padre Maurizio Arioldi Thailandia
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padre Maurizio Arioldi Thailandia
Nel cuore dell’Asia dove l’evangelizzazione è una priorità e una sfida THAILANDIA UN MISSIONARIO TRA LE TRIBU’ DEI MONTI E’ IN THAILANDIA DA CINQUE ANNI. NON GLI È STATO FACILE, ALL’INIZIO, AVVICINARE, COMPRENDERE E ACCETTARE UNA REALTÀ CULTURALE ED UMANA TANTO COMPLESSA, MA CE L’HA FATTA. ORA PADRE MAURIZIO ARIOLDI, GIOVANE MISSIONARIO BERGAMASCO DEL PIME, STA VIVENDO CON ENTUSIASMO LA GIOIOSA AVVENTURA DI INDICARE, E DI CONDIVIDERE, IL CAMMINO CHE PORTA A CRISTO L’ha confessato lui stesso, in una delle lunghe lettere con cui comunicava a parenti e ad amici la fatica e la gioia dei suoi primi passi di giovane missionario: “Immergersi pienamente nella vita di questa gente è un’occasione straordinaria per crescere e comprendere la realtà che mi sta intorno. Ma quanta fatica e quanta conversione è richiesta! Morire per rinascere in un’altra cultura: ecco la ginnastica da fare per sperimentare dal vivo la Pasqua sulla nostra pelle. Morire significa saper perdere il proprio modo di vedere le cose, le proprie sicurezze. Si fa fatica a morire e la fatica, a volte, si sente, ma ciò che si guadagna è incalcolabile: una vita rinnovata dalla presenza del Signore Risorto, una ricchezza e una profondità che fanno crescere anche umanamente. Così, attraverso questo processo di trasformazione, di morte-resurrezione, spero di arrivare ad essere almeno un “Thailiano”, se non proprio un thailandese fatto e finito. Dicevo, prima di partire, che venivo in Thailandia a convertirmi, prima che a convertire. Caspita, com’è vero!”. Una fatica che ha dato i suoi frutti: alla vigilia di una nuova partenza, dopo la sua prima vacanza in Italia, padre Maurizio mi parla di un popolo e di una terra profondamente amati. Con una pacatezza tutta orientale dietro la quale, però, si possono riconoscere entusiasmo e determinazione, desiderio di mettersi continuamente in gioco. E una gran voglia di tornare tra “le tribù dei monti”. Quando fu destinato alla missione di Mae Suay, dopo due anni trascorsi a Bangkok per studiare la difficile lingua thai, padre Maurizio non sapeva che il Signore aveva in serbo per lui un grande dono e un’impegnativa eredità. Il dono si chiamava padre Corrado Ciceri, parroco di Mae Suay, confratello e soprattutto prezioso compagno di viaggio all’inizio di quella nuova avventura missionaria. L’impegnativa eredità è stata quella di continuare il cammino, e di guidare il cammino di tutta la comunità, anche senza di lui. Di prendere tra le mani “con rispetto e tremore” il testimone che padre Corrado gli ha passato morendo un anno e mezzo fa, proprio quando la missione di Mae Suay e lo stesso padre Maurizio avevano ancora tanto bisogno della sua presenza. UN NOME PER I FIGLI DI DIO “Lassù, tra i monti a nord della Thailandia, noi missionari lavoriamo con gruppi di tribali seminomadi. E’ gente povera, molto diversa culturalmente dalla popolazione locale e per questo discriminata. Non hanno documenti, non conoscono la lingua thai, sono considerati una minaccia alla sicurezza del Paese, emarginati e privati dei diritti più elementari. Aiutare questa gente a trovare rispetto e dignità è un grande impegno della nostra missione. E la provvidenza, proprio in questo anno dedicato al Padre, ci ha fatto incontrare una persona, una docente universitaria che ci ha indicato le vie legali da percorrere per dare una carta di identità alla nostra gente sprovvista di documenti. Nello scorso mese di giugno è stato fatto un censimento: quasi 5000 persone, sparse in 30 villaggi, hanno risposto a un questionario su cui sono state raccolte tutte le informazioni che le riguardavano. Un lavoro impegnativo che ha permesso a tanti figli di Dio di essere riconosciuti come persone. Con un nome e il diritto a una patria. Nel nostro piccolo siamo stati strumenti della Provvidenza di Dio, un segno di rinnovamento. Si è aperto un varco, ma il problema culturale dell’integrazione rimane. Ecco perché insistiamo tanto sull’aspetto educativo e ci battiamo perché la nostra gente impari la lingua thai. LA SFIDA DELL’ANNUNCIO Con i suoi trenta villaggi sparsi nella foresta per un raggio di 30 chilometri, Mae Suay è una missione molto estesa in cui l’impegno per l’evangelizzazione è preminente. Io sono convinto che sia questo il senso della nostra presenza, anche se in quel contesto la promozione umana è inscindibile dall’annuncio. Se, come dice Confucio, non basta regalare un pesce, ma bisogna insegnare a pescarlo, per noi cristiani questo non basta. Quando, avendo imparare a pescare, uno è in grado di procurarsi il suo pesce, deve imparare a condividerlo. E’ questa la vera sfida da vincere: fare di ogni sviluppo un autosviluppo. E’questo il Vangelo da vivere. E’ un impegno per noi fondamentale, ma non facile, quello dell’evangelizzazione, anche se i tribali, più dei thailandesi buddisti, sembrano disposti a mettere in discussione tradizioni e credenze che sentono ormai insufficienti nel confronto con la società buddista sempre più secolarizzata. Ma il cammino di consapevolezza da far percorrere quando un villaggio, attraverso il catechista, ci contatta, è lungo. Richiede pazienza, tempo, preghiera. E la nostra testimonianza”. UNA MISSIONE A PIU’ VOCI Nella missione di Mae Suay sono impegnati consacrati e laici, preti e suore, italiani e francesi, thailandesi del nord-est e thailandesi della capitale, una thailandese di origine cinese e dei tribali. Un “fritto misto”, come è stato simpaticamente definito, in cui è la stessa motivazione di fede il denominatore comune, il motore che fa camminare, il cemento che unisce, al di là della fatica e delle incomprensioni che le differenze culturali possono causare. “Accettare l’altro, il diverso da te, è un processo che non finisce mai. E’ davvero un problema di conversione perché ti trovi a vivere, con senso di impotenza, situazioni che da solo non puoi cambiare, ti scontri con il tuo limite umano, tocchi con mano la tua incapacità ad adattarti. In un certo senso la missione tira fuori il peggio di te. Può sembrare un fallimento, invece è un grande dono perché ti costringe a trovare la forza di accettarti e di accettare ciò che non puoi cambiare. Nella consapevolezza che la conversione è un traguardo lontano”. Da MISSIONDUEMILA, inserto mensile del settimanale diocesano “La Nostra Domenica”, 12 dicembre 1999