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La lingua di A Clockwork Orange di Anthony Burgess
Alessandro Salvatore Marongiu
Sono venuti quelli dei “Cahiers du
cinéma” e mia figlia mi diceva che
volevano sapere il tessuto connettivo tra
quella targa che oscilla all’inizio del film
(Sei donne per l’assassino), dove c’è un
temporale, e il telefono che casca
quando la Bartok muore. Io non mi
ricordavo neanche come finiva il film.
Mario Bava
Quando, nel 1959, al quarantaduenne John Burgess Wilson, in arte
Anthony Burgess, viene diagnosticato un tumore al cervello che i medici
giudicano inoperabile, la sua prima e unica preoccupazione è di garantire
delle royalties post-mortem a Lynne, la donna che ha sposato diciasette anni
prima. Si mette così alacremente al lavoro e completa, per usare le sue
parole, “cinque romanzi e mezzo” (Burgess 1991: 5): con “mezzo”
intendendo A Clockwork Orange, l’ultimo in ordine di tempo di cui inizia la
stesura. Nella prima versione, il libro si presenta “in a much less fantastic
version than the one that was eventually published” (Burgess 1987): questo
perché, per raccontare la violenza dell’universo giovanile, le contromisure
del sistema governativo e il raggiungimento della maturità da parte del
protagonista nel finale, l’autore si affida allo slang delle gang britanniche del
tempo, come i Mods, i Teddyboys e i Rockers. Mal gliene incoglierebbe
però, pensa Burgess, se al momento della pubblicazione del libro quel modo
di esprimersi fosse già passato di moda – fatto, peraltro, probabile – e se
l’auspicato favore del pubblico venisse meno: ché allo scarso successo
editoriale, seguirebbe un ritorno economico minimo o nullo per la consorte.
Una volta realizzato che la malattia non lo condurrà alla morte nel breve
periodo come ritenuto dai dottori (lo scrittore morirà infatti molto più tardi,
nel 1993), inizia a pensare di riscrivere la sua opera in maniera più
appropriata e funzionale alle sue intenzioni comunicative: la soluzione al
problema della lingua gli si presenta a seguito del viaggio che intraprende
nell’estate del 1961 in Unione Sovietica, quando è diretto testimone del fatto
che anche oltrecortina la delinquenza giovanile ha assunto dimensioni e
modalità identiche a quelle dei Paesi occidentali, complice la manifesta
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impotenza della polizia locale che, completamente assorbita dalla
repressione di crimini ideologici e fiscali, si rivela impotente (o forse solo
disinteressata) a fronteggiare la violenza di strada e il teppismo comune.
Questa esperienza lo porta a immaginare la figura di un hooligan che sia
archetipo di tutti quelli che compaiono regolarmente nelle pagine di cronaca
nera di ogni nazione e, per garantire carattere di universalità al suo
personaggio e rendere evidente che la storia ambientata in un vicino futuro
nel Regno Unito potrebbe in realtà svolgersi in una qualsiasi altra nazione
del pianeta, elabora un idioma che sia compendio delle due lingue
politicamente e militarmente più influenti all’interno dei blocchi
contrapposti nel periodo della Guerra Fredda: quella anglo-americana e
quella russa. L’ironia dello stile adottato con questa scelta “would lie in the
hero-narrator’s being totally unpolitical” (Burgess 1987).
La creazione e l’uso del nadsat, come verrà chiamato quel compendio,
sono poi inscindibilmente connessi a una delle tante opposizioni che
caratterizzano il testo, quella tra appartenenti alle diverse fasce d’età – le
altre, più propriamente pertinenti l’aspetto letterario, sono quelle tra libero
arbitrio e intervento scientifico dello Stato per orientare scelte e coscienze
dei cittadini, tra individuo e società, tra visione pelagiana e agostiniana della
vita, tra sogno e realtà. Il nadsat-talk è il comune denominatore degli
adolescenti all’interno di A Clockwork Orange, ciò che li rende un insieme e
che costituisce una barriera protettiva quasi inviolabile da parte degli adulti,
che possono provare a interpretarlo o capirlo, ma sicuramente non
riuscirebbero mai a utilizzarlo. Ecco un primo significativo esempio:
‘Oh, I shall go home. Back to my pee and em.’
‘Your −?’ He didn’t get nadsat-talk at all, so I said:
‘To my parents in the dear old flatblock’ (Burgess 1998: 87).
E un secondo, durante un poco riuscito tentativo di analisi da parte dei
medici che hanno in cura il protagonista, Alex:
‘These grahzny sodding veshches that come out of my gulliver and my
plott,’ I said, ‘that’s what it is.’
‘Quaint,’ said Dr. Brodsky, like smiling, ‘the dialect of the tribe. Do you
know anything of its provenance, Branom?’
‘Odd bits of old rhyming slang,’ said Dr. Branom, who did not look
quite so much like a friend any more. ‘A bit of gipsy talk, too. But most of
the roots are Slav. Propaganda. Subliminal penetration’ (Burgess 1998: 91).
Ma se gli adulti – i genitori di Alex, i dottori, gli intellettuali, i
rappresentanti del potere, il cappellano della prigione – utilizzano un inglese
che, prescindendo dalla varietà più o meno alta propria di ogni categoria, si
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può definire normativo, e il protagonista e i suoi coetanei comunicano con
la loro versione russificata dell’idioma britannico, anche i pre-nadsat hanno
un modo di esprimersi esclusivo e che risulta estraneo anche agli individui
appena più grandi come gli adolescenti:
I walked in and the only other customers were two young ptitsas sucking
away at ice-sticks […]. These two ptitsas couldn’t have been more than ten
[…].
I fumbled out the deng to pay and one of the little ptitsas said:
‘Who you getten, bratty? What biggy, what only?’ These young
devotchkas had their own like way of govoreeting. […] But they went oh oh
oh and said, ‘Swoony’ and ‘Hilly’ and other weird slovos that were the
heighth of fashion in that youth group (Burgess 1998: 37-38).
Col ricorso al nadsat, Burgess garantisce un’ulteriore freccia al proprio
arco in relazione a uno dei temi di maggiore importanza nel testo, quello
della libertà di scelta individuale, con tutte le sue implicazioni teoriche e
pratiche:
It is better to have our streets infested with murderous young hoodlums that
to deny individual freedom of choice. This is a hard thing to say, but the
saying of it was imposed on me by the moral tradition which, as a member
of western civilization, I inherit. Whatever the conditions needful for the
sustention of society, the basic human endowment must not be denied. The
evil, or merely wrong, products of free will may be punished or held off
with deterrents, but the faculty itself may not be removed (Burgess 1985:
93).
Il narratore di Manchester sostiene la priorità del libero arbitrio sulle
necessità politiche e di ordine sociale, ma vuole anche allertare il lettore
circa l’eventualità che i governi annullino con ogni mezzo a disposizione la
coscienza e la volontà dei cittadini in nome di una ventilata, quanto
improbabile e irraggiungibile, pax comune. Sul piano diegetico, la non
attuabilità di un simile disegno si concretizza con gli effetti collaterali della
‘cura’ (come viene chiamato dalle autorità il lavaggio del cervello) condotta a
base di ‘stupefacenti’ vitamine, cui viene sottoposto il protagonista:
Alex is not only deprived of the capacity to choose to commit evil. A
lover of music, he has responded to the music, used as a heightener of
emotion, which has accompanied the violent films he has been made to see.
A chemical substance injected into his blood induces nausea while he is
watching the films, but the nausea is also associated with the music. It was
not the intention of his State manipulators to induce this bonus or malus: it
is purely an accident that, from now on, he will automatically react to
Mozart or Beethoven as he will to rape or murder. The State has succeeded
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in its primary aim: to deny Alex free moral choice, which, to the State, means
choice of evil. […] The unintended destruction of Alex’s capacity for
enjoying music symbolizes the State’s imperfect understanding (or volitional
ignorance) of the whole nature of man, and of the consequences of its own
decisions (Burgess 1985: 92-93).
Ma se i temi del libero arbitrio e del potenzialmente distruttivo
intervento governativo trovano uno sbocco esplicito nel racconto tramite
personaggi e accadimenti concreti, a una differente dimensione implicita è
affidato il compito di mettere in guardia dagli effetti di ‘trattamenti’ che
celano in realtà l’intenzione di manipolare menti e coscienze: il veicolo
scelto dallo scrittore per raggiungere questo obiettivo è, naturalmente, il
nadsat. Quella messa in atto dallo scrittore nei confronti del lettore è una
vera e propria azione di coercizione, la personale versione burgessiana della
cura Ludovico: se vuole capire quanto scritto, il lettore si vede costretto a
inferire, costruire ipotesi, creare collegamenti tra vocaboli, locuzioni, episodi
del narrato, deve imparare a fare del contesto un veicolo interpretativo e, in
caso di massima difficoltà, non ha altra alternativa che ricorrere a un
dizionario di russo. Si tratta, sostanzialmente, delle succitate ‘vitamine’, di
quella che il Dr. Branom chiamerebbe subliminal penetration.
Dietro la creazione del nadsat, c’è poi la necessità, stavolta intima, di
Anthony Burgess di prendere le distanze dagli eventi che racconta, di
ridurre le asprezze derivanti dal raccontare stupri, violenze, furti, lavaggi del
cervello, e più in generale tutte quelle azioni e situazioni negative affidate nel
brano seguente alla parola pornography: “Nadsat, a Russified version of
English, was meant to muffle the raw response we expect from
pornography” (Burgess 1986: X). Il riguardo verso chi legge – “As there
were much violence in the draft smouldering in my drawer, and would be
even more in the finished work, the strange new lingo would act as a kind
of mist half-hiding the mayhem and protecting the reader from his own
baser instincts” (Burgess 1991: 38) – è comunque secondario rispetto a
quello verso sé stesso, essendo per lui l’idioletto del libro principalmente il
mezzo per innalzare una barriera nei confronti del narrato, e, forse ancora
maggiormente, verso il compiacimento del giovane drugo nell’operare in
direzione del male. Come in numerose altre occasioni, anche in questa la
lingua assume un ruolo ulteriore rispetto a quello di semplice veicolo
comunicativo: il diverso senso attribuito al termine queer da Burgess e dal
suo personaggio principale è per esempio una significativa spia del fatto che
il secondo non sia in alcun modo da intendersi come l’incarnazione
letteraria del primo. A questa precisazione dello scrittore in proposito:
“‘He’s as queer as a clockwork orange’ meant he was queer to the limit of
queerness. It did not primarily denote homosexuality […]” (Burgess 1986:
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X), fa da contraltare questo passo in cui il protagonista, appena incarcerato,
deve affrontare le avances di due compagni di cella omosessuali:
Then there were two like queer ones who both took a fancy to me, and one
of them made a jump onto my back, and I had a real nasty bit of dratsing
with him and the von on him, like of meth and cheap scent, made me want
to sick again, only my belly was empty now, O my brothers. Then the other
queer one started putting his rookers on to me, and then there was a snarling
bit of dratsing between these two, both of them wanting to get at my plot
(Burgess 1998: 58).
Le continue accuse di incitamento alla violenza – sempre più numerose e
pressanti dopo l’uscita della riduzione cinematografica, dato che la reticenza
del regista Stanley Kubrick ad affrontare discussioni in merito costringe lo
stesso Burgess a farsene carico – distolgono l’attenzione generale
dall’accostamento più ovvio, quello tra l’autore di A Clockwork Orange e il
personaggio di F. Alexander, anch’egli autore di un A Clockwork Orange nella
finzione del libro, nonché uno dei suoi due rappresentanti diegetici per ciò
che concerne le idee sul libero arbitrio. Eppure va sottolineato come sia
proprio lo scrittore di Manchester a confondere le acque, facendo in modo
che le sue proiezioni testuali coincidano con quelle figure i cui destini,
espressioni, peculiarità s’incrociano in maniera inscindibile con quelli del
personaggio cardine: il secondo rappresentante del narratore circa il tema
della libertà individuale, ad esempio, è il cappellano della prigione, che in
ogni sua apparizione porta alla luce e ammonisce sui rischi di un intervento
scientifico sulla natura umana. Il prelato ha infatti una profonda
connessione con il protagonista, che si palesa per tramite linguistico:
l’espressione “What’s it going to be then, eh?”, che apre la narrazione di
Alex in ognuna delle tre sezioni in cui è diviso il testo, è la stessa cui ricorre
tre volte l’uomo di chiesa nella sua predica ai carcerati sulle pene
dell’Inferno. A questa, se ne aggiunge un’altra, ancora più profonda:
perdendo le proprie caratteristiche iniziali, e abbandonando la difesa del
principio di libertà d’espressione a seguito degli eventi di cui è sventurata
vittima, F. Alexander acquisisce le proprietà negative del narratoreprotagonista, e finisce, letteralmente, per diventare Alex, autorizzando così
critica e pubblico a ipotizzare, almeno in una certa misura e seppure per via
indiretta, un’identità tra Burgess e il suo personaggio principale. Identità,
questa, che più volte nel corso degli anni egli si è visto costretto a smentire,
sempre più infastidito e dispiaciuto che del suo libro si parlasse solo in
relazione alla pornography di cui sopra, o al film che ne aveva tratto Stanley
Kubrick:
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The novel has not been well understood. Readers, and viewers of the
film made from the book, have assumed that I, a most unviolent man, am in
love with violence. I am not, but I am committed to freedom of choice,
which means that if I cannot choose to do evil nor can I choose to do good
(Burgess 1985: 93).
Alcune di queste considerazioni sono riprese e ampliate nel passaggio
seguente:
It was the dawn of the age of candid pornography that enabled Stanley
Kubrick to exploit, to a serious artistic end, those elements in the story
which were meant to shock morally rather than merely titillate. These
elements are, to some extent, hidden from the reader by the language used:
to tolchock a chelloveck in the kishkas does not sound so bad as booting a
man in the guts, and the old in-out in-out, even if it reduces the sexual act to
a mechanical action, does not sicken quite as much as a Harold Robbins
description of cold rape (Burgess 1987).
Dietro la scelta dell’autore di utilizzare la lingua russa come secondo
componente del nadsat, ci sono poi delle ragioni prettamente linguistiche:
Russian loanwords fit better in English than those from German,
French, or Italian. English, anyway, is already a kind of mélange of French
and German. Russian has polysyllables like zhevotnoye for beast, and ostanovka
avtobusa is not so good as bus stop. But it also has brevities like brat for
brother and grud for breast. The English word, in which four consonants
strangle one short vowel, is inept for that glorious smooth roundness.
Groodies would be right. In the manner of the Eastern languages, Russian
makes no distinction between leg and foot − noga for both − or hand and
arm, which are alike ruka. This limitation would turn my horrible young
narrator into a clockwork toy with inarticulated limbs (Burgess 1991: 38).
Conclusa la disamina delle motivazioni che hanno condotto l’autore a
ideare un idioletto così peculiare per il suo romanzo, se ne può ora
presentare qualche esempio di funzionamento e forma. Le sue componenti
principali sono tre: quella inglese, quella russa e quella propriamente nadsat,
intendendo con questo termine l’insieme degli elementi linguistici
appositamente elaborati da Anthony Burgess: ne sono un esempio il
sostantivo yarble (it. ‘testicolo’) e la perifrasi hen-korm (creata a partire dalla
locuzione idiomatica statunitense chicken food, che si riferisce a una piccola
somma di denaro); ad arricchirlo, vi sono poi un limitato numero di
espressioni o vocaboli tedeschi, francesi e spagnoli, un frequente ricorso a
figure retoriche e perifrasi, l’uso di forme sintattiche non normative o
riconducibili allo stile alto delle traduzioni bibliche e alle regole dell’inglese
letterario del XVII-XVIII secolo.
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Quella di Burgess è una doppia operazione: da una parte elabora un
linguaggio nuovo, di difficile decifrazione fin dalle prime battute,
estremamente impegnativo anche per il lettore anglofono; dall’altra fa in
modo che molti dei meccanismi e delle scelte che caratterizzano il nadsat
siano d’aiuto alla sua comprensione con l’avanzare nella lettura.
Particolarmente importante in questo senso la decisione di modificare
rispetto all’origine i termini russi, integrandoli al sistema morfologico
britannico: potrà sfuggire il contenuto semantico di skorriness, ma non
sfuggirà che si tratta di un sostantivo, e che skorry ne è la relativa forma
aggettivale (ed eventualmente anche avverbiale) derivata.
Anche la fonetica è soggetta a questo processo di anglicizzazione: fatto
salvo un certo numero di casi che presentano delle stringhe chiaramente
non appartenenti all’insieme inglese – i nessi consonantici chk di baboochka e
otchkies, shl di shlaga, shlapa e shlem, skr di skrike, hzn di grahzny – Burgess
adopera generalmente gli elementi slavi cercando di preservarne inalterata la
sequenza fonica e, contemporaneamente, assimilarli alle possibilità della
morfologia della sua lingua madre. Per fare ciò, inevitabilmente, deve
scavalcare le convenzioni della traslitterazione internazionale, ma il risultato
ottenuto è quello prefisso in partenza: non la semplice e sterile unione dei
costituenti morfosintattici e lessicali degli idiomi di base, ma la creazione di
una lingua omogenea, produttiva e musicale e, non ultimo, completamente
asservibile alle sue esigenze comunicative. Lo sforzo richiesto in fase di
comprensione è notevole, ma non si può non rimanere colpiti dall’eufonia
di “It was the picture of a dear little itsy witsy bitsy bit of a baby” (Burgess
1998: 143), “[…] and some of the eating vecks tried to grab her, going haw
haw haw while she went he he he […]” (Burgess 1998: 143); da assonanze
costruite coinvolgendo tutti i livelli della lingua, come in “[…] and Great
Poetry would like quieten Modern Youth down and make Modern Youth
more Civilized. Civilized my syphilised yarbles” (Burgess 1998: 35), o “‘Oh,
I’m dying,’ I like moaned. ‘Oh, I have a ghastly pain in my side.
Appendicitis, it is. Ooooooh.’ ‘Appendy shitehouse,’ grumbled this veck
[…]” (Burgess 1998: 95); o, ancora, dal modo in cui il narratore gioca con le
parole: un esempio per tutti è la trasformazione di yahudi (it. ‘ebreo’) in
yahoodi: con una piccola variazione ortografica, lo scrittore di Manchester, in
un sol colpo, crea un legame intertestuale con Gulliver’s Travels, essendo yahoo
il nome di una razza di repellenti creature antropomorfe presenti nel
romanzo di Jonathan Swift, e riesce a comunicare al lettore l’affezione
negativa del protagonista verso gli ebrei. Sulla scorta di un simile
precedente, anche la frase “starry pop in a doglie collar” (Burgess 1998: 35)
si può caricare di rimandi, suggestioni e significati ulteriori rispetto alla
semplice valenza denotativa: per cominciare, il vocabolo pop ha, per come la
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proposizione è concepita, due sensi, l’uno riconducibile all’accezione che il
termine possiede solo nello slang statunitense (it. ‘vecchio’) per via del
sinonimo russo in forma aggettivale che lo precede, l’altro dovuto alla
prossimità morfologica con pope dato che, considerando quest’ultimo come
iperonimo riguardante la categoria degli uomini di chiesa, lo si può
facilmente intendere come riferito alla figura del prete comune. Ma sono in
realtà le parole doggie collar a presentare il massimo di suggestione perché, al
piano del mero significato (si tratta di una espressione informale per
indicare il collare bianco dei preti), se ne può aggiungere un altro che è
autorizzato, come già detto, dall’esempio di cui sopra, ma anche dalla storia
personale di Burgess: il rimando intertestuale stavolta è al Dr. Faustus di
Christopher Marlowe, e nello specifico ai versi “Within this circle is
Jehovah’s name,/ Forward and backward anagrammatiz’d” (Marlowe 2007:
91), relativi all’invocazione di Mefistofele da parte del protagonista Faust. Il
sostantivo dog, da cui deriva la forma aggettivale doggie, è quindi da leggersi
per un verso (it. ‘cane’) ma anche per quello contrario (it. ‘Dio’): e che
questo legame sia meno azzardato di quanto possa apparire, lo dicono il
fatto che Burgess si sia laureato proprio con una tesi sull’opera di Marlowe,
e un successivo uso volutamente iconoclasta del nome di Dio nel corso di A
Clockwork Orange. Accade grazie a uno di quegli imprevedibili incroci tra
lingue che rendono assolutamente unici il romanzo e il suo idioletto: la
parola in questione, bog, equivalente russo per ‘Dio’, è utilizzata con
significato e aspetto morfologico pari in nadsat, ma vi acquista un’accezione
sinistra in virtù di un omonimo e omografo inglese, il cui contenuto
semantico denota una palude o un pantano. L’autore sfrutta qui e altrove
quella particolare possibilità del veicolo comunicativo che Thompson e
Hunston definiscono evaluation (Thompson-Hunston 2000: 1), ovvero il
porsi del parlante o dello scrivente nei confronti di ciò di cui parla o scrive
secondo le proprie intenzioni, il proprio punto di vista o la propria
formazione culturale, così che la disposizione del destinatario verso il
messaggio possa essere orientata in un senso o nell’altro. Altri esempi
rilevanti sono lewdies, corrispettivo nadsat del russo ljudy (it. ‘gente’), in cui la
sillaba iniziale coincide con l’aggettivo inglese lewd i cui significati (it.
‘osceno, vile, ignobile’) ben rappresentano la considerazione e la
disposizione d’animo del personaggio principale verso persone e società in
generale, e poi sinny – contrazione di cinema – in cui il mutamento
consonantico iniziale tra c e s e il raddoppiamento della n rimandano
inequivocabilmente a sin (it. ‘peccato’): che a queste variazioni ortografiche
Burgess affidi la trasmissione di un dato messaggio atto a indirizzare la
percezione di chi legge, è confermato dalla descrizione di un cinema
pubblico come luogo di perdizione davanti al quale passano Alex e i suoi
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compagni in una della loro scorribande: “Going north we came to the filthy
old Filmdrome, peeling and dropping to bits through nobody going there
much except malchicks like me and my droogs, and then only for a yell or a
razrez or a bit of in-out-in-out in the dark” (Burgess 1998: 18). In aggiunta
è impossibile non prendere in considerazione il fatto che la cura Ludovico,
così centrale per le intenzioni dell’autore e così importante per il corso
dell’intero racconto, viene condotta sul protagonista proprio in una sala
cinematografica e tramite la proiezione di filmati altamente disturbanti.
Ma se si dovesse scegliere un’unica espressione che rappresentasse i temi
del libro e contemporaneamente fosse esempio degli inscindibili legami
appositamente creati da Burgess tra forma linguistica e contenuto
semantico, nessuna risulterebbe più adatta di quella che fa da titolo al
romanzo. L’autore riferisce (Burgess 1985: 92) di aver sempre amato la frase
tipica del cockney, la parlata londinese, queer as a clockwork orange, e di aver
atteso anni perché gli si presentasse l’occasione di utilizzarla per una sua
opera. A Clockwork Orange viene scelto perché ben simboleggia
l’applicazione di leggi meccanicistiche a un essere vivente, e per uno di quei
sorprendenti incroci tra lingue che costituiscono a nostro avviso il fascino
principale del libro, l’essere vivente in questione non è solo l’arancia del
titolo, ma anche l’orang, ovvero l’essere umano nella lingua della Malesia,
Paese nel quale lo scrittore si trasferisce per insegnare l’inglese nel 1954, e di
cui fa in tempo a imparare l’idioma prima del ritorno in patria. Tra i tanti, il
motivo cui questo modo di dire è più strettamente connesso è quello del
libero arbitrio, come testimonia il passaggio seguente, tratto
dall’introduzione dello stesso Burgess alla prima edizione statunitense
completa del testo, apparsa solo dopo la metà degli anni Ottanta:
by definition, a human being is endowed with free will. He can use this to
choose between good and evil. If he can only perform good or only
perform evil, then he is a clockwork orange − meaning that he has the
appearance of an organism lovely with colour and juice but is in fact only a
clockwork toy to be wound up by God or the Devil or (since this is
increasingly replacing both) the Almighty State. It is as inhuman to be totally
good as it is to be totally evil. The important thing is moral choice. Evil has
to exist along with good, in order that moral choice may operate. Life is
sustained by the grinding opposition of moral entities (Burgess 1986: IX).
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