Nei piccoli gesti di Giuseppe Randazzo
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Nei piccoli gesti di Giuseppe Randazzo
NEI PICCOLI GESTI… Frizzante, l’aria profumata di pioggia di un tardo pomeriggio di fine autunno scivola galeotta dal finestrino socchiuso, trascinando con sé minuscole gocce d’acqua che rimbalzando sui volti e sulle mani regalano ai passeggeri il dolce sollievo di un’insperata oasi nel calore che riempie l’abitacolo. Pulsazioni vitali assorbite dalle vibrazioni di un motore che nel suo brontolante ruggito avvolge, come il sovrano senza criniera di una foresta pietrificata, il brusio di voci stanche della sera, l’adrenalina di gruppi di ragazzi che racchiudono i pensieri ovattandoli nella musica di un lettore, i sogni di uomini e donne persi in una rivista svogliatamente sfogliata o riflessi negli occhi e nei sorrisi del “grande amore”. E mentre gli sguardi vagano oltre i vetri diventati invisibili senza una meta definita, si consumano lentamente i minuti che concederanno una tregua alle mille difficoltà, o che lì riprenderanno vigore, dentro mura familiari, e che trasparenti riecheggiano tra le pareti di un moderno Caronte, traghettatore verso continui traguardi da raggiungere e da cui ripartire, infaticabile. Mille vetrine restituiscono ai passanti, brulicante e distrattamente interessato muro umano, la frenesia delle commesse indaffarate nelle chiusure, assuefatte al suono dei clacson ingolfati e sommersi dalla pioggia battente che, nascosta nel buio della sera, si mostra alla luce dei fari e delle insegne rivelandosi nella fitta mutevole consistenza di un attimo. Avvinghiato ai sostegni che attutiscono i sobbalzi dell’asfalto, scorgo una bimba che avvolta in una tutina sportiva di pile rosa stringe a sé una bambola di pezza, il suo gioiello, vestita coi colori dell’arcobaleno e con due lunghe treccine nere simili alle sue sbucate dalle mani amorevoli di una madre seduta accanto, che nella pelle scura nasconde le antiche sofferenze e la fierezza di una dignità umana calpestata per secoli. Di fronte a loro, dentro una giacca di lana dai toni tenui, testimoni di una moda andata, il respiro ansimante di un uomo che scava nei propri ricordi alla ricerca di uno stimolo per una vita ormai in discesa, aggrappato ad un bastone stretto tra le ginocchia e ad un fazzoletto accartocciato in una mano che con cadenze ripetute si avvicina alla fronte rugosa, tamponandola delicatamente, superando ad ogni gesto due labbra riarse dal tempo. L’ennesimo sfiato meccanico dell’apertura delle porte lascia apparire dalle scale la figura di una ragazza dai lineamenti dolci, giovane all’apparenza, con i lunghi capelli biondi intrisi di pioggia suddivisi in tre ciocche fra la schiena ed il seno pronto a nutrire il frutto di un grembo in attesa, tenuto dal palmo di una mano, nella fatica dipinta sul volto per ogni piccolo movimento, fosse anche la semplice ricerca di una sedia vuota. Ma tra chi si scansa o si mostra indifferente, chi tra i ragazzi seduti in fondo è maliziosamente divertito da goliardiche allusioni o ruba i primi baci adolescenziali, solo un uomo la nota, partecipe a suo modo della medesima sofferenza, e in una lentezza pachidermica, puntando le mani tremolanti sopra la curva del bastone, rimette in moto le ossa scricchiolanti come ingranaggi arrugginiti, inarca la schiena, e alzandosi traballante le cede il posto. La ragazza, benché affaticata, non può nascondere un naturale imbarazzo; sgranando gli occhi verdi, apre il palmo della mano in un gesto di diniego nel tentativo di fermarlo, ma ad un gentile quanto deciso “La prego…”, raccoglie dietro l’orecchio i capelli sciolti ed accomodandosi gli sussurra con le labbra un delicato “Grazie…” proveniente da due cuori. Attenta testimone della scena, la piccola bambina dalle lunghe trecce nel volgere di pochi istanti appoggia la bambola sul ventre della madre, si volta su sé stessa e si lascia scivolare oltre il sedile, incurante dei sussurrati “Ororo…dove vai…” materni. Con un equilibrio precario si avvicina all’uomo reso curvo dal tempo, si ferma sotto il suo gomito sinistro, e prendendo tra due minuscole dita il lembo della giacca, con ritmati colpetti verso il basso ne attira l’attenzione. Il vecchio, incuriosito, le rivolge lo sguardo inarcando le ciglia, ed incrociando i due occhi neri profondi come il mare, segue il movimento di quel piccolo braccio che con decisione si alza ad indicare il posto appena lasciato vuoto, offrendoglielo. Un mormorio improvviso, in reverenziale sottovoce, fa da contorno al lento passaggio dell’uomo che con passo pesante, si dirige verso “quel” sedile, mentre la piccola, abbracciata delicatamente da due forti braccia, risponde al sorriso della ragazza bionda socchiudendo gli occhi, e stringendo nuovamente fra le mani quel tesoro senza valore, sprofonda nel suo innocente colorato mondo adagiando il viso sulle gambe della madre. Sono sceso alla mia fermata, lasciando, quasi controvoglia, quelle cinque vite che casualmente si erano intrecciate in un breve viaggio, e nel frastuono cittadino che mi franava nuovamente addosso, incurante della pioggia incessante, ho seguito con lo sguardo, fino a vederlo svanire in lontananza, quell’autobus inghiottito dalla miriade di fredde, sfavillanti luci mondane, opache e flebili fiammelle a confronto della luminosità che nei momenti e nelle situazioni più impensate può sprigionare l’animo umano…