I PASTICCINI - Marco Di Martino ONLUS
Transcript
I PASTICCINI - Marco Di Martino ONLUS
I PASTICCINI Anna si alzò sulla punta dei piedi per prendere il barattolo di olive. Mentre allungava il braccio, la spalla dolorante protestò, strappandole un’imprecazione soffocata. Perché i prodotti scontati dovevano sempre essere sullo scaffale più alto? Maledisse la logica spietata dei supermercati, poi spinse il carrello fino al bancone del pesce surgelato. Non che avesse bisogno di comprare prodotti scontati, rifletté mentre rimestava distrattamente tra i bastoncini Findus; con lo stipendio di Luca non avevano certo bisogno di fare economia. Le vecchie abitudini però erano rimaste, e nonostante le osservazioni sarcastiche del marito, Anna continuava a preferire le scatolette di tonno a metà prezzo e a frugare nel cesto delle grandi occasioni. Scorse la lista. Mancavano la carne, il latte e le arance. E i pasticcini. Immancabili, erano ormai una tradizione, il sabato a pranzo. Luca era decisamente un uomo abitudinario. Una volta Anna aveva cambiato pasticceria e si era ritrovata a mangiare da sola tutto il vassoio. Da quel giorno si era attenuta alle regole del marito: quattro al cioccolato e quattro alla crema, tutti i sabati. All’inizio lei aveva guardato con preoccupazione questo lato del carattere di Luca, ma poi aveva finito per abituarsi. Anzi, aveva cercato di vedervi il lato positivo: non aveva mai visto qualcuno mangiare con più gusto dei dolci. Era un piacere guardarlo. Quello era il loro momento speciale: si dividevano con cura i pasticcini e niente poteva turbarli. Ogni tanto si chiedeva distrattamente se, dopo tre anni di convivenza, non stesse diventando sempre più simile a lui. Ma quel giorno non avrebbe comprato nulla in pasticceria, aveva deciso. Non dopo quello che era successo. Sarebbe stato come ignorarlo, fingere che andasse tutto bene. Tieni, ecco i pasticcini, due alla crema e due al cioccolato. È tutto a posto, è un giorno perfetto. No, oggi non ci sarà nessun pasticcino, si disse serrando le labbra, quasi spaventata dalla propria temerarietà. Quasi a dare forza alla sua decisione, la colpì una fitta bruciante alla nuca, lì dove aveva sbattuto contro lo spigolo del tavolo. Come per ricordarle meglio quella orribile colazione, anche il dolore alla spalla la travolse, prepotente. Lui non era mai stato così. Questa volta era stato diverso, era come se avesse oltrepassato un limite invisibile ma ben presente nella mente di entrambi, e ad Anna era parso di scorgere un lampo di questa consapevolezza nello sguardo di Luca, un attimo prima che se ne andasse sbattendo la porta, lasciandola lì ansimante e raggomitolata sul linoleum lucido della cucina. Luca era sempre stato irascibile, ma da quando erano sposati le cose erano peggiorate, e lei cercava il più possibile di non contrariarlo. Non sempre ci riusciva, pensò mentre soppesava la frutta; quello schiaffo quando aveva bagnato il suo orologio se lo era meritato. Solo due settimane prima, invece, si era dimenticata di svuotargli le tasche dei pantaloni prima di metterli in lavatrice e uno scontrino importante era diventato illeggibile. Dopo, il collo le aveva fatto male per tutta la settimana. Se ci pensava, vedeva dietro di sé una serie dolorosa e infinita di caffè mal fatti, sughi troppo salati e osservazioni sciocche che le erano costati cari. Spesso si chiedeva cosa avesse lei di diverso dalle altre donne, perché avesse questa capacità maledetta di far innervosire Luca. Era così tranquillo quando incontrava gli amici, sempre con la battuta pronta, e così affettuoso con la sorella e i genitori. Era sempre lei a trasformare quegli occhi di velluto in pietre dure e fredde. Si sorprendeva sempre più spesso a invidiare Carla e suo marito, e le loro effusioni da eterni adolescenti, che all’inizio aveva guardato con tenerezza, avevano cominciato ad irritarla. E poi c’erano Elena e Mattia, con il loro amore discreto e una complicità che andava oltre le parole. Era questo ciò che aveva sognato da ragazzina. Eppure ogni volta non poteva fare a meno di pensare che le cose sarebbero potute andare diversamente se solo lei fosse stata diversa. Perché Anna ne era sicura: per innescare un cambiamento così radicale in un uomo, era necessaria anche un’altra persona. Spesso lui le faceva pena. Altre volte, quando le chiedeva con gli occhi tristi che cosa doveva fare con lei, Anna si sentiva spregevole a rovinare tutto quello che c’era fra loro. Poi lui la baciava e, mentre i loro respiri si confondevano, la gratitudine le riempiva il petto come a una bambina disobbediente che sente di non meritare il perdono dei genitori, e annegava nei suoi occhi scuri come il mare di notte. In quei momenti, ogni volta, le sembrava di iniziare una nuova fase, sentiva che era finito il tempo dei piatti rotti, delle urla, dei maglioni a collo alto per nascondere i segni violacei. Nei giorni successivi faceva attenzione a preservare quel sogno, sforzandosi di non fare nulla di sbagliato, destreggiandosi come un’acrobata sul filo del suo umore, ma, puntuale come una maledizione, prima o poi inciampava e la quiete si dissolveva come una bolla di sapone. I giorni e i mesi si susseguivano così, come un’altalena impazzita. In fondo, grazie a lui non aveva nemmeno più bisogno di lavorare. Appena si erano sposati, le aveva detto che ci avrebbe pensato lui a mantenerla. Lo stipendio da ingegnere bastava abbondantemente a farli vivere più agiatamente della maggior parte dei loro amici. Lei era stata contenta di lasciare i suoi turni massacranti, anche se ogni tanto sentiva la mancanza delle colleghe. Nei momenti peggiori lui le ricordava che era con i suoi soldi che compravano tutto, e lei a questo non sapeva mai cosa rispondere. Mentre si avviava alla cassa più vicina, una fitta le attraversò la schiena, a partire dall’osso sacro, che aveva subìto il colpo peggiore e l’aveva costretta a rimanere sdraiata, boccheggiante, per un’ora prima di poter uscire. Ancora una volta il suo corpo le mandava un segnale: si sentì più determinata. Non sarebbe andata in pasticceria. Avvertiva confusamente di essere incapace di un atto di protesta che andasse oltre a quello: per qualsiasi altra cosa non sarebbe stata pronta, non aveva quel coraggio. Ne richiedeva già abbastanza non comprare quei pasticcini, si disse amaramente, e non poté impedirsi di chiedersi inorridita che cosa avrebbe pensato di lei l’Anna di qualche anno prima, se avesse testimoniato a quella personalissima concezione di coraggio. Scacciò il pensiero come se fosse una mosca molesta. Coraggio o no, l’unica cosa di cui era sicura era che non poteva presentarsi a Luca con un vassoio di pasticcini. Semplicemente non poteva. Non poteva fare quello che aveva fatto praticamente tutti i sabati negli ultimi due anni. Uscì e respirò profondamente. L’aria sapeva di estate, di sole e di speranza. Si diresse verso casa, e strada facendo pensò di fermarsi al negozio dopo la pasticceria a comprarsi quel foulard blu. Ecco come avrebbe speso i soldi dei pasticcini. Una voce familiare la salutò dopo qualche minuto. L’uomo era sulla soglia del suo locale, a guardare il passeggio: ‘Annina! Sempre il solito?’ Una volta a casa, Anna si sarebbe chiesta molte cose, ma in quel momento non pensò. Agì e basta, trascinata da una forza invisibile. Non fu davvero lei a rispondere al saluto, né a contare i soldi e pagare e ad ascoltare trasognata le lamentele sul calo dei turisti, né a richiudersi dietro le spalle la porta pesante del negozio, con il vassoio in equilibrio su una mano. Di sicuro non fu la stessa Anna di cinque minuti prima. Tornando a casa, ascoltò in tralice il proprio corpo. Era strano, ma quasi non sentiva più dolore. Solo la nuca si limitò a dolerle debolmente, quasi timida. Non era già più un dolore vero e proprio. Non sentiva più le fitte acute che l’avevano tormentata. Piuttosto, un indolenzimento generale, una sorta di torpore e tanta stanchezza.