separati da un abisso. Esse
pretendono infatti di dare all’uomo una risposta sul motivo della propria
esistenza e una soluzione che garantisca un perfetto equilibrio tra l’uomo e
il mondo, partendo da presupposti diversi e inconciliabili tra loro.
Il punto è che entrambe cercano una risposta sull’uomo all’interno
dell’uomo; per cui è l’uomo che, in verità, si identifica con l’universo e con
dio. Infatti, quando quest’ultimo nella Genesi sostiene di avere creato
l’uomo “a sua immagine e somiglianza”, getta luce in realtà sul processo
esattamente opposto, cioè che è l’uomo ad avere inventato dio a sua
propria immagine e somiglianza.
L’universo è sì catalizzatore di centri di energia pura, ma ciò che lo
governa non è necessariamente e in ogni caso fruibile dall’occhio umano,
o dai suoi sensi. Se l’universo è concepito come un agglomerato di
energie, dove per energia si intende propriamente una quantità risultante
dal prodotto della massa per il quadrato della velocità, e ha dunque un suo
proprio ordine e una misura, quello a cui ci si riferisce quando ci si rivolge
a “dio” lo si può cercare di definire, sempre in riferimento alla fisica, con il
termine
entropia,
cioè
quel
“grado
di
mescolanza,
disordine,
31
indifferenziazione, imprevedibilità e casualità delle relazioni tra le
componenti di un aggregato”32.
Come sostiene Bateson, “la scienza, come metodo di percezione –
poiché essa non può pretendere di essere altro che questo – così come
ogni altro metodo di percezione, ha una capacità limitata di raccogliere i
segni esteriori e visibili di ciò che può essere verità”33. In questo senso,
alcuni aspetti del reale si pongono al di là del grado di ordine e di
classificazione insito nei presupposti della scienza e rientrano in quella
dimensione di imprevedibilità e indimostrabilità propria della magia.
L’invisibile
L’invisibile è un’astrazione di antica bellezza, che ognuno custodisce
dentro di sé e che gli permette di sognare. Esso si conserva dentro i gesti,
che vengono ripetuti da sempre e che hanno costruito la trama del nostro
immaginario.
Cercare l’invisibile significa ripercorrere un territorio e rivisualizzare le
tracce che questi gesti hanno lasciato sul suolo; tracce nascoste,
stratificate, ma cariche di energia che da esse non smette mai di
sprigionarsi.
Ad esempio, nella società lobi del nord della Costa d’Avorio, si dà alla
divinazione il compito di mantenere l’equilibrio sociale. Essa, secondo
Marc Augé, “fa intervenire in ogni occasione un insieme di categorie
conosciute da tutti (potenze legate alla terra, spazio socio-religioso del
villaggio…) manifestando così da un lato la solidarietà ontologica e storica
32
33
G. Bateson, Mente e natura, 1984, Adelphi, Milano, “Glossario”, p. 300.
Ibidem., p. 47.
32
dell’individuo e della società, e dall’altro il legame funzionale dell’insieme di
categorie, il cui riconoscimento è necessario per produrre il messaggio”34.
Lo spazio quotidiano in cui si svolge la vita dell’uomo lobi costituisce
dunque una sorta di anagramma pavimentale, in cui sono celati i segni
lasciati dagli abitatori sovrannaturali del suolo, i quali sono in relazione con
il dio-cielo-atmosfera.
Da questi segni i lobi traggono auspici favorevoli o contrari alla loro
sopravvivenza; le tracce lasciate dagli animali o le forme assunte da foglie
o pezzi di legno trasportati dal vento divengono importanti messaggi da
decifrare. Anche la posizione in cui cade l’animale che viene ucciso
durante la caccia fornisce indicazioni circa la sua vera natura e i suoi
legami con il regno dell’al di là.
Cercare l’invisibile significa anche entrare in un edificio in cui centinaia
di anni prima sono state bruciate delle streghe e sentire condensato
nell’aria il grido delle loro anime; significa trovare una trincea in un sentiero
di montagna e vedere, attraverso la fessura nella roccia, l’angoscia di chi
sparava o stava per essere ucciso, o assisteva impotente alla tragica
morte dei suoi compagni.
Significa consentire, significa sintonizzarsi ed essere in ascolto. Solo
così l’invisibile può manifestarsi.
Ma sentire l’invisibile significa soprattutto perdersi. E il sapersi perdere
vuol dire prendere il cammino che conduce alla salvezza, alla verità, alla
quintessenza.
Il perdersi è una sensazione che si verifica non solo e non tanto nei
confronti del reale, ma è qualcosa che accade all’interno di noi stessi; è
entrare in rapporto con l’imprevedibile, è lasciarsi cogliere dall’inaspettato.
Perdersi è anche “la distrazione episodica o cronica da cui siamo affetti
nelle relazioni con l’ambiente che ci circonda”35, poiché in ogni luogo c’è
34
M. Augé, Pouvoirs de vie, pouvoirs de mort, 1977, Flammarion, Paris, p. 59-60, cit in G.
Antongini, T. Spini, L’ellisse catartica. Note sulla divinazione lobi, “La ricerca folklorica” v. 4, p.
8.
35
Franco La Cecla, Perdersi. L’uomo senza ambiente. 1988, Laterza, Bari. p. 3.
33
una piccola parte di noi che rivive nel momento in cui lo andiamo ad
esplorare.
Gli indiani Quechua della zona di Cayambe, in Equador, quando si
perdono nella macchia incontrano uno spirito malvagio, l’Aronshon. Essi
rimangono vittime, per via di questo spirito dei boschi, di un espanto, cioè
di uno spavento: si tratta di un contagio di luoghi che provoca una malattia
dell’anima e del corpo, un sentimento di tristezza e di disagio; ma è anche
una estraneità che si condensa in un’esperienza vissuta e non subita,
l’esperienza di una realtà che si manifesta in quel preciso momento e non
di un dato a priori, preconfezionato ed inconfutabile.
Un altro esempio che ci illustra come il perdersi sia una condizione
ordinaria nelle civiltà magiche è il fenomeno del latah, tipico dei Malesi.
Questa particolare condizione psichica, in cui l’indigeno si trova in
occasione di una forte emozione improvvisa, è legata, secondo il parere di
Sir Hugh Clifford, alla perdita dell’unità della propria persona, che porta il
soggetto ad essere esposto a tutte le suggestioni possibili36.
È stato riferito dal Clifford che, quando una persona latah viene attirata
dal movimento dei rami di un albero scosso dal vento, essa comincia ad
imitare compulsivamente tale oscillazione; in un altro caso, due persone
latah, sorprese da un rumore brusco, entrarono in una condizione di
rispettiva ecocinesia, per cui si misero ad imitare l’uno i gesti dell’altro.
Questi episodi di labilità psichica nei confronti dello stato di realtà ci
riportano al meccanismo di dissoluzione della presenza e al conseguente
riscatto insito nel dramma magico: allora, come abbiamo visto, “il perdersi,
che per gli altri può essere definitivo, si trasforma per il mago in un
momento del processo che conduce alla salvezza”37.
36
H. Clifford, Studies in Brown Humanity, 1898, p. 189, cit. in E. De Martino, Il mondo magico, p.
70.
37
E. De Martino, op.cit., p. 97.
34
Il piano del ngwel
Oltre alla realtà paranormale, in Asia settentrionale, presso i popoli
studiati dal Rasmussen e dal Gusinde, tra cui gli Iglulik e i Selk’nam, esiste
un altro tipo di realtà, la quale si svolge sul piano invisibile del ngwel.
Credo che questo concetto sia perfettamente inscrivibile nel segno di
quella che noi abbiamo definito, con il nostro vocabolario, la “realtà
invisibile”.
Qui non importa tanto la nozione di potere magico e di forze paranormali
che si possono, in definitiva, anche mettere in discussione, se si eliminano
i giudizi a priori o a posteriori inerenti al discorso sul magismo. Qui si attua
una traslazione rispetto al piano di realtà così come noi lo percepiamo: gli
oggetti subiscono una totale trasfigurazione, per cui, come nel racconto
riportatoci dal Rasmussen, il sangue di foca lasciato a gelare è il sangue
versato dallo sciamano nella lotta contro lo spirito malvagio; così come,
potremmo dire noi, lo scricchiolio della porta che si produce senza che
nessuno la tocchi è il gesto abitudinario dello spirito di un proprietario che
viveva in quella casa centocinquant’anni prima.
Secondo De Martino, il ngwel costituisce “questa condizione psichica in
cui si avverte la presenza di una realtà invisibile…Questo intrecciarsi del
piano del ngwel del reale con quello più propriamente paranormale sembra
fornire la giustificazione più stupefacente in molte concrete vicende
magiche che altrimenti resterebbero del tutto incomprensibili”38.
Essere sul piano del ngwel significa decadere dal proprio piano storico e
questa decadenza, secondo Jung, può verificarsi quando cominciano ad
entrare in gioco e ad essere riconosciute forme magiche di realtà.
Egli riferisce, in proposito, una sua personale esperienza e afferma:
“quello che per noi era un semplice cumulo di incidenti, per loro (i negri
della foresta di Kabra, nella regione Kitoshi) era il naturale avverarsi di un
38
Ibidem, p. 139.
35
presagio manifestatosi il giorno stesso della nostra partenza, nella
foresta…La sera di quel giorno noi bianchi ci guardammo in faccia ed io
non potei fare a meno di dire al mio amico cacciatore – Mi pare quasi che
tu abbia cominciato molto prima. Ti ricordi quel sogno che mi hai
raccontato poco prima della partenza a Zurigo? – Allora infatti egli aveva
avuto un incubo impressionante. Aveva sognato di essere a caccia in
Africa e di venire assalito da un gigantesco mamba”39
È interessante, a questo punto, accostare il discorso di Jung con lo
scetticismo di Hume, visto che quest’ultimo è uno scienziato e l’altro un
filosofo. Qual è dunque il limite che separa il sogno dagli accadimenti del
giorno dopo? E che cos’è che ci fa così tanto difetto nell’aspetto invisibile
della realtà?
Il mana
Se il “perdersi” è l’invisibile, l’“invisibile” è il mana.
È “l’invisibile, il meraviglioso, lo spirituale e, insomma, lo spirito nel quale
risiede ogni efficacia e ogni vita…è il soprannaturale in a way; esso è a un
tempo naturale e soprannaturale”40. È una specie di etere che si diffonde
da se stesso e che investe potenzialmente ogni cosa.
Il mana è insieme un essere, un’azione, una forza, una qualità e uno
stato; è ciò che dà nome alle cose senza nome, è la formula magica e al
contempo ciò che fa sì che essa produca un effetto, è il mago e il suo
potere, il quale agisce sulle cose che sono anch’esse mana.
Se il mana è magia, la magia è mana: solo colui che è dotato di mana,
in un atto mana, che agisce in un ambiente che è mana, può praticare la
magia; poiché la magia è anch’essa una sostanza inqualificabile, una
39
C. G. Jung, Il problema dell’inconscio nella psicologia moderna, 1942, Einaudi, Torino, p. 179
sgg., cit. in De Martino, op. cit., pp. 137-138.
40
M. Mauss, op. cit., p. 113.
36
massa inorganica, vivente e pesante, che viene percepita pur rimanendo
misteriosa.
Ad ogni modo, parlare in astratto del mana, che è una forza concreta e
astratta nello stesso momento, è difficile se non incomprensibile.
Riportiamo dunque alcuni degli esempi che ci spiegano il significato del
mana, nelle diverse visioni date dagli indigeni di vari luoghi.
A Floride, in Melanesia, quando un uomo si ammala si dice che del
mana è entrato dentro di lui e lo possiede. Questo mana appartiene a un
particolare tindalo, cioè un luogo o un oggetto dotati di mana, il quale è in
relazione, da una parte, con un mago e, dall’altra, con una pianta. Il mago
invoca allora il tindalo, esaminando un certo numero di piante e
distinguendo, fra esse, quella dotata di mana e, precisamente, del mana
che è causa della malattia del paziente.
Una volta individuato il fruscio caratteristico che distingue la determinata
pianta, il mago si rivolge al mane kisu, colui che possiede il mana di questo
tindalo e il solo capace di estrarre il mana dal corpo del malato e di
guarirlo. In questo caso il mana, che agisce indipendentemente nel corpo
del malato, nel potere del mago e nelle piante, rappresenta sia la forza del
mago che quella del rito e degli oggetti che vengono in esso utilizzati.
Come abbiamo osservato più di una volta, le componenti più arcaiche
della magia sono quelle che si riscontrano in maniera comune in zone del
pianeta lontane tra di loro. Così è anche per il mana, il quale si riscontra, in
varie forme e con nomi diversi, anche in altre società rispetto a quella
melanesiana.
Ad esempio, presso i Malesi degli Stretti, il mana si identifica con il
nome di kramat, una potenza che investe uomini, cose, piante, animali che
sono kramat e che hanno del kramat. Così, nell’Indocina francese, si dice
che una strega è una persona deng che deng le cose deng ; oppure per i
Dayak neozelandesi i medicine-man porta il nome di manang, cioè colui
che è mana e che possiede mana.
37
Questo concetto, nelle sue varianti, si ritrova anche dall’altra parte
dell’Oceano rispetto alla Polinesia: in America del Nord, in Messico,
addirittura in India, in Cina e anche in Europa, come nel caso della Grecia.
Mauss ritiene che si tratti di una “metempsicosi delle nozioni”41, per cui il
significato di mana si estende comprendendo in sé i diversi aspetti delle
credenze e delle religioni che caratterizzano ogni luogo.
Presso gli Huroni, tuttavia, si riscontra una coincidenza di contenuti tra il
mana melanesiano e la loro parola orenda: essa sta a designare il potere
mistico dello sciamano, nonché l’incantesimo e il rito. Hewitt, hurone di
nascita e illustre etnologo, definisce l’orenda come “un potere o una
potenzialità ipotetica di produrre degli effetti in modo mistico”, poiché “si
dice che tutto ciò che essa impiega è posseduto dall’orenda, agisce per
mezzo di esso e non in virtù di proprietà fisiche. È l’orenda che dà forza
agli incantesimi, amuleti, feticci, talismani, porta fortuna e, volendo, anche
alle medicine”42.
Inoltre, il canto degli animali totemici, che è anch’esso orenda, è
concepito dagli Huroni come principio di causa: “la cicala viene chiamata la
maturatrice di granoturco, perché canta nei giorni di calura ed è il suo
orenda che fa venire il caldo e fa crescere il granoturco; la lepre canta e il
suo orenda ha potere sulla neve, e l’altezza alla quale essa mangia le
foglie del cespuglio determina l’altezza alla quale cadrà la neve”43.
La parola manitu, nel linguaggio degli Algonchini, qualifica anch’essa
una sorta di potere magico appartenente a certi uomini e a certe cose.
Secondo padre Thavenet, di lingua algonchina, “esso significa essere,
sostanza, essere animato, ed è ben certo che in qualche misura ogni
essere che ha un’anima è un manitu. Ma il manitu designa, più in
particolare, ogni essere che non ha ancora un nome comune, che non è
famigliare; una donna diceva di avere paura di una salamandra: era un
41
M. Mauss, op.cit., p. 118.
“American Anthropologist”, n. s., IV, 1902, pp. 32-46, cit. in M. Mauss, op. cit., pp. 115-116.
43
Cit. in M. Mauss, op. cit., p. 116.
42
38
manitu…Le perle dei commercianti sono le scaglie di un manitu e il panno,
questa cosa meravigliosa, è pelle di un manitu”44.
Da categoria incosciente della mente a categoria del pensiero collettivo
Se per De Martino la veridicità dei poteri magici era un fenomeno da
collocarsi solo entro il dramma storico del mondo magico, il quale esprime
la volontà dell’esserci come presenza davanti al rischio della perdita
dell’anima e il consecutivo riscatto ad opera dello sciamano che entra in
rapporto con gli spiriti auditori, secondo Mauss la credenza nella magia è
sempre un fatto a priori : “è il segno più reale e più vivo di quello stato di
inquietudine e di sensibilità sociale in cui ondeggiano tutte le idee vaghe,
tutte le speranze e le paure vane, alle quali dà corpo quanto sussiste
dell’antica categoria di mana”45.
Poiché anche la magia è mana, il mago, in quanto è mago, non è se
stesso. Egli vive solo in funzione del suo potere, che lo possiede, che gli fa
fare gesti e azioni che se non fosse mago non farebbe mai. Questo potere
gli è stato dato, dagli spiriti o dagli antenati, tramite il sogno o attraverso un
lungo cammino iniziatico; ma, soprattutto, questo potere gli è stato dato
dalla società.
Egli è, in un certo senso, indotto a simulare la sua magia, anche se
questa simulazione può essere volontaria o involontaria; in ogni caso, essa
diviene parte dell’inconscio del mago, il quale si autoconvince dell’efficacia
della propria tecnica.
Alla simulazione del mago risponde infatti la credulità degli astanti:
poiché quello che viene percepito dal pubblico è ciò che in realtà rende
efficace il rituale, nella stessa misura in cui un’Ave Maria ripetuta tre volte
ci assolve dai nostri peccati.
44
45
Tesa, Studi del Thavenet, Pisa, 1881, cit. in M. Mauss, op. cit., pp. 116-117.
M. Mauss, op. cit., p. 142.
39
Infatti, come abbiamo visto nel caso di Quesalid, il mago probabilmente
non crede quasi mai alla sua magia; ma la società sì, ed è per questo che
egli sente il bisogno di sciamanizzare, di compiere riti e di fare fatture,
perché gli viene richiesto dalla sua gente. Ed è per lo stesso motivo che
Quesalid difenderà con orgoglio la sua tecnica di fronte ai suoi avversari.
Credo sia in questo senso che Mauss definisca la credenza magica
come un giudizio quasi obbligatorio e a priori, una percezione precedente
ad ogni esperienza: sfuggendo alla presa della psicologia individuale, essa
è atta a generalizzare le illusioni soggettive e a conferire al giudizio magico
un valore assoluto.
In questo modo, egli carica di razionalismo la nozione di mana e
individua la magia (e il mana) come categoria; non solo, essa esiste nella
coscienza degli individui come conseguenza dell’opinione pubblica
sovrana.
“Il mana come categoria incosciente della mente non si trova come già
data nell’intelletto individuale, come le categorie del tempo e dello spazio.
Prova ne è che è stata fortemente ridotta dai progressi della civiltà e che
varia nel suo contenuto. Essa esiste nella coscienza degli individui in
ragione stessa dell’esistenza della società; diremmo volentieri che si tratta
di una categoria del pensiero collettivo”46.
Quello che egli tende a dimostrare è dunque sostanzialmente il
carattere sociale della magia e della nozione di mana, poiché nel giudizio
magico si esprimono le esigenze e i desideri della gente, allo stesso modo
delle idee di giustizia o di valore.
Un rito magico ha verità di esistere solo nella misura in cui viene
esperito; esso non è solo del mago che lo compie, ma è anche del
paziente che lo riceve e degli astanti che lo assistono, i quali, in qualche
modo, contribuiscono con la loro energia a renderlo efficace.
46
Ibidem, p. 121.
40
Ecco che, insieme, mago, paziente e astanti formano già in sé una
società e producono una sintesi collettiva, attribuendo potere a certe
parole ed efficacia a certi gesti.
Sempre come ci riferisce Mauss, “le donne dayak, con la loro danza di
guerra, operano fatalmente, tutte insieme, quella sintesi che è il giudizio
magico e che implica la nozione di mana”47. La loro danza irrefrenabile e
incessante, a cui si dedicano nei periodi durante i quali i loro uomini sono a
caccia o in guerra, auspica la buona riuscita di queste spedizioni e insieme
garantisce la sicurezza dell’intero villaggio. La nota rilevante, almeno dal
nostro punto di vista, è che le donne di questa civiltà sono sottoposte
all’obbligo di danzare; in questo caso, la danza costituisce una regola data
a priori dalla collettività. La danza delle donne dayak non rientra dunque
nell’ambito della comunicazione sociale, o dell’espressività individuale;
essa si costituisce come una vera e propria legge, inopinabile, e
l’infrazione di questa legge provoca necessariamente una pena, poiché
mette in discussione l’integrità del gruppo.
Mauss sintetizza questo atteggiamento con la brillante nozione di
“telepatia attiva”48 e ci spiega che il fatto di danzare, così come di tenere
acceso il fuoco, è il loro modo di essere sul terreno di guerra, o di caccia, e
di collaborare al combattimento in maniera perfettamente efficace: “confusi
nell’impeto della danza, nella febbre della loro agitazione, essi formano
ormai un solo corpo e una sola anima. È solo in quel momento che il corpo
sociale può dirsi veramente realizzato”49.
Il canto e la danza incarnano la forza di un intero gruppo contro le
avversità dell’ignoto, si caricano dunque di potere magico, di efficacia
magica, e danno, in questo senso, pieno sostegno ai guerrieri lontani. Il
corpo in movimento diventa così espressione di un sentire collettivo, sia
da parte degli attori, sia da parte degli astanti, i quali partecipano all’evento
con i loro ritmi cardiaci, con il loro respiro e con il loro calore energetico.
47
Ibidem, p. 139.
Ibidem, p. 136
49
Ibidem.
48
41
LA PERDITA DELL’ANIMA
La teoria frazeriana della magia
Come abbiamo visto nel capitolo precedente, analizzando il concetto di
“realtà” sulla base delle filosofie empiriste e razionaliste, magia e scienza
non sono forse mai riuscite ad sintonizzarsi e a complementare il loro
sapere l’una con l’altra per il fatto che esse non si possono comparare ad
uno stesso metodo di conoscenza.
La veridicità oggettiva che si pone a suggello dei metodi scientifici,
soprattutto dei modelli dati dalle scienze naturali, e la consecutiva
indimostrabilità delle teorie magiche stanno alla base della teoria
frazeriana della magia.
Per Frazer, magia e scienza si pongono sul medesimo stesso piano
cognitivo poiché entrambe rientrano nello stesso processo di modificazione
della realtà da parte dell’uomo. La verità della scienza è concepita come
accumulazione del sapere empirico e come progressivo disvelarsi della
realtà oggettiva: essa viene assunta da Frazer allo scopo di identificare
l’errore della magia, mentre quest’ultima si trova relegata alla funzione di
“residuo” logico e storico della scienza, poiché dimostra di essere falsa e
sterile50
50
F. Dei, Oltre Frazer. Osservazioni sul rapporto magia-scienza, in “La ricerca flolklorica”, v. 10, p. 41.
42
Ad ogni modo, il viaggio mitico che Frazer ripercorre in Il Ramo d’Oro,
nel quale ogni personaggio è soggetto ad un processo di identificazione in
relazione alle figurazioni degli elementi della natura, costituisce una ricca e
seducente ricerca di quella dimensione del rituale che delinea uno “stato
prelogico” ed una mentalità “selvaggia e primitiva”. Secondo quanto egli
scrive, “come spiega i processi della natura inanimata, attribuendoli ad
esseri viventi che operano all’interno o dietro a i fenomeni, così il selvaggio
spiega i fenomeni della vita stessa”51.
Per la mentalità arcaica, egli dice, l’anima è una cosa che sta dentro
all’uomo; è un ometto piccolo che risiede all’interno del corpo e che
potrebbe lasciare la sua dimora da un momento all’altro.
Infatti, lo andremo presto ad analizzare, il pericolo che l’anima possa
fuggire dal corpo rappresenta una vera e propria ossessione per il
selvaggio, poiché ciò significherebbe, per quest’ultimo, andare incontro alla
malattia e alla morte.
È bene e meglio precisare che, quando si usano i termini “primitivo” o
“selvaggio”, oppure altri come “mentalità prelogica” o “società magiche” –
anche se quest’ultima nozione non comprende in sé un pregiudizio
negativo – fuori dalle citazioni bibliografiche, non si sottintende un giudizio
di valore relativo a queste formule espressive. Si spera risulti ormai chiaro
che l’intenzione di questo lavoro è quella di riavviare i nostri sistemi di
riferimento nei confronti del reale, in una direzione che si avvicini a quello
che è stato e che rimane ancora oggi, in certi luoghi remoti, del potere
dell’energia umana: un potere capace di farci trascendere verso una
dimensione di sogno, nonché una forza spirituale e, perché no,
sovrannaturale.
Il Ramo d’Oro, lo ripetiamo, è un viaggio ed un mito. Esso è altresì il
romanzo
della
morte:
costituisce
infatti
un
punto
di
riferimento
fondamentale per la riflessione antropologica contemporanea sulla
51
J. Frazer, Il Ramo d’Oro, 2006, Newton, Roma, p. 216
43
rappresentazione arcaica della morte52, in quanto Frazer è stato uno dei
primi scrittori a concedersi il privilegio di indagare sulla mente umana.
È l’anima che attraversa e ricompone tutte le figure del Ramo d’Oro:
l’anima-mondo è tutto, un tutto che diviene vegetazione, albero, grano,
animale, dio, uomo; e poiché percepire l’intensità dell’esistenza è
impossibile, bisogna raffigurarla, materializzarla, esternalizzarla53. Ed è
questo il continuo processo di identificazione che Frazer mette in opera nel
suo lavoro.
Molte e diverse sono state le critiche che hanno fatto seguito a questo
testo, tacciato di essere un’opera di puro convincimento, basata su
pregiudizi etnocentrici e su principi che la moderna antropologia e lo
strutturalismo hanno sempre cercato di rovesciare.
Se infatti, per Wittgenstein, Frazer si è limitato a non comprendere nulla di
ciò che andava al di fuori dello spirito del suo tempo54 , cioè non è riuscito
a prendere le distanze da quegli schemi razionali e circoscritti dettati
dall’empirismo inglese, per Mauss, il quale pur si è accostato all’opera
frazeriana con l’aggettivo charmant55, “gli è successo troppo spesso,
quando studiava una credenza o una istituzione, di lasciarla all’aria, senza
collegarla al sistema sociale di cui faceva parte”56.
A noi, occidentali contemporanei, risulta ormai ovvio come un sistema di
pensiero come quello empirista possa essere posto in relazione solo con
un tipo di società quale quello dell’Inghilterra dei primi del Novecento, così
come, soprattutto dopo gli eventi del Sessantotto e le conseguenti teorie
52
A. Simonicca, Il Ramo d’Oro come viaggio dell’identificazione, in “La ricerca folklorica”, v. 10,
p. 15.
53
Ibidem, p. 16.
54
L. Wittgenstein, Note su Il ramo d’Oro di Frazer, 1975, Adelphi, Milano, p. 23, cit in. A.
Simonicca, op. cit. p. 9.
55
M. Mauss, Oeuvres, v. I, 1968, Minuit, Paris, p. 149. “A. S.” 10, 1907, Recensione a J. Frazer,
Adonis, Attis, Osiris. Studies in the Hirstory of Oriental religion, London, 1906, cit. in B. Sarasini,
Frazer letto da Marcel Mauss, in “La ricerca folklorica” v. 10, p. 67.
56
1913, J. Frazer, Totemism and Exogamy, 1911, London, in “A. S.” 2; Oeuvres, I, pp. 183-189,
cit. in B. Sarasini, op. cit., p. 68.
44
anticonformiste
formulate
dagli
intellettuali
francesi,
il
metodo
terapeutico della psicanalisi freudiana resti valido solo per i malati che
appartengono a uno status sociale equivalente a quello del Nord Europa.
Non si tiene dunque in considerazione l’apparato critico del Ramo d’Oro
di Frazer, nella misura in cui non si cercherà di dare una classificazione
alle teorie espresse da Freud in Totem e tabù, un altro saggio aborrito
dall’antropologia moderna.
Queste due opere appena citate servono solo a dedurre quell’atmosfera
di misticismo e di irrazionalità umana che stiamo cercano di ricreare,
andando a scoprire, di volta in volta, i misteri celati nella magia e nei suoi
incantesimi.
La perdita dell’anima
Abbiamo accennato poco sopra che, in linea generale, gli indigeni
concepiscono un altro “piccolo uomo” dentro se stessi, al quale noi diamo,
in base alla nostra cultura cristiana, il nome di “anima”.
È interessante a questo punto riportare la storia del Piccolo Aua,
registrata dal Rasmussen e citata in numerose bibliografie.
Il piccolo Aua è uno spiritello che apparve un giorno ad Aua, uno
sciamano eschimese. Quest’ultimo racconta: “il mio primo spirito auditore
fu un mio omonimo, un piccolo Aua. Quando venne da me, fu come se il
passaggio e il tetto della casa si fossero ritirati, e sentivo un tale potere di
visione da essere capace di vedere aldilà della casa, attraverso il mare e
attraverso la terra. Era il piccolo Aua che mi portava tutta questa luminosità
interiore, librandosi su di me tutto il tempo che cantavo”57.
Assistiamo dunque ad una vera e propria personificazione dell’anima:
ad essa si dà un preciso aspetto, che nel caso di Aua è un suo piccolo
omonimo, ma che in altri casi può essere quello di un animale,
57
K. Rasmussen, Intellectual Culture, p. 122, cit. in E. De Martino, Il mondo magico, p. 56-57.
45
specialmente di un animale totemico; oppure, nel caso specifico di uno
sciamano come Aua, quello dello spirito che egli incontra nel momento
della sua vocazione.
Inoltre, si crede generalmente che l’anima possa fuggire dal corpo
passando per gli orifizi; è per questo motivo che i capi di diverse tribù
indigene adottano amuleti o piercing in prossimità delle narici o della
bocca. È di uso corrente anche il fatto che, al momento del parto, venga
avvolta la pancia della gestante con una fascia molto stretta e che
vengano sigillate le uscite della casa, nonché legati i musi degli animali da
cortile per paura che questi possano inghiottire l’anima fuggita.
Per capire quanto sia reale e immanente il rischio magico di perdere
l’anima, riportiamo alcuni esempi raccolti proprio dal Frazer, inerenti alle
pratiche di ritenzione dell’anima di svariati gruppi di indigeni.
Nel Borneo, un turik del fiume Baram rifiutò di separarsi da alcune pietre
a forma di uncino perché, disse, tenevano la sua anima agganciata al
corpo, impedendo così alla sua parte spirituale di distaccarsi dalla sua
parte materiale. Quando uno stregone dayak della costa viene iniziato, si
suppone che le sue dita siano fornite di ami con i quali, d’ora in avanti,
potrà catturare l’anima in procinto di fuggire dal corpo58.
Spesso l’anima viene immaginata anche come un uccello pronto a
spiccare il volo. A Java, sempre come riporta Frazer, quando un bimbo
viene posato per la prima volta al suolo, momento che alle popolazioni
malesi appare molto pericoloso, lo si colloca dentro una stia di polli e la
madre emette un suono chiocciante, come una gallina che richiama i
pulcini59.
Anche il momento del risveglio ha un grado elevato di rischio per
l’anima, in quanto quest’ultima potrebbe rimanere intrappolata all’interno
del
sogno.
In
alcuni
casi,
si
ritiene
che
svegliare
qualcuno
improvvisamente sia una cosa pericolosissima per chi dorme poiché, se
egli in sogno si trova in un luogo lontano in compagnia della sua anima,
58
59
J. Frazer, op. cit., pp. 218
Ibidem, p. 218-219.
46
quando apre gli occhi quest’ultima potrebbe non fare in tempo a tornare e
rimarrebbe dunque a vagare fuori dal corpo e, per di più, in un’altra
dimensione.
Ciò accadde ad un fuegino mukutu il quale, risvegliato improvvisamente
da qualcuno che gli aveva camminato sui piedi, prese ad implorare
angosciato la sua anima di tornare nella sua sede. Egli stava proprio allora
sognando di essere molto lontano, a Tonga, e grande era ora la sua
angoscia di ritrovarsi a Mukutu dopo l’improvviso risveglio. La morte era
sopra di lui, a meno che gli riuscisse di convincere la sua anima di
attraversare in tutta fretta il mare e rianimare la propria dimora
abbandonata60.
Non va dimenticato che, nel mondo magico, quello che succede in
sogno non ha meno rilevanza degli accadimenti allo stato di veglia: ad
esempio, quando un indiano del Brasile o della Giuiana si risveglia da un
sonno profondo, è fermamente convinto che la sua anima sia
effettivamente andata a caccia, a pesca, ad abbattere alberi o a fare
qualsiasi altra cosa lui abbia fatto in sogno, mentre il suo corpo è rimasto
per tutto il tempo placidamente disteso sull’amaca61.
A volte ci sembra infatti che il vero nostro io sia rimasto intrappolato
nella realtà onirica, a volte ancora, in sogno, rimaniamo persuasi da
un’immagine dalla quale, al momento del risveglio e per molto tempo dopo,
non siamo più capaci di liberarci.
Alla luce di questi avvenimenti appena citati, è forse opportuno chiedersi
quale sia il vero significato che noi ora attribuiamo alle nostre proprie
anime, così come quale sia il loro valore e in quale posto esse risiedano,
specialmente in relazione ad una cultura permeata di materialismo, in cui
si dà una spasmodica attenzione al corpo e nessuna risposta alle proprie
paure ed angosce.
60
61
Ibidem, pp. 220-221
Ibidem, p. 219.
47
Orrore sacro
Direttamente collegata al rischio di perdere l’anima è la violazione del
tabù.
Siamo ancora nell’ambito di un potere misterioso, indefinibile,
inqualificabile: esso appartiene indistintamente a cose, persone, luoghi e
animali.
Ci sono persone tabù, nomi, tabù, cibi tabù, parole tabù, atti tabù e
spiriti tabù; poiché esso si estende, al pari del mana, come una materia e
dà una precisa qualità a tutto ciò si cui si deposita.
Secondo quanto sostiene Freud, “persone o cose considerate tabù
possono essere paragonate a oggetti carichi di elettricità; sono sede di un
tremendo potere trasmissibile per contatto che si scatena con effetti funesti
se l’organismo che lo ha suscitato è troppo debole per opporvi resistenza.
La conseguenza della violazione di un tabù dipende sia dall’intensità del
flusso magico insito nell’oggetto o nella persona tabù, sia dalla forza del
mana che ad esso si oppone in colui che viola il tabù”62.
Tabù è un termine polinesiano di difficile interpretazione, poiché esso ha
due significati opposti: se da un lato designa un concetto simile a quello
che noi abbiamo di sacro, dall’altro si riferisce alla sfera del perturbante. In
sintesi, si può attribuire al tabù la definizione di “orrore sacro”63.
Wilhelm Wundt concepisce il tabù come il più antico codice di leggi non
scritte dell’umanità64 e dice che “esso abbraccia tutte le usanze in cui si
esprime l’orrore sacro per determinati oggetti connessi con le idee del culto
o per le azioni che vi si riferiscono”65.
Per Freud, il termine tabù si affianca al concetto del demoniaco – ciò
che non è permesso toccare – , per il comune significato intermedio tra
“sacro” e “impuro”, due aggettivi che in origine designavano la stessa idea,
62
S. Freud, Totem e tabù, in “Opere 1912-1914”, 1975, Bollati Boringhieri, Torino, p. 29.
Freud, op. cit., p. 27.
64
W. Wundt, Völkerpsychologie, v. II, “Mythus und Religion”, 1906, Lipsia, p. 308, cit. in S.
Freud, op. cit., p. 27-28
65
W. Wundt, op cit., p. 237, cit. in S. Freud, op cit., p. 32.
63
48
cioè l’orrore di entrare in contatto con una determinata cosa, e che solo
successivamente sono entrati in antitesi.
Egli sostiene che “la credenza – propria dei tabù delle origini – in una
potenza demoniaca celata nell’oggetto e il cui contatto o impiego illecito
provoca la vendetta sul colpevole mediante incantesimo non è nient’altro
che il timore oggettivato, il quale non si è ancora ramificato nelle due forme
che assumerà in una fase più evoluta: venerazione e orrore”66.
Questa paura del contatto, un timore senza nessuna causa apparente e
indefinibile in altro modo, costituisce il divieto principale della persona tabù.
Connessa alla paura del contatto è la paura del contagio, poiché il tabù,
come abbiamo detto, è una materia che dilaga e che, quindi, si trasferisce
da un oggetto all’altro, da un oggetto a una persona, da una persona
all’altra e così via.
Secondo la legge magica di contiguità, l’essenza di una cosa appartiene
alle sue parti così come al suo tutto; questa legge constata una proprietà
attribuita ugualmente all’anima degli individui e all’essenza delle cose, e
ogni cosa particolare contiene in sé il principio essenziale della specie di
cui fa parte67.
Ad esempio, in magia, l’osso di un morto è una delle cose tabù per
eccellenza, poiché contiene in sé la morte, dunque è la morte. È proprio in
base a questo potere di trasferibilità della materia che gli incantesimi si
attuano in maniera efficace sugli avanzi dei pasti, sugli effetti personali,
sull’acqua nella quale ci si immerge, nonché sulla famiglia dell’affatturato.
Il divieto del contatto connesso alla paura del contagio costituisce anche
una delle caratteristiche fondamentali della nevrosi. Secondo Freud, “al
pari delle proibizioni derivanti dal tabù, i divieti ossessivi comportano
enormi rinunce e restrizioni nella vita di coloro che vi si assoggettano,
anche se parte di esse può essere eliminata seguendo determinate azioni
che pure devono essere compiute e che hanno un carattere coattivo”68.
66
S. Freud, op. cit., p. 34.
M. Mauss, Teoria generale della magia, p. 63.
68
Freud, op.cit., p. 37.
67
49
Queste azioni ossessive, sono considerate, al pari dei rituali cerimoniali,
la contromisura attuata al fine di rimediare al contagio provocato dalla
trasgressione di questi divieti.
Vedremo infatti, nel capitolo seguente, come la cura sciamanica
rappresenti l’antidoto a questi divieti trasgrediti, nonché al terrificante
presagio della perdita dell’anima. Vedremo come lo sciamano adotti
metodi di guarigione che si affiancano alla cura psicoterapeutica e
cercheremo di ristabilire, nel limite del possibile, un comune accordo tra
magia e scienza.
Tanatomania: rapporti tra la psicologia e la sociologia
La tanatomania è lo stato nel quale l’individuo si lascia cadere nel
momento in cui è convinto di essere vittima di un maleficio, a causa della
trasgressione di un divieto.
In questo caso risulta anche molto difficile il compito dello sciamano,
poiché la tanatomania rappresenta spesso un’autocondanna a morte
senza nessuna possibilità di riscatto.
Come sostiene Mauss, “l’individuo che muore non crede o non sa di
essere malato ma crede solo di trovarsi in uno stato prossimo alla morte
per cause precise di natura collettiva69. Questo stato coincide con una
rottura della comunione, causata sia da magia sia da peccato, con le
potenze e le cose sacre la cui presenza normalmente serve a
sostenerlo”70.
Noi sappiamo che un indigeno ha una diversa gerarchia di sofferenza
rispetto a quella di una persona occidentale o civilizzata. Infatti, se per noi
69
In corsivo nel testo.
M. Mauss, Effetto fisico nell’individuo dell’idea di morte suggerita dalla collettività (Australia,
Nuova Zelanda), in Teoria generale della magia, p. 331.
70
50
la malattia è un fenomeno con una precisa causa e una precisa cura71,
anche quando si parla di malattie mentali o di mali di vivere come la
depressione o l’ansia, per gli indigeni la questione è ben diversa.
Infatti, così come noi pensiamo sia normale prendere in considerazione
solo l’effetto della malattia, e chiamiamo anzi quest’ultima col nome
dell’effetto che provoca – emicrania, cirrosi, cancro –,
gli indigeni
concepiscono la malattia in base alla sua causa.
Il loro stato di angoscia e di malessere è uno spirito che si è
impossessato di loro, è l’aver subito un maleficio, è ancora avere violato un
tabù. Così come la morte è la perdita dell’anima.
Il fenomeno della tanatomania pone un problema ulteriore: quando un
indigeno si ammala, per una qualsiasi di queste cause, il suo stato di
malessere viene riconosciuto da tutto il gruppo, il quale può decidere di
aiutarlo, ricorrendo all’aiuto di uno sciamano oppure, in questo caso, di
condannarlo alla morte.
Come ci illustra Lévi-Strauss, “un individuo cosciente di essere oggetto
di un malefizio è intimamente persuaso, dalle più solenni tradizioni del
gruppo, di essere condannato. Da quel momento in poi la comunità si
ritrae…il corpo sociale suggerisce la morte alla sventurata vittima. Ben
presto verranno celebrati riti sacri che la condurranno nel regno delle
ombre. L’integrità fisica non resiste alle dissoluzioni della personalità
sociale”72.
Sono stati riferiti casi di morte tra gli indigeni in cui, dalle analisi del
corpo privo di vita, non è emerso alcun problema specifico. Una persona
muore, nel giro di pochi giorni, senza aver nessuna disfunzione corporale,
nessun sintomo visibile o dimostrabile.
71
Si intende in via generale, non è ora il momento di aprire un’indagine sui metodi di ricerca delle
cause farmaceutiche e sulle proposte dei medicinali in funzione del mercato e delle società a cui il
mercato si rivolge, anche se il problema non è per nulla sorvolabile.
72
C. Lévi-Strauss, Antropologia strutturale, p. 189.
51
Mauss, nel suo saggio sui Rapporti tra la psicologia e la sociologia
73
,
sostiene, in via generale, una comunione di intenti tra gli studi psichiatrici,
in particolare quelli condotti sulla psicosi, e gli studi sociologici sulle
diverse civiltà indigene, con specifico riferimento ai gruppi etnici
dell’arcipelago Australiano.
Questa concezione è in linea con il pensiero di Lévi-Strauss, il quale
afferma che “le soglie di eccitabilità, i limiti di resistenza variano da cultura
a cultura. Lo sforzo irrealizzabile, il dolore intollerabile, il piacere incredibile
sono più che funzioni di particolarità individuali, criteri sanzionati dalla
approvazione o dalla disapprovazione collettive. Ogni tecnica, ogni
comportamento, appreso e trasmesso per tradizione, si basa su talune
sinergie nervose e muscolari, che costituiscono veri e propri sistemi solidali
con tutto un contesto sociologico”74.
Fenomeni di suggestione nel sonno e nella veglia
Abbiamo messo in luce il fatto che Totem e tabù sia un saggio un po’
controverso; del resto, nel complesso dei suoi scritti, si ritrova in Freud, in
una certa misura, un carattere direi piuttosto visionario, che a volte risulta
per un verso anche divertente (mi riferisco a Psicopatologia della vita
quotidiana, nonché ai Motti di spirito).
Di altra sostanza sono gli argomenti trattati da Pierre Janet, il quale ha
curato diversi casi di isteria sperimetando la tecnica dell’ipnosi.
Nel suo saggio sull’Automatismo psicologico75, egli ci descrive situazioni
terapeutiche in cui le suggestioni del sonnambulo agiscono direttamente
73
M. Mauss, Teoria generale della magia, p. 293-326.
C. Lévi-Strauss, Introduzione di Claude Lévi-Strauss all’opera di Marcel Mauss, in M. Mauss,
op. cit., p. 18.
75
P. Janet, L’automatisme psychologique. Essai de psychologie expérimentale sur les formes
inférieures de l’activité humaine, 1889, Alcan, Paris, p. 165 sg, cit in E. De Martino, Il mondo
magico, p. 43-46.
74
52
sul corpo e provocano effetti visibili e simili a quello che abbiamo visto nel
caso della psicologia paranormale.
Egli stesso sostiene che si tratta di fatti alquanto curiosi, molto più
difficilmente spiegabili rispetto alle normali prassi trattate dalle scienze
psicologiche; uno di questi è il fenomeno del senapismo per suggestione.
Come afferma, in riferimento ad un suo paziente, “in alcune ore la pelle si
arrossa al posto designato, si gonfia e appare un vero e proprio senapismo
dal contorno ben netto, la cui traccia persiste per un tempo anche
maggiore del normale. Questo rigonfiamento della pelle è strettamente in
rapporto col pensiero del sonnambulo”76.
In altri casi egli aveva determinato, in fase di sonnambulismo del
malato, la forma precisa che doveva assumere il senapismo: una S, una
stella a sei punte, nonché la posizione sulla superficie del corpo nella
quale esso doveva apparire.
In un caso specifico, egli ci racconta come questa tecnica venne da lui
impiegata a scopo terapeutico: “Rosa, fra i diversi suoi accidenti isterici,
aveva delle emorragie uterine molto prolungate: non potemmo riuscire ad
arrestarle mediante suggestione diretta, proibendole semplicemente di
averne. Essa ci raccontò, durante il sonnambulismo, di avere un’altra volta
arrestato un accidente del genere bevendo una pozione all’ergotina. Le
dissi che ogni due ore avrebbe bevuto una cucchiaiata di quella pozione.
La risvegliai e mi astenei a parlare di quella suggestione. Ogni due ore,
Rosa faceva un’operazione singolare: la sua mano destra si chiudeva
come per impugnare il cucchiaio, portava la mano alla bocca la quale si
apriva, e aveva luogo un rapido movimento di deglutizione. Inutilmente le
si domandava cosa stesse facendo, ella sosteneva di non muoversi affatto.
Il fatto più strano fu l’arresto effettivo dell’emorragia”77.
76
77
Ibidem., p. 44.
Ibidem., p. 45-46.
53
Come afferma un altro illustre medico psichiatra che si è occupato di
casi di isteria in Italia, Giuseppe Seppilli, nel suo saggio sui Fenomeni di
suggestione nel sonno ipnotico e nella veglia78, “l’individuo ipnotizzato
assomiglia a un automa, a un meccanismo vivente, che risponde
ciecamente agli stimoli che riceve dal di fuori e per tale proprietà si
possono provocare su di lui, a volontà dell’esperimentatore, col mezzo di
opportuni eccitamenti diretti sui vari apparecchi di senso, una serie
innumerevole di fenomeni, dai più semplici ai più complessi, in ogni sfera
dell’attività cerebrale, i quali sono stati compresi sotto il nome generico di
suggestioni ipnotiche”79.
Queste osservazioni e i lavori sull’automatismo psichico condotti da
Pierre Janet (1889) sono da porsi strettamente in relazione con le pratiche
esercitate dagli sciamani, sia su se stessi nel momento della trance e del
raggiungimento dell’estasi, sia, come vedremo, nei confronti dei loro
pazienti durante la cura.
A questo proposito, resta di fondamentale importanza il carattere di
complementarietà tra pensiero normale e pensiero patologico rilevato da
Lévi-Strauss, in particolare in riferimento alla cura sciamanica, e che
costituisce forse uno dei punti cardine del suo pensiero antropologico. Egli
afferma che “in tutti questi comportamenti in apparenza aberranti, i malati
non fanno altro che trascrivere uno stato del gruppo e rendere manifesta
questa o quella delle sue costanti. Si potrebbe dunque affermare che, in
ogni società, il rapporto tra comportamenti normali e comportamenti
particolari è complementare. Ciò appare evidente nel caso dello
sciamanismo e della possessione, ma è valido anche per quei
comportamenti che la nostra società si rifiuta di raggruppare e di
legittimare come «vocazioni», abbandonando il compito di realizzare un
78
G. Seppilli, I fenomeni di suggestione nel sonno ipnotico e nella veglia, in “Rivista sperimentale
di freniatria e Medicina legale”, 1885, 11, pp. 325-350.
79
G. Seppilli, op. cit., in S. Ferrari, Psicologia come romanzo. Dalle storie di isteria agli studi
sull’ipnotismo, 1987, Alinea, Firenze, p. 164.
54
equivalente statistico a individui sensibili alle contraddizioni e alle lacune
della struttura sociale”80.
Ricorderemo il fenomeno del latah che abbiamo precedentemente
descritto nel discorso sull’invisibile; possiamo ora forse comprendere
meglio come questi stati “panici” a cui sono soggetti gli individui
appartenenti alle culture indigene possano essere ricondotti agli studi
sull’isteria e di conseguenza, avvallando le tesi di Mauss e di Lévi-Strauss,
stabilire una analogia tra psicopatologia e scienze sociali.
Nell’ambito della magia imitativa, è importante rilevare un altro
fenomeno,
quello
dell’amok,
tipico
delle
culture
neozelandesi
e
polinesiane. Si tratta di una vera e propria corsa omicida-suicida in cui,
colui che si sente vittima di un’offesa e vuole vendicarsi, intraprende una
furiosa marcia uccidendo chiunque si trovi lungo il suo tragico cammino,
fino a quando egli stesso non viene abbattuto.
Come nel caso della tanatomania, assistiamo anche qui al dramma
magico della perdita di sé e del mondo senza alcuna possibilità di riscatto
da questo rischio della non presenza. Tale punto di non ritorno è comune
alle società magiche e alla nostra, civilizzata o addomesticata, nella misura
in cui, di fronte a un disturbo psichico e a uno scompenso emotivo, non
vengono presi in considerazione altri riferimenti al di fuori della malattia
stessa, la quale finisce sempre per identificarsi con il/la paziente e con la
sua personalità profonda.
Vedremo prossimamente come le pressoché recenti indagini condotte
nell’ambito dell’etnopsichiatria si siano impegnate a sovvertire questo
schema terapeutico, cercando di introdurre quel carattere divinatorio e
spirituale, conforme alle culture indigene, nelle loro pratiche curative.
80
C. Lévi-Strauss, Introduzione di Claude Lévi-Strauss all’opera di Marcel Mauss, in M. Mauss,
op. cit., p. 25-26.
55
Vedere se stessi come uno scheletro
Un altro fenomeno che si registra comunemente negli individui isterici e
negli sciamani è l’autoscopia, ovvero la capacità di vedere se stessi come
uno scheletro.
L’autoscopia interna è stata osservata nei soggetti isterici, al pari del
senapismo e di altri fenomeni che si producono durante l’ipnosi. Ad
esempio, una malata riusciva a vedere e a descrivere, durante la fase
ipnotica, “i suoi vasi, il suo cuore, il suo sangue, i suoi polmoni, i suoi
intestini…i suoi muscoli e i suoi tendini, il suo scheletro compreso quello
della faccia e, infine, il cervello” 81.
In un altro caso, una paziente di umili origini è stata in grado di
descrivere perfettamente, in termini clinici, la struttura dei suoi vasi e dei
suoi tendini e il loro corretto funzionamento, pronunciando parole che
probabilmente, in vita sua, non aveva mai sentito prima e concetti di
medicina di cui sicuramente non era a conoscenza.
Questo fenomeno è lo stesso che si produce nelle visioni dello
sciamano durante il suo percorso iniziatico, prima di ricevere la visita dello
spirito auditore.
Secondo quanto ci viene riportato dal Rasmussen, “egli può spogliare il
suo corpo delle carni e del sangue, così che non resti nulla, tranne le ossa.
Egli deve poi esaminare tutte le parti del suo corpo e chiamare per nome
ogni singolo osso: e nel fare questo non deve impiegare la sua lingua
ordinaria ma soltanto il linguaggio sacro dello sciamano, che egli ha
appreso dal suo istruttore. E contemplandosi così spogliato, interamente
libero dalle carni e dal sangue perituri e transeunti, egli si consacra poi, nel
sacro linguaggio degli sciamani, alla sua grande missione attraverso quella
parte del corpo che più a lungo si sottrarrà all’azione del sole, del vento e
dell’acqua”.82
81
E. Osty, La connaissance supernormale, Paris, 1932, p. 22 sgg., cit. in E. De Martino, Il mondo
Magico, p. 55.
82
K. Rasmussen, Intellectual Culture of the Iglulik Eskimos, p. 114 sgg, cit in E. De Martino, op.
cit., p. 55.
56
È importante ricordare che il viaggio iniziatico dello sciamano
corrisponde al meccanismo di morte e resurrezione e comprende al suo
interno, come tappa fondamentale del percorso, la Cerimonia dello
smembramento del corpo.
Essa prevede che tutte le membra vengano separate e che le parti
molli, la carne e gli occhi, vengano raschiate dalle ossa; successivamente
viene ricomposto lo scheletro secondo un nuovo ordine, dettato dalle
potenze sovrannaturali, e le ossa ricoperte di carne fresca e iniettate di
nuovo sangue. È solo a tale condizione che il futuro sciamano acquisterà il
potere di operare delle guarigioni83.
Il motivo della contemplazione del proprio scheletro nelle società
eschimesi, così come la Cerimonia dello smembramento del corpo degli
sciamani siberiani testimoniano, secondo Eliade, la ripetizione periodica
(cioè rinnovata in ogni seduta) della morte e della resurrezione dello
sciamano nelle sue pratiche, a partire dalla sua chiamata e dal viaggio
iniziatico, poiché “l’estasi non è che l’esperienza concreta della morte
rituale”84.
Questa esperienza della morte viene ripetuta ogni volta in cui lo
sciamano, attraverso il raggiungimento dell’estasi, si mette in contatto con
il suo spirito auditore, o ausiliario.
Abbiamo spesso fatto riferimento a questo “personaggio” spirituale, che
rappresenta l’alter ego dello sciamano e che si costituisce come una sorta
di avatar energetico.
Lo spirito ausiliario, come nel caso del Piccolo Aua, è colui che si
manifesta nel momento della vocazione dello sciamano, che lo
accompagna nelle sue sedute e che lo mette in contatto con gli spiriti delle
malattie che affliggono l’anima dei suoi pazienti.
Esso può essere riattualizzato nella figura dell’Angelo custode, poiché
entrambi hanno la stessa funzione di protezione nei confronti dell’anima
dai pericoli di possessione e dalla morte.
83
84
M. Eliade, Lo sciamanismo, p. 56.
M. Eliade, op. cit., p. 117 (in corsivo nel testo).
57
Di questo concetto-chiave ci occuperemo nel capitolo sulla cura, ma
solo in forma descrittiva e strettamente in riferimento al mondo magico e
alle tradizioni sciamaniche nello specifico.
Lascio aperta qualsiasi interpretazione, affidando il discorso alle
suggestioni non verbali della mia video-performance che, spero, possano
istigare in voi la curiosità di compiere un possibile viaggio iniziatico alla
ricerca del vostro purba, ossia del vostro doppio spirituale.
58
IL DOPPIO INVISIBILE
Lo spirito auditore
L’esperienza dell’incontro con lo spirito auditore avveniva, per lo
sciamano, al momento della sua vocazione, la quale, spesso, si
manifestava con un improvviso e inqualificabile stato di malessere e di
apatia.
Proprio come nel caso di Aua, lo sciamano sentiva il bisogno di ritirarsi
in solitudine, poiché percepiva una montante angoscia che lo pervadeva
fino ad indebolirlo completamente: “cercai la solitudine e quivi diventai
molto malinconico. Di quando in quando scoppiavo in lacrime e mi sentivo
infelice senza sapere perché. Poi, per nessuna ragione, tutto si mutava
d’un tratto, e provavo una grande inesplicabile gioia…fu nel mezzo di un
tale accesso di un misterioso e sommergente gaudio che diventai
sciamano. Potevo vedere e sentire in modo completamente diverso”85.
Talvolta, uno sciamano si trovava in preda a incubi notturni talmente
terrificanti da protrarsi in forma di visioni allucinanti anche nelle ore di
veglia; egli intraprendeva così il suo viaggio inziatico, nel quale incontrava
gli spiriti benevoli, che sarebbero divenuti i suoi protettori durante il resto
della sua vita da guaritore.
85
K. Rasmussen, Intellectual culture of the Iglulik Eskimos, p. 122, cit in E. De Martino, Il mondo
magico, p. 56.
59
È un punto decisivo per la nostra indagine sulla terapia sciamanica
quello del rapporto tra lo sciamano ed il suo spirito auditore, poiché se,
come abbiamo visto, lo sciamano è un malato che è stato in grado di
curarsi da sé e di guarire, ciò è stato possibile solo grazie ai convegni con
gli spiriti benevoli che erano in relazione con le cause della sua malattia.
Anzi, saranno proprio questi spiriti a divenire i personali auditori dello
sciamano, che lo proteggeranno dal rischio della perdita della propria
anima e che, soprattutto, lo guideranno verso l’incontro quegli altri spiriti
che determinano le malattie dei suoi pazienti.
Ciò è a conferma di quanto asseriscono Spencer e Gillen, per i quali “la
funzione principale dello stregone è senza dubbio quella di curare gli
indigeni…Le malattie di qualsiasi genere sono senza eccezione attribuite
all’influenza maligna di un nemico, in forma umana o spiritica”86.
In definitiva, sono gli spiriti auditori che danno potere allo sciamano di
guarire le malattie dei suoi pazienti, ed è per questa ragione che lo
sciamano intrattiene rispettivamente con loro (che possono essere uno o
più di uno, a seconda del grado dei suoi poteri) un rapporto simbiotico,
quasi un legame speculare, come un’ombra o un riflesso l’uno dell’altro.
Come sostiene Klaus Müller nel suo saggio sullo Sciamanismo, “il rapporto
tra sciamano e spirito protettore era talmente stretto da assomigliare,
presso alcuni popoli, a quello tra il soggetto e il suo doppio: se lo spirito
protettore teriomorfo veniva ferito da un cacciatore, lo sciamano veniva
colpito da una malattia nello stesso punto del corpo; se l’animale moriva,
moriva anche lo sciamano”87.
Gli spiriti ausiliari possono apparire allo sciamano attraverso diverse
sembianze, a seconda dei luoghi corrispettivi dei diversi gruppi indigeni.
Per un maggior numero di casi, essi si presentano come personificazioni di
un animale, in genere dell’animale totemico a cui il clan fa riferimento o
dell’animale che rappresenta la principale fonte di nutrimento del gruppo.
86
87
Spencer e Gillen, The Arunta, London 1927, II, p. 414 sgg, cit. in E. De Martino, op. cit., p. 104.
K. Müller, Lo sciamanismo. Guaritori, spiriti, rituali, 2001, Bollati Boringhieri, Torino, p. 45.
60
Questi spiriti in forma di animale intrattengono con lo sciamano un
rapporto imitativo, se non addirittura di possessione: la loro presenza si
manifesta infatti con l’imitazione, da parte dello sciamano, dei movimenti e
dei versi dell’animale a cui fa riferimento.
Ad esempio, gli sciamani ciukci, come quelli eschimesi, posseggono la
capacità di trasformarsi in lupi88 e di imitare in modo assolutamente
realistico il verso di questi animali. Non solo, i Ciukci sono dei veri e propri
illusionisti del suono, per la loro straordinaria abilità nell’essere ventriloqui.
Come sostiene Waldemar Bogoraz nel suo lungo capitolo dedicato a
questi sciamani, “i ventriloqui ciukci fanno mostra di grande abilità e
potrebbero sostenere il confronto con i migliori artisti del genere del mondo
civile. «Le voci separate» (cioè le voci degli spiriti auditori dello sciamano)
vengono, a loro richiesta, da tutti i lati della stanza, mutando di luogo con
assoluta illusione da parte degli ascoltatori…Io ascoltai una voce che
voleva essere una eco. Essa ripeteva fedelmente tutti i suoni e le grida
prodotti a nostra scelta in sua presenza, comprese le frasi in inglese o
russo”89.
La capacità di trasformarsi in un animale e di parlare la sua lingua
segreta è forse la condizione fondamentale che permette allo sciamano di
sciamanizzare, poiché significa, per quest’ultimo, aver pieno possesso
degli spiriti e saper dominare le loro forze incommensurabili; è altresì il
traguardo più difficile da raggiungere, il quale, come abbiamo visto,
prevede un lungo viaggio iniziatico nei cieli e negli inferi.
L’animale, probabilmente per il suo legame indissolubile con le forze
della natura, rappresenta un fondamentale punto di contatto tra gli umani e
le forze che governano il regno dell’aldilà. Lo sciamano deve dunque
imparare la lingua degli animali, così come il linguaggio non verbale dei
gesti e dei movimenti, per poter comunicare con gli spiriti, poiché sono
88
W. G. Bogoraz, The Chukchee (in Memoirs of the American Museum of Natural History, XI,
Jesup North Pacific Expedition, VII, Leide and New York, 1904), p. 437; cit. in M. Eliade, Lo
sciamanismo, p. 114.
89
W. G. Bogoraz, The Chukchee, III, p. 435 sgg, in E. De Martino, Il mondo magico, p. 32.
61
proprio gli animali i detentori del potere sovrannaturale conferito allo
sciamano eletto.
Il linguaggio segreto degli animali, specialmente il canto degli uccelli,
rappresenta infatti il ritorno verso quel tempo mitico da cui lo sciamanismo
tre le sue origini, quando cioè l’uomo aveva libero accesso alle tre zone
cosmiche, quella dei vivi, la Terra, quella dei morti, l’Inferno e quella degli
spiriti, il Cielo.
Gli spiriti ausiliari possono apparire sotto altre sembianze, ad esempio
come anime di antenati-sciamani o, nei casi di Uvavnuk e di Aua, come
una forte luce celeste che penetra nelle viscere dello sciamano. Per tutti gli
sciamani, è bene farlo presente poiché è proprio su ciò che insiste il
Rasmussen in entrambi i racconti, la comparsa dello spirito auditore
comporta, prima della accettazione ineluttabile, un forte senso di terrore
inesplicabile, che mette in relazione lo spavento iniziale con il pericolo
mortale concreto della propria iniziazione.
La scelta di soffermarci sull’apparizione dello spirito in forma di animale
è particolarmente significativa per insistere sulla concezione di alter ego, di
doppio, poiché quest’ultimo si pone a conclusione del nostro precedente
discorso sulla personificazione dell’anima e sul rischio concreto che essa
possa abbandonare il corpo.
Il pericolo della perdita dell’anima si risolve infatti nell’esperienza che lo
sciamano fa nell’incontro con il suo doppio spirituale, ovvero con il suo
spirito auditore, esperienza che si costituisce come l’ultima fase, quella
definitiva, del riscatto della non presenza e che determina, a differenza
dello psicopatico, la salvezza dell’individuo in quanto partecipe di un
dramma culturale. Come sostiene Heinz Werner, “l’io che continuamente si
disfa nei suoi contenuti polisensi e cangianti è in un certo modo rinforzato
e salvato attraverso una ricostruzione magica, sebbene questo tentativo
metta a capo un mondo completamente diverso dal normale” 90.
90
H. Werner, Einführung in die Entwicklungspsychologie, 1933, p. 398 sg., cit. in E. De Martino,
op. cit., p. 150.
62
L’efficacia terapeutica: contributi di etnopsichiatria.
Il concetto appena espresso circa la possibilità di salvezza di un
individuo, in quanto appartenente ad una società che esprime il suo
medesimo dramma culturale, si pone alla base delle diverse teorie
formulate nell’ambito dell’etnopsichiatria.
“Possiamo definire l’etnopsichiatria come quell’area teorica e di
applicazione, alla confluenza fra antropologia e scienze psicologiche
che…mira ad una migliore comprensione, sul piano teorico e su quello
clinico, dei rapporti fra cultura, psicologia e psicopatologia”91.
Quello che in sostanza l’etnopsichiatra si propone di attuare è un
procedimento terapeutico per certi versi simile a quello che abbiamo visto
nel caso dello sciamano, cioè imparare una lingua segreta per poter
interrogare l’invisibile.
Abbiamo dato abbastanza corpo alla nozione di “invisibile”, per cui
sappiamo che esso si riferisce anche a porzioni di immaginario nascoste
negli strati di un contesto territoriale; un esempio chiarificante è
l’interrogazione della sabbia, ma anche altri procedimenti divinatori, come
l’interrogazione dell’acqua o del sangue degli animali, elementi, questi,
composti da una sostanza di per sé mutante e suscettibile a svariate
interpretazioni.
Interrogare l’invisibile significa dunque, innanzi tutto, istituire il luogo
dove l’invisibile si manifesta e, successivamente, saper decifrare il suo
linguaggio segreto.
Tobie Nathan, psicanalista e professore di Psicologia all’Università di
Parigi VIII, distingue le società magiche dalla nostra società occidentale
rispettivamente come società a universi multipli e società a universo unico;
egli stabilisce quindi un parallelismo tra questi due tipi di società
nell’applicazione di un metodo di guarigione, in relazione alla comparsa di
un disturbo della personalità in un individuo.
91
Roberto Lionetti, L’efficacia terapeutica: un problema antropologico, in “La ricerca folklorica”,
n°17, L’etnopsichiatria, aprile 1988, Grafo, Brescia, p. 3.
63
Se nelle società a universo unico un disturbo psichiatrico viene valutato
dall’occhio implacabile della psicanalisi come un fenomeno di isteria, e la
persona affetta dalla malattia viene emarginata dal suo gruppo di
riferimento, inserita in un contesto a lei estraneo nel quale non si riconosce
e trattenuta in istituto con formula detentiva (TSO), nelle società a universi
multipli tutto ha come presupposto quello di conferire un grado di
intenzionalità all’invisibile (ad esempio, uno spirito che si impadronisce
dell’anima
della
vittima).
Come
egli
afferma:
“la
conseguenza
dell’applicazione di un «pensiero selvaggio» nella presa in carico di un
disturbo è sempre quella di dissociare il sintomo dalla persona…e, per
raggiungere questo obiettivo, tutti i pensieri selvaggi da me conosciuti
ricorrono a un medesimo grande principio: l’attribuzione dell’intenzionalità
all’invisibile” 92.
Se, dunque, nelle società a universo unico, lo scienziato interroga il
sintomo attraverso il malato secondo le leggi date dalla psicopatologia
accademica, nelle società a universi multipli ad essere interrogato non è
più il malato, bensì tutto ciò che rinvia all’universo nascosto, all’invisibile;
non si effettua una diagnosi sul sintomo del malato, ma un processo
divinatorio sugli oggetti dell’invisibile.
Dopo tutto quello che è stato detto sul problema della veridicità dei
poteri magici, è forse lecito, a questo punto, lasciare da parte la questione
della verità e focalizzare l’attenzione sull’efficacia. Facciamo un esempio.
Prendiamo il caso di un bambino con difficoltà espressive e di linguaggio,
difficoltà trasposte in un dondolio compulsivo e in frequenti grida
incomprensibili.
Per la società a universo unico questo bambino è chiaramente autistico,
dunque malato, di conseguenza emarginato rispetto agli altri bambini; in
sostanza, si può dire che egli è considerato dal gruppo come un essere
umano subnormale, rimasto ad uno stadio pregenitale, per il quale si è
interrotto il processo di sviluppo e di crescita.
92
T. Nathan, Medici e stregoni, 1996, Bollati Boringhieri, Torino, pp. 55-56.
64
In una società a universi multipli, il suo stato di mutismo nei confronti
degli umani è invece spiegato con una sorta di natura singolare che gli
viene attribuita, la quale gli permette di interagire con degli interlocutori
invisibili e di parlare con essi una lingua segreta.
Un Douala del Camerun è stato riconosciuto come “bambino
ippopotamo”. L’hanno lasciato solo su un’isola in mezzo al fiume e hanno
chiesto agli ippopotami di venirselo a prendere; egli aveva ormai assunto
una natura umana, per cui gli ippopotami non l’hanno portato via. Quando
il bambino è stato recuperato, ha cominciato ad uscire dal suo mutismo93.
Si tratta dunque di stabilire un livello sul quale operare un procedimento
di guarigione che si affianchi al sistema culturale del paziente: se una
tecnica scientifica è vera ma rimane sterile nella sua applicazione sul
campo dell’esperienza, allora vale la pena considerare e attuare un sapere
tradizionale fasullo ma efficace dal punto di vista della pratica terapeutica.
Come sostiene Roberto Lionetti, “la varietà delle tecniche terapeutiche
genera una pluralità dei supporti fantasmatici, in grado di mobilitare nei
pazienti potenti meccanismi intrapsichici di autoguarigione. La risposta alla
malattia si gioca qui sul piano simbolico non meno che su quello tecnico,
ed è qui che lo sguardo antropologico rivela tutta la sua pertinenza”94.
L’efficacia simbolica
Nel capitolo sull’efficacia simbolica Lévi-Strauss, prendendo in esame il
Canto del parto difficile degli sciamani cuna (Muu-Igala, ovvero “La strada
di Muu”), individua e analizza il parallelismo che si verifica tra i riti
terapeutici dello sciamanismo e le scoperte scientifiche nell’ambito della
psicanalisi.
93
Si tratta di un paziente preso in cura da Tobie Nathan, del quale egli riporta la storia della sua
guarigione secondo il metodo sperimentale dell’etnopsichiatria. Cit. in T. Nathan, op. cit., p. 21.
94
R. Lionetti, op. cit., p. 5.
65
Si tratta di una descrizione in cui il corpo della partoriente, e
precisamente i suoi organi genitali, costituiscono il teatro in cui si svolgono
gli avvenimenti.
La cura comincia con la descrizione degli eventi che hanno preceduto le
doglie e si vede come il sistema stilistico della narrazione cuna sia quello
tipico delle società orali, per cui ogni frase viene ripetuta due volte, in
modo da essere bene impressa nella memoria di chi ascolta; anche i
particolari sono trattati con esattezza tale che sembra quasi di vedere un
film a rallentatore, fotogramma per fotogramma.
La levatrice fa un giro nella capanna;
la levatrice cerca perle;
la levatrice fa un giro;
la levatrice mette un piede davanti all’altro;
la levatrice tocca il suolo con il piede;
la levatrice sposta in avanti l’altro piede;
la levatrice apre la porta della capanna; la porta della capanna scricchiola;
la levatrice esce…
95
.
L’immaginario del viaggio è dunque ricchissimo di elementi. Vengono
invocati dallo sciamano i diversi spiriti ausiliari, tra i quali, come sottolinea
Lévi-Strauss, compare il “piroscafo argenteo dell’uomo bianco”96: un
simbolo, quello del bianco, che, come vedremo analizzando il Canto del
Demone, è importante per la loro tradizione.
Questi spiriti accompagnano lo sciamano attraverso la via che conduce
alla sede della malattia, una via insidiosa e non priva di ostacoli da
superare; appare così un mondo interamente popolato da esseri fantastici
e animali feroci, similmente ai soggetti raffigurati in un Bosch, che
incarnano i diversi spiriti delle loro memorie.
Simulando il gesto del pene in erezione, essi si introducono all’interno
della vagina (“il bianco tessuto”) e rischiarano la strada facendo brillare “i
95
96
C. Lévi-Strauss, Antropologia strutturale, p. 216.
Ibidem, p. 217-218.
66
loro cappelli magici”, permettendo così allo sciamano di individuare tutti gli
impedimenti e di chiamarli per nome, come per dare ad ognuno un suo
preciso significato. In questo modo, anche la vittima sente l’influsso di
questa “visione chiarificante”97 e ciò le permette quindi di dare un senso al
suo dramma, di stabilire un rapporto razionale con la sua soglia del dolore.
Il tuo corpo giace dinanzi a te, nell’amaca;
il suo bianco tessuto è disteso;
il suo bianco tessuto interno palpita dolcemente…
98
.
Come sostiene Lévi-Strauss, il Canto del parto difficile “costituisce una
medicazione puramente psicologica, poiché lo sciamano non tocca il corpo
dell’ammalata e non le somministra nessun rimedio ma, nello stesso
tempo, mette direttamente ed esplicitamente in causa lo stato patologico e
la sua sede: diremmo volentieri che il canto costituisce una manipolazione
psicologica dell’organo malato e che proprio da tale manipolazione ci si
attende la guarigione”99.
Il concetto di manipolazione sottintende una modificazione di idee così
come di organi compiuta attraverso dei simboli, cioè mediante gesti o
parole, i quali agiscono su un altro piano rispetto al loro significato reale: è
per questo che lo sciamano può curare con delle metafore verbali gli
organi malati della sua paziente.
Secondo Lionetti, “le novità introdotte da Lévi-Strauss consistono
soprattutto nella fortunata formula dell’«efficacia simbolica», e in
un’interpretazione dell’efficacia terapeutica fondata sull’introiezione da
parte del paziente, attraverso il rituale messo in atto, di un insieme
coerente e socialmente condiviso di rappresentazioni mitiche, capace di
dare un senso ad esperienze psichiche e corporee incomprensibili e
dunque inaccettabili100 .
97
Ibidem, p. 219.
Ibidem, p. 220.
99
Ibidem, p. 215-216.
100
Roberto Lionetti, L’efficacia terapeutica, pp. 5-6.
98
67
L’antropologo francese pone sullo stesso livello il rapporto di causaeffetto tra microbo, o “mostro”, e malattia con quello tra significante e
significato, prettamente relativo al linguaggio verbale. Anzi, è proprio il
linguaggio, ovvero la parola, a costituire la chiave di volta della cura
sciamanistica e a rendere possibile alla mente una sopportazione al dolore
che il corpo si rifiuta di tollerare. Infatti, egli sostiene, “è l’efficacia simbolica
a garantire l’armonia del parallelismo tra mito e operazioni”101 .
Come succede in psicoterapia, l’individuazione e il riconoscimento delle
resistenze e dei conflitti che erano rimasti inconsci permette al paziente,
guidato dalla presenza rassicurante del medico, di rivivere quelle stesse
resistenze e quegli stessi conflitti in una maniera più “controllata”,
seguendo un ordine preciso, passo dopo passo, degli accadimenti che ne
permetta un flusso più libero e che porti al loro scioglimento finale. Questo
processo, noto con il nome di abreazione102 , consente di ristabilire il punto
preciso da cui parte lo scatenarsi del conflitto, allo stesso modo della
descrizione degli eventi che precedono la cura sciamanica (i movimenti
della levatrice dentro e fuori dalla capanna della gestante).
Se però, dal punto di vista del malato, cura psicanalitica e cura
sciamanica si equivalgono, poiché entrambe mirano a far rivivere in modo
tranquillo un’esperienza che inizialmente si qualificava come intollerabile,
per Lévi-Strauss si ha un’inversione di termini quando si affronta la
questione dal punto di vista del terapeuta: infatti, mentre durante la seduta
psicanalitica il medico ascolta il paziente senza intervenire attivamente sul
contenuto delle sue affermazioni e senza quasi mai dare risposte alle sue
questioni, durante la cura sciamanistica lo sciamano parla e interroga il
malato circa il suo stato, di modo che egli, o ella, si convinca della natura
spirituale della sua patologia.
Lo sciamano chiama per nome gli spiriti (nelegan) che devono introdursi
e percorrere la strada di Muu, tutta insanguinata dal parto difficile, la quale
101
102
C. Lévi-Strauss, op. cit., p. 225.
Ibidem, p. 223.
68
viene rischiarata dai loro cappelli magici per rendere più facile il flusso ed
allentare le resistenze.
Ritorniamo dunque, ancora una volta, a conferire intenzionalità
all’invisibile, agli spiriti interlocutori con i quali lo sciamano intrattiene
questa sorta di battaglia: “il parto difficile si spiega come una deviazione,
attuata dall’«anima» dell’utero, di tutte le altre «anime» delle diverse parti
del corpo”103 .
La teoria cuna delle anime
I Cuna sono un popolo di tradizione sciamanica che vive nella
Repubblica Panamense, precisamente nella zona dell’Arcipelago delle
Mulatte (Comarca di San Blas).
La loro caratteristica principale, la quale costituisce il motivo di un così
ampio interesse da parte degli etnologi fin dall’epoca di Nordenskiöld
(1938) e di Holmer e Wassen (1947) ma anche di quella attuale, come
dimostrano gli studi di Carlo Severi, di Massimo Squillacciotti e di Joel
Sherzer, per citarne solo alcuni, riguarda il loro straordinario patrimonio di
conoscenze sciamaniche, nonché la lingua autoctona usata nella
recitazione dei canti terapeutici. Essi sono stati fra i primi tra le civiltà
indigene del Centro America ad avere contatti con gli occidentali e questo
aspetto ha segnato in modo indelebile la loro cultura: vedremo più in
dettaglio, a proposito del Canto del demone, come il Bianco sia per loro un
simbolo carico della memoria di un lungo conflitto.
Nonostante la maggior parte di loro sia oggi perfettamente integrata
nella civiltà, soprattutto per quanto riguarda le nuove generazioni che
abitano a Panama, una minoranza, che vive isolata nella foresta del Darién
al confine con la Colombia, rifiuta ancora il contatto con i bianchi.
103
Ibidem, p. 214.
69
Essa continua ad esercitare pratiche rituali terapeutiche ed è proprio qui
che, dalle mie letture inerenti alla storia di questo popolo, desidero credere
che ci possa essere ancora un barlume di sciamanismo autentico.
L’idea di vita per i Cuna consiste in tre grandi principi spirituali legati alla
nozione di corpo vivente, di cui andremo subito ad analizzare il significato:
il kurkin, il niga e il purba.
Il kurkin rappresenta la sintesi generale degli altri due concetti spirituali:
kurkin letteralmente significa “cappello” e consiste nel potere spirituale
dello sciamano (il nele), in particolare nella veggenza, un sapere innato
che gli viene attribuito al momento della sua nascita. Si dice infatti che il
bambino è nato con un cappello (kurkin) quando egli viene alla luce con la
testa ricoperta di placenta: questa particolare condizione del feto alla
nascita simbolizza il dono della veggenza, una qualità che questi potrà
solo accrescere nel corso della sua futura esistenza da sciamano.
Nel Canto del parto difficile il kurkin è raffigurato come un “cappello
magico” che rischiara la via di Muu e che fa risplendere il corpo della
partoriente: in un passo del canto, si legge che lo sciamano “rafforza il suo
copricapo di fronte agli spiriti signori degli alberi”104 .
Il significato di kurkin è dunque affine a quello di mana, poiché “avere
kurkin” (kurkin nikka) vuol dire quasi sempre “possedere una potenza
spirituale invisibile”105 , la quale è presente al contempo sia negli spiriti che
negli sciamani. Esso infatti costituisce una sorta di arma magica, di cui lo
sciamano si dota per sconfiggere gli spiriti della malattia (gli animali di
Muu), anch’essi, per così dire, armati; come si vede ancora nel Canto del
parto difficile, spiriti e sciamani intraprendono un grande “duello con i
copricapo”106 .
104
Holmer e Wassen, Mu-Igala, or The Way of Mu, 1947, Goteborg Etnografiska Museet,
Goteborg, cit in C. Severi, Le anime cuna, in “La ricerca folklorica”, v. 4, p. 72.
105
Ibidem.
106
Ibidem.
70
Il niga corrisponde alla forza vitale, la quale appartiene solo agli uomini
e agli animali; nei bambini esso non è presente, poiché il loro corpo è
ancora troppo fragile e ha bisogno di tempo e di esercizio per far sì che
esso si sviluppi.
Il niga non rappresenta però solo il concetto di forza fisica, anche se ad
un corpo senza niga viene associata l’idea di corpo debole (come, ad
esempio, nel caso del cadavere).
Il niga è più propriamente l’energia, la quale può emanare anche da una
grande forza interiore, capace di conferire allo sciamano quei poteri mistici
di cui si è ampiamente detto. Uno sciamano cuna usa infatti solitamente
cingersi il collo con una collana composta da denti di giaguaro per
aumentare il proprio niga.
Possiamo quindi tentare di raffigurare il niga come uno scudo riflettente,
del quale lo sciamano si serve per difendersi dallo sguardo degli spiriti e
dal pericolo del rapimento della sua anima, allo stesso modo in cui Perseo
si difese dallo sguardo letale di Medusa.
A differenza del niga, il quale come abbiamo visto appartiene quasi
esclusivamente a uomini e animali, il purba appartiene indistintamente ad
ogni cosa che abbia un’anima e dunque a qualunque cosa, poiché “per i
Cuna tutto è animato”107 .
Il purba è generalmente inteso come “l’insieme di proprietà invisibili
inerenti a ogni corpo vivente”108 : è qualcosa di percepibile ma di non
visibile; è dunque il principio stesso dello spirito.
Come rileva Nordenskiöld, nei molteplici significati che egli attribuisce a
questo concetto, “il calore che emana dal sole è purba. Sedendosi vicino al
fuoco, si può percepire purba. Se senti lo sparo del fucile di un cacciatore
nella foresta (senza vederlo), quel che hai sentito è purba. Il suono del
tuono è malpurba. Le note di un flauto sono la sua purba. Il gorgogliare di
un ruscello è purba. Il fischio del vento è purba. Persino la voce di un
107
108
C. Lévi-Strauss, op. cit., p. 212.
C. Severi, op. cit., p. 70.
71
uomo è chiamata purba. Quando, nella foresta, senti da lontano il grido di
un animale, quella è la sua purba”109 .
Se abbiamo associato al kurkin il significato di mana e al niga quello di
scudo riflettente, il purba può allora avere un corrispettivo nel nostro
concetto di spirito e, come abbiamo messo in evidenza, quest’ultimo
appartiene per i Cuna a un indiano così come a una pianta o a una pietra.
Inoltre, per i Cuna, tutto ciò che è spirituale è intrinsecamente doppio;
come sostiene Carlo Severi, “questo concetto di una dualità in sé
dell’oggetto animato che si aggiunge, senza sopprimerla, all’idea di una
sdoppiamento analogico, spiega perché gli sciamani cuna possano parlare
di purba a proposito di tutte le anime che danno vita al corpo”110 .
Questa concezione di doppio spirituale presiede anche alla teoria
indigena della malattia, poiché se, come abbiamo visto per la maggior
parte delle società sciamaniche, l’idea di malattia era connessa
direttamente alla perdita dell’anima, per lo sciamano cuna essa
corrisponde alla perdita del proprio doppio. Gli indigeni parlano infatti di
“doppia ferita” per designare la rottura di quella relazione primaria che
unisce il corpo alla sua parte invisibile: “non si dirà solo che un’anima
(nigapurbalele) è fuggita dal corpo invisibile, ma soprattutto che la natura
del corpo vivo è in pericolo”111 .
Il purba corrisponde dunque all’idea di un corpo vivo in quanto
manifestazione di un doppio invisibile.
L’insieme delle proprietà invisibili di cui ogni corpo è naturalmente
dotato, come ad esempio il niga, non riguarda il corpo umano in sé, nella
sua totalità, ma le sue componenti anatomiche, gli organi.
“Pertanto”, secondo Lévi-Strauss, “ogni parte del corpo ha il suo
particolare purba, e il niga sembra allora essere, sul piano spirituale,
l’equivalente della nozione di organismo: così come la vita risulta
dall’accordo degli organi, la forza vitale non sarebbe altro che l’armonioso
109
E. Nordenskiold, An historical and ethnological survey of the Cuna Indians, 1938, Goteborg
Etnografiska Museet, Goteborg, p. 354, cit in C. Severi, op. cit., p. 70.
110
Ibidem, p. 71.
111
C. Severi, op. cit., p. 72.
72
concorso di tutti i purba, ciascuno dei quali presiede al funzionamento di
un organo particolare”112 .
L’idea di una rottura di equilibrio tra il visibile e l’invisibile è sempre alla
base della teoria indigena della malattia, e lo sciamano è chiamato, anche
qui, per ristabilire una connessione tra le due parti, poiché è il solo in grado
di andare alla ricerca del purba perduto: “il malato soffre dunque perché ha
perduto il suo doppio spirituale (purba), o più esattamente uno dei doppi
particolari il cui insieme costituisce la sua forza vitale (niga); lo sciamano
assistito
dai suoi spiriti protettori,
inizia
un
viaggio nel mondo
soprannaturale per strappare il doppio allo spirito maligno che l’ha
catturato e, restituendolo al suo proprietario, ne assicura la guarigione”113 .
Nia Igala (Il Canto del demone)
Il Canto del demone è il racconto di un viaggio in un mondo
sovrannaturale.
Questo testo, in cui il termine “ikala” significa al contempo “canto
terapeutico” e “cammino”, viene cantato presso l’amaca dove giace il
malato affetto dalla locura. Quest’ultima fa riferimento a uno stato
patologico, quello della follia, in cui l’individuo si trova quando rimane
vittima di uno degli spiriti più potenti dell’immaginario collettivo cuna: lo
spirito del Bianco (nia-pilator).
Questo spirito, il quale si impadronisce dell’anima dell’indiano
sventurato o, come dicono i Cuna, “egli ha uno spirito-malattia sospeso
intorno al collo”, incarna sia un’esperienza individuale di sofferenza
psichica, sia un disordine sociale dovuto alla memoria di un lungo e tragico
conflitto, quello con i bianchi.
112
113
C. Lévi-Strauss, op. cit., p. 213.
Ibidem, p. 213.
73
Come sostiene Carlo Severi, “nel suo comportamento, nel gridare senza
sapere quel che dice, o imitare compulsivamente certi animali, gli sciamani
vedono trasparire la presenza del nemico mitico degli umani: il Giaguaro
del cielo, il cacciatore di uomini, di cui il Bianco, nella tradizione
sciamanica, è l’ultima incarnazione”114 .
Lo spazio descritto nel corso di questo viaggio, compiuto ad opera dello
sciamano, materializza un mondo virtuale in cui lo stregone chiama a sé i
suoi spiriti ausiliari, esseri di natura vegetale guidati dal Tronco Leggero,
l’albero del Balsa, impersonato da un vecchio veggente115 , per aiutarlo a
combattere con gli spiriti animali (i nia) che si sono impadroniti dell’anima,
o meglio del purba, della vittima.
Il Canto del demone è diviso in cinque parti. Come abbiamo analizzato
nel Canto del parto difficile, la prima parte, che prevede la recitazione di un
lungo testo chiamato “Nella capanna dello sciamano”, presenta la
descrizione dettagliata degli avvenimenti che hanno preceduto l’intervento
dello sciamano.
È rilevante sottolineare che gli sciamani danno un’importanza
fondamentale alla preparazione del rito, un’importanza che è equivalente
alla fase stessa della recitazione: ricordiamo che gli strumenti della cura,
gli amuleti, le ossa, i tamburi, le vesti usate dallo sciamano per
mascherarsi come lo spirito con il quale egli deve entrare in convegno,
sono oggetti magici che, se trascurati, possono pregiudicare la potenza o
la veridicità stessa dell’incantesimo.
La seconda parte del canto è chiamata “Come scolpire la statuetta di
Tronco Leggero”, in cui viene descritta la ricerca dello sciamano nella
foresta dell’albero del Balsa e, conseguentemente, le cerimonie che hanno
presieduto l’intaglio e la pittura del totem.
La terza scena è quella centrale, in cui viene presentato lo spirito della
malattia. Essa è chiamata nia-ikar-kalu, ovvero “I villaggi del cammino del
114
C. Severi, La memoria rituale. Follia e immagine del bianco in una tradizione sciamanica
amerindiana, 1993, La Nuova Italia, Firenze, pp. 32-33.
115
Ibidem, p. 33.
74
nia”, e costituisce una sorta di diario di bordo dello sciamano nel suo
viaggio nei luoghi dell’invisibile.
Ne riportiamo alcuni frammenti, tratti dal canto recitato dallo sciamano
Enrique Gómez, il quale è stato trascritto in spagnolo e pubblicato da Carlo
Severi116 :
Lontano, là dove sorge la canoa del sole, il villaggio del Mare appare.
Il vecchio Balsa, l’indovino, volge lo sguardo verso il villaggio.
Il villaggio si mostra, ondeggiando lontano, sul mare.
Lontano, il villaggio-che-sorge sospeso in cielo sprofonda leggermente nel
mare.
…
Lontano, lassù, sulla cima del villaggio, il vecchio inizia a parlare: “Il Dio delle
origini ha rinchiuso i nia in questi villaggi”.
“Ora noi andremo laggiù, per vedere tutto, per osservare tutto”.
Questo è l’inizio del nia-ikar-kalu, in cui lo spirito veggente dell’albero del
Balsa, capo degli ausiliari dello sciamano, scorge l’immagine del villaggio
invisibile popolato dagli spiriti della malattia, i nia.
Non si può non rimanere incantati dalla bellezza di questa visione
potente e allo stesso tempo fluttuante, che lascia spazio a ogni sorta di
immaginazione.
L’evocazione dell’invisibile prosegue con la presentazione di altri tipi di
villaggi-degli-spiriti, ognuno connotato visivamente da un colore diverso.
I lunghi nia del villaggio Bianco scendono nelle profondità della terra.
I lunghi nia del villaggio Bianco sono appuntiti, i lunghi nia del villaggio Bianco
hanno molte punte.
I lunghi nia abitano il villaggio Bianco, i lunghi nia che il Dio delle origini ha
rinchiuso nel villaggio Bianco.
…
Il villaggio-degli-spiriti, il villaggio Rosso appare.
Il villaggio si mostra; è rosso.
116
C. Severi, Nia-ikar-kalu: los pueblos del camino de la locura, «Amerindia. Revue
d’Ethnolinguistique Amérindienne», 8, 1983.
75
Questi si uniscono, urtandosi “come canoe nel mare” e danno vita ad
altri villaggi di spiriti: il villaggio delle Punte, il villaggio Curvo che precipita
come un fulmine, il villaggio del Ventaglio che si agita in aria, il villaggio
dalla Chioma di foglie, e molti altri. Essi appaiono tutti allo spirito veggente
dello sciamano, il solo capace di scorgeli (“lontano, dove sorge la canoa
del sole”) e di descriverne le sembianze.
Dopo aver scorto i villaggi invisibili, “quattro grandi tappe segnano il
viaggio dello sciamano: il villaggio Oscuro, che descrive l’origine mitica
della follia, e tre grandi villaggi che ricostruiscono il lento svilupparsi della
patologia nel corpo stesso dell’indiano impazzito: il villaggio delle
Trasformazioni, il villaggio delle Danze, il villaggio del Ritorno”117 .
Nel villaggio Oscuro viene identificato lo spirito del Giaguaro del cielo, il
più temuto dagli indiani (infatti, il giaguaro che vive nella foresta
rappresenta per loro una minaccia ineluttabile e, al contempo, un animale
mitico per il quale essi nutrono un grande senso di rispetto) e il
responsabile della patologia del paziente.
Il Giaguaro del cielo è uno spirito molto pericoloso, poiché attrae
l’indiano come Ulisse fu attratto dal Canto delle Sirene: esso si presenta
infatti in veste di un’immagine onirica, terribilmente seducente, dalla quale
non ci si riesce più a liberare. Chi incontra quest’immagine e si lascia
impadronire da essa impazzisce, rimane posseduto dallo spirito, fino a
quando lo sciamano non riesce a sconfiggerlo.
Questi può apparire anche nei momenti topici della vita di un indiano:
alla nascita, se il feto viene alla luce con il cordone ombelicale avvolto
intorno al collo (si ricordi che per i Cuna il collo rappresenta la parte del
corpo più vulnerabile all’attacco di uno spirito), oppure nel caso in cui un
indiano perisca di morte violenta.
117
C. Severi, La memoria rituale, p. 126.
76
Nel canto incontriamo la forma onomatopeica del grido dell’animale,
swa-swa, poiché, come abbiamo rilevato sopra, al fine di addomesticare lo
spirito della malattia, lo sciamano deve essere in grado di parlare la sua
lingua segreta che, com’è noto, è la stessa degli animali.
Il Giaguaro del cielo viene descritto con i denti e le unghie rossi, come il
sangue delle vittime e come il colore del makep, un pigmento naturale che
viene usato nei cerimoniali per le pitture corporali, il quale si crede sia stato
inventato dal Dio delle origini per accrescere il desiderio sessuale.
Il
Giaguaro
del
cielo
possiede
dunque
una
natura
ambigua,
rappresentando al contempo la caccia e la seduzione, due momenti
fondamentali e indissolubili nella vita di un indiano. Secondo Severi, “la
definizione della follia è per gli indiani compresa tra questi due poli,
notturno e diurno, del suo intervento. Nel delirio, interpretato come
l’imitazione della lingua parlata dagli spiriti degli animali, si riflettono
insieme la sua natura ambigua e la sua incessante capacità di
trasformarsi”118 .
118
Ibidem, p. 137.
77
CONCLUSIONI
La parte conclusiva riservata a questo scritto costituisce in realtà
un’intelaiatura sulla quale si compone l’idea che sta alla base del progetto
pratico, che consiste nella realizzazione di una performance interattiva.
Abbiamo accennato nella precedente introduzione al linguaggio come
una superficie stratigrafica, su cui si estendono i due concetti fondanti del
nostro discorso: la Realtà e l’Invisibile.
Abbiamo considerato la prima dal punto di vista empirico, gettando luce
radente su quelle increspature che si producono quando si mette in
vibrazione questo concetto con quello di verità; poiché, come abbiamo
analizzato riferendoci alle principali dottrine filosofiche razionaliste e
illuministe, la realtà empirica è capace di cogliere solo quegli aspetti
esteriori e visibili del vero.
È stato quindi su queste incrinature che abbiamo agito, opponendo loro
l’invisibile come dato di realtà latente e per certi versi indimostrabile,
imprevedibile,
inclassificabile
se
non
attraverso
dispositivi
di
comunicazione che si dissociano dal linguaggio inteso come il prodotto
delle relazioni tra il significante e il significato.
Questi dispositivi di comunicazione sono quelli che si producono quando
si abbandona la prospettiva frontale della scienza, così come della
psicanalisi, concepite in riferimento a “società a universo unico”, per dirla
con Nathan, società in cui a ogni sintomo corrisponde una diagnosi e, sul
piano del linguaggio, ad ogni significante corrisponde un significato;
occorre adottare invece una visione sfaccettata, in cui il punto di vista si
frammenti in tutte le direzioni, come in un prisma.
78
Questi dispositivi di comunicazione sono infatti quelli della divinazione,
del rituale terapeutico, dell’evocazione del rito, e in generale sono
riscontrabili in un mondo, il mondo magico, in cui si dà esplicita
intenzionalità all’invisibile e proprietà invisibili ad ogni corpo vivente.
Abbiamo inoltre preso in considerazione con particolare entusiasmo la
società sciamanica dei Cuna perché in essa questi elementi costituiscono
una vera e propria teoria, la quale viene applicata senza discontinuità
storica sia nei loro canti, sia nelle pittografie, sia nei rituali di guarigione.
Questa teoria costituisce un sapere che viene tramandato di generazione
in generazione, al punto tale che Carlo Severi, l’antropologo che dopo
Lévi-Strauss ha riaperto un vasto campo di indagine su questa
popolazione straordinaria, ha parlato a tal proposito di memoria rituale.
La teoria cuna delle anime, della quale abbiamo poco sopra individuato i
punti essenziali, ovvero i tre grandi principi spirituali che governano ogni
corpo vivente, il kurkin, il niga e il purba, costituisce la suggestione da cui
ha preso inizio l’atto performativo, in cui si è cercato di ricreare quel
rapporto tra sciamani e spiriti ausiliari che si qualifica come il rapporto tra il
soggetto e il suo doppio.
In particolare, si è cercato di riformulare il significato di questi termini, un
significato che si può racchiudere nella formula “possedere una potenza
spirituale invisibile”, sul piano astratto dell’immagine, la quale si produce
dall’interazione, anzi, dall’interattività tra il corpo in movimento e il
dispositivo di interfaccia.
Vorrei sottolineare il fatto che questa esperienza performativa/interattiva
non è stata solo la messa in pratica di una controparte grafica di quanto è
stato scritto (o delle teorie espresse dagli antropologi in riferimento alle
società sciamaniche): avendo la possibilità di gestire la propria immagine
in tempo reale, lasciando anche un certo grado di intenzionalità alla
macchina, si possono cogliere infatti aspetti di se stessi che sconfinano
nell’imprevedibile e che portano il soggetto che vi partecipa verso la ricerca
di un altro da sé, di un vero e proprio alter ego.
79
Questo tipo di sensazione può certamente variare a seconda di chi si
trova coinvolto nell’installazione e di chi sperimenta questo tipo di incontro
faccia a faccia con la propria immagine. Però, dalla mia precedente
esperienza riguardo a White Noise, in cui veniva messo in atto il medesimo
procedimento tecnico, ho potuto accorgermi con sorpresa che, come me,
diverse persone, nel momento in cui provavano l’installazione, si
disinibivano e sovvertivano il loro comportamento usuale in vere e proprie
danze o in atti insoliti, come ad esempio far tremare le mani a lungo e in
modo compulsivo, oscillare la testa, alzare ed abbassare le braccia più
volte, compiere giravolte e saltare in ogni direzione.
Credo che da queste risposte insolite e stravaganti da parte di gente
tutto sommato normale e che il più delle volte non sa nulla di software
interattivi, si possano trarre le fila che riconducono alla nostra tematica
sulla (o sulle) realtà invisibili: poiché ci ritroviamo ancora alle soglie di una
realtà in procinto di farsi e di disfarsi, di una realtà in divenire, sospesa e
fluttuante. Invisibile.
80
BIBLIOGRAFIA
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lobi, in “La ricerca folklorica”, n°4, Antropologia simbolica. Categorie
culturali e segni linguistici, ottobre 1981, Grafo, Brescia.
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