maria patrizia logo - Torino Incontra Taizé

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Dialoghi
Testimoniare la Speranza
Fede e Libertà: Il mio cammino verso Dio
Venerdì 2 maggio, Tempio Valdese, Torino
Maria Patrizia1, Monaca Eremita, Eremo della Visitazione
Innanzitutto vi ringrazio per avermi invitata. E sono ancora stupita di questo invito perché
io – mi verrebbe da dire non per falsa umiltà – “non sono nessuno”, (se poi mi confronto
con gli altri relatori, un vescovo, un pastore e un uomo profetico quale è stato don Michele)
potrei dire ancor meglio che “il mio essere monaca che tenta di vivere la vita eremitica”
non ha agli occhi della realtà quotidiana e, a volte, anche agli occhi della Chiesa qualcosa
da dare, ecco chi fa una scelta di vita eremitica, sa di fare una scelta no-profit, la scelta di
una vita apparentemente in perdita, non computabile.
E siccome devo cercare di superare un po’ l’imbarazzo e la timidezza, vi dico subito che
prima di decidermi di venire chiaramente mi sono posta la domanda “che cosa ci faccio io
lì???!!!”.
Un eremita in fondo per tutti noi è quella persona che vive separata e ama la discrezione
quindi non c’è cosa più contradditoria per un eremita che presentarsi e farsi conoscere.
Poi nell’immaginario collettivo (anche per l’eremita stesso) esiste uno stereotipo
dell’eremita: un tipo un po’ introverso e misantropo; e se siamo bravi pensiamo che sia
una vita monastica adatta a pochi, altrimenti vediamo immediatamente i limiti di questa
scelta di vita che sono quello di non servire i fratelli; di essere una persona che rischia di
scambiare la propria volontà con quella del Signore (non obbedisce a nessuno!) o meglio
ancora chi, in questa società dove impera l’individualismo, subisce la tentazione della
religione “fai-da-te”, ha un’attrazione verso una forma di vita religiosa che ciascuno si
plasma a modo suo.
Ed è vero sono dei rischi molto presenti sui quali chi fa questa scelta di vita deve sempre
vigilare.
Oggi mi piacerebbe capire insieme a voi quale sia il cammino verso Dio per una
eremita?
Ultimamente gli eremiti – verrebbe da dire che – sono diventati di moda, cosa peggiore
che possa capitare a un eremita: su di loro si scrivono articoli, libri, ci fanno tesi di laurea,
programmi televisivi e li si va a trovare con curiosità per vedere con i propri occhi come
anche oggi, nella società della comunicazione, del rumore e dell’apparire, e dove tutto va
velocizzato, sia ancora possibile vivere felici, pur isolati, nel silenzio e nel nascondimento
Ma malgrado ciò – vi assicuro – è davvero difficile definire l’eremita, anche perché non ne
esiste una sola tipologia. E seppure da qualche anno nella chiesa c’è un canone del diritto
canonico che li definisce – ma è molto essenziale – si dice che ci siano tante forme di vita
eremitica quanti sono gli eremiti, e ogni scelta eremitica appare autobiografica in quanto a
scandire le loro giornate è, di fatto, una regola personale che deve essere approvata dal
vescovo.
Ma posso assicurvi che in fondo le regole sono molto simili.
1
* N.B. Non ho fatto citazioni testuali, ma desidero sappiate che ho espresso la mia esperienza ispirandomi
anche a parole di Thomas Merton, don Angelo Casati.
Ma prima di condividere con voi questo cammino desideravo farvi partecipi di due
ricorrenze: la prima è che oggi festeggio i miei dieci anni di vita eremitica e poi soprattutto
che oggi è la festa di sant’Atanasio un vescovo del IV secolo che ha scritto e fatto
conoscere la vita di sant’Antonio il primo monaco padre e “fondatore” della vita eremitica
ed è proprio grazie a un suo detto (tra i detti dei padri del deserto) che sono qui tra di voi.
«Si racconta che un giorno Antonio chiese a Dio se esistesse qualcuno che come lui
cercava la volontà di Dio; ed ebbe una rivelazione: “Va’ in città – e notate, va’ in città, non
da un monaco, in un eremo, ma va’ in città – e lì troverai un uomo che ti assomiglia, è di
professione medico, che dà i suoi beni a chi ne ha bisogno e ogni giorno canta
l’invocazione a Dio (trisaghion) insieme agli angeli”».
E possiamo ritrovare questa sapienza anche nelle parole di una monaca contemporanea
che ha scritto: «per essere contemplativi non è necessario andare a vivere in un
monastero. Stranamente, anzi, può capitare che uno viva nel deserto o in monastero e
non sia affatto un contemplativo, mentre invece avviene che lo siano alcuni che vivono in
città e persino in prigione».
Questi pensieri-realtà-immagini ci vogliono dire che non esiste la nozione di una
vocazione superiore in astratto, ma c’è un via verso l’unità del cuore che si trova
facendo ciò a cui si è stati chiamati da Dio. Non vi sono forme standardizzate di santità e
nessuna santità è impersonale, la vocazione nasce da una storia e da una chiamata.
Nessuno è scelto perché è meglio di qualunque altro in qualunque cosa, ma ognuno è
scelto per qualcosa.Tutti hanno qualche disposizione – qualche dono – adeguato a ciò che
deve essere fatto in loro, che li chiama a farlo, che li rafforza in questo, che li segna per
quel servizio. C’è chi ha un orecchio musicale perfetto, chi ha un’attenzione particolare
per il servizio a favore dei malati, e così allo stesso modo c’è chi sente un impegno
profondo verso le dimensioni spirituali dello sforzo umano e le cose di Dio.
E con questo voglio dire che la vita religiosa non è una via migliore, non è una via
superiore, ma per alcune persone è l’unica via per arrivare completamente vivi alla
volontà di Dio, nello spirito di Dio, per il regno di Dio. Questo significa semplicemente che
per alcune persone la vita religiosa indica la via che li chiama meglio al loro io più buono e
più vero.
Sì ormai i religiosi dicono spesso «non siamo migliori», ma a volte bisogna sapere dire
«siamo inutili», – direi – dovremmo essere una «inutilità feconda»; sottolineava, infatti,
Jean Leclercq: ci sono monaci di cui si parla e quelli di cui non si parla, questi ultimi grazie
a Dio sono i più numerosi, non hanno fatto nulla, si accontentanoi di stare al cospetto di
Dio (io vorrei rimanere e diventare tale).
Proprio per questo impegno dello «stare dinnanzi a Dio» non deve sorprendere che tutta
la vita dei monaci debba trascorrere approfondendo sempre più il mistero della propria
vocazione.
Ma non vorrei parlare di “ideali astratti” e poi mi hanno chiesto di raccontare anche un po’
della mia storia e come sono giunta a questa scelta; ora tento di raccontarmi un po’.
Anche se capisco che sarà una testimonianza certamente parziale e forse un po’
edulcorata. Quindi quello che tento ora di fare è contemplare a ritroso una prospettiva di
continuità di ciò che ho vissuto giorno dopo giorno.
Rileggere una storia di fede – vi assicuro – non è così facile, è un “fare memoria” che poco
a poco ci fa ritrovare quel piccolo filo rosso che ci ha guidato, piccolo filo che dice che non
c’è stata cancellazione, non stato c’è spegnimento, è uno stoppino che arde ancora e al
quale – forse anche inconsciamente – siamo stati veramente fedeli solo perché abbiamo
inseguito quel “sogno” con passione, a volte anche con pena e sofferenza, ma sempre
disposti a pagarne il prezzo, in modo tale da poter dire che qualsiasi cosa ci sia costato
per arrivare a conoscere la nostra piccolezza, una vita vissuta bene, è valsa e vale questo
prezzo e mi sarebbe piaciuto chiamare questo incontro con voi “il potere dei sogni”.
Negli anni ’70 ho iniziato il mio cammino alla ricerca di Dio – e dico alla ricerca di Dio
perché vorrei tanto credere che si entra nella vita religiosa non per essere religiosi o per
una perfezione spirituale, ma per cercare Dio così come un monaco non deve amare la
solitudine per se stessa.
Io penso che in quegli anni ’70 – rivisitandoli oggi e non volendo fare un discorso
sociologico –la scelta di vita contemplativa, monastica, - soprattutto per me che venivo da
una realtà scout – non poteva che essere una scelta comunitaria, un cammino con gli altri,
insieme ad altri in una tensione comune. E così per molti anni ho vissuto in una realtà
monastica – che stava nascendo – molto viva e anche “gratificante” – allora si chiamava
Comunità ora si chiama Monastero di Bose – vivendo con entusiasmo la ricerca di un Dio
solidale, dove la preghiera comunitaria diventava ascolto del grido dell’uomo.
Ma dentro di me malgrado l’entusiasmo era come se mi mancasse sempre qualcosa.
Era come se in qualche modo mi sembrasse, a volte, di “forzare il Signore”, di chiedere
a lui di essere fedele alla mia scelta anziché io alla sua.
Allora era impensabile – almeno per me - intravvedere una vita eremitica, era un ideale
alto, “un sogno utopico” qualcosa di pochi eletti, ma seppure con un’intesa vitalità
comunitaria cominciavo a percepire questo desiderio di solitudine.
(Confessione) Questa insoddisfazione veniva letta però come espressione di una mia
autosufficienza e anarchia, che sapevo essere elementi – spero non primari – del mio
carattere, ma al tempo stesso capivo che non era questo il motivo principale per cui a
volte cercavo spazi più di solitudine.
Così recuperando un po’ di coraggio ho lasciato la comunità per capire cosa dentro di me
si stava muovendo, volevo per onestà verso me stessa e verso gli altri ritrovare
l’autenticità della mia vocazione, pur sapendo che bisognava davvero rinunciare a molte
cose per amore della ricerca. Dovevo riscoprire cosa significasse per me, donna e
cristiana, diventare una semplice presenza pensante, una credibile voce per il Regno di
Dio.
Dunque ricominciavo la mia avventura alla ricerca di Dio in solitudine nella quotidianità
cittadina, per sondare il mio cuore (nell’interiorizzazione direbbe don Michele) e rischiando
di nuovo, anche incoscientemente, ma non avevo paura, perché malgrado la precarietà,
sentivo che non ero sola.
Pensavo di aver intravisto che la capacità di rischiare era un nuovo ascetismo, e
vivevo sulla mia pelle il fatto che perdere qualcosa era come rinnovarla e ritrovarla poi in
altro modo.
Ma questo “di inizio in inizio”, non era ancora finito, “di inizio in inizio” per me diventava “di
visitazione in visitazione”.
Perché come per l’incontro di Maria a Elisabetta ogni incontro diventava per me luogo che
produceva vita, uno scambio di grazia che portava frutti.
Erano visitazioni, incontri, o magari solo letture, suscitati voluti dallo Spirito, e che
chiedevano la mia disponibilità a rimettermi in cammino (qui ricordo con riconoscenza
sorella Marie Claire dell’Eremo di Campello, Simone Weil, don Michele Do, Madre
Giovanna di Viboldone, don Giorgio Basadonna e non ultimo il card. Martini)
Ma anche grazie a queste visitazioni-incontri scoprivo che questo cammino di inizio in
inizio anche se a volte poteva apparire un fallimento, al tempo stesso questo – diciamo –
“fallimento”, con le sue sofferenze, mi faceva comprendere ciò di cui avevo veramente
bisogno di sapere della vita.
E allora scoprivo sempre di più che la fede non poteva essere considerata una proprietà,
ma era assenza di certezze e possibilità di porsi continui interrogativi, e che la fede è
ricerca orientata verso una dimensione che non può mai dirsi compiuta perché la fede non
si colloca nel campo dell’evidenza o della prova. Essa diventava così sempre più
atteggiamento di desiderio e di attesa quale elemento vitale, in quanto la ricerca spirituale
si esprime anche nelle domande che assillano l’umanità e accomunano tutti gli uomini,
perché tutti dobbiamo poter accedere a una libertà responsabile e solidale che orienti le
nostre scelte.
Sentivo che anche nelle circostanze esterne più sfavorevoli, ognuno di noi ha ancor
sempre dentro di sé uno spazio di libertà che nessuno può portargli via, perché di
esso è Dio la sorgente e il garante. Ma fino a quando non la si scopre, ci si sente sempre
allo stretto nella vita. Al contrario, quando si riesce a dilatare questo spazio interiore di
libertà che è in noi, forse molte cose continuano a farci soffrire, ma più niente potrà
veramente soffocarci.
… ma per riprendere la mia storia: dopo un po’ di solitudine cittadina, da recidiva sono
entrata di nuovo in monastero – questa volta – benedettino di clausura, dove ho vissuto
per una decina di anni e dove lentamente si faceva sempre più evidente… una
“chiamata”… diremmo così in termini spirituali, alla vita eremitica, pur restando
benedettina.
Ed è stato proprio qui che grazie anche a un incontro-visitazione per me molto significativo
(del card. Martini) piano piano sono riuscita a scoprire la mia vocazione monasticaeremitica come dono di Dio il quale si rivela a noi – proprio perché dono – in maniera
graduale, e ci mette anche a dura prova, per saggiare la capacità che si ha di cercare
sempre Dio dove Dio è, piuttosto che dove pensiamo che Dio debba stare con noi.
E devo dirvi che se si deve andare verso Dio come si attraversa un fiume, cioè un piccolo
passo alla volta, io più volte sono caduta nel fiume inciampando perché il mio passo non
era così attento.
ED ECCO LA SCELTA EREMITICA!!!!
Mi piacerebbe che quando parlo di eremita ognuno di voi si sentisse coinvolto perché
ognuno di noi è un po’ eremita: è un essere solo nella sua unicità di fronte a Dio!
La scelta eremitica è una scelta scevra da ogni sicurezza istituzionale dove si vive la
precarietà del quotidiano. E proprio per questa mancanza di protezione essa diventa vita
nella ferialità, nella quotidianità, del cammino.
È una scelta – potremmo dire – di marginalità che talora si manifesta anche nella scelta
del luogo (noi – io un'altra eremita – viviamo in un bosco vicino a una frazione di 15
abitanti); ma questo distacco dal quotidiano nasce anche per una solidale comunione con
tutti i “senza storia” dell’umanità che sono tali non perché abbiano scelto di esserlo, ma
perché la storia o altri uomini li hanno resi tali.
Però contrariamente a loro io posso dire di aver scelto liberamente di essere marginale, la
mia è una scelta di libertà, di marginalità che mi permette di dire “io la sto facendo”
soprattutto con Dio, quindi marginalità diventa anche responsabilità.
È una marginalità, che aiuta l’eremita ad allontanare ciò che potrebbe essere occasione
di dispersione, di vano parlare, di mondanità, seppure la tendenza all'egoismo e alla
superbia non muore mai, neppure in lui, ma lui da questo si può salvare grazie a un
pizzico di follia, di autoironia, di criticità nei propri confronti e quell’umiltà che non gli
permetterà di illudersi e di adagiarsi su un’immagine idealizzata di sé.
Per questo la scelta della solitudine deve risponde a una vocazione, una chiamata
percepita interiormente a cui si risponde “sì” con entusiasmo, con gioia.
Sapeste come una solitudine arrabbiata è pericolosa e rimanda a quell’idea comune per la
quale l’uomo o la donna celibe appaiono come asociali; la scelta della solitudine – proprio
perché è ricerca di Dio e non fine a se stessa – invece dovrebbe rimandare a
un’aspirazione all’unità da vivere in vera libertà.
La solitudine non è isolamento, ed è la realtà prima della nostra esistenza come esseri
umani, perché siamo creati da Dio come individui unici. E credo che ad ogni cristiano sia
necessario e indispensabile familizziarsi con la realtà della solitudine per avanzare su un
cammino di crescita e di maturazione, di apertura, di semplice gratuità, per andare sempre
più liberamente incontro agli altri, incontro all’altro.
La solitudine che di solito chiamiamo fuga (o fuga dal mondo) non può essere una fuga
dalla responsabilità e dalle relazioni, infatti il solitario, l’eremita accoglie gli altri con gioia,
senza alcuno sforzo ma semmai egli fugge dai sistemi sociali del nostro tempo, dal
conformismo.
Di fatto scegliere di vivere in un eremo non nasce dal desiderio di disertare il mondo e
gli uomini, anche perché – pur non sapendolo – si rimane egualmente sostanzialmente
pienamente radicati alla terra in cui si è nati, di cui si sono ereditate le ricchezze, di cui si è
cercato di fare proprie le sollecitudini e le aspirazioni; ognuno di noi si porta dentro la
propria storia. Nella solitudine inaspettatamente – ci si trova a condividere le prove che
subiscono molti fratelli e si patisce insieme le loro sofferenze.
Nei racconti dei padri del deserto viene detto come gli eremiti offrissero ospitaltà a chi era
di passaggio, a chi desiderava una parola di speranza, e per non mettere a disagio il
povero pellegrino interrompevano perfino il digiuno. «Disse un pellegrino: “Perdonami
padre ti ho impedito di seguire la tua regola”. Questi rispose: “la mia regola è di offrirti
l’ospitalità e farti andare via in pace”».
Questa dovrebbe essere la regola per ogni cristiano, rompere ogni tipo di digiuno o di
impegno perché l’altro si senta accolto e vada via in pace.
Certo quello di cui vi sto parlando sembrano begli ideali, ma è pur vero che gli «ideali
sono come stelle – ha scritto Carl Schurz – che non raggiungiamo mai, ma come i marinai,
con le stelle (e gli ideali) tracciamo la nostra rotta».
Vi assicuro che a volte nel cammino di fede il fardello – anche per l’eremita – appare
troppo pesante, ma poi ci si accorge che è la sorte di tre quarti dell’umanità dai quali
non ci si vuole discostare.
Seppure l’eremita è uno che danza da solo (anà kòresis in greco indica insieme la vita
eremitica e il senso della gioia della danza), quindi è gioioso nella sua solitudine tuttavia
certo non è tutto oro ciò che luccica. Anche la vita eremitica ha momenti di sconforto,
giorni di stanchezza dove ci si chiede: “perché sono qui in questo luogo isolato” è
veramente questa la volontà di Dio…. È una fatica che ferisce, ma che si può far diventare
salmo di lamento da offrire a Dio, e occasione di speranza, perché ci spinge ad affidare la
propria debolezza nelle mani del Signore.
E proprio in quei momenti faticosi che si deve tornare a quella ricerca di Dio là dove era
iniziata l’avventura, si ritorna alla fonte zampillante, fonte che non sgorga perché noi
facciamo o agiamo, in quanto noi non possiamo “fare” la contemplazione.
La vita contemplativa, la vita cristiana, non è ciò che facciamo, ma è ciò che siamo che
ci definisce come persone uniche. Se ci identifichiamo con le molte cose da fare
possiamo correre il rischio di sottrarci a ciò che realmente siamo: umili creature nella luce
dell’amore di Dio, con il nostro personale dono.
Io credo che l’essenza della vita eremitica sia la ricerca ed esigenza di autenticità per
cui l’eremita – ci tengo a dirlo – deve anche guadagnarsi da vivere con il lavoro delle
proprie mani col quale nutre se stesso e inoltre contribuisce a sostenere i poveri.
Il cammino dunque è lungo e soprattutto è necessario resistere alla tentazione della
sottile idolatria di ritenere se stessi come persone che hanno raggiunto la “realizzazione” o
la felitcià, quella felicità effimera che noi oggi confondiamo spesso con quelle cose che
Madre Teresa chiamava la «segnaletica bugiarda della felicità»: denaro, successo, potere
di cui anche l’eremita non è esente, magari in modi diversi, ma nella stessa logica.
Bisogna rimmergersi nella libertà dei figli di Dio che è libertà dalle preoccupazioni e dal
timore, dai risentimenti e dalle ostilità, soprattutto una libertà dall’orgoglio e dal disprezzo
dell’altro – e magari anche della sua vocazione –. E forse per l’eremita potremmo anche
dire libertà da un’adorazione acritica della legge come luogo di obbedienza a Dio, e dalle
immagini che altri hanno di lui. E non deve dimenticare che la fede in Cristo è quella del
figlio e non dello schiavo (o della legge) quella dello schiavo infatti ferma la vita, la chiude,
fa di noi degli osservanti senza amore, senza invenzione, senza intenstià. E questo è un
grande rischio per tutti.
Dunque in questo cammino verso Dio bisogna aver sempre presente l’idea della fragilità di
ciò che possediamo e la meta verso cui desideriamo andare, perché fede, libertà e
ricerca sono i nomi dei passi che facciamo quando ci incamminiamo verso Dio, e la meta
della fede è possibile soltanto se ci guidano libertà e ricerca.
E questa libertà, questa responsabilità, trova la sua unità nella preghiera che è – in
fondo – l’unica l’opera del monaco, il vero signficato della presenza dell’eremita. La
preghiera allora diventa ascolto e intercessione presso Dio del sentire dell’uomo e della
donna contemporanei con i loro problemi, i loro travagli, le loro sofferenze.
La preghiera di intercessione – come dice il card. Martini –non rimane come sospesa
nell’aria senza produrre frutto, ma Dio con la preghiera di intercessione vuole farci
attenti al nostro prossimo. Dio vuole non solo chiamarci alla solidarietà, Dio vuole molto
più di questo, egli desidera un reale interessarsi degli uni per gli altri, un aversi a
cuore, avere compassione, cioè un patire-con, proprio ad immagine della cura che
Dio ha per ognuno di noi.
Vi è dunque una mutua responsabilità, che deve essere espressa non solo attraverso
l’agire, ma anche attraverso la preghiera.
Per questo il Signore spesso non mostra il suo volto, ma splende nell’aiuto dato da un
altro, ci “fa visita” attraverso un altro… «ogni volta che hai fatto questo al più piccolo … tu
l’ha fatto a me».
Dio dunque è presente in ogni opera amorevole, in tutti i gesti di perdono, nell’impegno di
coloro che lottano contro la violenza, l’odio, la carestia, la sofferenza …e coloro che
possono fare qualcosa per gli altri nel senso fisico, materiale, sono chiamati a farlo.
Ma gli altri, e gli eremiti, sono invitati a unire la loro preghiera in una grande intercessione
perché Dio vuole questa profonda comunione tra tutti i suoi figli. E Dio lo vuole perché
Egli è così, colui che dà se stesso, che ha cura degli altri, che li ama fino alla morte.
Ecco l’unico compito che l’eremita sente che il Signore gli chiede: intercedere, farsi carico
degli altri nella preghiera per scoprire nella Parola di Dio, nei Vangeli quella libertà che si
respira a pieni polmoni; ma non è – e non deve essere – una preghiera chiusa in se
stessa, incapsulata nella preghiera individuale, ma una preghiera che deve
chiamare a fare giustizia, a essere giusti, che deve diventare voce della coscienza,
una voce che dà voce a chi non ne ha.
Ed è una libertà che porta in sé un segreto; il segreto è quel pezzo di Dio che è in
ognuno di noi, e che i veri maestri dello spirito invitano a scoprire e ad adorare.
Se tu eremita, se tu giovane amico di Taizé, se tu donna, se tu uomo, se tu vescovo, se tu
monaco, se tu pastore sei fedele a questo pezzo di Dio che è in te, sei libero dalla
schiavitù degli altri e delle cose, dai codici senza anima, dalle aspettative degli altri, dalle
immagini che gli altri hanno di te. Per te contano gli occhi del tuo Signore, conta un
piccolo pezzo di Lui in te.
E allora insieme a Etty Hillesum che si trovava nella prigionia di un lager quando scrisse
questa invocazione, anche noi potremo dire: «Mio Dio l’unica cosa che possiamo salvare
di questi tempi, e anche l’unica che veramente conti, è un piccolo pezzo di te in noi stessi.
E forse possiamo anche disseppellirti dai cuori devastati di altri uomini […] che
dimenticano che non si può essere nelle grinfie di nessuno se si è nelle tue braccia,
o Dio».