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La lingua di A Clockwork Orange di Anthony Burgess Alessandro Salvatore Marongiu Sono venuti quelli dei “Cahiers du cinéma” e mia figlia mi diceva che volevano sapere il tessuto connettivo tra quella targa che oscilla all’inizio del film (Sei donne per l’assassino), dove c’è un temporale, e il telefono che casca quando la Bartok muore. Io non mi ricordavo neanche come finiva il film. Mario Bava Quando, nel 1959, al quarantaduenne John Burgess Wilson, in arte Anthony Burgess, viene diagnosticato un tumore al cervello che i medici giudicano inoperabile, la sua prima e unica preoccupazione è di garantire delle royalties post-mortem a Lynne, la donna che ha sposato diciasette anni prima. Si mette così alacremente al lavoro e completa, per usare le sue parole, “cinque romanzi e mezzo” (Burgess 1991: 5): con “mezzo” intendendo A Clockwork Orange, l’ultimo in ordine di tempo di cui inizia la stesura. Nella prima versione, il libro si presenta “in a much less fantastic version than the one that was eventually published” (Burgess 1987): questo perché, per raccontare la violenza dell’universo giovanile, le contromisure del sistema governativo e il raggiungimento della maturità da parte del protagonista nel finale, l’autore si affida allo slang delle gang britanniche del tempo, come i Mods, i Teddyboys e i Rockers. Mal gliene incoglierebbe però, pensa Burgess, se al momento della pubblicazione del libro quel modo di esprimersi fosse già passato di moda – fatto, peraltro, probabile – e se l’auspicato favore del pubblico venisse meno: ché allo scarso successo editoriale, seguirebbe un ritorno economico minimo o nullo per la consorte. Una volta realizzato che la malattia non lo condurrà alla morte nel breve periodo come ritenuto dai dottori (lo scrittore morirà infatti molto più tardi, nel 1993), inizia a pensare di riscrivere la sua opera in maniera più appropriata e funzionale alle sue intenzioni comunicative: la soluzione al problema della lingua gli si presenta a seguito del viaggio che intraprende nell’estate del 1961 in Unione Sovietica, quando è diretto testimone del fatto che anche oltrecortina la delinquenza giovanile ha assunto dimensioni e modalità identiche a quelle dei Paesi occidentali, complice la manifesta 228 Alessandro Salvatore Marongiu impotenza della polizia locale che, completamente assorbita dalla repressione di crimini ideologici e fiscali, si rivela impotente (o forse solo disinteressata) a fronteggiare la violenza di strada e il teppismo comune. Questa esperienza lo porta a immaginare la figura di un hooligan che sia archetipo di tutti quelli che compaiono regolarmente nelle pagine di cronaca nera di ogni nazione e, per garantire carattere di universalità al suo personaggio e rendere evidente che la storia ambientata in un vicino futuro nel Regno Unito potrebbe in realtà svolgersi in una qualsiasi altra nazione del pianeta, elabora un idioma che sia compendio delle due lingue politicamente e militarmente più influenti all’interno dei blocchi contrapposti nel periodo della Guerra Fredda: quella anglo-americana e quella russa. L’ironia dello stile adottato con questa scelta “would lie in the hero-narrator’s being totally unpolitical” (Burgess 1987). La creazione e l’uso del nadsat, come verrà chiamato quel compendio, sono poi inscindibilmente connessi a una delle tante opposizioni che caratterizzano il testo, quella tra appartenenti alle diverse fasce d’età – le altre, più propriamente pertinenti l’aspetto letterario, sono quelle tra libero arbitrio e intervento scientifico dello Stato per orientare scelte e coscienze dei cittadini, tra individuo e società, tra visione pelagiana e agostiniana della vita, tra sogno e realtà. Il nadsat-talk è il comune denominatore degli adolescenti all’interno di A Clockwork Orange, ciò che li rende un insieme e che costituisce una barriera protettiva quasi inviolabile da parte degli adulti, che possono provare a interpretarlo o capirlo, ma sicuramente non riuscirebbero mai a utilizzarlo. Ecco un primo significativo esempio: ‘Oh, I shall go home. Back to my pee and em.’ ‘Your −?’ He didn’t get nadsat-talk at all, so I said: ‘To my parents in the dear old flatblock’ (Burgess 1998: 87). E un secondo, durante un poco riuscito tentativo di analisi da parte dei medici che hanno in cura il protagonista, Alex: ‘These grahzny sodding veshches that come out of my gulliver and my plott,’ I said, ‘that’s what it is.’ ‘Quaint,’ said Dr. Brodsky, like smiling, ‘the dialect of the tribe. Do you know anything of its provenance, Branom?’ ‘Odd bits of old rhyming slang,’ said Dr. Branom, who did not look quite so much like a friend any more. ‘A bit of gipsy talk, too. But most of the roots are Slav. Propaganda. Subliminal penetration’ (Burgess 1998: 91). Ma se gli adulti – i genitori di Alex, i dottori, gli intellettuali, i rappresentanti del potere, il cappellano della prigione – utilizzano un inglese che, prescindendo dalla varietà più o meno alta propria di ogni categoria, si AnnalSS 7, 2010 La lingua di A Clockwork Orange di Anthony Burgess 229 può definire normativo, e il protagonista e i suoi coetanei comunicano con la loro versione russificata dell’idioma britannico, anche i pre-nadsat hanno un modo di esprimersi esclusivo e che risulta estraneo anche agli individui appena più grandi come gli adolescenti: I walked in and the only other customers were two young ptitsas sucking away at ice-sticks […]. These two ptitsas couldn’t have been more than ten […]. I fumbled out the deng to pay and one of the little ptitsas said: ‘Who you getten, bratty? What biggy, what only?’ These young devotchkas had their own like way of govoreeting. […] But they went oh oh oh and said, ‘Swoony’ and ‘Hilly’ and other weird slovos that were the heighth of fashion in that youth group (Burgess 1998: 37-38). Col ricorso al nadsat, Burgess garantisce un’ulteriore freccia al proprio arco in relazione a uno dei temi di maggiore importanza nel testo, quello della libertà di scelta individuale, con tutte le sue implicazioni teoriche e pratiche: It is better to have our streets infested with murderous young hoodlums that to deny individual freedom of choice. This is a hard thing to say, but the saying of it was imposed on me by the moral tradition which, as a member of western civilization, I inherit. Whatever the conditions needful for the sustention of society, the basic human endowment must not be denied. The evil, or merely wrong, products of free will may be punished or held off with deterrents, but the faculty itself may not be removed (Burgess 1985: 93). Il narratore di Manchester sostiene la priorità del libero arbitrio sulle necessità politiche e di ordine sociale, ma vuole anche allertare il lettore circa l’eventualità che i governi annullino con ogni mezzo a disposizione la coscienza e la volontà dei cittadini in nome di una ventilata, quanto improbabile e irraggiungibile, pax comune. Sul piano diegetico, la non attuabilità di un simile disegno si concretizza con gli effetti collaterali della ‘cura’ (come viene chiamato dalle autorità il lavaggio del cervello) condotta a base di ‘stupefacenti’ vitamine, cui viene sottoposto il protagonista: Alex is not only deprived of the capacity to choose to commit evil. A lover of music, he has responded to the music, used as a heightener of emotion, which has accompanied the violent films he has been made to see. A chemical substance injected into his blood induces nausea while he is watching the films, but the nausea is also associated with the music. It was not the intention of his State manipulators to induce this bonus or malus: it is purely an accident that, from now on, he will automatically react to Mozart or Beethoven as he will to rape or murder. The State has succeeded AnnalSS 7, 2010 230 Alessandro Salvatore Marongiu in its primary aim: to deny Alex free moral choice, which, to the State, means choice of evil. […] The unintended destruction of Alex’s capacity for enjoying music symbolizes the State’s imperfect understanding (or volitional ignorance) of the whole nature of man, and of the consequences of its own decisions (Burgess 1985: 92-93). Ma se i temi del libero arbitrio e del potenzialmente distruttivo intervento governativo trovano uno sbocco esplicito nel racconto tramite personaggi e accadimenti concreti, a una differente dimensione implicita è affidato il compito di mettere in guardia dagli effetti di ‘trattamenti’ che celano in realtà l’intenzione di manipolare menti e coscienze: il veicolo scelto dallo scrittore per raggiungere questo obiettivo è, naturalmente, il nadsat. Quella messa in atto dallo scrittore nei confronti del lettore è una vera e propria azione di coercizione, la personale versione burgessiana della cura Ludovico: se vuole capire quanto scritto, il lettore si vede costretto a inferire, costruire ipotesi, creare collegamenti tra vocaboli, locuzioni, episodi del narrato, deve imparare a fare del contesto un veicolo interpretativo e, in caso di massima difficoltà, non ha altra alternativa che ricorrere a un dizionario di russo. Si tratta, sostanzialmente, delle succitate ‘vitamine’, di quella che il Dr. Branom chiamerebbe subliminal penetration. Dietro la creazione del nadsat, c’è poi la necessità, stavolta intima, di Anthony Burgess di prendere le distanze dagli eventi che racconta, di ridurre le asprezze derivanti dal raccontare stupri, violenze, furti, lavaggi del cervello, e più in generale tutte quelle azioni e situazioni negative affidate nel brano seguente alla parola pornography: “Nadsat, a Russified version of English, was meant to muffle the raw response we expect from pornography” (Burgess 1986: X). Il riguardo verso chi legge – “As there were much violence in the draft smouldering in my drawer, and would be even more in the finished work, the strange new lingo would act as a kind of mist half-hiding the mayhem and protecting the reader from his own baser instincts” (Burgess 1991: 38) – è comunque secondario rispetto a quello verso sé stesso, essendo per lui l’idioletto del libro principalmente il mezzo per innalzare una barriera nei confronti del narrato, e, forse ancora maggiormente, verso il compiacimento del giovane drugo nell’operare in direzione del male. Come in numerose altre occasioni, anche in questa la lingua assume un ruolo ulteriore rispetto a quello di semplice veicolo comunicativo: il diverso senso attribuito al termine queer da Burgess e dal suo personaggio principale è per esempio una significativa spia del fatto che il secondo non sia in alcun modo da intendersi come l’incarnazione letteraria del primo. A questa precisazione dello scrittore in proposito: “‘He’s as queer as a clockwork orange’ meant he was queer to the limit of queerness. It did not primarily denote homosexuality […]” (Burgess 1986: AnnalSS 7, 2010 La lingua di A Clockwork Orange di Anthony Burgess 231 X), fa da contraltare questo passo in cui il protagonista, appena incarcerato, deve affrontare le avances di due compagni di cella omosessuali: Then there were two like queer ones who both took a fancy to me, and one of them made a jump onto my back, and I had a real nasty bit of dratsing with him and the von on him, like of meth and cheap scent, made me want to sick again, only my belly was empty now, O my brothers. Then the other queer one started putting his rookers on to me, and then there was a snarling bit of dratsing between these two, both of them wanting to get at my plot (Burgess 1998: 58). Le continue accuse di incitamento alla violenza – sempre più numerose e pressanti dopo l’uscita della riduzione cinematografica, dato che la reticenza del regista Stanley Kubrick ad affrontare discussioni in merito costringe lo stesso Burgess a farsene carico – distolgono l’attenzione generale dall’accostamento più ovvio, quello tra l’autore di A Clockwork Orange e il personaggio di F. Alexander, anch’egli autore di un A Clockwork Orange nella finzione del libro, nonché uno dei suoi due rappresentanti diegetici per ciò che concerne le idee sul libero arbitrio. Eppure va sottolineato come sia proprio lo scrittore di Manchester a confondere le acque, facendo in modo che le sue proiezioni testuali coincidano con quelle figure i cui destini, espressioni, peculiarità s’incrociano in maniera inscindibile con quelli del personaggio cardine: il secondo rappresentante del narratore circa il tema della libertà individuale, ad esempio, è il cappellano della prigione, che in ogni sua apparizione porta alla luce e ammonisce sui rischi di un intervento scientifico sulla natura umana. Il prelato ha infatti una profonda connessione con il protagonista, che si palesa per tramite linguistico: l’espressione “What’s it going to be then, eh?”, che apre la narrazione di Alex in ognuna delle tre sezioni in cui è diviso il testo, è la stessa cui ricorre tre volte l’uomo di chiesa nella sua predica ai carcerati sulle pene dell’Inferno. A questa, se ne aggiunge un’altra, ancora più profonda: perdendo le proprie caratteristiche iniziali, e abbandonando la difesa del principio di libertà d’espressione a seguito degli eventi di cui è sventurata vittima, F. Alexander acquisisce le proprietà negative del narratoreprotagonista, e finisce, letteralmente, per diventare Alex, autorizzando così critica e pubblico a ipotizzare, almeno in una certa misura e seppure per via indiretta, un’identità tra Burgess e il suo personaggio principale. Identità, questa, che più volte nel corso degli anni egli si è visto costretto a smentire, sempre più infastidito e dispiaciuto che del suo libro si parlasse solo in relazione alla pornography di cui sopra, o al film che ne aveva tratto Stanley Kubrick: AnnalSS 7, 2010 232 Alessandro Salvatore Marongiu The novel has not been well understood. Readers, and viewers of the film made from the book, have assumed that I, a most unviolent man, am in love with violence. I am not, but I am committed to freedom of choice, which means that if I cannot choose to do evil nor can I choose to do good (Burgess 1985: 93). Alcune di queste considerazioni sono riprese e ampliate nel passaggio seguente: It was the dawn of the age of candid pornography that enabled Stanley Kubrick to exploit, to a serious artistic end, those elements in the story which were meant to shock morally rather than merely titillate. These elements are, to some extent, hidden from the reader by the language used: to tolchock a chelloveck in the kishkas does not sound so bad as booting a man in the guts, and the old in-out in-out, even if it reduces the sexual act to a mechanical action, does not sicken quite as much as a Harold Robbins description of cold rape (Burgess 1987). Dietro la scelta dell’autore di utilizzare la lingua russa come secondo componente del nadsat, ci sono poi delle ragioni prettamente linguistiche: Russian loanwords fit better in English than those from German, French, or Italian. English, anyway, is already a kind of mélange of French and German. Russian has polysyllables like zhevotnoye for beast, and ostanovka avtobusa is not so good as bus stop. But it also has brevities like brat for brother and grud for breast. The English word, in which four consonants strangle one short vowel, is inept for that glorious smooth roundness. Groodies would be right. In the manner of the Eastern languages, Russian makes no distinction between leg and foot − noga for both − or hand and arm, which are alike ruka. This limitation would turn my horrible young narrator into a clockwork toy with inarticulated limbs (Burgess 1991: 38). Conclusa la disamina delle motivazioni che hanno condotto l’autore a ideare un idioletto così peculiare per il suo romanzo, se ne può ora presentare qualche esempio di funzionamento e forma. Le sue componenti principali sono tre: quella inglese, quella russa e quella propriamente nadsat, intendendo con questo termine l’insieme degli elementi linguistici appositamente elaborati da Anthony Burgess: ne sono un esempio il sostantivo yarble (it. ‘testicolo’) e la perifrasi hen-korm (creata a partire dalla locuzione idiomatica statunitense chicken food, che si riferisce a una piccola somma di denaro); ad arricchirlo, vi sono poi un limitato numero di espressioni o vocaboli tedeschi, francesi e spagnoli, un frequente ricorso a figure retoriche e perifrasi, l’uso di forme sintattiche non normative o riconducibili allo stile alto delle traduzioni bibliche e alle regole dell’inglese letterario del XVII-XVIII secolo. AnnalSS 7, 2010 La lingua di A Clockwork Orange di Anthony Burgess 233 Quella di Burgess è una doppia operazione: da una parte elabora un linguaggio nuovo, di difficile decifrazione fin dalle prime battute, estremamente impegnativo anche per il lettore anglofono; dall’altra fa in modo che molti dei meccanismi e delle scelte che caratterizzano il nadsat siano d’aiuto alla sua comprensione con l’avanzare nella lettura. Particolarmente importante in questo senso la decisione di modificare rispetto all’origine i termini russi, integrandoli al sistema morfologico britannico: potrà sfuggire il contenuto semantico di skorriness, ma non sfuggirà che si tratta di un sostantivo, e che skorry ne è la relativa forma aggettivale (ed eventualmente anche avverbiale) derivata. Anche la fonetica è soggetta a questo processo di anglicizzazione: fatto salvo un certo numero di casi che presentano delle stringhe chiaramente non appartenenti all’insieme inglese – i nessi consonantici chk di baboochka e otchkies, shl di shlaga, shlapa e shlem, skr di skrike, hzn di grahzny – Burgess adopera generalmente gli elementi slavi cercando di preservarne inalterata la sequenza fonica e, contemporaneamente, assimilarli alle possibilità della morfologia della sua lingua madre. Per fare ciò, inevitabilmente, deve scavalcare le convenzioni della traslitterazione internazionale, ma il risultato ottenuto è quello prefisso in partenza: non la semplice e sterile unione dei costituenti morfosintattici e lessicali degli idiomi di base, ma la creazione di una lingua omogenea, produttiva e musicale e, non ultimo, completamente asservibile alle sue esigenze comunicative. Lo sforzo richiesto in fase di comprensione è notevole, ma non si può non rimanere colpiti dall’eufonia di “It was the picture of a dear little itsy witsy bitsy bit of a baby” (Burgess 1998: 143), “[…] and some of the eating vecks tried to grab her, going haw haw haw while she went he he he […]” (Burgess 1998: 143); da assonanze costruite coinvolgendo tutti i livelli della lingua, come in “[…] and Great Poetry would like quieten Modern Youth down and make Modern Youth more Civilized. Civilized my syphilised yarbles” (Burgess 1998: 35), o “‘Oh, I’m dying,’ I like moaned. ‘Oh, I have a ghastly pain in my side. Appendicitis, it is. Ooooooh.’ ‘Appendy shitehouse,’ grumbled this veck […]” (Burgess 1998: 95); o, ancora, dal modo in cui il narratore gioca con le parole: un esempio per tutti è la trasformazione di yahudi (it. ‘ebreo’) in yahoodi: con una piccola variazione ortografica, lo scrittore di Manchester, in un sol colpo, crea un legame intertestuale con Gulliver’s Travels, essendo yahoo il nome di una razza di repellenti creature antropomorfe presenti nel romanzo di Jonathan Swift, e riesce a comunicare al lettore l’affezione negativa del protagonista verso gli ebrei. Sulla scorta di un simile precedente, anche la frase “starry pop in a doglie collar” (Burgess 1998: 35) si può caricare di rimandi, suggestioni e significati ulteriori rispetto alla semplice valenza denotativa: per cominciare, il vocabolo pop ha, per come la AnnalSS 7, 2010 234 Alessandro Salvatore Marongiu proposizione è concepita, due sensi, l’uno riconducibile all’accezione che il termine possiede solo nello slang statunitense (it. ‘vecchio’) per via del sinonimo russo in forma aggettivale che lo precede, l’altro dovuto alla prossimità morfologica con pope dato che, considerando quest’ultimo come iperonimo riguardante la categoria degli uomini di chiesa, lo si può facilmente intendere come riferito alla figura del prete comune. Ma sono in realtà le parole doggie collar a presentare il massimo di suggestione perché, al piano del mero significato (si tratta di una espressione informale per indicare il collare bianco dei preti), se ne può aggiungere un altro che è autorizzato, come già detto, dall’esempio di cui sopra, ma anche dalla storia personale di Burgess: il rimando intertestuale stavolta è al Dr. Faustus di Christopher Marlowe, e nello specifico ai versi “Within this circle is Jehovah’s name,/ Forward and backward anagrammatiz’d” (Marlowe 2007: 91), relativi all’invocazione di Mefistofele da parte del protagonista Faust. Il sostantivo dog, da cui deriva la forma aggettivale doggie, è quindi da leggersi per un verso (it. ‘cane’) ma anche per quello contrario (it. ‘Dio’): e che questo legame sia meno azzardato di quanto possa apparire, lo dicono il fatto che Burgess si sia laureato proprio con una tesi sull’opera di Marlowe, e un successivo uso volutamente iconoclasta del nome di Dio nel corso di A Clockwork Orange. Accade grazie a uno di quegli imprevedibili incroci tra lingue che rendono assolutamente unici il romanzo e il suo idioletto: la parola in questione, bog, equivalente russo per ‘Dio’, è utilizzata con significato e aspetto morfologico pari in nadsat, ma vi acquista un’accezione sinistra in virtù di un omonimo e omografo inglese, il cui contenuto semantico denota una palude o un pantano. L’autore sfrutta qui e altrove quella particolare possibilità del veicolo comunicativo che Thompson e Hunston definiscono evaluation (Thompson-Hunston 2000: 1), ovvero il porsi del parlante o dello scrivente nei confronti di ciò di cui parla o scrive secondo le proprie intenzioni, il proprio punto di vista o la propria formazione culturale, così che la disposizione del destinatario verso il messaggio possa essere orientata in un senso o nell’altro. Altri esempi rilevanti sono lewdies, corrispettivo nadsat del russo ljudy (it. ‘gente’), in cui la sillaba iniziale coincide con l’aggettivo inglese lewd i cui significati (it. ‘osceno, vile, ignobile’) ben rappresentano la considerazione e la disposizione d’animo del personaggio principale verso persone e società in generale, e poi sinny – contrazione di cinema – in cui il mutamento consonantico iniziale tra c e s e il raddoppiamento della n rimandano inequivocabilmente a sin (it. ‘peccato’): che a queste variazioni ortografiche Burgess affidi la trasmissione di un dato messaggio atto a indirizzare la percezione di chi legge, è confermato dalla descrizione di un cinema pubblico come luogo di perdizione davanti al quale passano Alex e i suoi AnnalSS 7, 2010 La lingua di A Clockwork Orange di Anthony Burgess 235 compagni in una della loro scorribande: “Going north we came to the filthy old Filmdrome, peeling and dropping to bits through nobody going there much except malchicks like me and my droogs, and then only for a yell or a razrez or a bit of in-out-in-out in the dark” (Burgess 1998: 18). In aggiunta è impossibile non prendere in considerazione il fatto che la cura Ludovico, così centrale per le intenzioni dell’autore e così importante per il corso dell’intero racconto, viene condotta sul protagonista proprio in una sala cinematografica e tramite la proiezione di filmati altamente disturbanti. Ma se si dovesse scegliere un’unica espressione che rappresentasse i temi del libro e contemporaneamente fosse esempio degli inscindibili legami appositamente creati da Burgess tra forma linguistica e contenuto semantico, nessuna risulterebbe più adatta di quella che fa da titolo al romanzo. L’autore riferisce (Burgess 1985: 92) di aver sempre amato la frase tipica del cockney, la parlata londinese, queer as a clockwork orange, e di aver atteso anni perché gli si presentasse l’occasione di utilizzarla per una sua opera. A Clockwork Orange viene scelto perché ben simboleggia l’applicazione di leggi meccanicistiche a un essere vivente, e per uno di quei sorprendenti incroci tra lingue che costituiscono a nostro avviso il fascino principale del libro, l’essere vivente in questione non è solo l’arancia del titolo, ma anche l’orang, ovvero l’essere umano nella lingua della Malesia, Paese nel quale lo scrittore si trasferisce per insegnare l’inglese nel 1954, e di cui fa in tempo a imparare l’idioma prima del ritorno in patria. Tra i tanti, il motivo cui questo modo di dire è più strettamente connesso è quello del libero arbitrio, come testimonia il passaggio seguente, tratto dall’introduzione dello stesso Burgess alla prima edizione statunitense completa del testo, apparsa solo dopo la metà degli anni Ottanta: by definition, a human being is endowed with free will. He can use this to choose between good and evil. If he can only perform good or only perform evil, then he is a clockwork orange − meaning that he has the appearance of an organism lovely with colour and juice but is in fact only a clockwork toy to be wound up by God or the Devil or (since this is increasingly replacing both) the Almighty State. It is as inhuman to be totally good as it is to be totally evil. The important thing is moral choice. Evil has to exist along with good, in order that moral choice may operate. Life is sustained by the grinding opposition of moral entities (Burgess 1986: IX). AnnalSS 7, 2010 236 Alessandro Salvatore Marongiu Bibliografia Bauer, L., 1983 English Word-Formation, Cambridge University Press, Cambridge; Berruto, G., 1997 Corso elementare di linguistica generale, Utet Libreria, Torino; Binni, F., Domenichelli, M., 1989 History And Anthology Of English Literature, Editori Laterza, Bari; Burgess, A., 1985 [1978] 1985, Arrow Books, Tiptree; Burgess, A., 1986 “A Clockwork Orange Resucked”, in A Clockwork Orange, W. W. Norton & Company, New York; Burgess, A., 1987 A Clockwork Orange: A play with music, Century Hutchinson, London; Burgess, A., 1991 You’ve Had Your Time: Being the Second Part of the Confessions of Anthony Burgess, Penguin Books, London; Burgess, A., 1998 A Clockwork Orange, Penguin Books, London; Crystal, D., 1988 The English Language, Penguin Books, London; Dardano, M., 1996 Manualetto di linguistica italiana, Zanichelli Editore, Bologna; Gusmani, R., 1998 “Interlinguistica”, in Lazzeroni, R. (a cura di), Linguistica Storica, Carocci Editore, Roma: 87-114; Marlowe, C., 2007 [1604] Doctor Faustus, Broadview Press, London; Pezzotta, A., 1997 [1995] Mario Bava, Editrice Il Castoro, Milano; Rondolino, G., Tomasi, D., 2000 Manuale del film. Linguaggio, racconto, analisi, Utet Libreria, Torino; Thompson, G., Hunston, S., 2000 Evaluation in Text, Oxford University Press, Oxford. AnnalSS 7, 2010